Dante, Paradiso, Canto III. Il cielo della Luna.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno ad essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO III

Il canto terzo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo della Luna, dove risiedono le anime di coloro che mancarono ai voti fatti; siamo nel pomeriggio del 13 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 30 marzo 1300.
Dante leva il capo per dichiarare a Beatrice di essere stato convinto dalla sua spiegazione sulle macchie lunari, quando appare una visione che attrae tutta la sua attenzione. Sono volti umani dai contorni evanescenti come se fossero riflessi in un vetro pulito o in acqua limpida non troppo profonda, così che i lineamenti si distinguono debolmente come i contorni di una perla su una fronte bianca. Dante, incorrendo nell'errore opposto a quello di Narciso, ritiene che siano appunto immagini riflesse, e si volta per vedere le anime; ma nulla c'è dietro di lui, e si rivolge a Beatrice. Ella sorridendo chiarisce che egli sta vedendo proprio delle anime, assegnate a questo cielo per essere venute meno ai voti pronunciati. Lo invita quindi a parlare con fiducia con esse.
Dante, rivolgendosi all'anima che appare più disposta a parlare, chiede chi sia e quale sia la condizione sua e delle altre anime. Essa risponde con prontezza, sorridendo, che la loro carità, sull'esempio di quella divina, induce le anime ad accogliere volentieri le giuste richieste. Dice di essere stata, nella vita terrena, una suora, e fa appello alla memoria di Dante che, malgrado la nuova bellezza di lei, potrà riconoscerla come Piccarda, posta con altri beati nel cielo della Luna. Tutte le anime del paradiso, spiega, sono beate in quanto corrispondono all'ordine voluto da Dio; quelle che si trovano qui hanno questa sorte perché non hanno mantenuto fede ai voti pronunciati.
Il poeta spiega che nell'aspetto delle anime traluce qualcosa di divino che non gli ha permesso di riconoscerla subito; chiede poi se le anime hanno il desiderio di una condizione superiore. Piccarda spiega che la volontà delle anime è appagata dalla virtù della carità, che fa sì che esse desiderino unicamente ciò che hanno; in caso contrario, vi sarebbe contrasto tra la volontà delle anime e la volontà di Dio, il che è impossibile in paradiso, come Dante può comprendere se riflette correttamente: è essenziale alla beatitudine il conformarsi delle singole volontà al volere di Dio e la disposizione dei beati nei diversi cieli risponde a un giudizio superiore che viene condiviso da tutte le anime. Dio, dunque, è quel "mare" al quale si orienta ogni essere creato da Lui o generato dalla natura. Dante afferma di aver ben compreso che il Paradiso è perfetta beatitudine in ogni sua parte.
Dante esprime ora un nuovo dubbio, relativo al voto lasciato incompiuto da Piccarda (metaforicamente, una tela non finita di tessere). Ella racconta di essere entrata giovanissima nell'ordine fondato da Santa Chiara, impegnandosi alla fedeltà fino alla morte. Il fratello però la tolse a forza dal convento, imponendole una vita diversa, cui si limita ad accennare con sofferenza.
Continua Piccarda spiegando che nella stessa condizione si è trovata colei che al suo fianco risplende di luce. Anch'essa fu costretta a tornare alla vita mondana, ma sempre rimase fedele nel cuore al voto pronunciato. È l'anima di Costanza d'Altavilla, sposa dell'imperatore Enrico VI di Svevia e madre di Federico II. Piccarda a questo punto si allontana cantando Ave, Maria e svanisce come un corpo pesante che affonda in un'acqua cupa. Dante cerca di seguirla il più possibile con lo sguardo, poi si volge a Beatrice, ma questa lo abbaglia con il suo splendore e lo induce a ritardare la sua domanda.
In questo canto Dante incontra per la prima volta anime beate del paradiso. Esse, come tutte quelle che incontrerà in seguito, non hanno la loro dimora eterna nei singoli cieli, bensì nell'Empireo, ma si fanno incontro a Dante, con gesto di carità, nei cieli corrispondenti alla virtù dalla quale sono caratterizzate. Nel cielo della Luna vi sono anime di persone che sulla terra hanno pronunciato i voti religiosi ma non si sono mantenute fedeli ad essi per colpa di altri. Il volto delle anime è appena riconoscibile, in quanto i lineamenti sono evanescenti (doppia la similitudine usata dal poeta: come visi riflessi su un vetro o nell'acqua, oppure come una perla su una fronte bianca), mentre nei cieli successivi le anime saranno talmente circonfuse di luce che i loro volti saranno nascosti. Dante si rivolge all'anima il cui atteggiamento appare invitarlo a parlare, e questa sorridendo rivela la propria identità: è una giovane donna fiorentina, della famiglia dei Donati, ben conosciuta da Dante. Si tratta dunque non di una figura di rilievo storico o religioso, bensì di una persona sconosciuta al di fuori del suo ristretto ambiente familiare e cittadino, che esprime un'accoglienza affettuosa e rassicurante.
Accanto a lei vi è un'altra anima, appartenente invece alla sfera delle figure storiche, ovvero Costanza d'Altavilla, moglie e madre di imperatori. La differenza nella condizione terrena è però superata dall'analogia nell'esperienza spirituale, al punto che Piccarda afferma: "Ciò ch'io dico di me, di sé intende". Costanza non parla e lascia che Piccarda non solo riassuma la sua storia ma interpreti i suoi sentimenti ("non fu del vel del cor già mai disciolta",) con il linguaggio delicato e allusivo che ha usato parlando di sé.
I motivi autobiografici sono toccati in modo lieve, mentre maggiore spazio è dato al tema più generale di come i beati vivano la loro diversa condizione, ovvero la maggiore o minore vicinanza a Dio. Le parole di Piccarda chiariscono come "ogne dove / in cielo è paradiso" dato che il paradiso, ossia la felicità eterna, consiste nel pieno aderire delle volontà dei singoli alla volontà di Dio che è perfettamente giusta. Essa è il "mare" al quale si dirige ogni realtà creata, e in essa si acquieta ogni desiderio ("E 'n la sua volontade è nostra pace").

