Virgilio, Eneide, Libro 3. Continua il racconto di Enea alla corte di Didone.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

L'Eneide (in latino: Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri per un totale di 9.896 esametri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti; perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma gli amici Vario Rufo e Plozio Tucca, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardarono il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato. I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande devozione (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e di Troia.

Attraverso quest'opera, Virglio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Molti racconti sono tipici della tragedia greca; "fortunatamente" per gli antichi greci e romani l'uccisione di mogli, amanti, figli, mariti, come stupri, incesti e altre violenze sessuali erano dovute all'intervento di qualche dio, che, spesso, funge da artefice e da giudice. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai giorni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Virgilio. Anche Dante, nelle sue metafore, ha attinto molto da lui la cui opera conosceva molto bene, a ulteriore dimostrazione dell'immensa cultura del poeta fiorentino. Giova anche notare che, allora, non era facile trovare un manoscritto dell'Eneide: se ne potevano trovare solo nelle grandi abbazie e presso i palazzi di famiglie blasonate.

LIBRO III

RIASSUNTO

Enea racconta come, dopo aver radunato molti altri sopravvissuti (troiani e loro alleati) avesse costruito una flotta di navi: con queste era approdato in varie zone del Mediterraneo, tra le quali il Chersoneso Tracico e l'isola di Delo. Durante la prima tappa è significativo l'incontro con un albero sanguinante, contenente "l'anima insepolta" di Polidoro (il figlio di Priamo e di Ecuba), fatto uccidere dall'avido Polimestore, il quale voleva impossessarsi delle sue ricchezze. Enea ordinò ai suoi compagni di provvedere alla tumulazione per il principe troiano, permettendogli così di poter accedere finalmente all'Ade. Nella seconda, invece, Enea chiese all'oracolo di Apollo quale fosse la nuova terra dove avrebbe dovuto portare i superstiti Troiani. Apollo rispose: "Cercate l'antica madre; qui la stirpe d'Enea dominerà su tutte le terre e su tutti i discendenti" (lat. "...antiquam exquirite matrem. Hic domus Aeneae cunctis dominabitur oris et nati natorum et qui nascentur ab illis"). Anchise, il padre di Enea, credette che la terra d'origine dei Troiani fosse l'isola di Creta da dove sarebbe partito il capostipite Teucro. Perciò Enea col padre e i Troiani si reca a Creta e fonda una città; ma qui gli dèi Penati di Troia apparvero in sogno all'eroe spiegandogli che l'"antica madre" non era Creta, ma la (misteriosa) città di Corythus in Italia (variamente identificata con diverse città etrusche; l'identificazione con Cortona risale a Silio Italico, 4.718-21 e 5.123): "lì nacque Dardano da cui deriva la nostra stirpe" (vv. 161-171). Enea approdò poi nelle isole Strofadi dove venne perseguitato dalle Arpie che le abitavano. Qui l'Arpia Celeno gli profetizzò che sarebbe arrivato in Italia ma per la fame avrebbe dovuto mangiare anche le "mense". Un altro luogo dove poi s'era recato Enea era stato Butroto nell'Epiro (nell'odierna Albania), una città costruita da profughi a somiglianza di Troia. Qui aveva incontrato Andromaca, moglie di Ettore, che aveva ancora una volta pianto con lui per aver perduto il suo eroico marito e il suo figlio, Astianatte. Enea incontrò anche il nuovo sposo della donna, Eleno figlio di Priamo, dotato del dono della profezia. Per suo tramite, Enea ebbe conferma che doveva recarsi in Italia. Eleno gli consigliò anche di recarsi a Cuma dalla famosa Sibilla. Enea aveva così lasciato Butroto rimettendosi in mare. Superate le insidiose Scilla e Cariddi e sbarcato con la flotta in Sicilia, scampò con i suoi uomini a un attacco del ciclope Polifemo, salvando anche Achemenide, un superstite compagno di Ulisse. Ripreso il mare, nel corso della navigazione, Enea e i suoi giunsero a Drepano (l'odierna Trapani). Qui morì Anchise, il padre di Enea, stremato da tanti viaggi. Stavano dirigendosi verso il Lazio quando Giunone fece scatenare la tempesta che li avrebbe poi portati a Cartagine.

GLI ENEIDI ESULI
Dopo che piacque ai celesti distruggere la potenza dell'Asia
e il popolo incolpevole di Priamo, e la superba Ilio
cadde e tutta la nettunia Troia a terra fuma,
siamo costretti dai presagi degli dei a cercare diversi esili
e terre deserte, e costruiamo la flotta sotto la stessa
Antandro e i monti del frigio Ida,
incerti dove i fati portino, dove sia dato fermarci,
e raccogliamo uomini. Era appena iniziata la prima estate
e il padre Anchise ordinava di dare le vele ai fati,
quando piangendo lascio i lidi e i porti della patria
e le piane dove fu Troia. Esule son portato in alto mare
coi compagni e col figlio e i grandi dei penati.

L'OMBRA DI POLIDORO
Una terra sacra a Marte lontano dalle vaste pianure è abitata,
l'arano i Traci, governata un tempo dal duro Licurgo,
antica ospitalità e penati alleati di Troia
finchè ci fu fortuna. Son portato qui e sul lido ricurvo
fondo le prime mura, entrato con fati avversi,
e dal mio nome formo il nome di Eneadi.
Portavo doni dacri alla madre dionea ed ai divini
auspici delle imprese iniziate, e al celeste re
dei celesti offrivo un toro splendente sul lido.
C'era per caso un'altura, sulla cui sommità virgulti
di corniolo e un mirto irto di fitte lance.
Mi avvicinai tentando di strappare da terra una verde
pianta, per coprire di rami frondosi gli altari,
e vedo un prodigio spaventoso e mirabile a dirsi.
Infatti la pianta che per prima, rotte le radici,
è divelta, a questa si sciolgono gocce di nero sangue
e macchiano la terra di marcio. Un freddo fremito
mi scuote le membra e il sangue gelido scorre con terrore.
Di nuovo proseguo a strappare il flessibile rametto di un'altra
e scoprire del tutto le cause latenti;
nero sangue esce anche dalla corteccia dell'altra.
Meditando molto in cuore veneravo le Ninfe agresti
e il padre Gradivo, che protegge i campi getici,
favorevolmente assecondassero le visioni e togliessero il presagio.
Ma dopo che con maggior sforzo afferro il terzo rametto
e con le ginocchia lotto con la sabbia avversa,
- parlare o tacere?- si sente dalla profondità dell'altura
un gemito lacrimevole e la frase data sale alle orecchie:
"Perchè, Enea, torturi un infelice? risparmia un sepolto,
risparmia di macchiare le pie mani. Troia non mi pose
estraneo a te o questo sangue non emana da un legno.
Ahimè fuggi terre crudeli, fuggi un lido avido:
io son Polidoro. Qui trafitto mi coprì una messe ferrea
di dardi e crebbe in acute lance."
Allora davvero oppressa la mente da dubbioso terrore
stupii si drizzarono i capelli e la frase si bloccò nella gola.
Questo Polidoro un tempo lo sventurato Priamo
l'aveva affidato da crescere al re tracio di nascosto
con una gran quantità d'oro, diffidando ormai per le armi
della Dardania e vedendo che la città era cinta d'assedio.
Quello, come furon rotte le forze dei Teucri e la fortuana
andata, seguendo le sorti d'Agamennone e le armi vincitrici
rompe ogni norma: sgozza Polidoro e s'impossessa dell'oro
con la violenza. A cosa non spingi i cuori mortali,
maledetta fame di oro. Dopo che la paura lasciò le ossa,
riferisco i prodigi degli dei ai capi scelti del popolo e prima
al padre, e chiedo quale sia il parere.
Per tutti una sola volontà, andarsene dalla terra scellerata,
lasciare l'ospitalità macchiata e dare gli Austri alle flotte.
Così celebriamo il funerale per Polidoro, e molta
terra si raccoglie per il tumulo; per i Mani si ergon gli altari
tristi per le fosche bende ed il nero cipresso,
e le Iliadi attorno secondo il rito, sciolte la chioma;
offriamo vasi spumanti di tiepido latte
e tazze di sangue sacro, copriamo l'anima col sepolcro
e lo chiamiamo per l'ultima volta a gran voce.


