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Dante, Purgatorio Canto XXVIII. Matelda

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XXVIII del Purgatorio; protagonista assoluta del Canto è Matelda, figura assai enigmatica del poema che è stata al centro di un intenso lavorio interpretativo e oggetto delle più varie ipotesi nel tentativo di identificarla, nessuna delle quali pienamente convincente.
Il personaggio di Matelda è strettamente legato al luogo dove essa appare e che è al centro di questo come degli episodi successivi, ovvero il giardino dell'Eden che Dante descrive nella prima parte del Canto: dopo l'invito di Virgilio a seguire gli impulsi della propria volontà libera dai condizionamenti del peccato (fine Canto XXVII), Dante si inoltra nella divina foresta spessa e viva che si presenta come un luogo meraviglioso, dove spira un vento regolare e continuo che fa piegare i rami degli alberi verso occidente, dove gli uccelli cinguettano accompagnati dallo stormire delle fronde e i fitti rami impediscono alla luce del sole di filtrare. È un vero e proprio locus amoenus, come risulta poi evidente dalla comparsa del fiume Lete le cui acque purissime scorrono lente in mezzo all'erba, in cui sono evidenti gli echi sia della poesia classica (specie nella descrizione dell'aetas aurea, come sarà chiarito più avanti) sia di quella dello Stilnovo, a sua volta richiamato proprio dalla figura di Matelda.
Questa appare improvvisamente sull'altra sponda del fiume, descritta in atteggiamenti che ricordano la figura di Lia sognata da Dante nel Canto precedente e le tante donne cantate dai poeti stilnovisti: passeggia cantando tra l'erba, cogliendo fiori con cui, probabilmente, intrecciare una ghirlanda, è scaldata dai raggi d'amore come testimoniato dal suo aspetto, abbassa gli occhi come una vergine piena di riserbo e pudore. La sua descrizione riprende sicuramente quella di Proserpina in Ovidio (Met., V, 391 ss.), cui è esplicitamente paragonata da Dante e il cui mito è in qualche modo connesso a quello dell'eterna primavera dell'età dell'oro, ma diverse espressioni rimandano anche a Cavalcanti, specie alla pastorella di In un boschetto e alla ballata Fresca rosa novella: questa ripresa di moduli stilnovisti non è casuale, in quanto è conseguente alla riflessione che su questa esperienza poetica Dante ha svolto nei Canti XXIV e XXVI attraverso gli incontri con Bonagiunta e Guinizelli e si configura come utilizzo di quello stile e di quel linguaggio non più al fine di cantare l'amore terreno, bensì quello divino cui Dante è ormai tutto proiettato, nell'attesa dell'arrivo di Beatrice che è evocata in questo Canto e nel successivo.
Lo Stilnovo non è dunque rinnegato da Dante, ma ripensato alla luce del viaggio di redenzione ed espiazione che, nel suo caso, è anche espiazione letteraria (quanto di rischioso vi era nella poesia amorosa, è ormai cancellato dopo il passaggio nel fuoco purificatore della VII Cornice); esso è ora funzionale alla descrizione di Matelda come lo sarà a quella di Beatrice, la cui presentazione in Inf., II, 52 ss. risentiva già di fortissimi echi stilnovisti e la cui apparizione nel Canto XXX riproporrà elementi propri della Vita nuova, specie riguardo all'allegoria Cristo-verità rivelata.
