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Dante, Paradiso, Canto II. Ascesa al cielo della Luna.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno ad essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO II

Il Canto descrive l'ascesa di Dante e Beatrice al Cielo della Luna ed è dedicato in gran parte alla spiegazione dell'origine delle macchie lunari, con una pagina che a molti commentatori è sembrata un arido esercizio didascalico e intellettuale, una sorta di pausa filosofica prima dell'incontro con i beati. In realtà tale spiegazione è significativa, in quanto è una sorta di introduzione preliminare al Paradiso ed è infatti posta all'inizio della Cantica, poiché deve preparare il lettore al modo corretto di interpretare ciò che sarà descritto in seguito: non a caso l'inizio del Canto è una sorta di severo ammonimento ai lettori in piccioletta barca, ovvero non in pieno possesso delle conoscenze teologiche necessarie ad affrontare il viaggio in Paradiso, che sono invitati a tornare a riva per evitare il rischio di perdersi nel pelago affrontato dal poeta. Solo chi si è nutrito per tempo della dottrina può seguire la scia della nave dell'ingegno dantesco (la stessa immagine dell'esordio del Purgatorio), che solca un mare non mai percorso da nessun altro, per cui Dante rivendica con orgoglio il fatto di essere il primo ad affrontare una simile materia poetica e afferma il carattere ispirato della sua opera, dal momento che Minerva soffia i venti favorevoli, Apollo regge il timone, le Muse indicano la giusta rotta. Chi leggerà il Paradiso vedrà cose mai viste prima d'ora e si stupirà tanto quanto gli Argonauti quando videro Giasone trasformato in contadino, con un significativo riferimento ad Argo che nel mito era la prima nave a solcare il mare e la cui apparizione stupì tutte le divinità marine, come ad esempio Nettuno.
In effetti l'ascesa al Cielo della Luna è un primo esempio del carattere incredibile delle cose narrate, a cominciare dal fatto che Dante, dotato di un corpo solido, penetra nella materia dell'astro in modo incomprensibile alla ragione umana: di ciò non è fornita una spiegazione fisica o scientifica, ma si dice solo che questo e altri misteri ci saranno svelati quando saremo in Paradiso, dove ciò che tenem per fede sarà spiegato non attraverso una dimostrazione ragionata, ma attraverso degli assiomi evidenti di per se stessi. Questo è il punto centrale del Canto, ovvero la non dimostrabilità razionale dei misteri del divino e l'insufficienza della sola ragione umana a comprenderli, per cui la successiva questione delle macchie lunari serve a ribadire questo concetto: Beatrice chiede a Dante la sua opinione in merito e il poeta riferisce quella già espressa in Conv., II, 13, secondo cui le macchie scure sulla Luna sarebbero dovute alla maggiore o minore densità dell'astro. Comunque questa parte della Commedia è davvero noiosa. Tale spiegazione è appunto «scientifica» e Beatrice la confuta con argomenti fisici, per poi illustrare la vera origine del fenomeno che avrà invece carattere metafisico e sarà collegata alla teoria degli influssi celesti già trattati nel Canto precedente, il che ribadisce quanto detto prima da Dante circa la non dimostrabilità degli articoli di fede e l'insufficienza degli argomenti sensibili, poiché (spiega Beatrice) dietro ai sensi... la ragione ha corte l'ali.
La spiegazione di Beatrice si divide infatti in due parti, di cui la prima è la pars destruens che dimostra errata la teoria di Dante nel Convivio con argomentazioni di carattere scientifico, mentre la seconda è la pars construens che, viceversa, chiama in causa ragioni di ordine metafisico e trascendente, quindi è come se Beatrice-teologia dimostrasse l'inadeguatezza della sola filosofia ad affrontare simili questioni. Questo era stato probabilmente il peccato compiuto da Dante all'epoca del cosiddetto «traviamento», e il fatto che qui (come altrove) egli corregga opinioni espresse nel Convivio avvalora l'ipotesi che quell'opera fosse il prodotto dell'eccessiva fiducia nelle possibilità della ragione umana e che soprattutto il Paradiso ne sia una sorta di ritrattazione.