L'ORACOLO DI APOLLO
Poi quando c'è la prima fiducia nel mare e i venti
rendono le acque placate e il leggero Austro crepitando
invita al largo, i compagni traggono le navi e riempion la riva;
ci allontaniamo dal porto e terre e città si ritirano.
In mezzo al mare giace una terra sacra molto gradita
alla madre delle Nereidi e a Nettuno egeo,
che il dio arciere legò a Micono, poichè errava
attorno a lidi e spiagge dall'alta Giaro,
concesse che immobile fosse coltivata e disprezzasse i venti.
Qui son portato, questa placidissima ci accolse stanchi
nel porto sicuro; usciti veneriamo la città di Apollo.
Il re Anio, lo stesso re di persone e sacerdote di Febo,
coronato le sacre tempia di bende e d'alloro
accorre; riconobbe il vecchio amico Anchise.
Giungiamo le destre per l'ospitalità ed entriam nelle case.
Veneravo i templi del dio costruiti su antica roccia:
"Dà una casa propria, Timbreo; agli stanchi dà le mura
e una stirpe e una città duratura; serba la seconda Pergamo
di Troia, i resti dei Danai e del crudele Achille.
Chi seguiamo? o dove comandi d'andare? dove porre le sedi?
Dà, padre, un presagio e penetra nei nostri cuori."
Avevo appena detto così: si vide tutto tremare,
le soglie e l'alloro del dio, muoversi tutto attorno
il monte e mugghiare il tripode, squarciati i penetrali.
Inchinati ci volgiamo a terra e una voce si sente alle orecchie:
"Dardandi duri, la terra che per prima vi creò dalla stirpe
dei padri, la stessa vi accoglierà reduci
nel fertile seno. Ricercate l'antica madre.
Qui la casa d'Enea dominerà tutte le spiagge
e i figli dei figli e chi nascerà da essi."
Così Febo; nacque una enorme gioia con unito
tumulto, e tutti chiedon quali sian quelle mura,
dove Febo chiami gli erranti e ordini che tornino.
Allora il padre meditando i ricordi degli uomini antichi
"Udite, o capi, dice, e imparate le vostre speranze.
Creta, isola del grande Giove, giace in mezzo al mare,
dove è il monte ideo e culla del nostro popolo.
Abitano cento grandi città, regni ricchissimi,
Donde il massimo padre, Teucro, se ricordo bene le storie,
fu prima condotto nelle spiagge retee,
e vi volle la sede per il regno. Non erano ancora fondate Ilio
e le rocche pergamenee; abitavan in fondo alle valli.
Di qui la madre abitatrice di Cibelo ed i bronzi coribantici
ed il bosco ideo, di qui i fidati silenzi per i riti,
ed i leoni aggiogati si sottoposero al cocchio della padrona.
Perciò coraggio, dove gli ordini degli dei guidano, seguiamo:
plachiamo i venti e cerchiamo i regni di Cnosso.
Non distano lunga rotta: solo Giove ci assista,
la terza luce porterà la flotta sulle spiagge cretesi."
Detto così, immolò sugli altari giuste vittime,
un toro a Nettuno, un toro a te, splendido Apollo,
una nera agnella a Tempesta, agli Zefiri propizi una bianca.


LA PESTILENZA
Vola la fama che il capo Idomeneo cacciato sia partito
dai regni paterni e deserti i lidi di Creta,
la casa manca di nemico e le sedi lasciate aspettano.
Lasciamo i porti di Ortigia e voliamo sul mare
e passiamo Nasso percorsa da Bacco sui gioghi e la verde Danusa,
Olearo e la nivea Paro e le Cicladi sparse pel mare,
e i flutti spinti da terre frequenti.
S'alza il grido marinaresco con vario scontro:
i compagni esortano a cercare Creta e gli antenati.
Il vento sorgente da poppa asseconda i partenti,
e finalmente accostiamo alle antiche spiagge dei Cureti.
Quindi avido costruisco le mura della città bramata
e la chiamo Pergamo ed esorto il popolo, lieto per il nome
ad amare i focolari e innalzare sopra i tetti la rocca.
E ormai quasi le poppe eran tirate sul secco lido,
la gioventù intenta a nozze e campi nuovi,
davo leggi e case, quando d'improvviso giunse una peste, corrottasi
la regione del cielo, funesta e miserevole per i corpi,
gli alberi e i seminati annata mortale.
Lasciavano le dolci vite o trascinavano malati
i corpi; allora Sirio bruciaca gli sterili campi,
le erbe inaridivano e la messe malata rifiutava il nutrimento.
Di nuovo il padre esorta, ripassato il mare, ad andare
da Apolo e dall'oracolo di Ortigia ed invocare perdono,
quale fine porti alle deboli sorti, donde ordini di provare
l'aiuto delle fatiche, dove volger la rotta.


I SACRI PENATI
Era notte e il sonno in terra possedeva i viventi:
le statue sacre degli dei e i penati frigi, che con me
avevo tratto da Troia di mezzo alle fiamme,
sembrarono davanti agli occhi giacenti nel sonno
ergersi chiari nella forte luce, dove la luna piena
si spandeva attraverso le finestre aperte;
allora così parlavano lenivano gli affanni con queste frasi:
"Quello che Apollo sta per dirti, giunto ad Ortigia,
qui predice ed ecco in più invia noi alle tue porte .
Noi dopo aver seguito te e le tue armi,
noi dopo aver percorso il rigonfio mare con le flotte sotto di te,
proprio noi innalzeremo alle stelle i nipoti venturi
e daremo il potere alla città. Tu prepara mura grandi
ai grandi cose non lasciare la lunga fatica della fuga.
Le sedi son da cambiare. Il delio non ti consigliò questi
lidi o Apollo comandò di fermarti a Creta.
C'è un luogo, i Greci lo chiamano col nome di Esperia,
terra antica, potente per armi e ricchezza di terra;
gli uomini Enotri la abitarono; ora è fama che i discendenti
abbiam chiamato Italia il popolo dal nome del capo.
Queste per noi le sedi proprie, di qui è nato Dardano
e il padre Iasio, da questo principe la nostra stirpe.
Orsù alzati e lieto riferisci al vecchio padre queste frasi
da non dubitare: e Corito cerchi le terre
ausonie; Giove ti rifiuta i campi dittei."
Attonito per tali visioni e richiamo degli dei
- nè quello era sonno, ma mi sembrava riconoscere
i volti e le chiome velate e i volti presenti-
allora un gelido sudore emanava da tutto ilcorpo
strappo dai letti il corpo e tendo supine al cielo
le mani con invocazione e libo sui fuochi
dono inviolati. Lieto per l'offerta compiuta
rendo informato Anchise e per ordine espongo la cosa.
Riconobbe la duplice prole e i due padri,
e che s'era ingannato per il nuovo errare dei luoghi.
Allora ricorda: "Figlio, tormentato dai fati iliaci,
la sola Cassandra mi prediva tali sorti.
Ora riconosco che prediceva queste cose dovute alla nostra stirpe
spesso nominava l'Italia, spesso i regni italici.
Ma chi poteva credere che i Teucri sarebbero giunti ai lidi
d'Esperia? o chi la profetessa Cassandra poteva convincere?
Cediamo a Febo e istruiti seguiamo segni migliori".
Così dice e tutti festanti obbediamo al discorso.
Lasciamo anche questa sede e, lasciati pochi,
diamo le vele e con il cavo legno corriamo il vasto mare.