Tornando al valore simbolico di Matelda e tralasciando le ipotesi più fantasiose sulla sua identificazione storica, essa è probabilmente allegoria di quello stato di primitiva felicità e purezza che l'uomo possedeva nell'Eden prima del peccato originale e che viene riconquistato dalle anime salve dopo il passaggio attraverso le pene del monte: ciò spiega perché Dante arda dal desiderio di passare il Lete per raggiungerla, mentre apprenderemo in seguito che il ruolo della donna è di immergere le anime salve nelle acque dei due fiumi, sottoponendole all'ultimo rito purificatore prima dell'ascesa in Paradiso.
Il paragone tra Matelda e Proserpina anticipa l'accostamento che la donna stessa proporrà alla fine del Canto, ovvero quello tra il Paradiso Terrestre e l'aetas aurea della poesia classica che, forse, negli antichi poeti raffigurava proprio l'Eden: in effetti la descrizione dell'età dell'oro come periodo di primitiva felicità nel mito pagano aveva molti punti di contatto con quella del mito edenico, specie in Ovidio (Met., I, 89 ss.) che ne sottolinea il carattere di «eterna primavera» e di abbondanza perduta dall'uomo come in seguito al rapimento di Proserpina da parte di Plutone, per cui tale interpretazione in senso cristiano del mito pagano aveva una lunga tradizione cui Dante si riallaccia.
Il sorriso compiaciuto di Virgilio e Stazio alle parole finali di Matelda è la conferma della veridicità di questa lettura in chiave cristiana del mito classico, che rimanda al discorso di Stazio (XXII) secondo il quale proprio l'opera virgiliana aveva favorito prima la sua conversione al Cristianesimo, poi il suo ravvedimento morale dal peccato di prodigalità che aveva scontato in Purgatorio.
Tutta la seconda parte del Canto ha funzione didascalica, con la risposta di Matelda ai dubbi di Dante circa la natura del Paradiso Terrestre e l'origine del vento e dell'acqua, in accordo alla spiegazione precedente di Stazio: Dante si rifà qui alla descrizione scritturale dell'Eden precisando che esso salì insieme al monte del Purgatorio al di sopra delle perturbazioni atmosferiche, per non arrecare danno all'uomo posto da Dio in questo luogo di delizie come arr(a) («caparra», pegno) della pace eterna.
Matelda sottolinea che l'uomo dimorò poco nell'Eden per sua difalta, per il peccato originale, tuttavia il luogo ha conservato il suo carattere di eterna primavera e la sua immunità agli eventi atmosferici terrestri, per cui è esente da pioggia, neve, vento che si arrestano al limite della porta del secondo regno. Il vento ha un'origine naturale in quanto prodotto dal movimento delle sfere celesti, che inoltre fanno sì che le piante del giardino diffondano nell'aria le loro sementi che poi ricadono sulla Terra generando la vegetazione (il che spiega la germinazione spontanea delle piante sulla Terra, mentre si dice che nell'Eden vi sono specie sconosciute nel mondo); l'acqua dei fiumi ha invece un'origine metafisica, poiché sgorga dalla volontà divina ed è destinata al compiersi del rito purificatore che prepara le anime all'ingresso in Paradiso.
Le parole di Matelda che chiariscono i dubbi di Dante circa questioni «scientifiche» e che propongono in gran parte spiegazioni di carattere «metafisico» e dottrinale si rifanno alla chiosa di Stazio (XXV) sulla generazione delle anime e dei corpi aerei, anticipando una situazione che tante volte si ripeterà nella III Cantica in cui sarà Beatrice (il cui arrivo è preannunciato nei Canti XXVIII-XXIX) a sciogliere i dubbi del poeta su questioni analoghe, chiarendole al lume di quella teologia il cui intervento è indispensabile per la comprensione dei misteri divini.

