Eneide, Libro VI. Enea entra nell'Ade.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

L'Eneide (in latino: Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri per un totale di 9.896 esametri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti; perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma gli amici Vario Rufo e Plozio Tucca, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardarono il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato. I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande devozione (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e di Troia.

Attraverso quest'opera, Virglio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Molti racconti sono tipici della tragedia greca; "fortunatamente" per gli antichi greci e romani l'uccisione di mogli, amanti, figli, mariti, come stupri, incesti e altre violenze sessuali erano dovute all'intervento di qualche dio, che, spesso, funge da artefice e da giudice. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai giorni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Virgilio. Anche Dante, nelle sue metafore, ha attinto molto da lui la cui opera conosceva molto bene, a ulteriore dimostrazione dell'immensa cultura del poeta fiorentino. Giova anche notare che, allora, non era facile trovare un manoscritto dell'Eneide: se ne potevano trovare solo nelle grandi abbazie e presso i palazzi di famiglie blasonate.

LIBRO VI

RIASSUNTO

Enea e i suoi compagni sbarcano a Cuma, in Campania, dove l'eroe, memore dei consigli di Eleno, si reca nel tempio di Apollo. La somma sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Deifobe, figlia di Glauco, invasata dal dio durante il vaticinio, gli rivela che riuscirà ad arrivare nel Lazio, ma per ottenere la nuova patria dovrà affrontare odi e guerre, essendo inviso a Giunone: ella profetizza anche la comparsa di un nuovo Achille (che si rivelerà poi Turno). Su sua richiesta, la Sibilla guida Enea nel regno del dio Ade, ovvero l'Aldilà secondo la religione greca e romana. Prima di entrare nell'Ade vero e proprio Enea deve procurarsi nel bosco un ramo d'oro da offrire a Proserpina; l'eroe e la Sibilla devono passare quindi su una delle due rive del fiume Acheronte, attraversando la zona dove vagano senza pace tutte le anime dei morti rimasti insepolti, e qui incontrano Palinuro, che narra del suo assassinio e del suo corpo lasciato insepolto dai Lucani (Nunc me fluctus habet versantque in litore venti). Supplica poi Enea di cercare i suoi resti o di aiutarlo ad attraversare il fiume: la Sibilla gli dice che è inutile sperare di mutare i fati divini con la preghiera (desine fata deum flecti sperare precando); poi, per mitigare l'amarezza del pilota, gli rivela che presto avrà comunque un suo tumulo sepolcrale (che darà pace alle sue ossa e consentirà finalmente alla sua ombra di varcare il fiume infernale). Caronte, il guardiano dell'Ade, ostacola il loro ingresso a bordo della sua barca, sostenendo che i vivi finora traghettati sono stati per lui grave fonte di problemi. Quando però gli mostrano il ramo d'oro, chiave degli inferi che portano con loro, acconsente a trasportarli. Dopo aver superato l'ostacolo di Cerbero, Enea e la sacerdotessa incontrano prima le anime di molti troiani caduti in guerra, poi quelle dei suicidi per amore (nei campi del pianto, lugentes campi): tra queste v'è anche Didone, che reagisce gelidamente al passaggio di Enea, il quale scoppia in un pianto disperato. Giunti alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontrano l'ombra del poeta Museo, che porta Enea da Anchise: Enea tenta invano di abbracciare il padre per tre volte. Anchise spiega dunque a Enea la dottrina di cicli e rinascite che sostiene l'universo, e gli mostra le ombre dei grandi uomini che rinasceranno nella città che Enea stesso con la propria discendenza contribuirà a fondare, ovvero i grandi personaggi di Roma, come Catone, o Fabio Massimo: molti popoli - afferma Anchise in un noto passo - otterranno gloria nelle belle arti, nella scienza o nel foro, ma i Romani governeranno il mondo con la sapienza delle leggi, perdonando i vinti e annientando solo chi si opporrà: Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem / parcere subiectis et debellare superbos (Aen. VI, 851-53). Dopo che Anchise ha profetizzato la prematura morte del nipote di Augusto, Marcello, Enea e la Sibilla risalgono nel mondo dei vivi, passando per la porta dei sogni.

Giova notare che Dante, nella sua Commedia, si è servito, notevolmente, delle descrizioni virgiliane dell'Ade. La facilità di entrare nell'inferno (facilis descensus averno), (non t'inganni l'ampiezza dell'entrare - Dante), l'Acheronte e Caronte dagli occhi di fuoco, i latrati di Cerbero che viene acquetato dalla focaccia che la Sibilla gli getta in bocca, la palude stigia, Minosse che giudica i morti, Pasifae, i suicidi per amore, Didone, il Flegetonte, il Cocito, la città di Dite, i rei costretti a spingere massi, Flegias, il Lete, il limbo delle anime nobili, Orfeo, gli eroi romani, l'altura da cui poter vedere tutti quanti, la barca che prende acqua sotto il peso di Dante, la fresca verzura dei campi elisi.

SULLE SPIAGGE DI CUMA (1- 8)
Così dice piangendo e allenta le briglie alla flotta
E finalmente arriva ai lidi euboici di Cuma.
Volgono le prore al mare: allora con dente tenace
L'ancora assicurava le navi e le curve poppe
Coronano i lidi. Una schiera ardente di giovani brilla
Sulla riva esperia: parte cerca i semi di fiamma
Nascosti nelle vene della pietra, parte raggiunge le selve,
Dense tane di belve e indicano i ruscelli trovati.

IL TEMPIO DEL DIO APOLLO (9-41)
Ma il pio Enea si dirige alle rocche, su cui l'alto Apollo
Comanda e le caverne della spaventosa Sibilla,
antro gigantesco: a essa il profeta di Delo infonde
la grande anima e la mente e svela il futuro
Ormai raggiungono i boschi di Trivia e i tetti dorati.
Dedalo, come è fama, fuggendo i regni minoici,
osando affidarsi al cielo con rapide penne,
navigò per l'insolita strada verso le gelide Orse
e leggero si fermò finalmente sulle rocche calcidiche.
Dapprima restituito a queste terre consacrò a te, Febo,
l'alato remeggio e fondò templi giganteschi.
Sui battenti (c'è) la morte di Androgeo: poi i Cecropidi,
obbligati a pagare le pene, Terribile!, sette corpi di figli
all'anno; c'è l'urna, estratte le sorti.
Dirimpetto risponde la terra di Cnosso, alta sul mare,
qui c'è il crudele amore del toro e Pasifae sottoposta all'inganno, la razza mista e la prole biforme:
il Minotauro, insegnamenti della maledetta Venere;
qui c'è l'ntrico di casa e l'inestricabile vagare;
ma compassionando il grande amore della regina
Dedalo stesso risolse gli inganni e i dubbi dell'edificio. Guidando i ciechi passi col filo. Tu pure avresti
Grande parte, Icaro, in sì grande opera, lo permettesse il dolore!: due volte aveva cercato di rappresentare le vicende nell'oro, due volte caddero le mani paterne.
Certamete subito rimirerebbero con gli occhi, se Acate, mandato avanti non si presentasse e insieme la sacerdotessa di Febo e di Trivia, Deifibe, figlia di Glauco,
che dice al re tali cose:
"Questo momento non richede queste scene:
ora sarebbe meglio sacrificare sette giovenchi da gregge
integro, e altrettante pecore scelte secondo il rito.
Così parlò a Enea, né i compagni esitano a seguire i sacri ordini: la sacerdotessa chiama i Teucri nell'alto tempio.


