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Dante, Purgatorio, Canto 27. Il fuoco purificatore.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XXVII del Purgatorio è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde all'incontro con l'angelo della castità e al passaggio attraverso il fuoco, la seconda alla salita verso il Paradiso Terrestre con la relativa sosta notturna, durante la quale c'è il sogno di Dante. L'apparizione dell'angelo ha soprattutto la funzione di invitare i tre poeti ad attraversare la cortina di fiamme, invito che egli rivolge alle anime sante e che, probabilmente, va esteso a tutte le anime dei penitenti: dei tre poeti, infatti, solo Stazio è propriamente un'anima «santa» in quanto ha completato il suo percorso di espiazione, mentre ciò non può dirsi per gli altri due (specie per Virgilio, escluso da ogni possibilità di redenzione).
Il passaggio attraverso il fuoco assume dunque la funzione di un ultimo rito di purificazione cui tutte le anime devono sottoporsi per cancellare ogni traccia del peccato, prima di accedere al Paradiso Terrestre in cui avverrà il rito simbolicamente opposto dell'immersione nelle acque dei due fiumi, il Lete e l'Eunoè, per cui è logico che ciò sia imposto anche a Dante accompagnato dalle sue due guide. Non è da escludere che ci sia un riferimento al passo biblico (Gen., III, 24) in cui si dice che Dio, dopo aver cacciato Adamo ed Eva dall'Eden, pose a guardia del giardino un cherubino armato di una «spada fiammeggiante» (conlocavit ante paradisum voluptatis cherubin et flammeum gladium atque versatilem), per cui Dante circonda l'Eden posto sulla cima del monte di un muro di fiamme che tutti devono attraversare, mentre l'angelo che i tre incontrano dall'altra parte potrebbe essere proprio il cherubino che lo custodisce.
Di fronte alla prospettiva di attraversare il fuoco Dante è colto da un terrore irrazionale, contro il quale a nulla valgono i richiami e le rassicurazioni del maestro Virgilio: la paura di Dante è quella del personaggio umano, con le sue debolezze e fragilità (forse da mettere in relazione alla condanna al rogo che pendeva su di lui e i suoi figli), per vincere le quali sarà necessario ricordargli che, se vuole rivedere Beatrice che lo attende dall'altra parte, deve buttarsi nel fuoco. Il richiamo a Beatrice non si riferisce solo alla vicenda personale del poeta e all'amore che lo lega alla sua donna, ma significa anche che per completare il percorso di redenzione e conquistare la felicità terrena rappresentata dall'Eden è indispensabile l'intervento della grazia, che è raffigurata da Beatrice e a cui Dante è guidato da Virgilio-ragione.
Al nome di Beatrice Dante si rianima come Piramo morente a quello dell'amata Tisbe (similitudine interessante, in quanto i due giovani del mito erano divisi da un muro di pietra proprio come lo sono Dante e Beatrice da un muro di fiamme) e segue senza paura Virgilio, non prima che questi lo abbia canzonato in modo bonario come farebbe un padre con un bambino che fa i capricci, atteggiamento che più volte abbiamo visto nel maestro e che spiegherà la disperazione di Dante di fronte all'abbandono del dolcissimo patre, di lì a pochi Canti. Una volta fuori dal fuoco inizia l'ascesa lungo la scala che conduce al Paradiso Terrestre, cui i tre sono indirizzati dall'angelo che ha guidato il passaggio attraverso le fiamme, salita che però deve interrompersi per il sopraggiungere della notte durante la quale, come già nelle due precedenti occasioni, Dante farà un sogno rivelatore.