RIASSUNTO

È la mattina di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300. Dante è impaziente di esplorare la foresta dell'Eden, la cui vegetazione è tanto fitta da non far filtrare i raggi del sole appena sorto, così vi si addentra e inizia a passeggiare con lentezza. Un lieve venticello sempre uguale stormisce fra le piante facendole piegare verso occidente, mentre sui rami uccellini cantano melodiosamente accompagnati dal rumore prodotto dalle foglie, come accade nella pineta di Classe quando vi soffia il vento di Scirocco. Dante si è ormai inoltrato nella selva tanto che non può più vedere il punto da cui è entrato, quando giunge a un fiume (il Lete) le cui acque scorrono verso sinistra. Le acque più pure dei fiumi terrestri sembrerebbero sozze e fangose a paragone di quella di quel rio, per quanto essa scorra bruna sotto la fitta vegetazione che fa da schermo al sole. Dante si ferma e spinge lo sguardo al di là del fiume, dove scorge una giovane e bella donna (Matelda) che cammina solitaria e canta, mentre coglie vari fiori dal prato. Dante si rivolge a lei chiamandola bella donna e affermando che lei sembra ardere d'amore, invitandola poi ad avvicinarsi a lui sulla riva del fiume, in modo che possa comprendere che cosa stia cantando. La donna, aggiunge Dante, gli ricorda Proserpina quando fu rapita da Plutone, evento in seguito al quale il mondo perse la primavera. Matelda si volge a Dante come una donna che danza e muove i passi lentamente uno dopo l'altro, procedendo tra i fiori rossi e gialli e abbassando gli occhi come una pudica vergine. Si avvicina tanto quanto serve a Dante per comprendere il suo canto e non appena è giunta sulla sponda del Lete alza i suoi occhi guardando il poeta. Lo sguardo della donna è pieno d'amore, non meno di quello di Venere quando venne trafitta dal figlio Cupido e si innamorò di Adone. Matelda ride sull'altra riva, mentre con le mani intreccia i fiori che ha raccolto: solo tre passi separano lei e Dante, che odia il fiume che si frappone a loro non meno di quanto Leandro odiava l'Ellesponto che lo divideva dall'amata Ero. Matelda si rivolge a Dante, Virgilio e Stazio spiegando che essi, nuovi del luogo, forse si meravigliano del suo riso, ma la spiegazione è contenuta nel Salmo Delectasti che può illuminare le loro menti (ella gioisce della contemplazione dell'opera di Dio). Invita quindi Dante, che precede gli altri due, di rivolgerle liberamente altre domande, poiché lei è giunta espressamente per questo scopo. Dante osserva che la presenza del vento e dell'acqua in quel luogo contrastano con ciò che Stazio gli ha spiegato in precedenza, ovvero il fatto che l'Eden è immune dalle perturbazioni atmosferiche. Matelda dichiara che la sua risposta sarà tale da dissipare ogni dubbio del poeta, quindi spiega che Dio creò l'uomo buono e disposto al bene, donandogli il giardino dell'Eden come caparra dell'eterna beatitudine. L'uomo vi rimase poco per il peccato originale, ma non di meno il monte del Purgatorio salì verso il cielo per porre l'Eden al di sopra di ogni alterazione atmosferica e non arrecare fastidio ai primi progenitori, per cui ogni fenomeno naturale si arresta alla porta del secondo regno. Il vento è prodotto in realtà dal movimento delle sfere celesti che fa ruotare l'atmosfera rarefatta, causando lo stormire delle fronde della selva; le piante, mosse dal vento, impregnano l'aria della loro virtù generativa e questa ricade poi sulla Terra, che genera la vegetazione a seconda della sua qualità e del suo clima. Ciò spiega perché talvolta sulla Terra crescono delle piante in modo apparentemente spontaneo, con l'aggiunta che nell'Eden ci sono anche piante che non esistono nel mondo. L'acqua dei fiumi dell'Eden, spiega poi Matelda, non sgorga da una vena naturale alimentata dalle piogge, ma è prodotta direttamente dalla volontà divina: il Lete ha la virtù di cancellare la memoria dei peccati commessi, l'Eunoè invece rafforza il ricordo del bene compiuto. L'acqua del secondo fiume non opera pienamente, se prima non si beve quella del primo, che supera ogni altro sapore. Conclusa la sua spiegazione, Matelda fornisce a Dante ancora un corollario: dichiara infatti che i poeti classici che scrissero nei loro versi dell'età dell'oro, forse sognarono proprio questo luogo felice, ovvero l'Eden. Qui la specie umana fu felice, qui ci fu un'eterna primavera e ogni frutto della natura, qui scorreva il nettare di cui si parlava in quei testi. Dante si volta a osservare Virgilio e Stazio, vedendo che entrambi sorridono felici alle parole di Matelda, quindi torna a guardare la donna.

