Dante Purgatorio Canto XXXI. Immersione nel Lete

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Canto XXXI del Purgatorio è diviso in due parti, la prima delle quali prosegue il dialogo iniziato fra Dante e Beatrice nell'episodio precedente (con nuove dettagliate accuse della donna, il pentimento e lo svenimento del poeta), mentre la seconda descrive l'immersione di Dante nel Lete e la sua presentazione a Beatrice, che si svela.
L'inizio è la ripresa della situazione finale del Canto XXX, con Beatrice che esorta duramente Dante a confessare le proprie colpe per completare il rito della purificazione: la confessione serve a ottundere la lama della giustizia divina, e a essa il poeta perviene non senza difficoltà, dapprima non riuscendo neppure a parlare e in seguito pronunciando alcune deboli parole, con le quali ammette di aver tradito la memoria di Beatrice morta per seguire beni terreni allettanti e ingannevoli, che lo distolsero dalla retta via (sono le imagini di ben... false già citate in XXX, 131 e che Beatrice poco oltre definirà serene, che col loro canto melodioso hanno irretito Dante sulla loro strada peccaminosa; cfr. anche XIX, 7 ss., il sogno della femmina balba).
Questi beni sono parte del cosiddetto traviamento di Dante, un peccato di natura morale e, forse, anche intellettuale che secondo Beatrice ha frapposto fossati e catene sulla strada del bene e che corrisponde probabilmente ad amori sensuali e terreni, come le sue successive parole sembrano dichiarare: nessuna donna mortale fu mai bella come lei quand'era in vita, quindi dopo la sua morte Dante non avrebbe dovuto subire il fascino di altre donne terrene, come invece avvenne a causa di una pargoletta, di una giovane e bella donna che lo fece innamorare di sé. È difficile ipotizzare chi fosse realmente costei (forse la «donna gentile», o la Petra, o la donna che con lo stesso senhal Dante canta nelle Rime), sempre che dietro di essa, come dietro la «donna gentile», non si celi il signifcato allegorico della filosofia, ma è chiaro che questa pargoletta ha deviato il volo di Dante verso il basso, proprio come un uccello che si è lasciato allettare da un'esca ed è caduto nella rete del cacciatore, cosa che a Dante non doveva succedere proprio perché la morte di Beatrice gli aveva dimostrato che la bellezza materiale è fugace e passeggera. Beatrice, in questo ambito, appare a noi lettori "superficiali" un po' velenosa, un po' gelosa e molto accigliata.
La metafora del fedele che, come un uccello, deve volare verso il Cielo e i suoi beni eterni e non lasciarsi irretire dagli allettamenti del mondo non è nuova (anche in XIV, 145-151 Virgilio paragona le lusinghe del demonio a un'esca che alletta gli uomini, mentre in XIX, 58 ss. le lusinghe del cielo sono dette il logoro, il richiamo che deve far volare alto il falcone); il richiamo di Beatrice fa il suo effetto e produce un acuto pentimento in Dante, che riconosce la sua donna più bella di quand'era in vita, più di quanto lo fosse rispetto alle altre donne, quindi prova sincera avversione verso ciò che lo aveva distolto dal suo amore per lei, da intendersi come un amore terreno o la ricerca filosofica in contrasto col significato allegorico di Beatrice-teologia.

lete 2
Immersione nel Lete di G. DORE'