Il sogno avviene anche questa volta in prossimità dell'alba e ha come protagonista Lia, la biblica sorella di Rachele che l'esegesi delle Scritture interpretava come allegoria della vita attiva, mentre la sorella era simbolo di quella contemplativa. Tale interpretazione è sicuramente seguita anche da Dante, che raffigura Lia come una giovane e bella donna che canta in un prato e coglie dei fiori con cui produrre una ghirlanda, mentre è lei stessa a dire il proprio nome e ad affermare che è desiderosa di operare, come Rachele lo è di stare seduta ad ammirare allo specchio i suoi belli occhi. L'atteggiamento di Lia anticipa per molti versi quello di Matelda, la donna che Dante incontrerà nel Canto successivo una volta entrato nel Paradiso Terrestre, per cui molti commentatori hanno messo in relazione le due figure e hanno visto in entrambe l'allegoria della vita attiva: essa è indispensabile per il raggiungimento delle virtù cardinali che a loro volta conducono alla felicità terrena, simboleggiata proprio dall'Eden, per cui il sogno prefigura l'ingresso di Dante in questo luogo che è la prima tappa del suo viaggio di purificazione; meno sicuro che anche Matelda abbia lo stesso significato, dal momento che la donna (come si vedrà) è interpretata piuttosto come simbolo dello stato di purezza perduto dall'uomo dopo il peccato originale e riconquistato dalle anime salve una volta compiuto il viaggio attraverso il Purgatorio.
Altrettanto problematico l'accostamento Rachele-Beatrice che pure è stato proposto, specie per il particolare dei belli occhi che accomuna entrambe, dal momento che Beatrice è principalmente allegoria della grazia santificante e della teologia rivelata come condizione essenziale alla salvezza, per quanto un suo richiamo alla vita contemplativa non sia del tutto da escludere (la questione è destinata probabilmente a restare insoluta).
L'ultima parte del Canto descrive l'arrivo dei tre poeti in cima alla scala e alle soglie del Paradiso Terrestre, momento che rappresenta il primo importante traguardo nel viaggio di redenzione di Dante e che, infatti, è sottolineato dal solenne discorso di Virgilio che chiude l'episodio: il maestro anticipa la separazione dal discepolo che avverrà nel Canto XXX dopo l'arrivo di Beatrice e dichiara con un'allocuzione retoricamente elevata di aver ormai condotto Dante in un punto da dove lui non può vedere oltre e, soprattutto, in cui Dante è ormai libero di seguire gli impulsi della propria volontà in quanto questa è libera dalla tentazione peccaminosa.
La ragione naturale allegorizzata da Virgilio ha concluso il suo compito e da questo momento in poi deve intervenire la fede, senza la quale il viaggio non potrebbe proseguire; Dante è invitato dal maestro ad andare liberamente a esplorare il giardino dell'Eden, essendosi ormai riappropriato di quella felicità terrena che era rappresentata dal colle del Canto I dell'Inferno e la cui ascesa gli era stata preclusa dall'apparizione delle tre fiere. Da notare, infine, la forte e voluta somiglianza tra la scena del Prologo e quella che conclude questo Canto e ci prepara all'ingresso nell'Eden, poiché in entrambi i casi è l'alba e anche qui Dante ha il sole che gli brilla in fronte, a significare che la luce della grazia illumina il suo cammino e ha rischiarato le tenebre rappresentate dal peccato (non sarà casuale che Beatrice, nella sua apparirizione alla fine della processione simbolica, sarà paragonata proprio a un sole nascente: cfr. XXX, 22-33).
Il sole è ormai al tramonto sul Purgatorio, mentre è l'alba a Gerusalemme, è mezzogiorno sul Gange e la Spagna è sotto la costellazione della Bilancia. Ai tre poeti appare l'angelo della castità, fuori dalla cortina di fiamme, che canta la sesta beatitudine Beati mundo corde e invita i tre poeti ad attraversare il fuoco, poiché questa è l'unica via per lasciare la VII Cornice. L'angelo invita a non essere sordi al canto dell'angelo che sta dall'altra parte, mentre Dante a quelle parole è raggelato dal terrore. Dante guarda atterrito il fuoco e pensa alle immagini di uomini arsi vivi, atterrito all'idea di dover attraversare le fiamme. Virgilio e Stazio si voltano verso di lui e il maestro gli ricorda che in Purgatorio nessuna pena può causare la morte. Gli rammenta inoltre di averlo condotto sano e salvo sulla groppa di Gerione, all'Inferno, quindi come potrebbe non fare lo stesso quando è così vicino a Dio? Il fuoco non può nuocergli e se Dante non crede alle sue parole, ne faccia lui stesso la prova avvicinando alla fiamma un lembo della sua veste. Nonostante i ripetuti richiami di Virgilio, tuttavia, Dante non si persuade ad attraversare il fuoco, così al maestro non resta