PROFEZIE DI SIBILLA ( 42-101)
C'è un lato scavato della rupe euboica in caverna,
a cui menano cento vasti ingressi, cento porte
da cui corrono altrettante voci, responsi della Sibilla.
Si era giunti alla soglia, quando la vergine: " E' il momento
Di chiedere i fati, disse, Il dio, ecco, il dio". A lei che parla così davanti ai battenti improvvisamente, non il volto, non
il colore, né pettinate restaron le chiome, ma il petto ansante e il cuore selvaggio si gonfia di rabbia e sembrava
più grande e non parlare umanamente, poichè si espresse
essendo troppo vicina la potenza del dio. "Esiti nei voti
e nelle preghiere, disse, troiano Enea? Esiti? No si apriranno
prima le grandi bocche della casa invasata" Dopo aver
parlato così, tacque. Un gelido brivido attraversò i Teucri
lungo le dure ossa e il re dice preghiere dal fondo del cuore:
"Febo, che sempre hai compianto i duri travagli di Troia,
tu che guidasti le armi dardanie e le mani di Paride contro
il corpo dell' Eacide, attraversai tanti mari che entrano in
grandi terre, sotto la tua guida, le genti de Massili nascoste all'nterno e i campi posti davanti alle Sirti,
ormai raggiungiamo finalmente le spiagge fuggenti dell'Italia:
oh fin qui ci avesse seguiti la sorte troiana;
ormai è giusto che voi personiate il popolo di Pergamo, o dei
e dee, cui spiacque Ilio e la grande gloria
della Dardania. E tu veneratissima profetessa,
conscia del fututo, concedi ( non chiedo regni non dovuti
per i miei fati) ai Teucri di fermarsi nel Lazio e anche agli dei erranti e alle sconvolte potenze di Troia.
Allora costruirò per Febo e Trivia un tempio di forte
Marmo e giorni festivi in nome di Febo.
Grandi sacrari attendono pure te nei nostri regni:
qui infatti io porrò le tue sorti e gli arcani segreti
predetti al mio popolo ed eleggerò, o divina, uomini scelti.
Solo non affidare alle foglie i tuoi versi,
perché sconvolti non volino come giochi per i rapidi venti.
Chiedo che tu stessa profetizzi." Mise fine al parlare a voce.
Ma la profetessa non ancora soggetta di Febo, gigantesca
Nell'antro si agita, se potesse scuotere dal petto
Il gran dio: tanto più egli affatica la bocca rabbiosa
Domando il cuore furioso e la plasma incalzando.
Ora le cento grandi porte della casa si apriron
Spontaneamente: per l'ampia aria trasmettono
I responsi della profetessa:
"O finalmente scampato ai grandi pericoli del mare
(ma più pesanti restan quelli di terra) i Dardanidi verranno nel regno di Lavinio (caccia tale affanno dal cuore)
ma vorranno non esservi giunti. Vedo guerre, orribili guerre,
e il Tevere spumeggiante di molto sangue.
Non ti mancheranno Simoenta, Xanto e accampamenti dorici.
C'è un altro Achille partorito per il Lazio,
anch'egli nato da dea. Né mai Giunone mancherà
alleata contro i Teucri: quando tu supplice in situazioni penose,
quali popoli degli Itali e quali città non pregherai!
Causa di tanto male per i Teucri di nuovo una donna forestiera
Ancora nozze straniere.
Tu non cedere ai mali, ma più fiducioso avanza,
dove la tua sorte ti permetterà. La prima via di salvezza,
cosa che non credi, si aprirà da una città greca."
Con tali parole dalla caverna la Sibilla cumana
predice dubbi terribili e rimbomba nell'antro,
avvolgendo verità a incertezze; Apollo alla furente
scuote tali redini e muove pungoli nel petto.

sibilla
Enea incontra la Sibilla


INCORAGGIAMENTO DELLA PROFETESSA (102 -155)
Appena cessò la furia e tacquero le labbra rabbiose,
Enea, l'eroe, comincia: "O vergine, nessuna forma
Di fatiche mi sorge nuova o inaspettata;
tutto ho già provato e predisposto nell'animo, in me
Una cosa sola chiedo: poiché qui si dice vi sia la porta del re
Dell'Averno e la tenebrosa palude, straripato l'Acheronte,
mi si conceda di andare al cospetto al volto del caro
padre, insegnami la strada e apri le sacre porte.
Io lo strappai tra le fiamme e le mille frecce incalzanti su queste spalle e lo raccolsi in mezzo al nemico:
Lui, accompagnando il mio viaggio, con me sopportava
Tutti i mari e tutte le minacce di cielo e acqua,
lui malfermo, oltre le forze e la sorte della vecchiaia.
Anzi lui stesso pregando dava ordini che supplice io ti
Cercassi e giungessi alle tue porte. Divina, ti prego,
abbi pietà del figlio e del padre: tu puoi tutto
e non invano Ecate ti mise a capo dei boschi d'Averno.
Se Orfeo potè richiamare l'ombra della sposa
Confidando nella cetra tracia e nel flauto sonoro,
se Polluce riscattò il fratello con morte alterna
e fa e rifà tante volte la via (perché ricordare il grande
Teseo e l'Alcide) anch'io ho una stirpe dal sommo Giove.
Con tali parole pregava e teneva gli altari,
quando così la profetessa cominciò a parlare: "Nato da sangue
di dei, anchisiade troiano, facile è la discesa all'Averno:
giorno e notte è aperta la porta del nero Dite;
ma questa è l'impresa, questa la fatica: riportare su
il passo e uscire all'aria superiore. Pochi, che il giusto Giove
predilesse o che l'ardente valore portò al cielo,
figli del dio lo poterono. I boschi occupano tutto il mezzo
e il Cocito scorrendo lo circonda con nero abbraccio.
Ma se tanto amore nel cuore, se tanta la voglia
Di attraversare due volte i laghi stigi, vedere due volte
Il buio Tartaro e ti piace affrontare una fatica pazzesca,
impara prima le cose da fare. Un ramo è nascosto
su albero ombroso, d'oro sia nelle foglie che nella verga molle,
detto sacro a Giunone infernale; tutto il bosco
lo protegge e le ombre lo chiudono in oscure convalli.
Ma non è dato affrontare le profondità della terra prima
Che uno abbia colto dalla pianta i frutti dale foglie dorate.
La bella Proserpina decise le fosse portato questo
dono: colto il primo, non ne manca un altro
D'oro e il ramo fiorisce di uguale metallo.
Perciò cerca in alto con gli occhi e trovatolo,
coglilo con la mano. Egli contento e facile seguirà,
se i fati ti chiamano: altrimenti con nessuna forza
potrai vincere né strapparlo col duro ferro.
Però il corpo di un tuo amico giace esanime
(oh, non lo sai) e contamina con la morte tutta la flotta,
mentre chiedi responsi e attendi alla nostra soglia.
Accompagnalo prima alle sue sedi e riponilo nel sepolcro.
Porta neri animali: queste siano le prime espiazioni.
Così finalmente vedrai i boschi di stige e i regni impossibili
Ai vivi. Disse e con bocca sigillata ammutolì.