L'interpretazione teologica cozza comunque con quella scientifica già all'epoca di Dante. Ai tempi di Pitagora, come enunciava la scuola pitagorica, la Luna veniva considerata un pianeta. Uno dei primi sviluppi dell'astronomia fu la comprensione dei cicli lunari. Già nel V secolo a.C. gli astronomi babilonesi registrarono i cicli di ripetizione delle eclissi lunari e gli astronomi indiani descrissero i moti di elongazione della Luna. Successivamente fu spiegata la forma apparente della Luna, le fasi, e la causa della Luna piena. Anassagora affermò per primo, nel 428 a.C., che Sole e Luna fossero delle rocce sferiche, con il primo a emettere luce che la seconda riflette. I cinesi della dinastia Han ammettevano che la luce della Luna fosse solo un riflesso di quella del Sole. Jing Fang, vissuto tra il 78 e il 37 a.C., notò anche che la Luna avesse una certa sfericità. Nel secondo secolo dopo Cristo, Luciano scrisse un racconto dove gli eroi viaggiavano fino alla Luna scoprendo che era disabitata. Nel 499, l'astronomo indiano Aryabhata menzionò nella sua opera Aryabhatiya che la causa della brillantezza della Luna è proprio la riflessione della luce solare. All'inizio del Medioevo alcuni astronomi ipotizzarono che la Luna fosse una sfera perfettamente liscia, come sosteneva la teoria aristotelica, e altri che vi si trovassero oceani (a tutt'oggi il termine «mare» è impiegato per designare le regioni più scure della superficie lunare). Il fisico Alhazen a cavallo dell'anno 1000, scoprì che la luce solare non è riflessa dalla Luna come uno specchio, ma è riflessa da tutta la superficie in tutte le direzioni. Giova ricordare che in ambito pitagorico vi furono, addirittura, idee eliocentriche tramandate in forma di mito (le immagini del Sole come Apollo Musagete che suona la lira dalle sette corde, o come Pan che soffia al suo flauto dalle sette canne, un'allegoria del sistema eliocentrico con i sette pianeti), e anche in seguito l'astronomia greca avanzò alcuni modelli alternativi al geocentrismo e alle sfere omocentriche di Eudosso di Cnido, a partire ad esempio con Eraclide Pontico. Nato ad Eraclea Pontica ma trasferitosi ad Atene, dove fu probabilmente discepolo di Aristotele al Liceo, Eraclide, per spiegare il moto diurno dei cieli, pensò a un moto della terra intorno al proprio asse da occidente ad oriente; probabilmente ipotizzò il movimento di Venere e di Mercurio intorno al Sole. Nella prima metà del III secolo a.C. Aristarco di Samo teorizzò esplicitamente l'eliocentrismo nella sua forma attuale e successivamente, secondo la testimonianza di Plutarco, Seleuco di Seleucia ne dette anche una dimostrazione. La teoria eliocentrica fu però fermamente rifiutata, nel II secolo d.C., da Tolomeo, che era certo della centralità e immobilità della Terra nell'universo.

La dimostrazione di Beatrice segue rigorosamente i procedimenti della Scolastica, per cui l'opinione di Dante è ricondotta a due possibilità (o la Luna è talmente rada da avere dei «buchi» da parte a parte, cosa evidentemente non vera, oppure ha una massa compatta anche se con diversa densità); l'esperimento dei tre specchi e del lume dimostra scientificamente che la superficie lunare, anche se più o meno densa, riflette allo stesso modo la luce in ogni punto, quindi non può essere questa la causa delle macchie scure. Essa è spiegata nella seconda parte del ragionamento, venendo ricondotta alla teoria generale degli influssi celesti: la virtù indistinta che ha origine dal Primo Mobile discende nell'VIII Cielo, dove si divide nelle varie stelle; da qui discende nei Cieli sottostanti, dove le intelligenze angeliche che fanno ruotare i Cieli infondono tale virtù nella materia dell'astro, che si lega in modo diverso e risplende in modo più o meno intenso a seconda di come avviene questa lega, proprio come la gioia si manifesta in maggiore o minor misura negli occhi delle persone. Questo fa sì che le Stelle siano più o meno splendenti e che la Luna sia scura in alcune parti, per cui la ragione è di ordine metafisico e non piò essere dimostrata in modo scientifico, con argomenti sensibili, poiché i sensi umani sarebbero del tutto inadeguati alla comprensione di ciò che va oltre l'intelletto umano.
In tal modo Dante ha fatto seguire un esempio lampante di quanto ha affermato nel monito dei primi versi, poiché è evidente che chi non ha adeguate conoscenze teologiche non è in grado di comprendere una simile spiegazione, né tutte le altre di tenore analogo che seguiranno nella Cantica: lungi dall'essere una parentesi didascalica, il Canto vuole spiegare quale sarà il carattere della descrizione del Paradiso e prendere le distanze dal tentativo compiuto dal Convivio, in cui l'origine dei fenomeni naturali era sempre ricercata attraverso la ragione. Come nell'episodio di Ulisse, Dante ci spiega che l'intelletto umano ha un limite invalicabile e oltre ad esso può esserci solo la fede che si nutre del pan de li angeli, cioè della dottrina teologica: qualunque altro tentativo è destinato a fallire, come il viaggio folle di Ulisse terminò col naufragio che è indirettamente evocato all'inizio nell'immagine della piccioletta barca, e come forse ha rischiato di finire il viaggio dantesco prima di iniziare la composizione del poema.