che ricordargli che quelle fiamme sono l'ultimo ostacolo che lo separano da Beatrice. Dante si rianima come fece Piramo quando, ormai morente, udì il nome di Tisbe, e dopo alcune parole ironiche di Virgilio che lo tratta come un fanciullo il poeta segue il maestro nel fuoco, seguito a sua volta da Stazio che prima lo divideva dalla sua guida. Il fuoco è così caldo che Dante, per rinfrescarsi, potrebbe persino gettarsi dentro del vetro incandescente; Virgilio, per confortarlo, durante il passaggio gli parla di Beatrice, dicendo che gli sembra già di vedere i suoi begli occhi al di là delle fiamme. A guidare i tre poeti è la voce di un angelo che sta dall'altra parte, seguendo la quale essi escono dalla cortina di fuoco: una voltà lì, l'angelo dice Venite, benedicti Patris mei! e splende con tale fulgore che Dante non riesce a vederlo. L'angelo aggiunge che il sole sta per tramontare, quindi i tre devono affrettare il passo prima che cali la notte e sia impossibile proseguire. I tre poeti iniziano a salire la scala che conduce al Paradiso Terrestre, scavata entro la roccia e rivolta verso oriente, così che Dante si accorge di proiettare la propria ombra davanti a sé mentre sale. Essi hanno il tempo di percorrere pochi gradini prima che il sole tramonti del tutto, cosa di cui si avvedono in quanto l'ombra davanti a loro scompare. A questo punto, prima che la notte abbia oscurato tutto il monte del Purgatorio, ciascuno di loro si sdraia su un gradino, poiché la legge della salita gli ha tolto ogni forza per procedere ancora più in alto. Dante paragona se stesso a una capra che durante il giorno ha pascolato libera sulle montagne e in seguito rumina placida all'ombra, mentre il sole picchia, sorvegliata dal pastore, e le sue due guide al mandriano che di notte sorveglia le sue bestie e le protegge dalle fiere selvagge. Dante non può vedere molto a causa dell'alto muro della scala che lo sovrasta, ma riesce comunque a scorgere le stelle in cielo che gli sembrano più grandi e luminose. Alla fine, vinto dalla stanchezza, si addormenta. Nell'ora in cui sul Purgatorio appare la stella di Venere mattutina, quindi in prossimità dell'alba quando i sogni sono veritieri, Dante sogna una donna giovane e bella che vaga in una pianura, intenta a cantare e a cogliere fiori: essa dichiara di chiamarsi Lia e di voler produrre per sé una ghirlanda. La giovane aggiunge che è sua intenzione farsi bella per ammirarsi allo specchio, mentre sua sorella Rachele non si stanca mai di guardare la propria immagine riflessa e sta tutto il giorno seduta. La sorella, dice Lia, è desiderosa di ammirare i propri begli occhi quanto lo è lei di operare. Ormai il sole sta sorgendo ed è l'ora che è più gioiosa per il viaggiatore quando è vicino a casa: la luce dell'alba fa svegliare Dante, che si alza e vede che Virgilio e Stazio sono già in piedi. Virgilio si rivolge a Dante e gli dice che oggi potrà finalmente ottenere quel bene che i mortali cercano affannosamente, ovvero la felicità terrena. Le parole del maestro riempiono Dante di gioia e volontà, quindi percorre gli ultimi gradini della scala dietro agli altri due quasi correndo, come se volasse verso l'alto. Quando i tre sono giunti alla fine della scala, Virgilio si rivolge nuovamente al discepolo e con tono solenne gli spiega di avergli ormai mostrato sia le pene eterne dei dannati sia quelle temporanee dei penitenti, e di averlo condotto in un punto da dove lui, con le sue sole forze, non può vedere oltre. Virgilio lo ha portato fin lì con ingegno e con arte, per cui Dante può ormai seguire il proprio piacere: egli è fuori dalle strette vie della redenzione e vede di fronte a sé il sole che gli brilla in fronte, vede l'erba, i fiori e le piante del giardino dell'Eden che la terra produce spontaneamente. Il maestro invita Dante ad entrare liberamente nel Paradiso Terrestre, nell'attesa dell'arrivo di Beatrice che lo aveva spinto a soccorrerlo: Dante non deve più attendere le sue indicazioni, poiché il suo arbitirio è finalmente sano e sarebbe un errore non affidarsi ad esso, quindi Virgilio lo incorona come signore di se stesso.