LA MORTE DI MISENO (156 - 174)
Enea sconvolto mesto, abbassati gli occhi
Avanza lasciando la caverna e medita tra sé i ciechi
Eventi. Gli fa compagno il fido Acate
E con uguali pensieri calca le orme.
Tra loro con vario discorso esaminavan molte cose:
quale amico esanime dicesse la profetessa, quale corpo
da seppellire. Ma essi nel lido asciutto, come arrivarono,
vedono l'eolide Miseno ucciso da morte indegna;
non un altro era più capace di lui di eccitare col bronzo
gli eroi e accendere Marte col canto.
Costui era stato compagno del grande Ettore, attorno a Ettore
Affrontava le battaglie, famoso per il lituo e la lancia.
Dopo che Achille vincitore privò quello della vita, il fortissimo
Eroe s'era unito come compagno al dardanio Enea,
seguendo non minori imprese.
Ma allora, mentre per caso con cava conchiglia fa risuonare
il mare, e, pazzo!, col suono provoca gli dei a una gara,
il rivale Tritone, se è giusto crederlo, aveva sommerso tra le rocce
nell'onda spumosa l'eroe, dopo averlo afferrato.

miseno
Tumulazione di Miseno (da cui l'attuale area geografica). Illustrazione del 1500.


IL SACRO RAMO D'ORO ( 175 -211)
Perciò tutti attorno framevano con grande grido
Soprattutto il pio Enea. Allora piangendo eseguono gli ordini
della Sibilla, senza esitare, e gareggiano a coprire con alberi
l'altare del sepolcro e ad alzarlo fino alcielo.
Si va nell'antica boscaglia, profonde tane di fiere,
i pini stramazzano, il leccio risuona colpito dalle scuri,
le travi di frassino, il rovere fendibile coi cunei
si spacca: enormi orni rotolano dai monti.
Nondimeno Enea tra tali opere per primo esorta
i compagni e si cinge di uguali armi.
Egli medita questo col suo triste cuore
osservando l'immensa selva e così proprio prega:
"Oh se adesso quel ramo dorato si mostrasse
dalla pianta in così grande bosco, poiché con verità
la sacerdotessa dissse tutto, ahi troppo, disse di te, Miseno".
Aveva appena parlato, quando per caso due colombe
vennero dal cielo volando sotto gli stessi occhi dell'eroe,
e si posarono sul verde suolo. Allora il grandissimo eroe
riconobbe gli uccelli materni e lieto prega:
" Siate guide, oh, se c'è una via, dirigete la rotta nell'aria
dentro i boschi, dove il ramo prezioso rinfresca la ricca
terra. Tu, o dea madre, non venir meno
in situazioni dubbiose." Detto così, fermò il passo,
osservando quali segnali portino, dove vogliano andare.
Esse beccando avanzano volando
quanto potevano guardare a vista gli occhi di chi seguiva.
Poi quando giunsero alle gole dell'Averno che gravemente puzza,
si alzan veloci e scivolando nella limpida aria
si posano sulle sedi desiderate, una duplice pianta
donde l'aureola cangiante dell'oro brillò tra i rami.
Come il visco è solito rinverdire di nuove fronde
nelle selve nel freddo invernale, (che una pianta non sua semina),
e circondare i tronchi rotondi di giallo germoglio,
tale era l'aspetto dell'oro frondeggiante nella fresca
felce, così la lamina mormorava al vento leggero.
Subito Enea l'afferra e avido lo spezza,
mentre dondola, e lo porta sotto i tetti della profetessa Sibilla.

ramo oro
Enea raccoglie il ramo d'oro.


RITI FUNEBRI PER MISENO ( 212 -235)
Ma non meno intanto i Teucri piangevan Miseno
sul lido e rendevan gli estremi onori al corpo insensibile.
Al principio eressero una pira enorme piena di resine
e rovere tagliato, a cui intessono i fianchi di nere fronde
e davanti mettono funerei cipressi e sopra l'ornano
con armi risplendenti. Parte preparan col fuoco
liquidi caldi e caldaie grondanti,
lavano e ungono il corpo del defunto.
C'è il compianto. Poi depongono sul letto le membra compiante
e gettano sopra vesti purpuree, coperte famigliari.
Parte si sono avvicinati all'enorme feretro e, voltati,
secondo la tradizione dei padri hanno tenuto la fiaccola,
messa sotto, quale triste dovere: Bruciano i doni di incenso
raccolti, vivande, tazze con olio versato.
Dopo che le ceneri caddero e la fiamma si quietò,
bagnarono di vino i resti e la fiamma che assorbe,
e Corineo protesse le ossa raccolte in un'urna di bronzo.
Egli stesso girò attorno ai compagni con acqua pura
spruzzando con lieve rugiada e e con ramo di olivo fecondo,
purificò gli uomini e disse le ultime parole.
Ma il pio Enea protegge il sepolcro con gigantesca mole,
per l'eroe mette le sue armi, il remo, la tromba
sotto l'aereo monte, che ora da lui si chiama
Miseno e ne mantiene nei secoli il nome eterno.


RITI PER GLI DEI DEGLI INFERI ( 236 -263)
Compiuti questi riti, presto eseguì i comandi della Sibilla.
Vi fu una profonda spelonca ed enorme per il vasto abisso,
rocciosa, protetta da nero algo e ombre di boschi,
sopra la quale nessun volatile poteva impunemente
volgere il volo con l'ali: tale alito, esalando
da nere bocche, si portava alla volta celeste.
(Da ciò i Greci chiamarono il luogo col nome di Averno!)
Qui la sacerdotessa anzitutto pose quattro giovenchi, neri
sul dorso, e versò vini sulla loro fronte
e prendendo, in mezzo alle corna, un ciuffo di peli
li pone sui sacri fuochi, come prime offerte,
chiamando a voce Ecate potente nel cielo e nell'Erebo.
Altri affondano i coltelli e raccolgono con tazze
il tiepido sangue: Lo stesso Enea sgozza con la spada un'agnella
di nero mantello, per la madre delle Eumenidi, alla grande sorella
e per te, Proserpina, una vacca sterile.
Poi abbozza per il re stigio altari notturni
e pone sulle fiamme intere viscere di tori
versando olio grasso, mentre le offerte ardono.
Ecco dunque, alla soglia del primo sole e sul sorgere,
il suolo muggire sotto i pedi, i gioghi delle selve cominciarono
a muoversi e sembrò che cagne ululassero nell'ombra,
all'arrivo della dea. "Lontano, oh, lontatno state, profani,
grida la profetessa, allontanatevi da tutto il bosco:
tu affronta la via e dal fodero sguaina la spada:
adesso è necessario il coraggio, Enea, un cuore saldo, adesso".
Detto solo questo, furente si gettò nell'aperta spelonca.
Egli con passi non timidi eguaglia la guida che avanza.


VESTIBOLO DELL'ADE ( 264 -294)
"O dei, che avete il potere delle anime, ombre silenziose
Caos, Flegetonte, luoghi ampiamente silenziosi nella notte,
mi sia permesso dire le cose udite, sia possibile col vostro aiuto
rivelare le cose immerse nella terra profonda e nel buio.
Andavano incerti nella notte totale nell'ombra
e per le vuote case e i morti regni.
Quale è un sentiero nei boschi attraverso la luna incerta
sotto la luce maligna, quando Giove con l'ombra ha nascosto il cielo
e la buia notte ha tolto il colore alle cose:
Davanti allo stesso vestibolo e nelle prime bocche dell'Orco,
il Lutto e gli Affanni hanno le loro tane:
vi abitano le pallide Malattie, la triste Vecchiaia,
la Paura, la Fame, cattiva consigliera, la brutta Povertà,
aspetti terribili a verdersi, la Morte e la Pena:
poi il Sonno, parente della Morte, le cattive Gioie della mente
e la Guerra, portatrice di morte, davanti sulla soglia
i ferrei letti delle Eumenidi, la pazza Discordia,
che annoda la chioma con bende insanguinate.
Nel mezzo un olivo spande i rami e le annose braccia,
enorme, ombroso, che, dicono, i Sogni vani in massa
occupano come sede e s'attaccano a tutte le foglie.
Inoltre molti mostri di strane bestie,
i Centauri hanno le stalle sulle porte,
le Scille biformi, Briareo centumane, la belva di Lerna,
stridente orrendamente e la Chimera, armata di fiamme,
le Gorgoni, le Arpie e l'imagine dell'ombra con tre corpi (Briareo).
Qui Enea trepido per l'improvviso terrore afferra la spada
e offre la punta sguainata a quelli che avanzano
e se la dotta guida non ammonisse che le vite volano
leggere senza corpo sotto un aspetto privo di forma,
si buterebbe e invano col ferro trapasserebbe le ombre.