Note
- I vv. 10-12 indicano che il vento fa piegare le piante verso occidente, il che è conseguenza del fatto che il vento è prodotto dal movimento dei cieli da oriente a occidente.
- Al v. 16 l'ore prime può indicare i primi venti del giorno (ore nel senso di aure), ma più probabilmente significa le prime ore del giorno.
- Al v. 18 bordone è voce musicale, che indica una corda supplementare della viella che produceva un suono monotono, che faceva da accompagnamento alla melodia; lo stesso avveniva nel canto polifonico, in cui una voce ferma («tenor») accompagnava il «discanto», ovvero la melodia.
- Chiassi (v. 20) è forma antica per Classe, l'antico porto di Ravenna vicino al quale sorge una pineta. - Al v. 36 i mai indicano i rami fioriti, dal maio o maiella che era il ramo d'albero da cui pendevano fiori a grappolo vistosi, usati spesso nelle feste e nelle solennità religiose.
- La descrizione di Matelda ai vv. 40-42 si rifà a Cavalcanti: cfr. la pastorella di In un boschetto (v.12, sola sola per lo bosco gìa; v. 7, cantando come fosse 'namorata, che è ripreso da Dante in XXIX, 1) e la ballata Fresca rosa novella (vv. 3-4: per prata e per rivera / gaiamente cantando).
- Il termine primavera (v. 51) indica forse non la stagione dell'anno, bensì i fiori che Proserpina raccoglieva quando fu rapita da Plutone e che perse venendo trascinata via; Dante crea così un collegamento tra questo particolare e il mito seconto cui il mondo perse appunto la primavera in seguito al ratto della dea.
- Al v. 66 fuor di tutto suo costume può riferirsi a Cupido, indicando che il dio colpì la madre Venere senza volerlo (secondo il racconto di Ovidio, Met., X, 525-526), ma anche a Venere stessa, significando che la dea era stata colpita da amore per Adone mentre solitamente era lei che faceva innamorare gli altri.
- I vv. 71-75 alludono al mito di Leandro ed Ero, i due giovani che vivevano sulle sponde opposte dell'Ellesponto: ogni notte Leandro attraversava a nuoto il braccio di mare per raggiungere l'amata, dovendo talvolta rinunciare per via delle violente mareggiate; una volta tentò comunque e annegò. Il riferimento a Serse (v. 71) rimanda alla seconda guerra persiana, quando il re passò l'Ellesponto nel 480 a.C. con un numeroso esercito per muovere guerra alla Grecia.
- Il Salmo Delectasti citato da Matelda (v. 80) è il XCI, che ai versetti 5-6 dice: Quia delectasti me, Domine, in factura tua, et in operibus manuum tuarum exultabo. / Quam magnificata sunt opera tua, Domine! («Poiché, o Signore, mi hai allietato dei tuoi atti, ed esulto per l'opera delle tue mani. Come sono grandi le tue opere, Signore!»). Matelda giustifica il suo riso come gioia alla contemplazione dell'opera di Dio nel giardino dell'Eden.
- Le parole di Dante ai vv. 85-87 alludono alla spiegazione di Stazio (XXI, 40-57).
- Al v. 93 arr(a) vuol dire «caparra», «anticipo» della beatitudine celeste. Al v. 95 difalta vuol dire «errore» e deriva dal fr. ant. defalte.
- La prima volta (v. 104) è quasi certamente il Primo Mobile, che col suo movimento imprime il moto a tutti gli altri Cieli, ma alcuni pensano al Cielo della Luna, il più vicino all'atmosfera terrestre.
- I vv. 131-133 si riferiscono con ogni probabilità al solo Eunoè, le cui acque agiscono dopo che si sono bevute quelle del Lete e il cui sapore supera qualunque altro.
- I vv. 142-144 sono una ripresa quasi letterale di Ovidio, Met., I, 89-90: Aurea prima... aetas... fidem rectumque colebat («La prima età dell'oro onorava la fedeltà e la giustizia»); 107: Ver erat aeternum («vi era una eterna primavera»); 111: Flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant («Scorrevano fiumi di latte, fiumi di nettare»).
- Al v. 144 questo indica l'acqua del Lete.


TESTO

Vago già di cercar dentro e dintorno 
la divina foresta spessa e viva, 
ch’a li occhi temperava il novo giorno,                            3

sanza più aspettar, lasciai la riva, 
prendendo la campagna lento lento 
su per lo suol che d’ogne parte auliva.                           6

Un’aura dolce, sanza mutamento 
avere in sé, mi feria per la fronte 
non di più colpo che soave vento;                                    9

per cui le fronde, tremolando, pronte 
tutte quante piegavano a la parte 
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;                            12

non però dal loro esser dritto sparte 
tanto, che li augelletti per le cime 
lasciasser d’operare ogne lor arte;                                15

ma con piena letizia l’ore prime, 
cantando, ricevieno intra le foglie, 
che tenevan bordone a le sue rime,                              18

tal qual di ramo in ramo si raccoglie 
per la pineta in su ‘l lito di Chiassi, 
quand’Eolo scilocco fuor discioglie.                              21

Già m’avean trasportato i lenti passi 
dentro a la selva antica tanto, ch’io 
non potea rivedere ond’io mi ‘ntrassi;                           24

ed ecco più andar mi tolse un rio, 
che ‘nver’ sinistra con sue picciole onde 
piegava l’erba che ‘n sua ripa uscìo.                             27

Tutte l’acque che son di qua più monde, 
parrieno avere in sé mistura alcuna, 
verso di quella, che nulla nasconde,                             30

avvegna che si mova bruna bruna 
sotto l’ombra perpetua, che mai 
raggiar non lascia sole ivi né luna.                                33