Note
- L'espressione nove Muse (v. 9) indica certamente il numero delle divinità classiche e non il fatto che esse siano «nuove» in quanto cristiane.
- Il pan de li angeli (v. 11) è la teologia, con espressione biblica (cfr. ad es. Sap., XVI, 20).
- I vv. 16-18 alludono al racconto di Ovidio (Met., VII, 100) secondo cui Giasone, giunto nella Colchide, dovette affrontare alcune prove tra cui quella di arare un campo con due buoi mostruosi da lui domati. Nel testo ovidiano lo stupore nel vedere l'eroe è dei Colchidi, non degli Argonauti (v. 120: Mirantur Colchidi).
- Il deiforme regno (v. 20) è l'Empireo, mentre 'l ciel (v. 21) è probabilmente il cielo in generale.
- La similitudine (vv. 22-24) del quadrel («freccia») che viene scoccata e raggiunge veloce il bersaglio contiene un ysteron-proteron, ovvero un'immagine che anticipa qualcosa che avverrà dopo (la freccia prima da la noce si dischiava, ovvero si allontana dalla corda dell'arco, poi vola, infine posa, raggiunge il bersaglio).
- Il termine repe (v. 39) è latinismo e vuole dire «penetra».
- Il ver primo che l'uom crede (v. 45) è l'assioma indimostrato, come le verità matematiche, mentre altri pensano all'idea di Dio.
- Il v. 51 allude alla leggenda secondo cui le macchie lunari erano dovute a Caino, confinato sulla Luna e condannato a portare un fascio di spine sulle spalle (cfr. Inf., XX, 126).
- Nei vv. 59-60 Dante cita l'opinione circa le macchie lunari espressa in Conv., II, 13: «Che se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si veggiono ne l’altre stelle: l’una sì è l’ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l’altre parti». Tale teoria risale probabilmente ad Averroè (De substantia orbis, 2), mentre qui Dante segue san Tommaso (Comm. de Caelo et Mundo, II, lect. 12).
- L'espressione nel quale e nel quanto (v. 65) indicano la qualità e la quantità delle stelle, con termini aristotelici.
- Al v. 81 ingesto è latinismo e vuol dire «introdotto» (è l'unica occorrenza in Dante).
- Al v. 87 si rifonde significa «si riflette».
- Al v. 94 instanza («obiezione») è termine tecnico del linguaggio della Scolastica.
- Il suggetto del v. 107 è il subiectum della Scolastica, ovvero ciò che sta a fondamento di una cosa, come l'acqua lo è della neve. Beatrice intende dire che la mente di Dante, sgombra dalle idee sbagliate, può acquisire una nuova forma, come la neve, sciolta dal sole, è tornata acqua e può tramutarsi in qualcos'altro.
- Al v. 115 le vedute sono le stelle dell'VIII Cielo.
- I beati motor del v. 129 sono le intelligenze angeliche, che muovono i Cieli.
- Il v. 138, variamente interpretato, forse vuol dire semplicemente che l'intelligenza celeste ruota permanendo nella sua unità.

Angeliche

Gerarchie angeliche

TESTO CANTO II

O voi che siete in piccioletta barca, 
desiderosi d’ascoltar, seguiti 
dietro al mio legno che cantando varca,                         3

tornate a riveder li vostri liti: 
non vi mettete in pelago, ché forse, 
perdendo me, rimarreste smarriti.                                   6

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse; 
Minerva spira, e conducemi Appollo, 
e nove Muse mi dimostran l’Orse.                                   9

Voialtri pochi che drizzaste il collo 
per tempo al pan de li angeli, del quale 
vivesi qui ma non sen vien satollo,                                12

metter potete ben per l’alto sale 
vostro navigio, servando mio solco 
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.                             15