ade
Il vestibolo dell'Ade, dipinto da Bruegel


IL FIUME ACHERONTE( 295 -330)
Di qui è la via che porta alle onde del tartareo Acheronte.
Qui la corrente torbida ribolle di fango in vasta voragine
e vomita tutta la sabbia in Cocito.
Un orribile traghettatore custodisce queste acque e i fiumi,
Caronte di terribile squallore, a cui sta nel mento
molta canizie incolta, gli occhi di fiamma fissano,
dalle spalle pende uno sporco mantello con nodo. Egli spinge la barca col palo e la governa con le vele
e col battello ferrigno trasporta i corpi.
Anche se vecchio, ma il dio ha una cruda e verde vecchiaia.
Qui tutta la folla confusa si ammassava alle rive,
madri, uomini e corpi di magnanimi eroi
liberi dalla vita, ragazzi e inviolate fanciulle,
giovani posti sui roghi davanti ai volti dei genitori:
quante foglie nei boschi al primo freddo d'autunno
vacillano, cadono o quanti uccelli si affollano
a terra dall'alto mare, quando il freddo anno
li allontana al di là del mare e li invia su terre assolate.
I primi s'ergevano pregando di oltrepasare la rotta
e tendevan le mani per amore della riva di fronte.
Ma il triste nocchiero accoglie ora questi ora quelli,
altri invece manda lontano, cacciati dalla sabbia.
Enea meravigliato e scosso dal tumulto:
"Dimmi, vergine, disse, cosa vuole la corsa al fiume?
Cosa chiedon le anime? O per quale decisione queste
lascian le rive, le altre coi remi spazzano i lividi guadi?"
Così brevemente parlò la vecchia sacerdotessa:
"Figli di Anchise, certissima prole di dei,
tu vedi i profondi stagni di Cocito e la palude stigia,
anche gli dei temono il suo nome.
Tutta questa, che vedi, è una folla povera e insepolta.
Quello il nocchiero, Caronte; questi, che l'onda trasporta, i sepolti.
Ma non è concesso oltrepassare le terribili rive e le roche
correnti, prima che le ossa abbian riposato nei sepolcri.
Vagano per cento anni e volano attorno a questi lidi:
poi finalmente ammessi rivedono gli stagni desiderati."


INCONTRO CON PALINURO ( 331-383)
Il figlio di Anchise si fermò e bloccò il passo,
pensando molto, commiserando l'iniqua sorte nell'animo.
Vede lì mesti e mancanti dell'onore della morte
Leucapi e Oronte, capo della flotta licia,
che l'Austro insieme portati da Troia per le acque ventose
sommerse, mentre l'aqua travolgeva nave e uomini.
Ecco avanzava il nocchiero Palinuro,
che da poco nel viaggio libico, mentre osservava le stelle,
era caduto da poppa, sbalzato in mezzo alle onde.
Quando a stento lo riconobbe triste tra le grandi ombre,
così per primo parla: " O Palinuro, chi degli dei
ti strappò a noi e ti immerse nel mezzo del mare?
Orsù dimmi. Infatti Apollo, mai prima scoperto
falso, ha illuso l'animo con questo solo responso
che profetava saresti stato incolume dal mare e saresti giunto
nelle terre ausonie: Questa è dunque la fede promessa?
Ma lui: "L'oracolo di Febo non ti ingannò:
capo anchisiade, né un dio mi sommerse nell'acqua:
infatti precipitando, trassi con me il timone, divelto per caso
a gran forza, a cui affidato come custode, ero attaccato
e guidavo la rottta. Giuro per i mari crudeli
che non ebbi alcun timore solo per me, quanto
che la tua nave spogliata delle difese, privata della guida,
venisse meno, poiché s'alzavano sì grandi onde.
Tre volte per tre fredde notti Noto mi trascinò violento nell'acqua
per l'immenso mare: ma al quarto giorno vidi appena
l'Italia, alto sulla cresta dell'onda.
Un poco mi avvicinavo alla terra, ormai avevo la sicurezza,
se un popolo crudele non m'avesse assalito col ferro, io appesantito,
con la veste madida, mentre afferravo con mani adunche
le sporgenze aspre del monte e non m'avesse creduto una preda.
Ora il flutto mi tiene e i venti mi battono sul lido.
Prego te per la bella luce del cielo e per l'aria,
per il padre, per la speranza di Iulo che cresce:
strappami, o invitto, dai mali: oppure buttami sopra
della terra (lo puoi!) e cerca i porti velini:
o se c'è una via, se la dea madre te la
indica ( non senza aiuto degli dei, credo,
ti prepari ad attraversare sì grandi fiumi e la palude stigia)
concedi la destra a un misero e con te portami tra l'onde,
perché almeno io riposi nella morte in placidi luoghi":
Così aveva parlato, quando la profetessa cominciò così:
"Donde hai tu, o Palinuro, questa così terribile voglia?
Tu insepolto vedrai le acque stigie e il severo
fiume delle Eumenidi o senza ordine raggiungerai la riva?
Smetti di sperare che i fati degli dei si pieghino, pregando,
Ma memore prendi i responsi, sollievo della sorte crudele:
i vicini spinti per le città in lungo e in largo dai prodigi celesti,
espieranno le tue ossa, costruiranno una tomba
e sulla tomba porranno vittime,
il luogo avrà l'eterno nome di Palinuro.
A queste parole gli affani furono allontanati e un poco
cacciato il dolore dal triste cuore: la terra gioisce per il nome.

palinuro
Cenotafio di Palinuro (da cui l'attuale Capo)


SUPERAMENTO DEL FIUME ACHERONTE (384 -425)

Quindi continuano il viaggio iniziato e s'avvicinano al fiume.
Ma quando il nocchiero li vide venire di lì ormai dall'onda
Stigia per il bosco selvoso e volgere il piede alla riva,
così per primo li affronta a parole e inoltre li sgrida:
"Chiunque tu sia, tu che armato giungi ai nostri fiumi,
su di' perchè vieni da lì e ferma il passo.
Questo è il luogo delle ombre, del sonno e della notte soporifera:
è proibito trasportare corpi vivi con la barca stigia.
Davvero non mi son rallegrato d'aver accolto sul lago
Alcide, che avanzava, né Teseo e Piritoo,
benchè fossero figli di dei e invitti per le forze..
Egli con la mano mise in catene il custode del Tartaro
e lo strappò tremante dalla soglia dello stesso re:
essi, assalitala, tolsero dal letto la signora di Dite."
A questo brevemente la profetessa anfrisia rispose:
"Qui non ci sono tali insidie (smetti d'esser spaventato)
le armi non portan violenza; l'enorme portinaio atterrisca
pure nell'antro latrando in eterno le pallide ombre,
la casta Proserpina conservi pure la casa dello zio.
Il troiano Enea, famoso per pietà e armi,
discende dal padre alle profonde ombre dell'Erebo.
Se nessuna immagine di sì grande pietà ti commuove,
riconosci però questo ramo (mostra il ramo che nascondeva
sotto la veste). Allora i cuori gonfi dall'ira si placano,
e nulla (risponde) a ciò. Egli ammirando il venerabile dono
della verga fatale, visto dopo lungo tempo,
volge la cerula poppa e s'avvicina alla riva.
Quindi sloggia le altre anime, che sedevan per i lunghi banchi,
e allarga i posti; poi accoglie sullo scafo
il gigantesco Enea. La barca cucita gemette sotto il peso
e screpolata accolse molta (acqua di) palude.
Infine incolume oltre il fiume depone l'eroe e la profetessa
nell'nforme fango e nell'alga verdastra.
Cerbero gigantesco rimbomba questi regni col latrato
di tre bocche, enorme sdraiandosi davanti nell'antro.
A lui la profetessa, vedendo che ormai i sepenti
si rizzavan sul collo, butta una focaccia soporifera
di miele e frutta drogata: Egli aprendo le tre gole con fame
rabbiosa, lanciata, l'afferra e sciolse il dorso terribile
e buttato a terra, gigantesco si stende per tutto l'antro.
Enea occupa l'entrata, sepolto il guardiano,
veloce supera la riva dell'onda inattraversabile.