TESTO

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;3

e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;6

ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.9

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,12

tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;15

tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.18

Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;21

e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.24

"Non ti maravigliar perch’io sorrida",
mi disse, "appresso il tuo püeril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,27

ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.30

Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi".33

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’ mi, e cominciai,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga:36

"O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,39

grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte".
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:42

"La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.45

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,48

ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.51

Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.54

E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto".57

Ond’io a lei: "Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:60

però non fui a rimembrar festino;
ma or m'aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m'è più latino.
63

Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?".66

Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:69

"Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.72

Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;75

che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.78

Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;81

sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.84

E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face".87

Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.90

Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,93

così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.96

"Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù", mi disse, "a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,99

perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.102

Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’ mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.105

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.108

E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,111

ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.114

Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.117

Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza".120

Così parlommi, e poi cominciò ’Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.123

La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,126

e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;129

e ciò mi fece a dimandar più tardo.

PARAFRASI

Quel sole (Beatrice) che prima mi scaldò il petto di amore, mi aveva svelato il dolce aspetto della verità con argomentazioni a favore e contrarie;

e io, per confessare che avevo corretto il mio errore ed ero sicuro di aver capito, alzai la testa più diritta quanto era necessario a parlare;

ma mi apparve una visione che attirò a sé il mio sguardo così strettamente, per guardarla, che non mi ricordai più della mia confessione.

Proprio come attraverso vetri trasparenti e chiari, oppure attraverso acque nitide e non turbate (non tanto profonde da non vedere i fondali), tornano i riflessi dei nostri volti così evanescenti che una perla su una fronte bianca non colpisce meno debolmente i nostri occhi, così io vidi più facce di beati pronti a parlare;

allora io incorsi nell'errore opposto a quello che accese amore tra Narciso e la sua immagine specchiata nell'acqua.

narciso

Il mito di Narciso

Non appena mi accorsi degli spiriti, ritenendo che fossero immagini riflesse, mi voltai indietro per vedere di chi fossero;

e non vidi nulla, e tornai a guardare avanti negli occhi della mia dolce guida, che, sorridendo, ardeva nel suo sguardo pieno di santità.

Mi disse: «Non ti stupire se io sorrido del tuo pensiero infantile, dal momento che il tuo intelletto non è ancora sicuro dietro la verità, ma ti fa girare a vuoto come solitamente accade in questi casi:

ciò che tu vedi sono creature reali, relegate qui per inadempienza di voto.