Note
- I vv. 1-5 sono una complessa perifrasi astronomica per indicare che in Purgatorio è il tramonto, quindi le sei di sera: Dante fa riferimento agli altri punti cardinali, ovvero Gerusalemme, dove il sole sorge, Cadice (qui indicata con l'Ibero, nome latineggiante dell'Ebro), in cui è mezzanotte e sopra la quale si trova la costellazione della Bilancia, e il Gange, dove è mezzogiorno (indicato con l'ora nona, benché essa indichi solitamente lo spazio di tempo tra le dodici e le quindici). Secondo le cognizioni del tempo, questi quattro punti si trovavano a circa novanta gradi di longitudine l'uno dall'altro.
- La beatitudine cantata dall'angelo della castità (v. 8, «Beati i puri di cuore») è la sesta, tratta da Matth., V, 8.
- Il v. 16 (in su le man commesse mi protesi) è stato variamente interpretato, benché l'ipotesi più probabile è che Dante protenda le mani congiunte con le palme rivolte al fuoco, per allontanarlo da sé.
- Il v. 27 (non ti potrebbe far d'un capel calvo) richiama Luc., XXI, 18: capillus de capite vestro non peribit («dal vostro capo non cadrà un solo capello»).
- I vv. 37-39 alludono al mito di Piramo e Tisbe, citato da Ovidio (Met., IV, 55-166) e notissimo nel Medioevo, che narrava la triste storia di due giovani babilonesi che si amavano contro il volere dei loro parenti: un muro divideva le loro case ed essi comunicavano attraverso una fessura, per cui decisero di fuggire insieme e di trovarsi sotto un gelso che sorgeva presso il sepolcro di Nino. Al convegno giunse per prima Tisbe, che però fu messa in fuga da una leonessa e lasciò un velo che fu poi lacerato dalla belva con le fauci insanguinate. Piramo, giunto sul luogo, trovò il velo imbrattato di sangue e credette che Tisbe fosse morta, per cui si trafisse con la spada e macchiò del proprio sangue il gelso che, da quel giorno, produsse le more di color rosso e non più bianco. Tisbe, tornata in quel luogo, trovò Piramo morente e ne invocò tra le lacrime il nome, fino a farlo rianimare: il giovane morì subito dopo e la fanciulla si uccise al suo fianco. I versi di Dante sono una traduzione quasi letterale di Ovidio (IV, 145-146), Ad nomen Thisbes oculos a morte gravatos / Pyramus erexit visaque recondidit illa («Al nome di Tisbe, Piramo aprì gli occhi gravati dalla morte e, dopo averla vista, li richiuse per sempre»).
- Il vb. rampolla (v. 42) può significare «sgorga come una polla d'acqua», ma anche «rifiorisce».
- L'espressione volenci (v. 44) vuol dire «ci vogliamo», quindi «vogliamo».
- Il pome (frutto) citato al v. 45 allude al modo con cui un adulto vince le resistenze di un bambino, promettendogli qualcosa in cambio: Virgilio userà la stessa parola al v. 115 (dolce pome) per indicare la felicità terrena raffigurata dall'Eden.
- Le parole pronunciate dall'angelo al di là delle fiamme (v. 58, Venite, benedicti Patris mei, «Venite, benedetti del Padre mio») sono tratte da Matth., XXV, 34 e saranno quelle rivolte da Cristo agli eletti il Giorno del Giudizio.
- I vv. 64-66 indicano che la scala è rivolta verso levante, quindi Dante ha il sole alle spalle (è il tramonto) e proietta l'ombra davanti a sé.
- Il termine dispense (v. 72) è stato variamente interpretato, potendo significare «parti» (prima che la notte occupasse tutte le parti a lei assegnate) oppure «dispensazioni» (prima che la notte fosse tutta libera di stendere le sue tenebre ovunque).
- La doppia similitudine dei vv. 76-87 paragona Dante al bestiame che dorme o rumina tranquillo, sorvegliato dai pastori rappresentati da Virgilio e Stazio. Le capre... rapide e proterve richiamano Georg., IV, 10 (oves haedique petulci), ma la capra in molti scrittori cristiani era contrapposta alla pecora come animale poco mansueto, quindi rappresenta il fedele che deve essere richiamato all'osservanza delle norme religiose. Dante vuole dirci che, essendo vicino alla fine del viaggio di purificazione, la sua anima è stata ammansita.
- Ai vv. 89-90 Dante afferma di vedere le stelle più grandi e luminose, il che forse si spiega in quanto il poeta si trova vicino alla vetta del monte e, quindi, a una notevole altitudine. Citerea (v. 95) indica Venere, detta così per l'isola di Citera dove la dea classica aveva un particolare culto.
- Al v. 119 strenne può voler dire «doni augurali», ma anche «lieti annunci» (le strenne erano i doni augurali che nell'antica Roma si facevano il primo gennaio).
-L'espressione con ingegno e con arte (v. 130) significa «con ogni accorgimento della ragione».
- Al v. 130 arte è sostantivo, mentre al v. 132 è aggettivo («strette», riferito a vie): è una rima equivoca.
-L'espressione corono e mitrio (v. 142) è una dittologia sinonimica («ti proclamo signore di te stesso»), ma è anche una formula usata nel linguaggio ecclesiastico in riferimento al papa (propriamente la mitria o mitra è il copricapo a due punte indossato da vescovi e prelati nelle solennità).