MORTI PRIMA DEL TEMPO (426-449)
Subito si udirono voci e un enorme vagito
di infanti, anime piangenti, sul far della soglia:
un nero giorno li strappò, privi della dolce vita
e rapiti dalla poppa li sommerse con morte acerba.
Questi sono condannati a morte ingiustamente:
Ma questi luoghi non furon dati senza sorte, senza giudice.
Minosse inquisitore scuote l'urna: egli convoca
l'assemblea dei silenziosi, indaga vite e crimini.
Poi mesti occupano i luoghi vicini, quelli che innocenti
di propria mano si procuraron la morte, odiando la luce,
buttaron via le anime. Come vorrebbero ora sopportare
nell'aria superiore la povertà e dure fatiche.
Il fato si oppone, la triste palude dell'onda odiata
li lega e lo Stige che scorre attorno nove volte, li blocca.
Non lontano di qui, sparsi in ogni parte, si mostrano
Le pianure piangenti così li chiaman di nome.
Qui segreti sentieri nascondono quelli che il duro amore
consumò con crudele malattia: una selva di mirti attorno
li copre; nella stessa morte gli affanni non li lasciano.
In questi luoghi vede Fedra, Procri e la mesta Eufile,
che mostra le ferite del figlio crudele,
Evadne e Pasifae: con questi Laodamia
va come compagna e Ceuco, un tempo giovanotto, ora donna,
ritornato per fato nell'antico aspetto.


L'OMBRA DELLA REGINA DIDONE (450 -476)
Ma tra queste la fenicia Didone, recente dalla ferita
vagava per la grande selva; appena l'eroe troiano
le fu vicino e la riconobbe tra le ombre
tenebrosa, come quella luna che all'inizio del mese
uno pensa di vedere o d'aver visto tra le nubi,
versò lacrime e parlò con dolce amore:
"Infelice Didone, dunque mi era giunta vera la notizia
che eri morta e con la spada avevi raggiunto la fine?
Ahi, ti fui causa di morte? Per le stelle giuro;
per i celesti e se c'è lealtà sotto il più profondo della terra,
contro voglia, o regina, me ne andai dal tuo lido.
Ma gli ordini degli dei mi spinsero, coi loro poteri,
quelli che ora spingono ad andare tra queste ombre
per luoghi orridi di squallore e per la notte profonda,
davvero non potei credere ch'io ti recassi sì forte dolore:
Ferma il passo e non sottrarti al nostro sguardo.
Chi fuggi? Questa è l'ultima volta che ti parlo, per fato!"
Con tali parole Enea alleviava l'anima ardente
e che guardava torvo e chiamava pianto.
Lei, scontrosa, teneva gli occhi fissi al suolo,
né è commossa in volto dal discorso iniziato più
che fosse dura roccia o scoglio marpesio.
Infine si sottrasse e ostile si rifugiò
nel bosco ombroso, dove il primo marito Sicheo
risponde alle angosce e ne eguaglia l'amore.
Enea nondimeno sconvolto dall'ingiusto destino,
piangendo segue da lontano e commisera lei che se ne va.


LE OMBRE DEI GUERRIERI (477-493)
Poi riprende la strada obbligata. Ormai occupavano
gli ultimi campi, che i famosi in guerra affollano.
Qui gli si presenta Tideo, qui l'illustre per l'armi
Partenopeo e l'ombra del pallido Adrasto,
qui i Dardanidi caduti in battaglia e molto compianti
fra i viventi: egli vedendoli tutti in lunga fila
li pianse: Glauco, Medonte, Tersilico,
i tre Antenoridi, Polibete, sacro a Cerere,
Ideo, che ancora teneva il cocchio e le armi.
Le anime accerchiano a destra e sinistra affollandosi:
Ma è sufficiente aver visto una volta; piace fermarsi ancora,
seguirne il passo e sapere i motivi del viaggiare.
Ma i corpi dei Danai e le falangi agamennonie,
come videro l'eroe e le armi sfavillanti tra le ombre,
trepidavan per l'enorme paura in parte volgevan le spalle,
come quando un tempo corsero alle navi; in parte alzavano
una flebile voce: il grido iniziato di chi apre bocca si annulla.


L'OMBRA SFIGURATA DI DEIFOBO ( 494-546)
Proprio qui vede il priamide Deifobo, dilaniato
in tutto il corpo, crudelmente lacero in volto,
in volto ed ambe le mani, le tempia devastate, le orecchie strappate, le narici troncate da orribile ferita.
A stento così lo riconobbe tremante e che copriva
i crudeli supplizi, poi lo chiama con chiare parole:
"Deifobo potente in armi, prole della grande stirpe di Teucro,
chi tanto crudele volle vendicarsi?
A chi fu possibile così tanto su di te? La fama mi riferì
che nell'ultima notte tu stanco per la grande strage di Pelasgi,
cadesti sopra il cumulo di confuso massacro.
Allora io sul lido reteo ti feci un tumulo vuoto
e per tre volte chiamai a gran voce i Mani:
Il nome e le armi custodiscono il posto: Non potei
vedere te, amico, e porti nella terra patria, partendo".
A ciò il priamide: "Ah, nulla fu tralasciato da te, amico,
tutto hai assolto per Deifobo e per le ombre di morte.
I miei fati e il mortale delitto della Spartana
mi immersero in questi mali: ella mi lasciò questi ricordi.
Tu sai comme passammo tra false gioie l'ultima notte,
è necessario purtroppo ricordare.
Quando il cavallo fatale giunse sopra
Pergamo e gravido portò in grembo la fanteria armata,
ella, simulando una danza, portava in giro le frigie
inneggianti i riti; lei in mezzo teneva una fiaccola
enorme e chiamava i Danai dall'alta rocca.
Allora l'infelice talamo mi accolse, sfinito d'affanni,
una dolce profonda quiete mi oppresse
mentre dormivo similissima alla placida morte.
Frattanto la nobile sposa toglie dalla casa tutte
le armi e aveva sottratto la spada fidata da sotto la testa:
chiama in casa Menelao e apre le porte, certamente
sperando che ciò sarebbe stato gran dono per l'amante
e così si potesse estinguere la fama degli antichi mali:
Perché indugio? Irrompono in camera: si aggiunge insieme
compagno e maestro di delitti l'eolide: O dei, ai Grai
tali cose restituite, se chiedo vendetta con voce pia.
Ma racconta a tua volta, orsù, quali vicende ti portarono
qui vivo? Arrivi spinto dai viaggi del mare
o per ordine degli dei? O quale sorte ti affanna
da raggiungere le tristi case senza sole, luoghi oscuri?"
A questo scambio di parole, l'Aurora con rosee quadrighe
ormai aveva passato la metà dell'asse celeste con etereo
percorso e forse passerebbero tutto il tempo dato con tali
discorsi, ma la compagna ammonì e brevemente la Sibilla
intervenne; "La notte corre, Enea, noi piangendo passiamo
le ore. Questo è il luogo dove la via si divide in due parti:
la destra che guida sotto le mura del grande Dite,
di qui per noi è la strada per l'Elisio; la destra invece
tratta le pene dei mali ed immette nell'empio Tartaro."
Deifobo allora: "Non infierire, grande sacerdotessa,
Partirò, entrerò nella massa, e sarò restituito alle tenebre.
Va', va', nostra gloria: abbi destini migliori.".
Disse solo questo e nel discorso volse i passi.