Dunque parla con esse e credi a tutto quello che sentirai; infatti, la luce verace (di Dio) che le rende felici non permette loro di allontanarsi dalla verità».

E io mi rivolsi all'anima che sembrava più desiderosa di parlare, e cominciai, quasi come un uomo indebolito dall'eccessivo desiderio:

«O spirito ben nato, che ai raggi della vita eterna senti una dolcezza incomprensibile se non è provata, mi sarà gradito se mi dirai il tuo nome e la vostra condizione».

Allora lei, pronta e con occhi sorridenti: «La nostra carità non chiude la porta a un giusto desiderio, proprio come quella di Dio che vuole simile a sé tutto il Paradiso.

Nel mondo io fui una suora; e se tu rifletti attentamente, il fatto che io sia più bella non ti nasconderà la mia identità, ma mi riconoscerai come Piccarda Donati, che, posta qui con questi altri beati, sono nel Cielo più lento (della Luna).

piccarda

Raffaello Sorbi, Piccarda Donati fatta rapire dal convento di Santa Chiara dal fratello Corso

I nostri sentimenti, che sono infiammati solo dal piacere dello Spirito Santo, gioiscono nell'adeguarsi al suo ordine.

E questa nostra condizione, che sembra tanto bassa, ci è stata data perché i nostri voti furono inadempiuti e trascurati in alcuni aspetti».

Allora io le dissi: «Nel vostro meraviglioso aspetto risplende qualcosa di divino che vi rende diversi da come eravate in vita:

per questo non fui rapido nel ricordare; ma ora quello che mi dici mi aiuta, così che mi è più semplice raffigurarmi il tuo volto.

Ma dimmi: voi che siete qui felici, desiderate essere in un luogo più alto per vedere Dio più da vicino ed essere in maggior comunione con Lui?»

Con le altre anime dapprima sorrise un poco; poi mi rispose tanto lieta che sembrava ardere nell'amore dello Spirito Santo:

«Fratello, la virtù di carità placa la nostra volontà, e ci induce a volere solo ciò che abbiamo e non ci fa desiderare altro.

Se desiderassimo essere più in alto, i nostri desideri sarebbero discordi dalla volontà di Colui (Dio) che ci colloca qui;

e vedrai che questo non è possibile in questi Cieli, se qui è necessario essere in carità e se osservi bene la natura della carità stessa.

Anzi, alla nostra condizione di beati è essenziale conformarsi alla volontà divina, per cui tutti i nostri desideri diventano uno solo;

cosicché a tutto il regno piace il modo in cui siamo disposti di Cielo in Cielo, e piace al re (Dio) che ci invoglia a uniformarci alla sua volontà.

E nella sua volontà è la nostra pace: essa è quel mare verso il quale si muove tutto ciò che essa crea o che la natura produce».

Allora mi fu chiaro che ogni punto del Cielo è Paradiso, anche se la grazia del sommo bene (divina) non vi viene irraggiata in un solo modo.

Ma come accade quando un cibo sazia e di un altro rimane ancora il desiderio, allorché si chiede di questo e si ringrazia di quello, così feci io negli atti e nelle parole per sapere da lei quale fu la tela di cui non trasse la spola fino alla fine (quale voto non aveva adempiuto).

Mi disse: «Una vita perfetta e un alto merito collocano in un Cielo più alto una donna (santa Chiara d'Assisi), secondo la cui regola sulla Terra ci si veste e si prende il velo, al fine di vegliare e dormire sino alla morte con quello sposo (Cristo) che accetta ogni voto che la carità conforma alla sua volontà.

Per seguirla da fanciulla fuggii dal mondo e vestii il suo abito, promettendo di seguire la regola del suo Ordine.

In seguito degli uomini, avvezzi al male più che al bene, mi rapirono fuori dal dolce convento: Iddio sa quale fu poi la mia vita.

E quest'altro splendore che ti appare alla mia destra e che si accende di tutta la luce del nostro Cielo, capisce bene ciò che io dico di me stessa: fu suora e le fu tolto nello stesso modo il velo dal capo.

Ma dopo che fu rivolta al mondo contro il suo volere e contro ogni buona usanza, tuttavia non fu mai separata dal velo del cuore (continuò a osservare in cuore la regola).