LA FURIOSA TEMPESTA

Dopo che le barche presero il largo e non appare più
alcuna terra, e cielo ovunque e ovunque mare,
allora mi sovrastò sul capo una livida pioggia
portando notte e tempesta e l'onda inorridì per le tenebre.
Subito i venti sconvolgono il mare e grandi ondate
sorgono, dispersi siamo sbattuti nel vasto gorgo;
i nembi avvolsero il giorno e l'umida notte tolse
il cielo, squarciate le nubi, i fulmini raddoppiano,
siamo deviati dalla rotta ed erriamo sulle cieche onde.
Lo stesso Palinuro dice di non distinguere giorno e notte
nel cielo e di non ricordare la via in mezzo all'onda.
Così per tre interi soli nella cieca caligine
erriamo pel mare, altrettante notti senza stella.
Al terzo giorno finalmente dapprima fu vista ergersi
la terra, lontano aprirsi i monti e alzarsi il fumo.
Cadono le vele, ci drizziamo sui remi; non un indugio,
i marinai sforzandosi muovono spume e spazzano le livide onde.


LE TERRIBILI ARPIE
Anzitutto mi accolgono, salvato dalle onde, i lidi
delle Strofadi. Le isole dette Strofadi dal nome greco
stanno nel grande Ionio, che la crudele Celeno
e le altre Arpie abitano, dopo che fu chiusa la casa di
Fineo e per paura lasciarono le prime mense.
Non c'è mostro più funesto di quelle, nè alcuna peste
peggiore e ira degli dei si alzò dalle onde stigie.
Virginei volti di uccelli, fetidissimo flusso
di ventre e mani uncinate e facce sempre pallide
per fame.
Come qui portati entrammo nei porti, ecco
vediamo grassi armenti di buoi qua e là nelle piane
e un gregge di capre tra l'erba senza custode.
Ci buttiamo col ferro e invochiamo gli dei e lo stesso
Giove per la parte e il bottino; poi sulla spiaggia ricurva
collochiamo letti e banchettiamo con cibi abbondanti.
Ed improvvise con orribile volata dai monti le Arpie
si presentano e scuotono le ali con grandi schiamazzi,
saccheggian le vivande e coll'immondo contatto sporcano
tutto; poi lo stridio crudele tra l'orribile odore.
Di nuovo in un lungo riparo sotto una rupe incavata
[chiusa attorno da alberi ed ombre raggelanti]
prepariamo le mense e poniamo sugli altari il fuoco.
Di nuovo da parte diversa del cielo e da ciechi nascondigli
la turba rimbombante vola attorno alla preda con zampe adunche,
con la bocca sporcò i cibi: allora ordino ai compagni che prendano
le armii, e la guerra è da combattere con gente crudele.
Non diversamente dall'ordine agiscono e dispongono per l'erba
le spade coperte e nascondono gli scudi latenti.
Perciò quando scendendo fecero un frastuono lungo i lidi
ricurvi, Miseno dà il segnale dall'alta vedetta
col bronzo cavo. I compagni attaccano e tentano strani scontri,
colpire col ferro gli orribili uccelli del mare.
Ma non ricevono alcun colpo alle penne ne ferite
al dorso, e con celere fuga volando sotto le stelle
lasciano semidivorata la mensa e orme schifose.
Sola Celeno si fermò su altissima rupe,
funesta indovina, esplode dal petto questa frase:
"Pure una guerra, Laomenziadi, vi prepate forse a scatenare
oltre la strage di buoi e giovenchi ammazzati, una guerra,
e cacciare dal regno paterno le incolpevoli Arpie?
Accoglietele dunque ficcate in cuore queste mie parole,
che il padre onnipotente predisse a Febo, e Apollo Febo
a me, io la più grande delle Furie ve le svelo.
Cercate con la rotta l'Italia e la invocate coi venti:
andrete in Italia e sarà permesso entrare nei porti.
Ma non cingerete con mura la città data prima che
la fame crudele e l'offesa del nostro attacco
vi costringa per i mali a consumare le mense divorate."
Disse, e levatasi con le ali si rifugiò nella selva.
Ma per la paura il sangue si ghiacciò
ai compagni: i cuori crollarono, nè più ormai con armi,
ma con voti e preghiere esigono di chiedere pace,
sia che siano dee che orribili e crudeli uccelli.
E il padre Anchise, stese le palme, dal lido
chiama le grandi potenze e indice riti dovuti:
"O dei, allontanate le minacce; dei, togliete tale sorte
e voi, sereni, salvate i pii."Poi ordina di levare la fune
dal lido e allentare le corde srotolate.
I Noti tendono le vele: fuggiamo sulle onde spumeggianti,
dove e vento e nocchiero chiamava la rotta.

arpie
Arpie di G. Dorè


UNA SOSTA AD AZIO
Ormai in mezzo al mare appare Zacinto selvosa
e Dulichio e Same e Nerito scoscesa di rocce.
Sfuggiamo gli scogli di Itaca, regni laerzii,
e malediciamo la terra nutrice del crudele Ulisse.
Subito e le piovose cime del monte Leucate
e si apre Apollo temuto dai marinai.
Stanchi lo cerchiamo e ci avviciniamo alla piccola città;
l'ancora è gettata da prora, le poppe stanno sul lido.
Impadronitici finalmente della terra insperata
ci purifichiamo per Giove e incendiamo gli altari di voti,
e festeggiamo i lidi di Azio coi giochi iliaci.
I compagni spogliati, scorrendo l'olio, praticano i giochi padri: è bello aver superato tante città
argoliche e aver affrontato la fuga in mezzo ai nemici.
Intanto il sole compie il giro di un lungo anno
e il glaciale inverno con gli Aquiloni inasprisce le onde.
Attacco sui battenti anteriori lo scudo di cavo bronzo,
armamento del grande Abante, e segno il fatto con un verso:
Enea (offre) queste armi (tolte) ai Danai vincitori.
Poi ordino di lasciare i porti e sedere sui banchi.
A gara i compagni battono il mare e spazzano le piane:
subito lasciamo le aeree rocche dei Feaci,
raggiungiamo i lidi dell'Epiro ed entriamo nel porto
caonio e ci avviciniamo alla eccelsa città di Butroto.