Coi piè ristretti e con li occhi passai 
di là dal fiumicello, per mirare 
la gran variazion d’i freschi mai;                                     36

e là m’apparve, sì com’elli appare 
subitamente cosa che disvia 
per maraviglia tutto altro pensare,                                  39

una donna soletta che si gia 
e cantando e scegliendo fior da fiore 
ond’era pinta tutta la sua via.                                           42

«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore 
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti 
che soglion esser testimon del core,                            45

vegnati in voglia di trarreti avanti», 
diss’io a lei, «verso questa rivera, 
tanto ch’io possa intender che tu canti.                         48

Tu mi fai rimembrar dove e qual era 
Proserpina nel tempo che perdette 
la madre lei, ed ella primavera».                                    51

Come si volge, con le piante strette 
a terra e intra sé, donna che balli, 
e piede innanzi piede a pena mette,                              54

volsesi in su i vermigli e in su i gialli 
fioretti verso me, non altrimenti 
che vergine che li occhi onesti avvalli;                           57

e fece i prieghi miei esser contenti, 
sì appressando sé, che ‘l dolce suono 
veniva a me co’ suoi intendimenti.                                 60

Tosto che fu là dove l’erbe sono 
bagnate già da l’onde del bel fiume, 
di levar li occhi suoi mi fece dono.                                  63

Non credo che splendesse tanto lume 
sotto le ciglia a Venere, trafitta 
dal figlio fuor di tutto suo costume.                                 66

Ella ridea da l’altra riva dritta, 
trattando più color con le sue mani, 
che l’alta terra sanza seme gitta.                                    69

Tre passi ci facea il fiume lontani; 
ma Elesponto, là ‘ve passò Serse, 
ancora freno a tutti orgogli umani,                                  72

più odio da Leandro non sofferse 
per mareggiare intra Sesto e Abido, 
che quel da me perch’allor non s’aperse.                    75

«Voi siete nuovi, e forse perch’io rido», 
cominciò ella, «in questo luogo eletto 
a l’umana natura per suo nido,                                       78

maravigliando tienvi alcun sospetto; 
ma luce rende il salmo Delectasti
che puote disnebbiar vostro intelletto.                           81

E tu che se’ dinanzi e mi pregasti, 
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta 
ad ogne tua question tanto che basti».                         84

«L’acqua», diss’io, «e ‘l suon de la foresta 
impugnan dentro a me novella fede 
di cosa ch’io udi’ contraria a questa».                           87

Ond’ella: «Io dicerò come procede 
per sua cagion ciò ch’ammirar ti face, 
e purgherò la nebbia che ti fiede.                                   90

Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace, 
fé l’uom buono e a bene, e questo loco 
diede per arr’a lui d’etterna pace.                                   93

Per sua difalta qui dimorò poco; 
per sua difalta in pianto e in affanno 
cambiò onesto riso e dolce gioco.                                 96

Perché ‘l turbar che sotto da sé fanno 
l’essalazion de l’acqua e de la terra, 
che quanto posson dietro al calor vanno,                     99

a l’uomo non facesse alcuna guerra, 
questo monte salìo verso ‘l ciel tanto, 
e libero n’è d’indi ove si serra.                                       102

Or perché in circuito tutto quanto 
l’aere si volge con la prima volta, 
se non li è rotto il cerchio d’alcun canto,                      105

in questa altezza ch’è tutta disciolta 
ne l’aere vivo, tal moto percuote, 
e fa sonar la selva perch’è folta;                                    108

e la percossa pianta tanto puote, 
che de la sua virtute l’aura impregna, 
e quella poi, girando, intorno scuote;                           111

e l’altra terra, secondo ch’è degna 
per sé e per suo ciel, concepe e figlia 
di diverse virtù diverse legna.                                         114

Non parrebbe di là poi maraviglia, 
udito questo, quando alcuna pianta 
sanza seme palese vi s’appiglia.                                  117

E saper dei che la campagna santa 
dove tu se’, d’ogne semenza è piena, 
e frutto ha in sé che di là non si schianta.                   120

L’acqua che vedi non surge di vena 
che ristori vapor che gel converta, 
come fiume ch’acquista e perde lena;                         123

ma esce di fontana salda e certa, 
che tanto dal voler di Dio riprende, 
quant’ella versa da due parti aperta.                            126

Da questa parte con virtù discende 
che toglie altrui memoria del peccato; 
da l’altra d’ogne ben fatto la rende.                               129