Que’ gloriosi che passaro al Colco 
non s’ammiraron come voi farete, 
quando Iasón vider fatto bifolco.                                     18

La concreata e perpetua sete 
del deiforme regno cen portava 
veloci quasi come ‘l ciel vedete.                                      21

Beatrice in suso, e io in lei guardava; 
e forse in tanto in quanto un quadrel posa 
e vola e da la noce si dischiava,                                     24

giunto mi vidi ove mirabil cosa 
mi torse il viso a sé; e però quella 
cui non potea mia cura essere ascosa,                       27

volta ver’ me, sì lieta come bella, 
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse, 
«che n’ha congiunti con la prima stella».                     30

Parev’a me che nube ne coprisse 
lucida, spessa, solida e pulita, 
quasi adamante che lo sol ferisse.                                33

Per entro sé l’etterna margarita 
ne ricevette, com’acqua recepe 
raggio di luce permanendo unita.                                   36

S’io era corpo, e qui non si concepe 
com’una dimensione altra patio, 
ch’esser convien se corpo in corpo repe,                     39

accender ne dovrìa più il disio 
di veder quella essenza in che si vede 
come nostra natura e Dio s’unio.                                   42

Lì si vedrà ciò che tenem per fede, 
non dimostrato, ma fia per sé noto 
a guisa del ver primo che l’uom crede.                         45

Io rispuosi: «Madonna, sì devoto 
com’esser posso più, ringrazio lui 
lo qual dal mortal mondo m’ha remoto.                        48

Ma ditemi: che son li segni bui 
di questo corpo, che là giuso in terra 
fan di Cain favoleggiare altrui?».                                     51

Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra 
l’oppinion», mi disse, «d’i mortali 
dove chiave di senso non diserra,                                  54

certo non ti dovrien punger li strali 
d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi 
vedi che la ragione ha corte l’ali.                                     57

Ma dimmi quel che tu da te ne pensi». 
E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso 
credo che fanno i corpi rari e densi».                             60

Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso 
nel falso il creder tuo, se bene ascolti 
l’argomentar ch’io li farò avverso.                                   63

La spera ottava vi dimostra molti 
lumi, li quali e nel quale e nel quanto 
notar si posson di diversi volti.                                        66

Se raro e denso ciò facesser tanto, 
una sola virtù sarebbe in tutti, 
più e men distributa e altrettanto.                                   69

Virtù diverse esser convegnon frutti 
di princìpi formali, e quei, for ch’uno, 
seguiterìeno a tua ragion distrutti.                                  72

Ancor, se raro fosse di quel bruno 
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte 
fora di sua materia sì digiuno                                         75

esto pianeto, o, sì come comparte 
lo grasso e ‘l magro un corpo, così questo 
nel suo volume cangerebbe carte.                                 78

Se ‘l primo fosse, fora manifesto 
ne l’eclissi del sol per trasparere 
lo lume come in altro raro ingesto.                                 81

Questo non è: però è da vedere 
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi, 
falsificato fia lo tuo parere.                                               84

S’elli è che questo raro non trapassi, 
esser conviene un termine da onde 
lo suo contrario più passar non lassi;                           87

e indi l’altrui raggio si rifonde 
così come color torna per vetro 
lo qual di retro a sé piombo nasconde.                        90

Or dirai tu ch’el si dimostra tetro 
ivi lo raggio più che in altre parti, 
per esser lì refratto più a retro.                                        93

Da questa instanza può deliberarti 
esperienza, se già mai la provi, 
ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arti.                            96

Tre specchi prenderai; e i due rimovi 
da te d’un modo, e l’altro, più rimosso, 
tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.                                  99

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso 
ti stea un lume che i tre specchi accenda 
e torni a te da tutti ripercosso.                                        102

Ben che nel quanto tanto non si stenda 
la vista più lontana, lì vedrai 
come convien ch’igualmente risplenda.                      105

Or, come ai colpi de li caldi rai 
de la neve riman nudo il suggetto 
e dal colore e dal freddo primai,                                    108

così rimaso te ne l’intelletto 
voglio informar di luce sì vivace, 
che ti tremolerà nel suo aspetto.                                   111

Dentro dal ciel de la divina pace 
si gira un corpo ne la cui virtute 
l’esser di tutto suo contento giace.                               114

Lo ciel seguente, c’ha tante vedute, 
quell’esser parte per diverse essenze, 
da lui distratte e da lui contenute.                                  117