ANDROMACA ED ELENO
Qui un'incredibile fama mi riempie le orecchie,
che il priamide Eleno regna in città greche
impadronitosi delle nozze e degli scettri dell'eacide Pirro,
e che Andromaca è passata di nuovo a un marito della patria.
Stupii, il cuore acceso da singolare amore
di parlare all'uomo e conoscere sì grandi sorti.
Avanzo dal porto lasciando flotte e lidi,
quando per caso Andromaca libava alle ceneri vivande e tristi doni davanti alla città in un bosco alla riva
d'un falso Simoenta ed invocava i Mani
presso il tumulo di Ettore, che vuoto aveva consacrato
con verde zolla e due altari, motivo per le lacrime.
Come mi osservò arrivare e fuor di sè vide attorno
le armi troiane, atterrita per le garndi visioni
sbiancò in mezzo al volto, e il calore lasciò le ossa.
Sviene e a stento finalmente dopo lungo tempo parla:
"Ti presenti a me come vera forma, vero nunzio,
figlio di dea? sei forse vivo? o se la grande luce fuggì,
Ettore dov'è?" disse e versò lacrime e riempì
tutto il luogo di pianto. A stento rispondo poche parole
a lei che freme e turbato parlo con poche parole:
"Vivo certamente, ma conduco una vita ai limiti estremi;
non dubitare, infatti vedi cose vere.
Ahimè, quale sorte ti accoglie, privata di sì grande
marito, o quale fortuna abbastanza degna ti visitò,
o Andromaca di Ettore? serbi forse le nozze di Pirro?"
Abbassò il volto e a voce bassa parlò:
"O sola fra le altre felice vergine priamea,
obblifgata a morire sotto le alte mura di Troia
presso il tumulo nemico, che non soffrì nessun sorteggio
nè prigioniera toccò il letto del padrone vincitore.
Noi, incendiata la città, condotte per diversi mari
costrette alla schiavitù sopportammo l'orgoglio
e il superbo giovane della stirpe achillea; ma lui poi
seguendo Ermione ledea e nozze lacedemonie
lasciò me schiava da possedere allo schiavo Eleno
ma lo coglie, incauto, Oreste infuriato per il grande amore della moglie strappata e scosso dalle furie
dei delitti e lo sgozza presso gli altari paterni.
Per la morte di Neottolemo una parte fatta dei regni
passò ad Eleno, che chiamò caonie le piane
e tutta la Caonia dal nome troiano di Caone,
e aggiunse sulle cime questa Pergamo, rocca iliaca.
Ma te quale rotta diedero i venti, quali fati?
o quale dio spinse alle nostre spiagge te ignaro?
E il piccolo Ascanio? vive forse e si pasce dell'aria?
chi ormai da Troia ti ...
che amore c'è nel bambino della madre perduta?
forse che il padre Enea e lo zio Ettore lo spinge
all'antico eroismo e al coraggio virile?"
Così prorompeva piangendo e invano faceva lunghi
lamenti, quando dalle mura l'eroe priamide Eleno,
accopagnandolo molti, si presenta,
e riconosce i suoi e lieto li conduce alle porte,
e versa lacrime, molto, tra le singole parole.
Avanzo e riconosco una piccola Troia e Pergamo
imitante la grande e un ruscello secco col nome
di Xanto, ed abbraccio le soglie della porta Scea.
Anche i Teucri insieme godono della città alleata.
Il re li accoglieva in ampli porticati:
in mezzo alla sala libavano coppe d'oro di Bacco,
apparecchiate vivande e tenevano tazze.

andromaca
Andromaca piange Ettore. Dipinto di J. L. David

LE PROFEZIE DI ELENO
Ed ormai un giorno e altro giorno passò, i venti
chiaman le vele e la tela si gonfia del ricco Austro:
avvicino il vate con queste parole e così prego:
" Figlio di Troia, interprete degli dei, che le potenze
d'Apollo, che i tripodi e i lauri di Clario, che le stelle senti
e i linguaggi degli uccelli e i presagi del rapido volo,
orsù parla, infatti ogni auspicio favorevole predisse
la rotta, e tutti gli dei col volere consigliarono
cercare l'Italia e tentare terre remote;
l'arpia Celeno unica profetizza un prodigio funesto
a dirsi e annuncia tristi ire e una fame
tremenda, quali pericoli evito per primi?
e in che modo potrei superare sì grandi affanni?
Qui Eleno prima, uccisi i giovenchi, secondo il rito
invoca la pace degli dei e scioglie le bende
del sacro capo, e lui conduce, o Febo, per mano
alle tue porte me dubbioso per la immensa potenza,
e infine il sacerdote così profetizza dalla bocca divina:
"Figlio di dea, (infatti è chiara certezza che tu vai per mare
con maggiori auspici); così il re degli dei sorteggia i fati
e volle le vicende, questo piano si compie,
rivelerò tra molte parole poche cose, perchè più sicuro
possa visitare acque ospitali e fermarti
nel porto ausonio; le Parche impediscono che Eleno
sappia altro e la saturnia Giunone vieta di parlare.
All'inizio ti prepari a toccare l'Italia, che tu già
credi prossima, e i porti vicini, o ignaro,
una lunga via impervia lontano divide da lunghe terre.
C'è da piegare il remo in onda trinacria
e da visitare colle navi l'acqua del mare Ausonio, e i laghi infernali,
e l'sola eea di Circe, prima che tu possa
fondare su terra sicura una città.
Ti dirò il segnale, tu lo terrai serbato in mente:
quando davanti a te preoccupato presso l'onda di un fiume
ignoto una enorme scrofa trovata sotto gli elci del lido
giacerà avendo partorito trenta capi, bianca, sdraiata al suolo,
attorno alle mammele trenta piccoli bianchi,
quello sarà il luogo della città, quella la certa quiete degli affanni.
Tu non temere i futuri morsi delle mense:
i fati troveranno la via e Apollo invocato assisterà.
Ma fuggi queste terre e questa spiaggia del lido italo,
che vicino è bagnato dalla marea della nostra acqua;
tutte le mura sono abitate dai malvagi Greci.
Qui anche i Locri narici posero le mura
ed il lizio Idomeneo occupò le piane salentine
di soldataglia; qui è la piccola città del capo Melibeo
di Filottete, Petelia, è appoggiata al muro.
Anzi quando le flotte passate oltre le onde staranno
e fatti gli altari ormai scioglierai voti sul lido,
vela le chiome coperto di manto purpureo,
che non capiti qualche aspetto ostile e turbi gli auspici
tra i sacri fuochi nella cerimonia degli dei.
I soci mantengano questo rito, questo anche tu;
in questo cerimoniale restino puri i nipoti.
Ma quando il vento ti avrà spinto, partito, alla spiaggia
sicula e si apriranno i recinti dell'angusto Peloro,
da te la terra sinistra, le acque sinistre sian seguite
nel lungo circuito; fuggi il lido destro e le onde.
Raccontano che un tempo questi luoghi sconvolti da forza
e vasta frana (tanto una lunga vetustà di tempi può cambiare)
sussultarono, diventando subito le due terre
una sola: in mezzo venne con forza il mare e con le onde
troncò il lato esperio dal siculo, e bagnò con angusto
flusso i campi e le città separate dal lido.
Scilla occupa il lato destro, il sinistro l'implacabile
Cariddi, e nel profondo gorgo del baratro tre volte
risucchia i vasti flutti nell'abisso e di nuovo li scaglia
all'aria alterni e con l'onda sferza le stelle.
Ma una grotta costringe Scilla in ciechi nascondigli
scoprendo le bocche e trascinando le navi sulle rocce.
In alto volto di persona e ragazza dal bel petto
fino al pube, in basso mostro dal corpo enorme
unito con code di delfini a ventre di lupo.
Conviene percorrere le cime del trinacrio Pachino
scappando, e piegare attorno lunghe rotte,
che aver visto una volta sotto il vasto antro l'orribile
Scilla e le rocce risuonanti di lividi cani.
Inoltre, se il vate Eleno ha qualche saggezza,
se ha qualche fiducia, se Apollo gli empie l'animo di cose vere,
proclamerò una cosa a te, figlio di dea, una sola per tutte,
e riprendendola ancora e ancora esorterò,
adora anzitutto con supplica la maestà della grande Giunone,
a Giunone canta voti lieto e vinci la potente signora
con supplici doni: così finalmente vittorioso,
lasciata la Trinacria, sarai mandato sui territori itali.
Qui giunto come giungerai alla città di Cuma
e ai laghi divini ed all'averno risuonante di selve,
vedrai l'invasata profetessa, ai piedi d'una rupe
profetizza i fati e affida alle foglie segni e nomi.
Qualsiasi verso la vergine abbia scritto sulle foglie
li mette in ordine e li lascia chiusi nella grotta:
essi restano immobili al posto nè cambiano dall'ordine.
Ma quando una leggera brezza, giratosi il cardine, li
ha colpiti e la porta ha sconvolto le tenere fronde,
mai più si cura di prenderli, volando nella cava roccia
nè metterli a posto e unire i versi:
sconsiderati se ne vanno e odiano la casa della Sibilla.
Qui nessun dispendio di tempo ti sia di grande importanza,
anche se i compagni ti sgridino e con forza la rotta
chiami al largo le vele e possa saziare le pieghe favorevoli,
finchè non avvicini la profetessa e tu chieda con preghiere
che lei stessa pronunci gli oracoli e volente sciolga la voce
e le labbra. Ella ti spiegherà i popoli d'Italia e le guerre
future e come fuggire e sopportare ogni
affanno, e venerata darà rotte sicure
Queste son le cose che sia lecito consigliar con la nostra voce.
Orsù va' e con le imprese porta la grande Troia alle stelle".
Dopo che il vate pronunciò queste parole con volto amico,
ancora ordina che sian portate alle navi doni
pesanti di oro e d'avorio lavorato e stipa nelle carene
molto argento e catini dodonei,
una corazza intessuta a maglie e triplice d'oro,
e il cono di splendido elmo e creste frondeggianti,
armi di Neottolemo. Anche il padre ha i suoi doni.
Aggiunge cavalli, e aggiunge cocchieri,
completa il remeggio, e insieme fornisce i compagni di armi.