Lo svenimento di Dante fa da cerniera tra le due parti del Canto, poiché al suo risveglio il poeta è immerso nel fiume sino alla gola, con Matelda che lo conduce all'altra sponda e lo costringe a bere l'acqua che cancellerà la memoria del peccato commesso. Ha inizio a questo punto un complesso rituale in cui, oltre a Matelda, entrano in scena le quattro donne che danzano alla sinistra del carro e alle quali Dante è affidato una volta uscito dall'acqua: esse rappresentano le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) e le loro parole confermano tale interpretazione, presentandosi al contempo come ninfe nell'Eden e stelle in cielo (le quattro stelle di I, 22 ss.) e dichiarando di essere state ancelle di Beatrice prima della sua nascita, quindi, fuor di metafora, di aver preparato il mondo all'avvento di Cristo e alla Rivelazione di cui Beatrice è allegoria.
Le quattro donne conducono Dante a lei perché possa guardarla negli occhi, ma per aiutarlo a questo interverranno le altre donne, simbolo delle virtù teologali (fede, speranza e carità) e che si mostreranno a Dante di più alto tribo, di una condizione più elevata in quanto sono le virtù direttamente infuse dalla Grazia divina nell'uomo redento, dopo che si è riappropriato di quelle cardinali con l'espiazione.
Dante fissa lo sguardo negli occhi di Beatrice paragonati a smeraldi, pietra che nei lapidari medievali rappresentava la giustizia: sono gli occhi da cui Amore lo ha trafitto quando la donna era in vita, e adesso vede riflessa in essi l'immagine del grifone, che raffigura Cristo e le cui due nature (umana e divina) si alternano nello sguardo di Beatrice. Il legame Beatrice-grifone si spiega in quanto la donna è allegoria della Verità rivelata e della Grazia, resa possibile in seguito all'avvento di Cristo, mentre già nella Vita nuova Beatrice era rappresentata con immagini cristologiche: Dante è quasi perso in quell'incredibile visione, quando le tre donne invitano Beatrice a svelarsi e a mostrare la propria accresciuta bellezza di beata al poeta, definito suo fedele in ragione del vincolo di vassallaggio amoroso che lo legava a lei in vita (e che ora, nell'Aldilà, è un amore spogliato di ogni connotazione materiale e terrena).
Il Canto si chiude con lo svelarsi di Beatrice, la cui bellezza è tale che la parola poetica di Dante è del tutto insufficiente a descriverla, con una situazione che tante volte si riproporrà nella rappresentazione del Paradiso (è la cosiddetta «poetica dell'inesprimibile», che nella III Cantica sarà riferita sia a Beatrice, sia alle bellezze eterne e ineffabili del Paradiso).