TESTO

Sì come quando i primi raggi vibra 
là dove il suo fattor lo sangue sparse, 
cadendo Ibero sotto l’alta Libra,                                       3

e l’onde in Gange da nona riarse, 
sì stava il sole; onde ‘l giorno sen giva, 
come l’angel di Dio lieto ci apparse.                               6

Fuor de la fiamma stava in su la riva, 
e cantava ‘Beati mundo corde!’. 
in voce assai più che la nostra viva.                                9

Poscia «Più non si va, se pria non morde, 
anime sante, il foco: intrate in esso, 
e al cantar di là non siate sorde»,                                  12

ci disse come noi li fummo presso; 
per ch’io divenni tal, quando lo ‘ntesi, 
qual è colui che ne la fossa è messo.                          15

In su le man commesse mi protesi, 
guardando il foco e imaginando forte 
umani corpi già veduti accesi.                                         18

Volsersi verso me le buone scorte; 
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio, 
qui può esser tormento, ma non morte.                        21

Ricorditi, ricorditi! E se io 
sovresso Gerion ti guidai salvo, 
che farò ora presso più a Dio?                                        24

Credi per certo che se dentro a l’alvo 
di questa fiamma stessi ben mille anni, 
non ti potrebbe far d’un capel calvo.                               27

E se tu forse credi ch’io t’inganni, 
fatti ver lei, e fatti far credenza 
con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.                        30

Pon giù omai, pon giù ogni temenza; 
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!». 
E io pur fermo e contra coscienza.                                 33

Quando mi vide star pur fermo e duro, 
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio: 
tra Beatrice e te è questo muro».                                   36

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio 
Piramo in su la morte, e riguardolla, 
allor che ‘l gelso diventò vermiglio;                                39

così, la mia durezza fatta solla, 
mi volsi al savio duca, udendo il nome 
che ne la mente sempre mi rampolla.                          42

Ond’ei crollò la fronte e disse: «Come! 
volenci star di qua?»; indi sorrise 
come al fanciul si fa ch’è vinto al pome.                       45

Poi dentro al foco innanzi mi si mise, 
pregando Stazio che venisse retro, 
che pria per lunga strada ci divise.                                48

Sì com’fui dentro, in un bogliente vetro 
gittato mi sarei per rinfrescarmi, 
tant’era ivi lo ‘ncendio sanza metro.                               51

Lo dolce padre mio, per confortarmi, 
pur di Beatrice ragionando andava, 
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».                    54

Guidavaci una voce che cantava 
di là; e noi, attenti pur a lei, 
venimmo fuor là ove si montava.                                    57

Venite, benedicti Patris mei’, 
sonò dentro a un lume che lì era, 
tal che mi vinse e guardar nol potei.                              60

«Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera; 
non v’arrestate, ma studiate il passo, 
mentre che l’occidente non si annera».                        63

Dritta salia la via per entro ‘l sasso 
verso tal parte ch’io toglieva i raggi 
dinanzi a me del sol ch’era già basso.                          66

E di pochi scaglion levammo i saggi, 
che ‘l sol corcar, per l’ombra che si spense, 
sentimmo dietro e io e li miei saggi.                              69

E pria che ‘n tutte le sue parti immense 
fosse orizzonte fatto d’uno aspetto, 
e notte avesse tutte sue dispense,                                72

ciascun di noi d’un grado fece letto; 
ché la natura del monte ci affranse 
la possa del salir più e ‘l diletto.                                     75

Quali si stanno ruminando manse 
le capre, state rapide e proterve 
sovra le cime avante che sien pranse,                          78

tacite a l’ombra, mentre che ‘l sol ferve, 
guardate dal pastor, che ‘n su la verga 
poggiato s’è e lor di posa serve;                                     81

e quale il mandrian che fori alberga, 
lungo il pecuglio suo queto pernotta, 
guardando perché fiera non lo sperga;                         84

tali eravamo tutti e tre allotta, 
io come capra, ed ei come pastori, 
fasciati quinci e quindi d’alta grotta.                               87