Quinci Letè; così da l’altro lato 
Eunoè si chiama, e non adopra 
se quinci e quindi pria non è gustato:                          132

a tutti altri sapori esto è di sopra. 
E avvegna ch’assai possa esser sazia 
la sete tua perch’io più non ti scuopra,                        135

darotti un corollario ancor per grazia; 
né credo che ‘l mio dir ti sia men caro, 
se oltre promession teco si spazia.                              138

Quelli ch’anticamente poetaro 
l’età de l’oro e suo stato felice, 
forse in Parnaso esto loco sognaro.                             141

Qui fu innocente l’umana radice; 
qui primavera sempre e ogne frutto; 
nettare è questo di che ciascun dice».                         144

Io mi rivolsi ‘n dietro allora tutto 
a’ miei poeti, e vidi che con riso 
udito avean l’ultimo costrutto; 

poi a la bella donna torna’ il viso.                                  148

PARAFRASI

Desideroso ormai di esplorare all'interno e tutt'intorno la foresta divina, folta e rigogliosa, che temperava agli occhi i raggi del sole appena sorto, senza attendere oltre lasciai il margine roccioso e mi inoltrai a passo lento nella vegetazione, sul suolo che da ogni lato mandava dolci profumi.

Una brezza dolce e regolare mi colpiva la fronte, non più forte di un dolce vento;

a causa di essa le fronde, tremolando, si piegavano tutte verso la parte (a occidente) in cui il santo monte proietta la prima ombra;

tuttavia non si piegavano tanto che gli uccellini, sui rami, cessassero di adoperare ogni loro arte (di cantare);

ma con piena gioia, cantando, accoglievano le prime ore del giorno tra le foglie, che facevano accompagnamento ai loro canti, proprio come avviene di ramo in ramo nella pineta sul lido di Classe, quando Eolo scioglie il vento di scirocco.

Ormai i lenti passi mi avevano trasportato dentro l'antica selva al punto che non potevo più vedere da dove ero entrato;

ed ecco che mi impedì di procedere oltre un fiumicello (il Lete), che con le sue piccole onde piegava verso sinistra l'erba che cresceva sulla sua sponda.

Tutte le acque che sulla Terra sono più pure, sembrerebbero sozze e fangose a paragone di quella, che non nasconde nulla, anche se scorre scura sotto quell'ombra perpetua, che non lascia mai filtrare i raggi del sole o della luna.

Arrestai il passo e spinsi lo sguardo al di là del fiumicello, per osservare la gran varietà dei rami fioriti;

e là mi apparve, come appare all'improvviso una cosa che, destando meraviglia, distoglie da ogni altro pensiero, una donna (Matelda) che se ne andava tutta sola, e mentre cantava coglieva i fiori di cui era cosparso il suo cammino.

«Orsù, bella donna, che sei riscaldata dall'amore, se voglio credere all'aspetto che di solito è specchio fedele dei sentimenti, abbi la compiacenza di farti un poco avanti, verso questo fiume, così che io possa capire che cosa stai cantando.

Tu mi fai ricordare dove si trovava e come era Proserpina, nel momento in cui la madre perse lei, e lei l'eterna primavera (o i fiori che aveva raccolto)».

Come volteggia una donna che danza, con i piedi stretti a terra e fra di loro, e mette a malapena un piede davanti all'altro, così lei si volse verso di me sui fiorellini rossi e gialli, non diversamente da una vergine che abbassi gli occhi dignitosi;

ed esaudì le mie preghiere, avvicinandosi al punto che il dolce suono del suo canto era udito e compreso da me.

Appena fu là dove le erbe sono bagnate dalle acque del bel fiume, mi fece il dono di sollevare i suoi occhi.

Non credo che sotto le ciglia di Venere, trafitta dal figlio Cupido in modo involontario, splendesse un tale lume d'amore.

Ella rideva in piedi dall'altra sponda, intrecciando con le sue mani più fiori colorati, che quell'alta terra produce senza sementi.

Il fiume ci separava di non più di tre passi; ma l'Ellesponto, là dove passò Serse (il cui esempio è ancora ammonimento per ogni orgoglio umano), non fu più odiato da Leandro a causa delle sue mareggiate tra le città di Sesto e Abido, rispetto a quel fiume perché non mi fece passare.

Lei cominciò: «Voi siete appena arrivati, e forse siete meravigliati del fatto che io rida in questo luogo che fu scelto come nido per la specie umana; ma il Salmo 'Delectasti' fornisce la spiegazione che può dissipare ogni vostro dubbio.