RIASSUNTO

Beatrice, continuando le accuse del canto precedente, riprende, ma questa volta rivolgendosi direttamente a Dante: «O tu che sei dall'altra parte del fiume sacro (il Lete) di', di' se questo è vero! Alla grave accusa che ti ho mosso dev'essere unita la tua confessione». Ma Dante a quest'accusa non riesce ancora a rispondere, e Beatrice insiste: «Rispondimi, poiché la memoria del male che hai fatto non è ancora cancellata dall'acqua del fiume». Allora la paura e la confusione spingono Dante a un misero "sì" che neanche si sente, ma si può intendere solo osservando il movimento delle labbra: per il peso della vergogna, il poeta scoppia in lacrime. Aggiunge Beatrice: «Mentre seguivi i desideri che ti avevo ispirato e che ti portavano ad amare il bene più alto al quale si possa aspirare, quali terribili ostacoli hai trovato che ti hanno fatto cadere la speranza? E quali vantaggi e guadagni ti si mostrarono negli altri beni (quelli falsi), tali che tu ti mettessi a seguire loro?». Dante sospira amaramente e con un filo di voce a stento risponde, tra le lacrime: «I beni del mondo mi hanno attirato con le loro false apparenze sviandomi, quando con la morte il vostro viso scomparve». Beatrice commenta: «La tua colpa è ben nota a Dio, e lo sarebbe anche se tu la tacessi o negassi. Tuttavia, quando il colpevole confessa, la giustizia del tribunale celeste diviene meno dura. Ma per potere in futuro resistere meglio alle attrattive fallaci, smetti di piangere e ascolta come la mia morte avrebbe dovuto indurti a seguire una via opposta a quella che hai percorso. Non ti è mai stata mostrata alcuna bellezza superiore a quella del mio corpo; se la mia morte ti ha dimostrato l'inconsistenza di quel bene terreno, quale altro bene poteva attirarti a sé? Avresti invece dovuto innalzare il tuo animo verso il cielo, seguendo me. Niente avrebbe dovuto appesantirti e piegarti a terra, né una giovane donna o altro piacere fuggevole. Se un uccellino implume deve subire due o tre insidie prima di riconoscere i pericoli, gli uccelli adulti sanno evitare i pericoli». Dante pieno di vergogna resta muto a occhi bassi; e Beatrice lo esorta a levare il viso, anzi «la barba» per soffrire anche di più. In quel riferimento alla barba Dante coglie l'allusione alla sua età ormai matura, e con grande sforzo alza il viso. A questo punto si accorge che gli angeli cessano di spargere fiori e con sguardo ancora incerto osserva Beatrice, che gli appare tanto più bella rispetto alla Beatrice vivente, quanto quest'ultima aveva superato ogni altra donna. Riconosce allora con profondo rimorso il proprio errore e cade svenuto. Quando torna in sé, Matelda è china su di lui e lo tiene stretto portandolo, immerso fino al collo nell'acqua del Lete, verso l'altra riva. Quando ormai è prossimo ad essa, Dante ode il canto degli angeli Asperges me (un versetto del Miserere): Matelda gli immerge il capo fino a fargli inghiottire l'acqua, poi lo solleva e lo fa entrate nel cerchio delle Virtù cardinali. Esse cantando dicono di essere ancelle di Beatrice, alla quale lo guideranno; ma presso di lei subentreranno le Virtù teologali. Lo conducono quindi davanti al grifone che simboleggia Cristo, vicino al quale si trova Beatrice. Con amore Dante guarda Beatrice, i cui occhi sono fissi nel grifone. L'immagine di questo si riflette negli occhi della donna trasformandosi (mostrando ora la natura divina ora quella umana). Rivelazione di Beatrice - vv. 127-145 Mentre Dante si nutre intensamente di questo cibo spirituale, le tre Virtù teologali si avvicinano danzando e cantano un'invocazione a Beatrice perché sia generosa verso chi come Dante ha sofferto tanto per arrivare a lei, e gli mostri senza alcun velo il suo sorriso. La vista dello splendore di Beatrice, manifestazione della luce di Dio, è tale da superare qualunque capacità espressiva e poetica. Il canto è interamente centrato sul personaggio Dante e può essere interpretato in stretto collegamento con i primi due canti dell'Inferno. All'inizio del poema Dante presenta se stesso in una condizione di gravissimo traviamento spirituale, dal quale viene salvato grazie all'intervento di Virgilio (Inferno, I), sollecitato da Beatrice (Inferno, II). Le cause e le manifestazioni di questa condizione di peccato non sono però rese esplicite; nel corso dell'opera e in particolare del Purgatorio si possono trovare indicazioni su peccati di superbia (canto XI), ma soltanto nella parte finale della cantica, ambientata nel Paradiso Terrestre, Dante-poeta rappresenta se stesso nell'atto di riconoscere l'errore che fu alla radice del suo grave traviamento. Alla morte di Beatrice, la guida spirituale che lo aveva fino ad allora sostenuto, egli fu attratto da beni provvisori e deludenti («o pargoletta / o altra novità con sì breve uso»). Si interpreta questa accusa di Beatrice come riferimento a un'altra donna, evidentemente meno significativa sul piano spirituale, (cfr. Le Rime, LXXXVII e LXXXIX) e ad esperienze intellettuali problematiche. Si può dunque notare un collegamento col tema dell'origine del peccato nel rapporto con i beni terreni, trattato ad esempio nel canto XIX; nel XXXI tuttavia si esce dal linguaggio simbolico o filosofico per dare al tema evidenza drammatica attraverso il colloquio diretto tra Beatrice e Dante. Esso segue una scansione liturgica (dalla contrizione del cuore, v.13 ss., all'aperta confessione, v.34 ss.) e contemporaneamente è permeato di elementi umani e psicologici: Dante piange, sospira, fatica ad ammettere in parole la propria colpa; di fronte a lui Beatrice appare severa, a tratti ironica nel rimproverarlo per una condotta non scusabile in persona matura. La seconda parte del canto (dal v. 76) riporta il lettore al contesto, ovvero a quella scena solenne e affollata di figure simboliche che si era presentata nel canto XXIX. Dante, sopraffatto dall'amore e dal pentimento, sviene; al suo riaversi, si rende conto di essere al centro di un rito di purificazione officiato da Matelda insieme alle Virtù cardinali e teologali. Egli contempla il grifone riflesso negli occhi di Beatrice e ne vede alternativamente le due nature, simbolo della natura divina e umana di Cristo. Solo a questo punto Beatrice rivela interamente il suo volto splendente. È significativo che la doppia natura di Cristo sia vista da Dante negli occhi di Beatrice: allo stesso modo avverrà, all'inizio del Paradiso, il «trasumanar» che rende possibile all'uomo Dante l'ingresso nel mondo celeste; in seguito gli occhi di Beatrice saranno il tramite per il progressivo innalzarsi di Dante. Il linguaggio è caratterizzato nella prima parte da un registro discorsivo, ricco di metafore che rappresentano i momenti psicologici; la seconda parte presenta uno stile più elevato e complesso, con pleonasmi («vincer», vv.83-84), iterazioni (v.93, 119, 133), similitudini (v.96, 118, 121).