Poco parer potea lì del di fori; 
ma, per quel poco, vedea io le stelle 
di lor solere e più chiare e maggiori.                             90

Sì ruminando e sì mirando in quelle, 
mi prese il sonno; il sonno che sovente, 
anzi che ‘l fatto sia, sa le novelle.                                    93

Ne l’ora, credo, che de l’oriente, 
prima raggiò nel monte Citerea, 
che di foco d’amor par sempre ardente,                       96

giovane e bella in sogno mi parea 
donna vedere andar per una landa 
cogliendo fiori; e cantando dicea:                                   99

«Sappia qualunque il mio nome dimanda 
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno 
le belle mani a farmi una ghirlanda.                             102

Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno; 
ma mia suora Rachel mai non si smaga 
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.                          105

Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga 
com’io de l’addornarmi con le mani; 
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».                            108

E già per li splendori antelucani, 
che tanto a’ pellegrin surgon più grati, 
quanto, tornando, albergan men lontani,                     111

le tenebre fuggian da tutti lati, 
e ‘l sonno mio con esse; ond’io leva’mi, 
veggendo i gran maestri già levati.                               114

«Quel dolce pome che per tanti rami 
cercando va la cura de’ mortali, 
oggi porrà in pace le tue fami».                                     117

Virgilio inverso me queste cotali 
parole usò; e mai non furo strenne 
che fosser di piacere a queste iguali.                          120

Tanto voler sopra voler mi venne 
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi 
al volo mi sentia crescer le penne.                               123

Come la scala tutta sotto noi 
fu corsa e fummo in su ‘l grado superno, 
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,                                     126

e disse: «Il temporal foco e l’etterno 
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte 
dov’io per me più oltre non discerno.                           129

Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; 
lo tuo piacere omai prendi per duce; 
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.                          132

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce; 
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli 
che qui la terra sol da sé produce.                                135

Mentre che vegnan lieti li occhi belli 
che, lagrimando, a te venir mi fenno, 
seder ti puoi e puoi andar tra elli.                                  138

Non aspettar mio dir più né mio cenno; 
libero, dritto e sano è tuo arbitrio, 
e fallo fora non fare a suo senno: 

per ch’io te sovra te corono e mitrio».                          142

PARAFRASI

Il sole era in quella posizione in cui si trova quando vibra i suoi primi raggi là dove il suo Creatore fu ucciso (Gerusalemme), mentre l'Ebro (Cadice) è sotto la costellazione della Bilancia, e le onde del Gange sono arse dal mezzogiorno; per cui il giorno stava finendo, quando ci apparve lieto l'angelo di Dio.

Stava sull'orlo della Cornice, fuori dalla fiamma, e cantava 'Beati i puri di cuore!', con una voce assai più intensa della nostra.

Poi, appena ci fummo avvicinati, disse: «O anime sante, non si procede più in alto se prima il fuoco non vi brucia: entrate in esso e prestate attenzione al canto che udrete dall'altra parte»;

allora, quando lo sentii, divenni tale quale colui che è messo nella fossa (raggelai dal terrore).

Protesi le mani giunte in avanti, guardando il fuoco e pensando con terrore a corpi umani che vidi già bruciati.

Le buone guide si volsero a me e Virgilio mi disse: «Figlio mio, qui ci possono essere tormenti, ma non la morte.

Ricordati, ricordati! E se io ti guidai salvo sulla groppa di Gerione, che cosa farò ora che sono più vicino a Dio?

Non dubitare che, se anche tu stessi entro queste fiamme per mille anni, non ti potrebbero far cadere neppure un capello.

E se tu forse credi che io voglia ingannarti, avvicinati al fuoco e accertatene avvicinando ad esso un lembo della tua veste.

Coraggio, deponi ogni timore; voltati da questa parte e vieni, entra sicuro nel fuoco!» E io stavo fermo, sordo a ogni richiamo.

Quando vide che non mi persuadevo a nessun costo, un po' turbato mi disse: «Ora rifletti, figlio: questo muro ti divide da Beatrice».

Come Piramo, al nome di Tisbe, aprì gli occhi in punto di morte e la guardò, quando il gelso diventò poi rosso, così, dopo che la mia durezza fu alleviata, mi voltai verso il saggio maestro, udendo il nome che è sempre presente nella mia mente.