COMMIATO E PARTENZA
Frattanto Anchise ordinava di preparare la flotta
con remi, che non capitasse un ritardo al vento soffiante.
Il profeta di Febo lo saluta con molto onore:
"Anchise, degnato del superbo matrimonio di Venere,
attenzione degli dei, due volte strappato dai crolli pergamenei,
ecco a te la terra di Ausonia: prendila con le vele.
E tuttavia è necessario passarla oltre per mare:
quella parte d'Ausonia che Apollo apre lontano.
Va', dice, felice per la virtù del figlio. Perchè oltre
mi spingo e parlando freno gli Austri nascenti?"
Nè di meno Andromaca triste per l'estrema partenza
porta vesti tessute di trama d'oro
e per Ascanio una clamide frigia nè è inferiore di offerte
e carica di doni tessili e così dice:
"Accogli anche questi, che siano i ricordi delle mie mani,
fanciullo e attestino il grande amore di Andromaca,
sposa di Ettore. Prendi gli ultimi doni dei tuoi,
oh per me unica immagine del mio Astianatte.
Così gli occhi, così lui le mani, così il volto aveva;
e ora crescerebbe con te di pari età."
Costoro io partendo salutavo, rinate le lacrime:
"Vivete felici, voi la cui sorte è già
compiuta: noi siam chiamati in altre sorti.
Per voi nacque la pace: nessuna acqua di mare da solcare,
nè da cercare i campi d'Ausonia, sempre indietreggianti.
Voi vedete la vista dello Xanto e Troia,
che le vostre mani han fatto, prego con migliori
auspici e che sian stati meno buoni ai Greci.
Se mai raggiungerò il Tevere e i campi vicini del Tevere
e vedrò le mura date al mio popolo,
allora faremo le città gemelle e i popoli amici,
l'Esperia all'Epiro, per i quali lo tesso Padre Dardano
e le stesse sorti, (faremo) unica terra di cuori una e l'altra
Troia: tale premura conservi i nostri nipoti."


LA TERRA D'ITALIA

Siam portati per mare fino ai vicini Cerauni, da cui la strada e la rotta brevissima tra l'onde per l'Italia.
Intanto il sole cade ed i monti opachi si coprono d'ombra.
Ci stendiamo presso l'onda nel grembo della desiderata terra
sorteggiati i remi e qua e là sulla secca spiaggia
curiamo i corpi, il sonno irrora le stanche membra.
Nè ancora la Notte spinta dalle Ore affrontava metà del giro:
alacre Palinuro s'alza dal giaciglio ed esplora tutti i venti e coglie l'aria con le orecchie;
nota tutte le stelle correnti nel tacito cielo,
Arturo e le Iadi piovose ed i gemelli Trioni,
ed esamina Orione armato d'oro.
Dopo che vede stare tutto immutato nel cielo sereno,
dalla poppa dà il segnale squillante; noi muoviamo il campo
e tentiamo la via e apriamo le ali delle vele.
E ormai l'Aurora, fugate le stelle, rosseggiava,
quando lontano vediamo colli oscuri e bassa
l'Italia. Italia per primo grida Acate,
l'Italia salutano i compagni con lieto clamore.
Allora il padre Anchise rivestì fino all'orlo una grande
coppa e la riempì di vino, e invocò gli dei
stando sulla regia poppa:
"o dei potenti del mare e della terra e delle tempeste,
offrite col vento una via facile e soffiate favorevoli."
Le brezze bramate crescono ed ormai più vicino si apre
il porto, e sulla rocca appare il tempio di Minerva;
i compagni raccolgon le vele e girano le prore ai lidi.
Il porto curvato ad arco dal flutto orientale,
gli scogli pronunciati spumeggiano di spruzzo salmastro,
egli però si cela: gli scogli turriti slanciano braccia
con mura gemelle ed il tempio indietreggia dal lido.
Qui quattro, primo augurio, quattro cavalli vidi
brucanti la piana in largo, di niveo candore.
E il padre Anchise "Guerra, o terra ospite, porti:
i cavalli si armano per la guerra, questi armenti minacciano guerra. Ma pure un tempo abituati a sottomettersi al cocchio
i quadrupedi e portare col giogo i freni concordi:
speranza anche di pace" dice. Allora preghiamo le sacre potenze
di Pallade armisonante, che per prima ci accolse festanti,
e davanti agli altari ci veliamo col manto frigio,
e coi consigli di Eleno, che aveva dato importantissimi,
ritualmente bruciamo a Giunone ausonia le offerte destinate.


LA TERRA DEI CICLOPI
Nessun indugio, subito compiuti i voti per ordine
giriamo le punte delle antenne con vele,
e lasciamo le case dei Greci e i campi sospetti.
Di qui si vede il golfo di Taranto erculea, se è vera
la fama, davanti si leva la divina Lacinia,
e le rocche caulonie e lo Squillace navifrago.
Allora lontano dal flutto si vede l'Etna trinacria,
e sentiamo un grande sussulto del mare e le rocce battute
e lungi le voci rotte alle spiagge,
le secche sussultano e le sabbie son mischiate dalla marea.
Ed il padre Anchise: " Certamente è qui quella Cariddi:
Eleno profetizzava questi scogli, queste orrende rocce.
Toglietevi, compagni, e insieme alzatevi sui remi."
Non di meno comandati eseguono e per primo Palinuro
volse la prora stridente alle onde di sinistra;
tutto il gruppo con venti e remi si volse a sinistra.
Creatosi il gorgo, siam alzati al cielo e parimenti,
sottrattasi l'onda, sprofondammo in fondo ai Mani.
Tre volte gli scogli tra le cave rupi diedero fragore,
tre volte vedemmo la spuma scagliata e le stelle stillanti.
Frattanto il vento col sole ci lascia stanchi,
ignari della via scivoliamo alle spiagge dei Ciclopi.
Il porto stesso enorme e immoto dall'accesso dei venti:
ma vicino l'Etna con terribili scosse tuona,
talvolta esplode e nell'aria una nube nera
fumante di bufera di pece e di fiamma incandescente.
ed alza globi di fiamme e lambisce le stelle;
a volte solleva eruttando scogli e viscere del monte
strappate, e accumula rocce liquefatte sotto le brezze
con un gemito e ribolle fin dal massimo fondo.
E' fama che il corpo di Encelado semiarso dal fulmine
sia bloccato da questa mole e sopra l'ingente Etna
imposta dai rotti camini emetta la fiamma,
e ogni volta che muti il fianco stanco, tutta la Trinacria
trema con mormorio eintesse il cielo di fumo.