cardinali
Le virtù cardinali


Note
- Al v. 4 sanza cunta vuol dire «senza indugio», dal lat. med. cuncta, attestato da Uguccione da Pisa.
- La similitudine ai vv. 16-21, variamente interpretata, indica che Dante parla debolmente perché oppresso da troppo dolore, come la balestra quando scocca la freccia con la corda troppo tesa, per cui la corda si spezza e la freccia giunge a bersaglio con poca forza.
- Il v. 42 indica che la giustizia divina diventa meno severa di fronte a una confessione, come la mola che smussa il filo della lama se si volge contro il taglio.
- I vv. 50-51 troveranno eco in Petrarca: cfr. Canzoniere, CXXVI, 2 (le belle membra), 34-35 (già terra in fra le pietre / vedendo).
- I vv. 61-63 indicano che un giovane uccellino può lasciarsi irretire dal cacciatore, ma quello adulto riesce ad evitare trappole e frecce scagliate a suo danno.
- Barba (v. 68) indica genericamente il mento, o il viso; Beatrice usa il termine in senso ironico, per indicare l'età adulta di Dante.
- Il vento indicato al v. 72 è il libeccio, che spira dall'Africa (la terra di Iarba, il re dei Getuli pretendente di Didone).
- Il v. 91 vuol dire che il cuore restituisce la virtù, la forza vitale, nelle membra esterne, quindi Dante rinviene (la fisiologia medievale riteneva che lo svenimento fosse causato dal riflusso di tutto il sangue al cuore).
- Al v. 96 scola vale «gondola», «barca leggera e piatta», da scaula che è parola attestata in area veneto-romagnola; meno probabile il significato di «spola», perché Matelda scivola a fior d'acqua e non va avanti e indietro.
- Il v. 98 cita un versetto del Salmo Miserere (L), che recita: Asperges me hyssopo, et mundabor; lavabis me, et super nivem dealbabor («Mi aspergerai con l'issopo e sarò puro; mi laverai e sarò più bianco della neve»).
- Al v. 117 ti trasse le sue armi vuol dire «ti lanciò i suoi dardi».
- Al v. 126 ne l'idolo suo indica «nella sua immagine riflessa», cioè negli occhi di Beatrice.
- Al v. 132 caribo indica probabilmente una danza.
- La seconda bellezza di Beatrice (v. 138) può indicare quella della bocca in aggiunta a quella degli occhi, ma forse è la bellezza sovrumana della donna non più mortale.
- Il v. 144 è stato variamente interpretato, benché il senso sia poco chiaro: forse vuol dire «là dove le sfere celesti con la loro armonia ti circondano».

teologali
Le virtù teologali del SASSETTA

TESTO

«O tu che se’ di là dal fiume sacro», 
volgendo suo parlare a me per punta, 
che pur per taglio m’era paruto acro,                              3

ricominciò, seguendo sanza cunta, 
«dì, dì se questo è vero: a tanta accusa 
tua confession conviene esser congiunta».                  6

Era la mia virtù tanto confusa, 
che la voce si mosse, e pria si spense 
che da li organi suoi fosse dischiusa.                            9

Poco sofferse; poi disse: «Che pense? 
Rispondi a me; ché le memorie triste 
in te non sono ancor da l’acqua offense».                   12

Confusione e paura insieme miste 
mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca, 
al quale intender fuor mestier le viste.                          15

Come balestro frange, quando scocca 
da troppa tesa la sua corda e l’arco, 
e con men foga l’asta il segno tocca,                            18

sì scoppia’ io sottesso grave carco, 
fuori sgorgando lagrime e sospiri, 
e la voce allentò per lo suo varco.                                   21