deifobo
Menelao si riconcilia con Elena dopo la morte di Deifobo di J.H. W. Tischbein

IL TARTARO (547-636)
Enea osserva: ed ecco vede a sinistra sotto una rupe
ampi bastioni, circondati da triplice muto
che il tartare fiume Flegetonte attornia
Con fiamme incandescenti e trascina massi risonanti.
La porta di fronte, enorme, le colonne di duro acciaio,
che nessuna forza di uomini, né gli stessi celesti
possano rompere col ferro: una torre di ferro s'erge nell'aria,
e Tisifone, sedendo, avvolta in cruento mantello,
insonne controlla il vestibolo notte e giorno.
Qui si sentivano gemiti e frustate crudeli
risuonavano, poi stridore di ferro e catene trascinate.
Si fermò Enea e atterrito dallo strepito esitò:
che spettacolo di delitti? vergine, parla; da che pene
sono straziati? Che pianto sì grande nell'aria?
Allora la profetessa così cominciò a dire: "Ilustre guida dei Teucri,
a nessun giusto è lecito stare sulla soglia scellerata;
ma quando Ecate mi incaricò dei boschi dell'Averno,
lei stessa narrò le pene degli dei e mi condusse dappertutto.
Radamanto di Cnosso tiene questi terribilissimi regni,
castiga, sente gli inganni e costringe a confessare
ciò che ognuno tra i vivi, contento d'un vano furto,
differì alla morte lontana l'espiazione dovuta.
Subito, balzando, Tisifone vendicatrice, munita di frusta, scuote
e incalza i colpevoli, scagliando con la sinistra torve
serpi e chiama le terribili schiere delle sorelle.
Poi finalmente le sacre porte stridendo sul cardine
dal suono orrendo si aprono. Vedi quale guardia
sieda nel vestibolo? Che mostro controlli la soglia?
L'Idra dalle enormi cinquanta gole nere, troppo crudele,
occupa il luogo dentro. Poi Tartaro stesso
due volte si apre a precipizio e tanto s'addentra tra le ombre
quanto l'altezza del cielo rispetto al celeste Olimpo.
Qui l'antica prole della Terra, il popolo titanio,
cacciati da un fulmine si rotolano nel fondo dell'abisso.
Qui pure vidi i gemelli Aloidi, corpi
giganteschi, che tentarono con le mani di squarciare
il grande cielo e cacciare Giove dai regni celesti.
Vidi anche Salmoneo che espiava pene crudeli:
mentre imita le fiamme di Giove e i rimbombi dell'Olimpo,
lui trascinato da quattro cavalli e scuotendo una fiaccola
attraverso i popoli dei Grai e la città del centro dell'Elide,
andava esultando e si arrogava il culto degli dei:
pazzo! Tanto da simulare i nembi e il fulmine inimitabile
col bronzo e col galoppo dei cavalli zoccolati.
Ma il padre onnipotente scagliò tra le dense nubi un'arma,
non fiaccole e neppure luci fumose per fiaccole
e lo gettò a precipizio in un gigantesco vortice.
C'era pure da vedere Tizio, figlio della Terra generatrice
universale, il cui corpo si stende per nove iugeri
interi: un gigantesco avvoltoio rodendo col becco adunco
il fegato immortale, viscere feconde per le pene, lo scava
per il pasto e abita sotto l'alto petto:
e non vien dato alcun riposo alle fibre rinate.
Perché ricordare i Lipiti, Issione, Piritoo?
Sopra di essi una nera roccia che quasi quasi sta per crollare,
non dissimile da una che cade: aurei sostegni splendono
per gli alti letti festosi e son pronti davanti alle bocche i pranzi
con lusso regale; vicino la maggiore delle Furie
vigila e e vieta di toccare con le mani le mense
e si alza reggendo una fiamma e tuona con la bocca.
Qui, quelli che odiarono i fratelli, mentre la vita scorreva,
o cacciato un genitore e si intentò una frode al povero
oppure quelli che da egoisti si buttarono su ricchezze
trovate, ma non le spartiron: questa folla è immensa,
quelli uccisi per adulterio, che seguirono
le empie armi non temendo di tradire le destre dei padroni,
rinchiusi aspettan la pena. Non chieder di sapere
quale pena e che forma o sorte travolse gli uomini.
Alcuni rotolano un masso enorme, altri pendon
legati a raggi di ruote; siede e siederà in eterno
l'infelice Teseo ed il miserrimo Flegias ammonisce
tutti ed a gran voce dichiara tra le ombre:
"Ammoniti imparate la giustizia e non disprezzate gli dei".
Questi ha venduto la patria per denaro e impose un potente
tiranno, fece e disfece le leggi dietro compenso;
costui occupò il letto della figlia, nozze proibite:
tutti osando enorme sacrilegio e ottennero quanto osato.
No, se avessi cento lingue e cento bocche,
una voce di ferro, non potrei abbracciare tutte le forme
di delitti, enumerare tutti i nomi delle pene."
Come l'anziana sacerdotessa di Febo espresse queste parole,
"Ma orsù, prendi la via e compi l'offerta iniziata;
affrettiamoci disse. Vedo le mura costruite dalle officine
dei Ciclopi e le porte con l'arco davanti,
dove gli ordini ci obbligano di deporre questi doni":
Aveva detto e avanzando insieme per il buio delle strade
completano la distanza frapposta e s'avvicinano ai battenti:
Enea occupa l'ingresso e asperge di acqua fresca
il corpo e attacca il ramo sulla soglia davanti.