IL GRECO ACHEMENIDE
Quella notte coperti nei boschi sopportiamo orribili
prodigi, nè vediamo quale causa dia rumore.
Infatti non c'eran i fuochi degli astri nè il cielo lucido
di etere stellare, ma nubi nell'oscuro cielo,
e una notte fosca teneva la luna in un nembo.
Il giorno seguente sorgeva appena e l'Aurora
aveva cacciato dal cielo orientale l'umida ombra,
quando d'improvviso dai boschi una strana forma
colpita da estrema macilenza e miserabile d'aspetto,
di un uomo sconosciuto avanza e sulla spiaggia tende supplice
le mani. Lo osserviamo. Crudele sporcizia e barba incolta,
un vestiario tenuto da spine: ma per il resto greco,
e un tempo mandato a Troia in armi patrie.
Ma egli quando vide lontano aspetti dardanici
e armi troiane, un poco atterrito alla vista esitò
e trattenne il passo; poi a precipizio sul lido
si portò con pianto e preghiere: "Per le stelle scongiuro,
per i celesti e per questo respirabile luce del cielo,
prendetemi, Teucri, conducetemi in qualsiasi terra.
Questo basterà. So e confesso che io, uno delle flotte
danae con la guerra ho assalito i Penati iliaci.
E per questo, se sì grande è l'oltraggio del nostro delitto,
buttatemi tra i flutti e immergetemi nel vasto mare;
se muoio, sarà dolce esser morti per mani di uomini.
Aveva detto e abbracciate le ginocchia prostrandosi
si avvinghiava alle ginocchia. Esortiamo a dire chi sia, da quale
stirpe nato, a dichiarare quale sorte lo perseguiti.
Lo stesso padre Anchise, indugiando non molto, dà la destra
al giovane e rassicura l'animo con immediata garanzia.
Egli finalmente, deposta la paura, parla così:
"Sono di Itaca, mia patria, compagno dell'infelice Ulisse,
di nome Achemenide, partito per Troia, essendo il genitore
Adamasto povero, oh fosse rimasta la sorte.
Qui mi lasciarono i compagni, mentre impauriti abbandonavano
le crudeli soglie, immemori, nella vasta spelonca del Ciclope.
Una casa buia dentro, enorme, con marciume e cibi
insanguinati. Lui alto e tocca le stelle eccelse, o dei
allontanate tale peste dalle terre.
Nè gradevole alla vista nè cortese di parola con qualcuno;
si ciba delle viscere e del nero sangue di infelici.
Lo vidi io quando disteso in mezzo all'antro spaccava
con la grande mano due individui presi dal nostro gruppo,
e le porte s'inondavano di marciume spruzzato;
lo vidi quando mangiava le membra grondanti di nero.
Ulisse non sopportò tali cose
o si scordò di sè in sì grande pericolo.
Infatti, Polifemo, appena riempito di cibi e sepolto nel vino
posò il collo piegato e giacque per l'antro, immenso,
eruttando marciume e pezzi mescolati a vino insanguinato
nel sonno, noi, pregate le grandi potenze e
sorteggiate le parti insieme ci allarghiamo
attorno e trivelliamo con palo aguzzo l'enorme
occhio, che solo si celava sotto la fronte torva,
come scudo argolico lampada febea e finalmente
lieti vendichiamo le ombre dei compagni.
Ma fuggite, o miseri, fuggite e dal lido rompete
la fune.
Infatti tale e sì grande Polifemo chiude nel cavo
antro le lanute pecore e preme le mammelle,
e cento altri orrendi Ciclopi abitano presso questi curvi lidi in gruppo e vagano per gli alti monti.
Ormai tre corna della luna si riempiono di luce
da quando nei boschi tra deserte tane di belve e
vaste case trascino la vita e osservo dalla roccia
i Ciclopi e temo il rumore dei piedi e la voce.
I rami danno vitto sterile, bacche e dure cornie
e le erbe, strappate le radici nutrono.
Osservando tutto ho visto questa flotta
che giungeva ai lidi. Mi affidai a questa, qualunque
fosse stata: è sufficiente esser sfuggito a gente sacrilega.
Voi piuttosto toglietemi questa vita con qualsiasi morte."


POLIFEMO E I CICLOPI
Appena aveva così parlato che sulla sommità del monte
vediamo muoversi lo stesso Polifemo con la vasta mole,
pastore tra le pecore e dirigersi tra i lidi conosciuti.
Mostro orrendo, informe, enorme, cui era tolto l'occhio.
Un pino troncato guida la mano assicura le orme;
l'accompagnano pecore lanose; quella la sola passione
e consolazione del male.
Dopo che toccò i flutti profondi e giunse alle acque,
allora lavò il fluido sangue dell'occhio cavato.
Fremendo coi denti per il gemito, avanza poi in mezzo
all'acqua e neppure il flutto bagnò gli alti fianchi.
Noi trepidanti ci decidiamo ad accelerare la fuga di lì,
raccolto il supplice così benemerito e tagliare taciti
la fune, e chini sui remi vincenti le acque.
Sentì e al suon della voce volse le orme.
Ma poichè non è data alcuna possibilità d'afferraci con la destra
nè è capace inseguendo di eguagliare i flutti ionii
alza un urlo immenso, per cui il mare e tutte
le onde tremarono, profondamente atterrita è la terra
d'Italia e l'Etna nelle tortuose caverne mugghiò.
Ma il popolo dei Ciclopi chiamato dai boschi e dagli alti
monti corre ai porti e riempie le spiagge.
Vediamo i fratelli etnei ergersi con l'occhio invano
torvo che portavan le alte teste al cielo,
orrenda adunata: come quando coll'eccelsa cima
le aeree querce o i coniferi cipressi si alzarono,
alta selva di Giove o bosco di Diana.
Un'intensa paura ci muove rapidi ovunque a svolger
le sartie e tendere le vele ai venti favorevoli.
Ma gli ordini di Eleno avvertono che tra Scilla e Cariddi,
fra entrambe le vie in un piccolo intervallo recano a morte,
se non tengo la rotta: è sicuro dar le vele all'indietro.
Ma ecco Borea inviato dal piccolo stretto di Peloro
si presenta: oltrepasso le porte di viva roccia
di Pantagia, il golfo di Megara e Tapso distesa.
Achemenide, compagno di Ulisse infelice, mostrava
tali spiagge percorse riandandole a ritroso.