Li altri giron per varie differenze 
le distinzion che dentro da sé hanno 
dispongono a lor fini e lor semenze.                            120

Questi organi del mondo così vanno, 
come tu vedi omai, di grado in grado, 
che di sù prendono e di sotto fanno.                            123

Riguarda bene omai sì com’io vado 
per questo loco al vero che disiri, 
sì che poi sappi sol tener lo guado.                              126

Lo moto e la virtù d’i santi giri, 
come dal fabbro l’arte del martello, 
da’ beati motor convien che spiri;                                 129

e ‘l ciel cui tanti lumi fanno bello, 
de la mente profonda che lui volve 
prende l’image e fassene suggello.                            132

E come l’alma dentro a vostra polve 
per differenti membra e conformate 
a diverse potenze si risolve,                                           135

così l’intelligenza sua bontate 
multiplicata per le stelle spiega, 
girando sé sovra sua unitate.                                        138

Virtù diversa fa diversa lega 
col prezioso corpo ch’ella avviva, 
nel qual, sì come vita in voi, si lega.                              141

Per la natura lieta onde deriva, 
la virtù mista per lo corpo luce 
come letizia per pupilla viva.                                           144

Da essa vien ciò che da luce a luce 
par differente, non da denso e raro; 
essa è formal principio che produce, 

conforme a sua bontà, lo turbo e ‘l chiaro».                148

gerarchie

Grafico delle gerarchie angeliche

PARAFRASI CANTO II

O voi lettori che siete in una piccola barca (avete scarse nozioni di dottrina), desiderosi di ascoltare, che seguite dietro la mia nave che cantando solca il mare, tornate alle coste da cui siete partiti: non vi inoltrate in mare aperto, poiché forse, perdendo la mia scia, vi perdereste.

L'acqua che io percorro non fu mai attraversata da nessuno; Minerva soffia i venti, e Apollo regge il timone, e le nove Muse mi indicano la giusta rotta.

Voi pochi, che vi siete nutriti per tempo del pane degli angeli (la teologia) di cui qui sulla Terra si vive ma non ci si sazia mai, voi vi potete inoltrare in alto mare con la vostra barca, seguendo la mia scia davanti all'acqua che ritorna uguale (là dove la scia si perde).

Quei gloriosi (gli Argonauti) che giunsero nella Colchide, quando videro Giasone diventato contadino, non si meravigliarono tanto quanto farete voi.

L'innata e continua sete del regno simile a Dio (l'Empireo) ci portava in alto, veloci quasi come il movimento dei Cieli.

Beatrice guardava in alto e io in lei; e forse nello stesso breve tempo in cui una freccia viene scagliata dalla corda, vola e giunge al bersaglio, io arrivai dove uno spettacolo meraviglioso attirò il mio sguardo;

e perciò colei (Beatrice) alla quale nessun mio pensiero poteva essere nascosto, rivolta a me, tanto lieta quanto era bella, mi disse: «Rivolgi la tua mente ed esprimi gratitudine a Dio, che ci ha portati nella prima stella (nel Cielo della Luna)».

Mi sembrava che ci coprisse una nube luminosa, spessa, solida e tersa, simile a un diamante illuminato dal sole.

La gemma eterna ci accolse dentro di sé, come l'acqua riceve il raggio di sole rimanendo unita.

Se io avevo un corpo solido, e qui non si capisce come una dimensione poté sopportare l'altra, ciò che deve per forza succedere se un corpo penetra in un altro corpo, ci dovrebbe accendere ancor più il desiderio di vedere quell'essenza (Dio) in cui si vede il mistero dell'incarnazione del divino.

Lì, in Paradiso, vedremo ciò che crediamo per mezzo della fede, non dimostrato razionalmente, ma reso noto come le verità assiomatiche che l'uomo crede per se stesse.

Io risposi: «Mia signora, tanto devoto quanto non si può essere di più, io ringrazio Dio che mi ha separato dal mondo mortale.

Ma ditemi: che cosa sono i segni oscuri (le macchie lunari) di questa stella, che laggiù in Terra inducono alcuni a favoleggiare di Caino?»

Lei sorrise un poco, quindi mi disse: «Se l'opinione degli uomini è in errore, in quella materia in cui i sensi non forniscono spiegazioni adeguate, certo non ti dovresti stupire ormai, poiché vedi che la ragione non può sempre andare dietro ai sensi.

Ma dimmi la tua opinione in merito». E io: «Credo che le differenze di luminosità degli astri siano causate dalla differente densità del corpo stellare».