I CAMPI ELISI ( 637-678)
Compiuti dunque i riti, consegnato il dono alla dea,
giunsero ai luoghi ridenti, alle amene verzure,
le sedi beate dei boschi fortunati:
Qui l'aria è più pura e veste di luce purpurea
le pianure, vedono un loro sole e stelle loro.
Alcuni esercitano le membra in palestre erbose,
si sfidano nel gioco e lottano su bionda sabbia,
altri ritmano coi piedi le danze e cantan canzoni.
Inoltre un sacerdote trace con lunga veste
suona con ritmo le sette corde dei suoni,
e le tocca ora con le dita, ora col plettro d'avorio.
Qui è l'antica stirpe di Teucro, bellissima prole,
magnanimi eroi, nati in tempi migliori,
Ilo, Assaraco ed il fondatore di Troia Dardano.
Ammira le armi e i cocchi vuoti degli eroi,
le lance stanno piantate per terra e qua e là sciolti
i cavalli pascolano per la pianura. Quell'amore dei carri
e delle armi che ebbero da vivi, la passione di pascere cavalli
splendenti, la stessa li segue, ora coperti dalla terra.
Ecco vede altri a destra e a sinistra tra l'erbe
banchettare e in coro cantare un allegro inno
dentro un bosco odoroso d'alloro: di là verso l'alto
scorre attraverso la selva il ricchissimo fiume dell'Eridano.
Qui, a schiera, quelli che soffriron ferite combattendo per la
patria, quei sacerdoti puri, mentre la vita scorreva,
quei profeti pii, che espressero cose vere per Febo,
o quelli che coltivaron la vita attraverso arti inventate
e quelli che si resero memori beneficando gli altri;
per tutti questi le tempie son cinte di candida benda.
A essi stretti intorno, così parlò la Sibilla:
anzitutto a Museo, una foltissima folla lo preme
in mezzo, ammira lui che sovrasta per le alte spalle:
"Dite, felici anime, e tu, ottimo poeta,
quale ambiente, quale luogo trattiene Anchise? Per lui
venimo e passammo i garndi fiumi di Erebo":
E a lei così l'eroe diede risposta con poche (parole):
"Nessuno ha dimora precisa: dimoriamo per boschi ombrosi,
abitiamo i giacigli delle rive e i freschi prati
di ruscelli: Ma voi, se così la volontà vuole nel cuore,
superate questa altura e vi porrò subito su facile percorso":
Disse e portò avanti il passo: dall'alto mostra
pianure splendenti: poi lascian la sommità della cima.


L'OMBRA DEL PADRE ANCHISE (679-702)

Ma il padre Anchise dentro una valle verdeggiante
osservava le anime raccolte e destinate ad andare alla luce
dei viventi, ammirando con amore e contava proprio tutta
la folla dei suoi, i cari nipoti;
i destini e le ricchezza degli eroi, i costumi, le gesta.
Egli come vide Enea che davanti avanzava
sull'erba, pronto tese entrambe le mani: le lacrime
si sparsero sulle guance e la voce proruppe dalla bocca:
"Giungesti finalmente e la tua pietà attesa dal padre
ha vinto il duro cammino? E' dato vedere il tuo volto,
figlio, ascoltare voci conosciute e rispondere?
Proprio così riflettevo in cuore e pensavo il futuro
calcolando i tempi e il mio impegno non mi ingannò:
Io ti accolgo, trascinato per quali terre e per quanti
mari! Sballottato, figlio, da quanti rischi!
Quanto temetti che i regni di Libia ti nuocessero un poco"
Lui in risposta:" O padre, la triste tua immagine
mi spinse, apparendomi spesso, a raggiungere queste sedi;
le flotte stanno sul mar Tirreno. Lasciami stringere la destra,
lascia, padre, e non sottrarti al nostro abraccio"
Così ricordando, insieme rigava il volto di molto pianto:
Tre volte tentò lì di gettargli le braccia al collo;
tre volte l'immagine invano afferrata sfuggì alle mani,
uguale ai leggeri venti e simile al sogno.


SORTE E DESTINO DELLE ANIME (703 -755)

Intanto Enea vede nella vale solitaria
un bosco appartato e i rami della selva risuonanti
e il fiume Leteo che bagna le tranquille dimore.
Attorno a esso volavano innumerevoli popoli e stirpi:
e come nei prati quando le api nella serena estete
si posano sui fiori colorati e si riversano attorno
ai candidi gigli: tutta la pianura echeggia per il mormorio.
Rabbrividisce per la visione improvvisa, l'ignaro Enea e
ne domanda i motivi: quali siano poi quelle correnti,
o quali uomini abbian riempito le rive con sì grande schiera.
Allora il padre Anchise: "Le anime, a cui per fato
sono dovuti nuovi corpi, presso l'onda del fiume Leteo
bevono liquidi sicuri e lunghi oblii.
Senz'altro desidero ricordarti e mostrare apertamente
e da tempo enumerare questa prole dei miei,
perché con me gioisca di più, trovata l'Italia."
"O padre, bisogna pensare che alcune anime di qui
vadano leggere al cielo e di nuovo tornino ai corpi
pesanti? Quale sì crudele desiderio di luce per le misere anime?"
"Parlerò certamente e non ti terrò sospeso, figlio"
riprende Anchise e chiarisce con ordine cosa per cosa.
"In principio lo spirito dentro anima il cielo, le terre,
le limpide pianure, il globo lucente della luna,
le stelle titanie e l'anima diffusa per le membra
smuove tutta la mole e s'unisce al grande corpo.
Di qui la specie umana e animale, le vite degli uccelli,
e i mostri che il mare offre sotto l'onda marmorea.
Tali semi hanno vigore igneo e origine celeste,
fin quando non li ritardino i corpi nocivie li
inebetiscano organi di terra e membra che devon morire.
Perciò temono e vogliono, soffron e godono, ma
non vedono i cieli, chiuse in tenebre e carcere cieco.
Anzi quando la vita se n'è andata con l'ultima luce,
tuttavia non tutto il male né tutte le malattie fisiche
se ne vanno completamente dai miseri: è necessario che
molte cose troppo indurite si sviluppino in strani modi.
Orbene son travagliate dalle pene e pagano i tormenti
dei mali passati: alcune vuote si aprono
sospese ai venti; per altre in un vasto gorgo
il peccato impregnato vien lavato o bruciato dal fuoco:
tutti soffriamo i propri castighi: di lì siam mandati
nell'ampio Elisio e in pochi otteniamo i campi felici,
finchè un lungo giorno, compiutosi il corso del tempo,
ha tolto la macchia impregnata e lascia puro
il senso celeste e il fuoco dal semplice soffio.
Tutte queste le chiama il dio, quando han girato la ruota
mille anni, presso il fiume Leteo in gran numero,
perché poi immemori rivedano il mondo di sopra
e di nuovo comincino a voler ritornare nei corpi.
Aveva parlato Anchise e attira il figlio e anche la Sibilla
in mezzo a gruppi e tra una folla che grida,
raggiunge un'altura, da cui potesse vedere tutti davanti
in lunga fila e riconoscere i volti dei passanti.

elisi
I campi elisi


RASSEGNA DEGLI EROI ROMANI (756 - 787)

Orsù adesso la prole dardania e poi quale gloria ne segua,
quali siano i nipoti dalla popolazione italica,
le anime illustri destinate alla nostra gloria,
le spieghierò a parole e a te rivelerò i tuoi destini.
Quel giovane, vedi, che si appoggia alla pura lancia,
tiene per sorte i luoghi vicinissimi alla luce, per primo sorge
per l'aria celeste, misto di sangue italico,
Silvio, nome albano, tua prole postuma,
che tardi per te vecchio la sposa Lavinia alleva
nei boschi re e padre di re,
da cui la nostra stirpe dominerà Alba Longa.
E' vicino quel Proca, gloria del popolo troiano,
Capi, Numitore e chi ti rinnoverà col nome
Silvio Enea, ugualmente famoso per pietà e armi,
se mai riceverà Alba da governare.
Che giovani! Guarda quali forze mostrano!
E portan le tempie adombrate di quercia civica!
Questi ti costruiranno Nomento, Gbi, e la città di Fidene,
questi ergeranno sui monti le rocche collatine,
Pomezia, il castello d'Inuo, Bola e Cora:
Allora questi saranno i nomi, ora son terre senza un nome.
Ancora Romolo, figlio di Marte, si unirà come compagno
al nonno, la madre Ilia della stirpe di Assaraco
lo alleverà. Vedi come le creste s'ergon gemelle alla sommità,
e lo stesso padre dei celesti lo segna già del suo onore?
Ecco, figlio, coi suoi auspici quella famosa Roma:
eguaglierà l'impero alle terre, gli animi all'Olimpo,
unica si circonderà le sette rocche di muraglia,
fortunata per stirpe d'eroi: come la madre Berecinzia
turrita è portata sul cocchio per le città frigie,
gioiosa per la nascita di dei, abbracciando cento nipoti,
tutti celesti, tutti occupanti le massime altezze.