E tu che sei davanti e mi hai pregato, dimmi se vuoi sapere altro; infatti io sono venuta qui per rispondere a ogni tua domanda quel tanto che basti».

Io dissi: «L'acqua e lo stormire della foresta contrastano nel mio pensiero rispetto a qualcosa (la spiegazione di Stazio) che ho sentito».

Allora lei: «Io ti dirò qual è la causa di ciò che suscita il tuo stupore, e dissiperò la nebbia che offusca il tuo intelletto.

Il sommo Bene (Dio), che piace solo a se stesso, creò l'uomo buono e disposto al bene, e diede a lui questo luogo come caparra della pace eterna.

Per il suo peccato si trattenne qui poco tempo; per il suo peccato trasformò la sua gioia e felicità in pianto e in affanno.

Affinché le perturbazioni che sono prodotte sulla Terra dal vapore dell'acqua e del suolo, che seguono il calore per quanto possono, non creassero fastidio all'uomo, questo monte salì al cielo fin qui, ed esso è immune dagli eventi atmosferici da qui fino alla porta del Purgatorio.

Ora, poiché tutta l'aria si muove in cerchio con il Primo Mobile, a meno che il movimento celeste non sia interrotto in qualche punto, tale movimento dell'aria urta contro la cima del monte che è tutta libera nell'aria in movimento, e fa stormire la selva che è piena di fronde;

e la pianta colpita dal vento ha un tale potere che impregna l'aria della sua virtù generativa (le sementi), e l'aria, girando, la diffonde poi tutt'intorno;

e la Terra popolata dagli uomini, a seconda della sua fertilità e del suo clima, concepisce e produce diverse piante a partire da diverse virtù.

Udito questo, sulla Terra non ci si dovrebbe stupire quando una pianta nasce apparentemente senza essere stata seminata.

E devi sapere che il bosco sacro dove ti trovi è pieno di ogni semente, e ha in sé dei frutti che non crescono nel mondo.

L'acqua che vedi non sgorga da una sorgente che sia alimentata da vapori che il gelo trasforma in pioggia, come un fiume che perde e acquista portata;

ma esce da una fonte salda e certa, che riceve dalla volontà di Dio quanto essa poi riversa da due parti.

Da questa parte (il Lete) scende con la virtù di togliere la memoria del peccato; dall'altra (l'Eunoè) con la virtù di rafforzare il ricordo di ogni buona azione.
Da qui il fiume si chiama Lete; dall'altro lato si chiama Eunoè, e non agisce se non si beve prima quest'acqua e poi quell'altra: questo sapore (dell'Eunoè) è superiore a ogni altro.

E anche se la tua curiosità può essere soddisfatta senza che io aggiunga altro, per mia grazia di darò ancora un corollario; e non credo che le mie parole ti saranno meno gradite, se vanno oltre ciò che ti avevo promesso.

Quelli che nell'antichità scrissero versi sull'età dell'oro e il suo stato felice, forse sognarono in Parnaso proprio questo luogo.

Qui i primi uomini furono innocenti; qui regna un'eterna primavera e ogni frutto; l'acqua di questo fiume è il nettare di cui ognuno di loro parla».

Io allora mi voltai verso Virgilio e Stazio e vidi che avevano ascoltato queste ultime parole sorridendo; poi tornai a guardare la bella donna.

MATELDA

Caratterizzata da una bellezza assoluta, sia nell'aspetto sia nei gesti, simboleggia la condizione umana prima del peccato originale. Gli studiosi della Divina Commedia sono concordi nel dichiarare Matelda una donna storicamente vissuta. Alcuni ritengono si tratti di Matilde di Canossa, altri propendono per Mechthild von Hackeborn o la nobildonna Matelda Nazarei di Matelica, che si fece suora di clausura ed è meglio conosciuta come la beata Mattia Nazarei che Dante avrebbe potuto conoscere nei suoi viaggi attraverso l'attuale regione Marche, la cui esatta conoscenza geografica da parte del Poeta è indizio che fu da questi approfonditamente visitata. Sarà Matelda a immergere Dante nelle acque dei due fiumi Lete ed Eunoè, rito indispensabile prima dell'ascesa al Paradiso Celeste. Scrive il critico Umberto Bosco che Matelda, dunque, è "un'idea figurata alla quale il poeta ha dato un nome al quale non sappiamo che valore attribuire.[...] Se il Paradiso Terrestre è la felicità umana, logico che Matelda impersoni la stessa felicità: più precisamente è la figura dell'essere felice qual era l'uomo prima del peccato [...]". Ella battezza Dante con l'acqua della verità, completa la sapienza della Ragione umana (Virgilio) e anticipa la Rivelazione e la Teologia (Beatrice). Io, con giudizio strettamente personale, ritengo che Matelda fosse un'amica di Beatrice; potrebbe essre quella bellissima Giovanna detta Primavera, la donna di Guido Cavalcanti. Dante aveva stilato una classifica delle donne più belle di Firenze, Beatrice figurava al nono posto; tra le prime otto potrebbe esserci la Matelda, più volta nominata la "Bella donna".