Ond’ella a me: «Per entro i mie’ disiri, 
che ti menavano ad amar lo bene 
di là dal qual non è a che s’aspiri,                                  24

quai fossi attraversati o quai catene 
trovasti, per che del passare innanzi 
dovessiti così spogliar la spene?                                   27

E quali agevolezze o quali avanzi 
ne la fronte de li altri si mostraro, 
per che dovessi lor passeggiare anzi?».                      30

Dopo la tratta d’un sospiro amaro, 
a pena ebbi la voce che rispuose, 
e le labbra a fatica la formaro.                                         33

Piangendo dissi: «Le presenti cose 
col falso lor piacer volser miei passi, 
tosto che ‘l vostro viso si nascose».                              36

Ed ella: «Se tacessi o se negassi 
ciò che confessi, non fora men nota 
la colpa tua: da tal giudice sassi!                                   39

Ma quando scoppia de la propria gota 
l’accusa del peccato, in nostra corte 
rivolge sé contra ‘l taglio la rota.                                     42

Tuttavia, perché mo vergogna porte 
del tuo errore, e perché altra volta, 
udendo le serene, sie più forte,                                      45

pon giù il seme del piangere e ascolta: 
sì udirai come in contraria parte 
mover dovieti mia carne sepolta.                                    48

Mai non t’appresentò natura o arte 
piacer, quanto le belle membra in ch’io 
rinchiusa fui, e che so’ ‘n terra sparte;                           51

e se ‘l sommo piacer sì ti fallio 
per la mia morte, qual cosa mortale 
dovea poi trarre te nel suo disio?                                   54

Ben ti dovevi, per lo primo strale 
de le cose fallaci, levar suso 
di retro a me che non era più tale.                                  57

Non ti dovea gravar le penne in giuso, 
ad aspettar più colpo, o pargoletta 
o altra vanità con sì breve uso.                                        60

Novo augelletto due o tre aspetta; 
ma dinanzi da li occhi d’i pennuti 
rete si spiega indarno o si saetta».                                63

Quali fanciulli, vergognando, muti 
con li occhi a terra stannosi, ascoltando 
e sé riconoscendo e ripentuti,                                         66

tal mi stav’io; ed ella disse: «Quando 
per udir se’ dolente, alza la barba, 
e prenderai più doglia riguardando».                            69

Con men di resistenza si dibarba 
robusto cerro, o vero al nostral vento 
o vero a quel de la terra di Iarba,                                    72

ch’io non levai al suo comando il mento; 
e quando per la barba il viso chiese, 
ben conobbi il velen de l’argomento.                             75

E come la mia faccia si distese, 
posarsi quelle prime creature 
da loro aspersion l’occhio comprese;                           78

e le mie luci, ancor poco sicure, 
vider Beatrice volta in su la fiera 
ch’è sola una persona in due nature.                            81

Sotto ‘l suo velo e oltre la rivera 
vincer pariemi più sé stessa antica, 
vincer che l’altre qui, quand’ella c’era.                           84

Di penter sì mi punse ivi l’ortica 
che di tutte altre cose qual mi torse 
più nel suo amor, più mi si fé nemica.                           87

Tanta riconoscenza il cor mi morse, 
ch’io caddi vinto; e quale allora femmi, 
salsi colei che la cagion mi porse.                                 90

Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, 
la donna ch’io avea trovata sola 
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».                  93

Tratto m’avea nel fiume infin la gola, 
e tirandosi me dietro sen giva 
sovresso l’acqua lieve come scola.                               96

Quando fui presso a la beata riva, 
Asperges me’ sì dolcemente udissi, 
che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.                    99

La bella donna ne le braccia aprissi; 
abbracciommi la testa e mi sommerse 
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.                       102

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse 
dentro a la danza de le quattro belle; 
e ciascuna del braccio mi coperse.                              105

«Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle: 
pria che Beatrice discendesse al mondo, 
fummo ordinate a lei per sue ancelle.                          108

Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo 
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi 
le tre di là, che miran più profondo».                             111

Così cantando cominciaro; e poi 
al petto del grifon seco menarmi, 
ove Beatrice stava volta a noi.                                         114

Disser: «Fa che le viste non risparmi; 
posto t’avem dinanzi a li smeraldi 
ond’Amor già ti trasse le sue armi».                             117

Mille disiri più che fiamma caldi 
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, 
che pur sopra ‘l grifone stavan saldi.                            120