Allora lui scrollò il capo e disse: «Come! Vogliamo starcene di qua?»; quindi sorrise, come si fa con un bambino vinto dalla promessa di un frutto.

Poi si mise dentro il fuoco, pregando Stazio di seguirmi, mentre prima per un lungo tratto si era frapposto a noi.

Non appena fui dentro, mi sarei buttato in un vetro incandescente per rinfrescarmi, tanto il calore lì era senza paragone.

Il mio dolce padre, per confortarmi, andava parlando sempre di Beatrice, dicendo: «Mi sembra già di vedere i suoi occhi».

Ci guidava una voce che cantava dall'altra parte; e noi, sempre attenti ad essa, uscimmo dalle fiamme là dove si saliva (all'Eden).

Una voce risuonò dentro una luce che era lì, tanto vivida che non potei guardarla, e che diceva: 'Venite, benedetti del Padre mio!'.

Aggiunse: «Il sole se ne va e sopraggiunge la notte: non vi fermate, ma affrettate il passo finché l'occidente non si oscura del tutto».

La via scavata nella roccia saliva dritta verso levante, così che io interrompevo davanti a me (proiettando l'ombra) i raggi del sole ormai calante.

E facemmo in tempo a salire pochi gradini, quando io e le mie guide ci accorgemmo che il sole era tramontato per il fatto che la mia ombra scomparve.

E prima che l'orizzonte assumesse un unico aspetto in tutte le sue parti immense, e che la notte avesse oscurato tutte le terre, ognuno di noi fece un letto di un gradino; infatti la natura del monte ci spense la capacità e la gioia di salire oltre.

Come le capre, dopo essere state rapide e ribelli sopra le cime prima di mangiare, se ne stanno mansuete e silenziose a ruminare all'ombra, mentre il sole picchia, custodite dal pastore che si è appoggiato sul bastone e concede loro il riposo;

e come il mandriano che  passa la notte fuori e pernotta accanto al suo bestiame tranquillo, sorvegliando che nessuna belva lo disperda;

così eravamo tutti e tre allora, io simile alla capra ed essi ai pastori, fasciati da entrambi i lati dall'alta roccia.

Da lì si poteva vedere poco di ciò che era all'esterno, ma in ogni caso io vedevo le stelle più grandi e luminose del consueto.

Mentre stavo riflettendo e osservando le stelle, fui colto dal sonno, che spesso è apportatore di veritiere profezie.

Nell'ora, credo, in cui Venere mattutina (che sembra sempre splendere di amore) apparve da oriente sul monte, mi sembrava di vedere in sogno una donna giovane e bella che passeggiava in una pianura, cogliendo fiori; e cantando diceva:

«Chiunque chiede il mio nome, sappia che io sono Lia, e vado muovendo intorno le belle mani per farmi una ghirlanda.

Qui mi faccio bella per ammirarmi allo specchio; mia sorella Rachele, invece, non si stanca mai di specchiarsi e sta tutto il giorno seduta.

Lei è desiderosa di vedere i suoi begli occhi, tanto quanto lo sono io di agghindarmi con le mani; lei è appagata dal guardare, io lo sono dall'operare».

E ormai le tenebre si dissolvevano da tutte le parti per le prime luci dell'alba, che sorgono tanto più gradite ai viaggiatori quanto più, durante il ritorno, essi sono vicini a casa; e il mio sonno se ne andò via con loro, per cui mi alzai, vedendo i gran maestri già in piedi.

«Quel dolce frutto che l'affanno dei mortali va cercando per tanti rami (la felicità terrena), oggi sazierà ogni tuo desiderio».

Virgilio mi rivolse queste parole; e non ci furono mai lieti annunci che regalassero più gioia di questi.

Mi prese un tale desiderio di essere in alto, oltre a quello che avevo, che poi ad ogni passo mi sentivo crescere le penne (mi sembrava di volare).

Non appena fummo in cima alla scala e arrivammo sull'ultimo gradino, Virgilio mi guardò intensamente, dicendo: «Figlio, hai visto le pene eterne e quelle temporanee, e sei giunto in un punto da dove io non posso scorgere oltre con le mie sole forze.

Ti ho condotto qui con quegli accorgimenti che ho trovato con la ragione; ormai segui come tua guida il tuo piacere; sei fuori dalle vie ripide e strette (della redenzione).