E lei: «Certo vedrai che il tuo pensiero è totalmente erroneo, se ascolti con attenzione le argomentazioni con cui io lo confuterò.

L'VIII Cielo (delle Stelle Fisse) vi mostra molte stelle, le quali appaiono diverse per quantità e qualità.

Se ciò fosse causato solo dalla differente densità, allora in tutti sarebbe presente la medesima virtù, distribuita in misura maggiore, minore o uguale.

Invece è necessario che virtù diverse siano il prodotto di differenti principi formali, i quali secondo il tuo ragionamento sarebbero ridotti a uno solo (quello della densità).

Inoltre, se la ragione che tu cerchi della diversa luminosità fosse la minore densità, allora questo pianeta (la Luna) sarebbe privo di massa da una parte all'altra, oppure, come un corpo distribuisce in modo ineguale il grasso e il magro, così la Luna avrebbe differenza di massa al suo interno.

Se fosse vera la prima ipotesi, ciò si vedrebbe durante le eclissi di sole, perché la luce solare trasparirebbe come fa quando è immessa in un altro corpo diafano.

Questo naturalmente non succede: dunque resta da verificare l'altra ipotesi; e se io confuterò anche quella, allora la tua opinione si dimostrerà falsa.

Se la Luna è rarefatta, non però da parte a parte, bisogna che ci sia un punto al di là del quale ci sia la massa solida;

e da lì il raggio del sole si riflette proprio come la luce è riflessa da uno specchio (un vetro che nasconde dietro di sé del piombo).

Ora tu dirai che il raggio in quel punto più rarefatto è meno luminoso, poiché è riflesso più in profondità.

Da questa obiezione può liberarti l'esperienza, se tu vorrai farla, la quale suole essere principio di tutta la vostra conoscenza.

Prenderai tre specchi; e ne porrai due a eguale distanza da te, e il terzo più lontano e posto al centro degli altri due.

Rivolto verso di essi, fa' in modo che dietro le spalle ti stia un lume che si rifletta in ugual modo nei tre specchi e che tu possa vederlo in tutti e tre.

Anche se lo specchio più lontano riflette il lume con minor dimensione, vedrai che in esso la luce splende con l'identica luminosità degli altri due.

Ora, come ai caldi raggi del sole la neve si scioglie e si trasforma in acqua, priva del colore e del freddo della neve stessa, così io voglio dare nuova forma al tuo intelletto che è spoglio dell'errore, illuminandoti con una luce così intensa che nel suo aspetto ti sembrerà tremolante come quella di una stella.

Nel Cielo della pace divina (Empireo) ne ruota un altro (Primo Mobile) nella cui virtù giace l'essenza di ogni suo contenuto (di tutte le cose dell'Universo).

Il Cielo successivo (delle Stelle Fisse), che ha tante stelle, divide quell'essenza fra tutti gli astri, distinti da esso e in esso racchiusi.

Gli altri Cieli dispongono le distinte virtù che hanno in se stessi in modi diversi, al fine di riversare sulla Terra le loro influenze e i fini voluti.

Questi organi dell'Universo procedono così come hai capito di Cielo in Cielo, in modo tale che ricevono un influsso dall'alto e lo riverberano verso il basso.

Guarda bene il modo in cui io procedo verso la verità che desideri, così che poi saprai giungere da solo alla conclusione.

Il movimento e la virtù delle ruote celesti devono procedere dalle intelligenze angeliche, come l'arte del martello deriva dal fabbro;

e il Cielo adornato da tante stelle (l'VIII) prende l'impronta di cui si fa sigillo dalla mente profonda (i Cherubini) che lo fa ruotare.

E come l'anima umana dentro il vostro corpo mette in atto diverse potenze attraverso membra differenti e diversamente formate, così l'intelligenza angelica dispiega la sua bontà moltiplicata per le varie stelle, ruotando pur restando unita.

La virtù così diversificata si lega in modo diverso col prezioso corpo stellare a cui dà vita, nel quale si lega proprio come la vita in voi.

Poiché la virtù compenetrata nell'astro deriva da una natura gioiosa (dell'intelligenza angelica), essa risplende nel corpo stellare come la gioia brilla nella pupilla dell'occhio.

Da questo deriva il fatto che la luminosità degli astri è differente, non dalla diversa densità; essa (la virtù) è il principio formale che produce, in modo conforme alla sua bontà, l'opacità e il chiarore».

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Eugenio Caruso - 25 - 05 - 2021

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