Come in lo specchio il sol, non altrimenti 
la doppia fiera dentro vi raggiava, 
or con altri, or con altri reggimenti.                                123

Pensa, lettor, s’io mi maravigliava, 
quando vedea la cosa in sé star queta, 
e ne l’idolo suo si trasmutava.                                       126

Mentre che piena di stupore e lieta 
l’anima mia gustava di quel cibo 
che, saziando di sé, di sé asseta,                                 129

sé dimostrando di più alto tribo 
ne li atti, l’altre tre si fero avanti, 
danzando al loro angelico caribo.                                  132

«Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi», 
era la sua canzone, «al tuo fedele 
che, per vederti, ha mossi passi tanti!                          135

Per grazia fa noi grazia che disvele 
a lui la bocca tua, sì che discerna 
la seconda bellezza che tu cele».                                  138

O isplendor di viva luce etterna, 
chi palido si fece sotto l’ombra 
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,                         141

che non paresse aver la mente ingombra, 
tentando a render te qual tu paresti 
là dove armonizzando il ciel t’adombra, 

quando ne l’aere aperto ti solvesti?                              145

PARAFRASI

Beatrice, rivolgendo direttamente a me le sue parole che, anche indirettamente, mi erano sembrate aspre, ricominciò a parlare senza frapporre indugio: «O tu che sei al di là del fiume sacro, dimmi, dimmi se questo è vero: a una tale accusa è necessario che sia unita la tua confessione».

La mia virtù era così confusa che la mia voce si mosse, e si fermò prima che fosse emessa dagli organi preposti alla parola.

Lei pazientò un poco, poi disse: «Cosa pensi? Rispondimi, poiché il ricordo del peccato non è stato ancora cancellato in te dall'acqua del Lete».

La confusione e la paura, mescolate insieme, mi spinsero fuori dalla bocca un «sì» così debole che, per capirlo, fu necessaria la vista e non l'udito.

Come una balestra spezza la corda e l'arco, quando scocca una freccia con eccessiva tensione, e il dardo arriva a bersaglio con poca forza, così io scoppiai sotto il peso dell'angoscia e buttai fuori lacrime e sospiri, e la voce fu emessa con minore vigoria.

Allora lei mi disse: «Seguendo il desiderio che ti ispiravo e che ti spingeva ad amare il bene, oltre il quale non c'è nulla a cui aspirare, quali fossati posti di traverso o quali catene trovasti, per cui dovessi lasciare la speranza di oltrepassarli?

E quali facilità, quali vantaggi ti si mostrarono nell'aspetto degli altri beni, per cui dovessi vagheggiarli?»

Dopo aver tratto un amaro sospiro, a malapena trovai la voce per rispondere e le labbra parlarono a fatica.

Dissi piangendo: «I beni che avevo di fronte, col loro aspetto piacevole, distolsero i miei passi non appena il vostro viso fu nascosto a me (dopo la vostra morte)».

E lei: «Se anche tu tacessi o negassi ciò che confessi, la tua colpa non sarebbe meno evidente: la apprendo da un giudice così infallibile! (Dio)

Ma quando l'accusa del peccato viene pronunciata da chi l'ha commesso, nel nostro tribunale la mola rivolge se stessa contro il taglio (la giustizia divina è meno severa).

Tuttavia, perché tu ti vergogni meno del tuo errore e perché un'altra volta tu sia più forte ascoltando le sirene, cessa la ragione del tuo pianto e ascolta: così sentirai come la mia morte terrena avrebbe dovuto condurti su una strada opposta a quella che hai seguito.

La natura o l'arte non ti mostrò mai una bellezza paragonabile a quella del corpo mortale in cui io fui rinchiusa, e che ora è sparso sottoterra;
e se quella meravigliosa bellezza ti venne meno con la mia morte, quale altra cosa terrena poteva poi suscitare il tuo desiderio?

Avresti dovuto, dopo quella prima delusione dei beni fugaci, sollevarti in alto dietro a me che non ero più terrena e passeggera.

Non avrebbe dovuto farti volare in basso, aspettando altri colpi della sorte, una giovane donna o un altro bene terreno vano ed effimero.

Un giovane uccellino aspetta due o tre colpi; ma di fronte ai volatili adulti il cacciatore dispiega le reti o scaglia le frecce invano».