IL DIVINO CESARE AUGUSTO (788 -807)
Ora volgi qui i tuoi due occhi: osserva questo popolo,
i tuoi Romani. Qui c'è Cesare e tutta la stirpe
di Iulo, che verrà sotto l'asse del cielo:
Qui c'è l'eroe, questi, che più volte ti senti promesso,
Cesare Augusto, stirpe del dio, che di nuovo sul Lazio
fonderà le età d'oro, per campi un tempo governati
da Saturno, porterà il regno sopra i Garamanti
e gli Indi: il territorio sta fuori degli astri,
fuori dalle vie dell'anno e del sole, dove Atlante, portatore del cielo,
regge sulla spalla l'asse ornato di stelle splendenti.
Già ora per il suo arrivo i regni del Caspio temono
per i responsi degli dei, la terra Meozia
e le trepidanti foci del Nilo si turbano.
Neppure l'Alcide affrontò tanta terra
anche se trafisse la cerva dagli zoccoli di bronzo e se pacificò
i boschi d'Erimanto e se atterrì Lerna con l'arco:
ma neppure Libero, che vincitore guida le pariglie con briglie
di pampini, spingendo le tigri dall'alta cima di Nisa.
E ancora dubitiamo di aumentare l'eroismo con le azioni
o la paura impedisce di fermarci in terra ausonia?


I PRIMI RE ED ALTRI EROI (808 -859)
Ma chi è cului, lontano, illustre per i rami d'olivo
che reca oggetti sacri? Riconosco i capelli e il mento bianco
del re romano, che fonderà l'inizio della città
con le leggi, inviato dala piccola Curi e da povera terra
al grande impero. A lui poi subentrerà Tullio,
che romperà gli ozi della patria e muoverà alle armi
gli uomini pigri e le schiere ormai disabituate
ai trionfi. Vicino lo segue più baldanzoso Anco, ora
già troppo rallegrandosi dei favori popolari:
Vuoi pure vedere i re Tarquini e l'anima fiera
di Bruto vendicatore e i fasci ripresi?
Costui riceverà il primo potere di console
e le tremende scuri e il padre chiamerà a morte i figli,
che muovon nuove guerre per la bella libertà,
infelice, comunque i posteri riferiranno quei fatti.
Vincerà l'amor di patria e l'immensa voglia di gloria.
Poi osserva lontano i Deci, i Drusi e il feroce Torquato
con la scure e Camillo che riporta le insegne.
Ma quelle anime, che vedi risplendere con armi uguali,
adesso concordi e finchè sono oppressi dalla notte.
Ahi, quale guerra tra loro se raggiungerano le luci
della vita, quali eserciti e che stragi richiameranno,
il suocero discendendo dalle alture alpine e dalla rocca
di Monaco, il genero, armato dall'oriente nemico.
No, ragazzi, non abituatevi a tali guerre nei cuori
e non rivolgete le energiche forze contro il seno della patria;
e tu per primo, tu, perdona, che hai il sangue dall'Olimpo,
getta le armi dalla mano, o samgue mio.
Quello, vinta Corinto, condurrà da vincitore il cocchio
all'alto Campidoglio, illustre per gli Achei uccisi.
Egli abbatterà Argo e l'agamennonia Micene,
lo stesso Eacide, stirpe d'Achille potente nell'armi,
vendicando gli avi di Troia e i templi profanati di Minerva.
Chi lascerebbe in silenzio te, grande Catone?
Chi la stirpe di Gracco o entrambi gli Scipioni, due fulmini
di guerra, rovina dell Libia o Fabrizio, potente
di povertà, o te, Serrano, che semini nel solco?
Dove mi trascinate, stanco, o Fabi? Sei tu quel Massimo,
che da solo, temporeggiando, rigeneri lo stato?
Altri plasmeranno meglio le statue palpitanti,
lo credo proprio, trarranno dal marmo volti vivi,
tratteranno meglio i processi e descriveranno con lo strumento
le strade del cielo e prediranno gli astri nascenti:
tu, Romano, ricordati di guidare i popoli col potere.
Tu avrai queste arti: imporre usanze di pace,
perdonare ai vinti e abbattere i superbi":
Così il padre Anchise e aggiunge per quelli che stupivano:
"Osserva come Marcello, glorioso per le ricche spoglie,
avanza e da vincitore supera tutti gli eroi.
Costui, da cavaliere, sistemerà lo stato romano, quando
un grande tumulto sconvolga, vincerà i Puni e il Gallo ribelle,
e appenderà per terzo al padre Quirino le armi catturate."


IL GIOVANE MARCELLO (860 -887)
Ma qui Enea (infatti vedeva insieme procedere
un giovane, bello d'aspetto e splendente nelle armi,
ma poco lieta la fronte, gli occhi col volto abbassato):
"Chi è, padre, colui che accompagna l'eroe che avanza?
Il figlio o qualcuno dei nipoti della grande stirpe?
Che fervore di compagni, attorno! Quanta maestà in lui!
Ma una nera notte attornia il capo di triste ombra".
Allora il padre Anchise, spuntate le lacrime, iniziò:
"O figlio, con chiedere l'enorme lutto dei tuoi:
i fatti lo mostreranno soltanto in terra né lasceranno
che resti di più. O celesti, la stirpe romana vi sembrò
troppo potente se questi doni fossero stati suoi.
Quanti gemiti d'eroi provocherà quella piana presso
la grande città di Marte! Quali funerali, o Tevere,
vedrai, quando scorrerai oltre la tomba fresca.
Nessun ragazzo della stirpe di Ilio innalzerà a tanto
per speranza gli avilatini, né la terra di Romolo
si glorierà mai tanto di alcun figlio.
Oh pietà, oh antica fede, destra invincibile
in guerra. A lui armato, nessuno si sarebe recato contro
impunemente, sia andando contro il nemico da fante, sia che calcasse con gli speroni i fianchi di spumeggiante cavallo.
Ohi, ragazzo degno di pianto: se mai rompessi i tuoi fati,
tu resterai Marcello. Gettate gigli a piene mani,
che io sparga fiori purpurei e colmi l'anima del nipote
almeno con questi doni e faccia un inutile
regalo". Così camminano qua e là per tutta la regione
in vaste pianure ariose e osservano tutto.


USCITA DAL REGNO DEGLI INFERI (888-901)
Dopo che Anchise ebbe condotto il figlio per ogni singola parte
ed ebbe incendiato lo spirito di amore della fama in arrivo,
allora ricorda all'eroe le guerre, che son poi da combattere,
illustra i popoli di Laurento e la città di Latino
e in che modo fugga e sopporti ogni fatica.
Son due le porte del Sonno, di cui una si dice
cornea, da cui è data una facile uscita alle vere ombre:
la seconda, brillante, fatta di splendente avorio,
ma gli spiriti mandano al cielo falsi sogni.
Qui poi Anchise accompagna il figlio insieme con la Sibilla
con queste parole e li lascia dalla porta d'avorio:
egli taglia la via verso le navi e rivede i compagni.
Poi si reca al porto di Gaeta per il litorale diritto.
L'ancora è calata dalla prua: sul lido stanno le poppe.

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Eugenio Caruso -23 -04 - 2021

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