Vedi il sole che ti brilla in fronte; vedi l'erba, i fiori e i teneri arbusti che la terra, qui, produce spontaneamente.

Finché non verranno da te i begli occhi (di Beatrice) che, piangendo, mi spinsero a soccorrerti, puoi sederti e camminare fra di essi.

Non aspettare più una mia parola o un mio cenno; il tuo arbitrio è libero dal peccato, giusto e sano, per cui sarebbe un errore non agire in base ad esso: dunque, io ti incorono signore di te stesso».

PIRAMO E TISBE
tisbe
Tisbe e la crepa del muro. Di W. Waterhouse

Secondo la leggenda nella versione ovidiana, l'amore dei due giovani era contrastato dai parenti, e i due, che erano vicini di casa, erano costretti a parlarsi attraverso una crepa nel muro che separava le loro abitazioni. Questa difficile situazione li indusse a programmare la loro fuga d'amore. Nel luogo dell'appuntamento, che era vicino ad un gelso, Tisbe, arrivata per prima, incontra una leonessa dalla quale si mette in salvo perdendo un velo che viene stracciato e macchiato di sangue dalla belva stessa. Piramo trova il velo macchiato dell'amata e, credendola morta, si suicida lanciandosi su una spada. Sopraggiunge Tisbe che lo trova in fin di vita e, mentre tenta di rianimarlo, gli sussurra il proprio nome. Piramo riapre gli occhi e riesce a guardarla prima di morire. Per il grande dolore, anche Tisbe si lancia sulla spada dell'amato sotto il gelso. Tanta è la pietà degli dei nell'ascoltare le preghiere di Tisbe che trasformano i frutti del gelso, intriso del sangue dei due amanti, in color vermiglio. Altri autori della Tarda Antichità (Nonno di Panopoli o la novella cristiana Recognitiones) raccontano una versione sensibilmente differente da quella di Ovidio. La scena si svolge in Cilicia, dove Tisbe - per timore dei genitori - si suicida quando scopre di essere incinta; Piramo si suicida a sua volta. Piramo si trasforma in fiume, mentre Tisbe in una fonte. Di fatto, in Cilicia c'è un fiume che si chiama Pyramus, cosa che potrebbe indicare che questa versione corrisponde a una versione ancora più antica di quella raccontata da Ovidio. Durante il Trecento, gli autori Giovanni Boccaccio e Geoffrey Chaucer ripresero il mito di Piramo e Tisbe per alcuni dei loro racconti. Nel Decameron di Boccaccio la quinta novella della settima giornata è assai simile al racconto dei due sfortunati amanti. Infatti due innamorati sono costretti a comunicare per non farsi scoprire dal marito di lei, attraverso una fessura nel muro. Tuttavia la storia finirà diversamente dal mito originale. Nei Racconti di Canterbury Chaucer nella sezione di Amori infelici elabora una novella dai toni drammatici simili a quelli di Piramo e Tisbe. Un vecchio non sopporta che la figlia s'incontri con il suo innamorato e la obbliga a concentrarsi su un partito migliore. Dato che la ragazza resiste, il vecchio fa uccidere la ragazza in un accesso di follia, di seguito il ragazzo amante si toglierà la vita per la disperazione. La trama di Romeo e Giulietta, la celebre tragedia di William Shakespeare, è quasi del tutto identica al mito di Piramo e Tisbe. Infatti si crede che lo scrittore teatrale elisabettiano si fosse ispirato anche a questo racconto per la stesura del suo spettacolo. Come i due amanti, Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti non possono passare momenti sereni a causa dell'odio delle due famiglie e a causa di tristi e sfavorevoli situazioni (in questo caso nella tragedia l'arrivo in ritardo di una lettera importante) faranno sì che gli amanti si uccidano per restare per sempre uniti. Sempre nell'opera di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate si fa riferimento alla storia di Piramo e Tisbe. Questa volta la scena si sposta nell'Antica Grecia alla corte dell'eroe mitologico Teseo e della regina delle Amazzoni Ippolita che annunciano proprio all'inizio della commedia le loro nozze. Un gruppo di artigiani ateniesi ha quindi l'idea di allestire una rappresentazione teatrale classica in occasione dell'evento. Viene dunque messa in scena, sia pure con toni comici, la vicenda di Piramo e Tisbe.

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Eugenio Caruso - 07-03/2021



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www.impresaoggi.com