Come i fanciulli, vergognandosi, se ne stanno muti con gli occhi a terra, ascoltando e ammettendo la propria colpa, pentiti, così stavo io; e lei disse: «Poiché ascoltando le mie parole provi dolore, alza la barba (il mento) e ne proverai di più guardandomi».

Un robusto cerro (quercia) è sradicato da un vento della nostra terra o da quello che soffia dall'Africa (libeccio) con minore resistenza di quanto io non sollevai il mento al suo comando; e quando mi ordinò di alzare il viso con la parola «barba», compresi subito il suo amaro rimprovero.

E non appena io sollevai il viso, l'occhio capì che gli angeli avevano cessato di spargere i fiori;
e i miei occhi, ancora poco sicuri, videro Beatrice rivolta alla fiera (grifone) che è una sola persona con due nature.

Anche se Beatrice era velata e al di là del fiume, pure mi sembrava superare in bellezza lei stessa da viva, più di quanto lei, da viva, superasse tutte le altre donne.

L'ortica del pentimento mi punse a tal punto, che, rispetto a tutte le altre cose, quella che più mi distolse dall'amore per Beatrice mi si fece più odiosa.

Questo riconoscimento mi colpì il cuore a tal punto che caddi svenuto; e come divenni allora, lo sa colei (Beatrice) che me ne fornì la causa (col rimprovero).

Poi, quando il cuore mi restituì la forza vitale nelle membra esterne (rinvenni), vidi la donna (Matelda) che avevo incontrato da sola stare sopra di me, dicendo: «Aggrappati a me!»

Mi aveva immerso nel fiume sino alla gola, e tirandosi dietro me se ne andava sull'acqua, scivolando leggera come una gondola.

Quando fui vicino alla sponda opposta, sentii gli angeli cantare 'Mi aspergerai' con tale dolcezza che non solo non so descriverlo, ma neppure me lo ricordo.

La bella donna aprì le braccia, mi abbracciò la testa e mi immerse al punto da costringermi a inghiottire l'acqua.

Poi mi tirò fuori e mi affidò, bagnato, alla danza delle quattro donne, ciascuna delle quali mi coprì col suo braccio.

«Noi qui siamo ninfe e in cielo siamo stelle: prima che Beatrice venisse al mondo, fummo create come sue ancelle.

Ti condurremo ai suoi occhi; ma saranno le altre tre donne ad aguzzare i tuoi occhi perché tu possa osservare il lume che c'è al loro interno, poiché esse hanno la vista più profonda».

Così iniziarono a cantare; e poi mi portarono con sé al petto del grifone, dove Beatrice stava rivolta verso di noi.

Dissero: «Guarda i suoi occhi senza risparmio: ti abbiamo posto davanti agli smeraldi (i suoi occhi verdi) da cui Amore ti lanciò i suoi dardi (che ti fecero innamorare».

Mille desideri, più caldi della fiamma, strinsero i miei occhi agli occhi splendenti di Beatrice, che erano fissi sul grifone.

Come il sole in uno specchio, non diversamente la fiera duplice vi si rifletteva dentro, ora con un atteggiamento, ora con un altro (vi si riflettevano separate le sue due nature, umana e divina).

Pensa, lettore, quale era la mia meraviglia, quando vedevo il grifone restare uguale a se stesso e trasmutarsi nell'immagine riflessa.

Mentre la mia anima, piena di stupore e lieta, gustava quel cibo che, saziandola, la rendeva sempre più assetata, le altre tre donne, dimostrando nei propri atti di appartenere a una condizione più elevata, si fecero avanti ballando nella loro danza angelica.

Il loro canto diceva: «Beatrice, volgi i tuoi occhi santi al tuo fedele che, per vederti, ha percorso tanta strada!

Per tua grazia, concedi a noi di svelare a lui il tuo sorriso, così che possa vedere la seconda bellezza che tu celi».

O splendore di viva luce eterna, chi si fece pallido sotto l'ombra di Parnaso o bevve alla sua fonte (si esercitò nella poesia) a tal punto, da non sembrare di avere la mente offuscata, tentando di descrivere come apparisti là dove le sfere celesti con la loro armonia ti circondano, quando ti svelasti nell'aria aperta?

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Eugenio Caruso - 27-03/2021

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