polifemo
Polifemo accecato


LA MORTE DEL PADRE ANCHISE

Di fronte al golfo sicanio giace, stesa davanti, un'isola contro
l'ondoso Plemurio; gli antichi diedero il nome
di Ortigia. E' fama che Alfeo, fiume dell'Elide,
avesse qui rese occulte le vie sotto il mare, egli ora,
Aretusa, sulla tua bocca si unisce alle onde sicule.
Obligati veneriamo le grandi potenze del luogo e di lì
supero il ricchissimo suolo dell'Eloro stagnante.
Di qui rasentiamo le alte rocce e le protese rupi
di Pachino e da lontano appare Camerina mai
autorizzata dai fati a muoversi, e i campi Geloi,
e la grandiosa Gela chiamata dal nome del fiume.
Di lì alta Agrigento mostra da lontano le grandissime
mura, un tempo fattrice di magnanimi cavalli;
e, dati i venti, lascio te, palmosa Selinunte,
e percorro le secche lilibee aspre per le cieche rocce.
Di qui mi accoglie il porto e la spiaggia che non dà gioia
di Drepano. Qui spinto da tante bufere di mare,
ahimè, perdo il padre, sollievo di ogni affanno e sorte,
Anchise. Qui, padre ottimo, mi abbandoni stanco, ahimè,
invano strappato da sì gravi pericoli.
Nè il vate Eleno, pur predicendo molte cose orrende,
mi predisse questi lutti, nemmeno la crudele Celeno.
Qui l'ultimo affanno, questa la meta delle lunghe vie,
di qui partito, un dio mi spinse alle vostre spiagge.
Così il padre Enea solo raccontava, tutti attenti,
i fati degli dei e rivelava le rotte.
Tacque infine e qui si fermò col racconto e la fine.

ANDROMACA

Andromaca (in greco antico: Andromáche, "colei che combatte gli uomini") è un personaggio della mitologia greca. Fu principessa di Tebe Ipoplacia. I miti e la tradizione hanno delineato un ritratto sconsolato, rammaricato ed eternamente perseguitato di Andromaca, una figura toccante per essere destinata a perdere tutti i suoi cari. In contrasto con la relazione tra Elena e Paride, quella tra Andromaca ed Ettore coincide con l'ideale greco di un matrimonio d'amore felice e di reciproca fedeltà, che intensifica la tragedia che condivideranno. Andromaca fu mandata dal padre a Troia per dare un erede a Ettore in un matrimonio combinato come era costume ai tempi, ma subito se ne innamorò. In altre fonti fu Ettore stesso ad andare a Tebe, portandole numerosi doni e chiedendole la mano. La figura di Andromaca compare per la prima volta nell'Iliade (libro VI), mentre scongiura il marito Ettore di combattere rimanendo sulla difensiva contro Achille e di fermarsi all'albero di caprifico (fico selvatico), nel punto in cui le mura di Troia sono più deboli, ma egli riesce a farla desistere dai suoi intenti, ricordandole il suo ruolo di sposa e di madre, e di non abbattersi e lasciare le faccende riguardanti la guerra a lui, poiché Ettore, in qualità di principe ereditario, è costretto a combattere. Circa un anno dopo il suo arrivo a Troia, un'incursione achea contro gli alleati d'Ilio le aveva sterminato il padre Eezìone e tutti i fratelli maschi a eccezione di Pode. La casata di Priamo divenne quindi il suo unico supporto e la sua unica famiglia a cui far riferimento. Andromaca perse nel giro di pochi giorni sia Pode che Ettore, uccisi nel decimo anno della guerra di Troia rispettivamente da Menelao e Achille, ma le sue tragedie continuarono anche dopo che gli Achei conquistarono la città: il figlio Astianatte le fu strappato da Neottolemo, che seguendo il consiglio di Odisseo lo gettò dalle mura della città per evitare che la stirpe di Priamo avesse una discendenza. Una volta che la città fu rasa al suolo, gli Achei si spartirono le donne della casa reale ed Andromaca fu fatta schiava di Neottolemo che fece di lei la sua concubina. Ma Andromaca non dimenticò mai l'amore che provava per Ettore, e questo generò in Neottolemo una grande rabbia. La bellezza di Andromaca scatenò anche la gelosia di Ermione, la promessa sposa di Neottolemo. Dopo che fu abbandonata da Neottolemo sposò Eleno e divenne madre di Cestrino. Nell'Eneide virgiliana Enea incontra Andromaca che ha ritrovato la pace elevando un cenotafio al defunto Ettore e sposando in terze nozze Eleno, il fratello indovino di Ettore, che regna sulla rocca di Butrinto. Gli esuli vi hanno costruito una piccola Troia per ritrovare quella patria e quella famiglia dalla quale le vicende di una rovinosa guerra li avevano allontanati con violenza. Nella tragedia di Jean Racine Andromaca, il mito di Andromaca ritrova la sua etica e il suo lirismo.

ARPIE

Le Arpie, figlie di Tautamante, nato da Ponto (il mare), e di Elettra, ninfa generata da Oceano, erano creature mostruose, rappresentate come uccelli con la testa di donna oppure come donne con le ali, ma comunque sempre provviste di robusti artigli e contraddistinte da un aspetto ripugnante. Il loro nome, Hàrpyia, significa “ladre”, “rapitrici”: erano, infatti, considerate responsabili di tutto ciò che scompare ed erano “coloro che strappano la vita”, tanto da essere raffigurate sulle tombe mentre ghermivano con i loro artigli e portavano via anime e bambini. I nomi propri che le contraddistinguono sono significativi della loro particolare natura e ricordano che esse sono personificazioni dei venti selvaggi e impetuosi: il nome Aello significa “urlo” e anche “burrasca”; Ocipete è colei “che vola veloce”; Celèno vuol dire “oscura”, come il cielo attraversato da nuvoloni temporaleschi; infine Podarge, una quarta arpia che compare in alcune tradizioni, è la “più veloce”. Dall’unione di Podarge con Zefiro, un dio-vento, nacquero Xanto e Ballo, i divini cavalli di Achille, dono di nozze degli dèi al padre Peleo, cavalli che erano veloci, appunto, “come il vento”. Le Arpie avevano generato anche Flogeo e Arpago, i cavalli dei Dioscuri (Castore e Polluce), figli di Zeus e Leda e quindi fratelli di Elena e Clitennestra. Il più celebre mito che riguarda le Arpie è legata alla storia di Fineo, un re della Tracia con il dono della divinazione. Si racconta che Fineo avesse provocato la collera degli dèi, che incaricarono le Arpie di punirlo. Così le Arpie presero a tormentare il re, rapendo tutto ciò che egli poneva davanti a sé, soprattutto il cibo, o insozzando con i loro escrementi quello che non riuscivano a portare via. Quando gli Argonauti e Giasone, prima di intraprendere la spedizione nella Colchide, si recarono presso Fineo per avere indicazioni sul viaggio, questi si dichiarò disponibile a profetizzare loro il futuro purché lo liberassero dal flagello delle Arpie. Zeto e Calai, i due figli alati di Borea (un altro vento) che facevano parte della spedizione di Giasone, inseguirono queste orrende creature fino alle Echinadi, un gruppo di isole del mar Ionio. Qui Iride, la messagera degli dèi, li bloccò e li convinse a non ucciderle garantendo loro che, se avessero rinunciato a dare la caccia alle Arpie, queste avrebbero smesso di tormentare Fineo. I figli di Borea accettarono e tornarono indietro, e le isole Echinadi, in virtù di questo fatto, da allora si chiamarono Strofadi o “Isole del Ritorno”. In età ellenistico-romana esse furono accostate figurativamente alle Sirene e si riteneva che dimorassero nei giardini delle Esperidi o comunque nell’Estremo Occidente, in direzione del mondo infero. Virgilio cita le Arpie nel III Libro dell’Eneide, e così farà Dante nel Canto XIII dell’Inferno.