ERO E LEANDRO

Ero e Leandro sono i protagonisti di una struggente storia d'amore giunta sino a noi attraverso due autori classici: Publio Ovidio Nasone, poeta latino del I secolo d.C.; e Museo Grammatico, autore greco del V/VI secolo d.C. L'amore appassionato e la tragica fine della vicenda ha nel tempo ispirato vari autori, che hanno rinarrato il mito, arricchendolo di pathos, levigando le vicende, accrescendo il dramma: per esempio, il padre di Torquato Tasso, Bernardo Tasso, e, a distanza di tempo. Ero e Leandro, sono due giovani innamorati che vivono sulle sponde opposte di uno stretto braccio di mare, attraversato da correnti fortissime e da moltissime navi. L'opposizione delle famiglie al loro amore e la distanza non li scoraggia: forte della sua gioventù intrepida e del suo amore, Leandro ogni notte si tuffa nelle acque inquiete e pericolose per raggiungere di nascosto l'amata. Ero, consapevole dei pericoli che lui corre per lei, l'attende nella casa affacciata sullo stretto, con una candela in mano perché la luce possa far da guida all'amante, indicando la rotta da seguire. Una notte, però, la fiamma si spegne senza che Ero se ne accorga in tempo e Leandro, smarrito, perde se stesso e la vita nell'impetuoso mare. La storia d'amore, con la prova di coraggio e fedeltà costante, e l'attesa reiterata e speranzosa della giovane amante ha ispirato Ovidio, che include Ero e Leandro tra le coppie celebrate nelle sue Eroidi e rintraccia nella tragica vicenda temi cari alla sua poetica (l'attesa, l'amore fedele, la speranza vacillante di chi non si crede più amata). Le lettere dedicate alla coppia sono la XVIII (Leandro a Ero) e la XIX (Ero a Leandro).

LETE

Il Lete è il fiume dell'oblio della mitologia greca e romana. Era originariamente il nome della figlia della dea Eris. Il fiume è presente nel X libro della Repubblica di Platone, dove viene narrato il mito di Er, disceso nell'oltretomba per conoscere i misteri della reincarnazione delle anime. Nei frammenti degli orfici troviamo la raccomandazione, agli iniziati che sono giunti nell'aldilà e si apprestano a entrare in una nuova vita, di bere poco l'acqua per ricordare, chi beve troppo ha l'oblio, ma di cercare di far tesoro del proprio passato per conseguire un superiore livello di saggezza. L'opera latina più famosa che ne parla è l'Eneide di Virgilio, nel VI libro, e le anime dei Campi Elisi vi si tuffano quando devono reincarnarsi dimenticando le vite passate, secondo la concezione pitagorica della metempsicosi. Le anime che per fato devono cercare un altro corpo, bevono sicure acque e lunghe dimenticanze sull'onda del fiume Lete (En., VI 714-715). Il Lete nella letteratura medievale e moderna è citato da Dante Alighieri nel Purgatorio: immagina che in questo fiume, situato nel paradiso terrestre, sul monte del Purgatorio, si lavino le anime purificate prima di salire in Paradiso, per dimenticare le loro colpe terrene. Dante lo chiama però Letè, per la sua difficoltà nel riconoscere gli accenti nei nomi di derivazione greca. Accanto al Letè scorre il fiume del ricordo delle cose buone del proprio passato, l'Eunoè; i due fiumi potrebbero essere ricollegati ad antiche fonti di un sito oracolare della Beozia, dove scorrevano appunto Lete e Mnemosine, e dove bevevano i pellegrini. Sul mito di due fonti di segno opposto sarebbero nati molti episodi di opere letterarie nelle letterature europee moderne, soprattutto nel Quattrocento. Il Lete ha un ruolo importante all'interno della tragedia goethiana del Faust, e ricorre spesso anche in poesie di Baudelaire.

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purgatorio

Eugenio Caruso - 12-03/2021



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