POLIFEMO

Omero narra che Ulisse, durante il suo lungo viaggio di ritorno dalla guerra di Troia, sbarcò nella Terra dei Ciclopi. Spinto dalla curiosità, Ulisse raggiunse la grotta del più terribile di tutti, Polifemo, dove lui e i suoi compagni vennero catturati dal gigante e furono, inoltre, mangiati e divorati sei uomini dei dodici scelti da Ulisse per esplorare l'isola. Intrappolato con i suoi compagni nella caverna del Ciclope, il cui ingresso era bloccato da un masso enorme, Ulisse escogitò un piano per sfuggire alla prigionia di Polifemo. Come prima mossa, egli offrì del vino dolcissimo e molto forte al Ciclope, per farlo cadere in un sonno profondo. Polifemo gradì così tanto il vino che promise a Ulisse un dono, chiedendogli però il suo nome. Ulisse, astutamente, gli rispose allora di chiamarsi "Nessuno"; "E io mangerò per ultimo Nessuno", fu il dono del ciclope. Dopodiché Polifemo si addormentò profondamente, stordito dal vino. Qui Ulisse mise in atto la seconda parte del suo piano. Egli infatti, insieme ai suoi compagni, aveva preparato un bastone di notevoli dimensioni ricavato da un ulivo che una volta arroventato fu piantato nell'occhio del Ciclope dormiente dai Greci. Polifemo urlò così forte da destare dal sonno i ciclopi suoi fratelli. Essi corsero allora alla porta della sua grotta mentre Ulisse e i suoi compagni si nascondevano vicino al gregge del ciclope Polifemo. I ciclopi chiesero a Polifemo perché avesse urlato così forte e perché stesse invocando aiuto, ed egli rispose loro che "Nessuno" stava cercando di ucciderlo. I ciclopi, pensandolo ubriaco, lo lasciarono allora nel suo dolore. La mattina dopo, mentre Polifemo faceva uscire il suo gregge per liberarlo, giacché lui non sarebbe stato più in grado di guidarlo, Ulisse e i suoi soldati scapparono grazie a un altro abile stratagemma, che faceva parte della terza parte del suo piano. Ognuno di loro si aggrappò infatti al vello del ventre di una pecora per sfuggire al tocco di Polifemo, poiché il Ciclope si era posto davanti alla porta della caverna, tastando ogni pecora in uscita per impedire ai Greci di fuggire. Ulisse, ultimo ad uscire dalla grotta, la fece aggrappato all'ariete più grande, il preferito del Ciclope. Accortosi della fuga dei Greci, Polifemo si spinse su un promontorio, dove, alla cieca, iniziò a gettare rocce contro il mare, nel tentativo di affondare la nave. Qui Ulisse commise un errore. All'ennesimo tiro a vuoto del Gigante, Ulisse, ridendo, ebbe a gridare: «Se qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, rispondi che non fu Outis ("Nessuno"), ma Ulisse d'Itaca!», rivelando così il suo vero nome. Polifemo, venuto allora a conoscenza dell'identità del Greco, ebbe a maledirlo, invocando il padre suo Poseidone e pregandolo di non farlo mai ritornare in patria. Polifemo è il protagonista dell'unico dramma satiresco a noi pervenuto, Il ciclope, di Euripide, dove viene caratterizzato in modo conforme al poema omerico, esagerando nei caratteri grotteschi e comici che già erano presenti nella Odissea. Nel III secolo a.C. Teocrito, nell'idillio XI, descrive Polifemo in un modo più amichevole e simpatico, dipingendolo con un carattere gentile, come innamorato non corrisposto di Galatea, per la quale intona un canto pastorale. Da Teocrito e dalla storia di Polifemo e Galatea riprendono lo spunto Metamorfosi di Ovidio, raccontando di Aci, un pastore siciliano innamorato della bella Nereide, ricambiati. Il ciclope Polifemo, che ama anch'egli la ninfa, venuto a sapere della storia, uccide con un grande masso Aci, dal cui sangue nascerà l'omonimo fiume siciliano. Il ciclope fa, poi, una brevissima apparizione nel terzo libro dell'Eneide. Enea e i suoi compagni sbarcano nell'isola dei ciclopi, dove sulla riva incontrano Achemenide, un compagno di Ulisse che non era riuscito a fuggire con lui; i Troiani fanno salire quindi Achemenide a bordo della loro flotta, proprio mentre Polifemo ha avvertito la loro presenza. Sin dall'antichità, i Greci situavano il paese dei Ciclopi in Sicilia, ai piedi dell'Etna, così come del resto attesta lo stesso Tucidide: «La più antica popolazione che la tradizione riconosce come aver vissuto una parte della Sicilia sono i Ciclopi». In effetti lo storico non fece altro che riprendere le conoscenze diffuse dai navigatori greci sin dai tempi delle prime spedizioni coloniali nell'VIII secolo a.C., conoscenze che riflettono la loro rappresentazione dei mari e delle terre occidentali. Di fronte alla "terra dei Ciclopi" Ulisse e i suoi uomini sbarcano su un'isola disabitata ma peraltro ricca di risorse: terre fertili, pascoli per il bestiame, colline per i vigneti, sorgenti di acqua limpida, porto naturale dal facile ancoraggio, senza ormeggio difficoltoso né manovre lunghe e delicate. Tutto questo sviluppo del poema dell'Odissea sembra progettato per suggerire come l'isola offra ogni possibile vantaggio per mercanti in cerca di approdi e punti vendita. Ellenisti e studiosi hanno dunque cercato di individuare quale fosse effettivamente il paese dei Ciclopi. I nomi che appaiono su tutte le carte marine ed i dati di navigazione situano il paese dei Ciclopi alle pendici dell'Etna, di fronte ai Faraglioni dei Ciclopi presso Aci Trezza. Molti studi permettono di assimilare il ciclope Polifemo a un vulcano dall'unico cratere tondeggiante, l'Etna: del resto, come il vulcano, Polifemo sprofonda nel sonno dopo un'eruzione e nei suoi terribili risvegli erutta e scaglia lontano massi e rocce. A sua volta Victor Berard, basandosi su una breve indicazione di Tucidide, situa la terra dei Ciclopi lievemente a nord di Napoli, laddove si trova l'isola di Nisida e, fra le scogliere di Posillipo, molte grotte servirono come abitazioni rupestri sino al ventesimo secolo. Una di queste grotte, particolarmente grande, erroneamente chiamata Grotta di Seiano, potrebbe essere, secondo l'ellenista, la grotta di Polifemo. Infine, fra le varie ipotesi, Ernie Bradford opta per l'arcipelago delle Egadi, composto da Marettimo, Favignana e Levanzo; su quest'ultima isola si trova la Grotta dei Genovesi, abitata sin dal Paleolitico e dal Neolitico. L'isola montagnosa di Marettimo in particolare, costellata di grotte, ha un aspetto piuttosto impressionante. Dinnanzi, sulla costa della Sicilia, le rovine dell'antica città di Erice attestano peraltro una presenza greca molto antica. Nessuna di queste tre differenti ipotesi si è tuttora affermata definitivamente. Vi sono però dei dati certi: dei navigatori Greci provenienti da Eubea, Calcide ed Aulide in Beozia dall'VIII secolo a.C. promuovono spedizioni coloniali verso le terre d'Occidente e arricchiscono il mito arcaico tramite le proprie effettive esperienze marittime; nel suo racconto, l'autore dell'Odissea arricchisce questa materia tramite una forma epica. Nella vicenda di Ulisse in quanto navigatore e del ciclope Polifemo in quanto luogo e popolazione locale si ritrova dunque una rappresentazione del mondo Mediterraneo e dei suoi confini, limiti e rischi, quali i Greci conoscevano nei secoli VII secolo a.C. e VI secolo a.C..

AUDIO 1-348

AUDIO 349-718

Eugenio Caruso - 16 - 03 - 2021

LOGO



www.impresaoggi.com