Questa è l'anima della grande Costanza d'Altavilla, che dal secondo imperatore di Svevia (Enrico VI) generò il terzo (Federico II) che fu anche l'ultimo».

costanza

Maestro del Boezio (1405 c.), Costanza d'Altavilla sposa Enrico VI

Così mi parlò, e poi iniziò a cantare 'Ave, Maria' e in questo modo svanì come un oggetto che affonda nell'acqua profonda.

Il mio sguardo, che la seguì fin che gli fu possibile, dopo averla persa di vista, si rivolse all'oggetto principale del suo desiderio  e fissò Beatrice;

ma lei folgorò il mio sguardo a tal punto che sulle prime non potei sopportarne la vista; e questo mi rese più restio a domandare.

Note e passi controversi
- Al v. 1 il sole è naturalmente Beatrice, in quanto primo amore di Dante e luce in grado di chiarire i suoi dubbi in materia di fede.
- I verbi provando e riprovando (v. 3) sono tecnicismi della Scolastica, poiché indicano i due momenti dell'argomentazione di Beatrice del Canto precedente («riprovare» significa confutare, «provare» vuol dire portare argomenti a favore della propria tesi).
- Al v. 13 le postille sono le immagini riflesse sull'acqua.
- Il v. 14 allude alla moda femminile del Due-Trecento di portare in fronte una perla appesa a una coroncina o a una reticella.
- I vv. 17-18 ricordano il mito di Narciso, che vedendo la propria immagine riflessa nell'acqua se ne innamorò credendola reale (Dante incorre nello sbaglio opposto, poiché crede immagini riflesse quelle reali). La fonte è Ovidio, Met., III, 407 ss.
- Al v. 26 coto deriva da «cotare», «cogitare» e vuol dire «pensiero».
- La spera più tarda (v. 51) è il Cielo della Luna, che è il più vicino alla Terra e quello che ha minor raggio, quindi ruota più lento.
- Al v. 57 è presente il bisticcio vóti / vòti, ovvero «voti» / «vuoti» (nel senso di non compiuti).
- Al v. 63 latino significa «chiaro», «facile a intendersi» ed è attestato nella lingua del tempo.
- Il primo foco del v. 69 è certamente lo Spirito Santo, cioè Dio in quanto primo amore; altri hanno pensato al primo amore per cui arde una donna, ma sembra immagine poco adatta a raffigurare una beata.
- Capére (v. 76) significa «aver luogo» ed è termine della Scolastica che deriva dal lat. capere.
- Ai vv. 95-96 il voto non portato a termine è paragonato a una tela non finita di tessere.
- Al v. 97 inciela («colloca in cielo») è neologismo dantesco con quest'unica occorrenza nel poema.
- Lo sposo citato al v. 101 è naturalmente Cristo, poiché la donna che diventava monaca si sposava con Lui (la metafora delle nozze mistiche deriva dalle Scritture ed è largamente usata dagli scrittori della letteratura religiosa del Due-Trecento).
- Il secondo vento di Soave (v. 119) è Enrico VI, secondo imperatore della casa sveva, mentre il terzo e ultimo è Federico II. Il termine vento è stato interpretato come «gloria», «potenza» e anche «superbia».

COSTANZA D'ALTAVILLA

Costanza era figlia postuma di Ruggero II re di Sicilia e della sua terza moglie Beatrice di Rethel: alla nascita non presumibile erede al trono. Secondo una tradizione popolare, trasmessa da Giovanni Villani e poi ripresa da Dante e da altri, Costanza avrebbe manifestato in gioventù interesse per la vita monastica o addirittura sarebbe entrata in un convento. Tuttavia di questa presunta scelta manca qualsiasi riscontro reale; quello che è certo è che Costanza all'età di trent'anni era ancora nubile, e per il suo rango di principessa la cosa poteva sembrare al tempo piuttosto irrituale. Il 29 ottobre 1184 ad Augusta fu accordato il suo fidanzamento con Enrico VI di Svevia, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa. Nell'estate del 1185 Costanza lasciò Palermo per recarsi a Milano, dove dovevano celebrarsi le nozze, accompagnata da un fastoso corteo di principi e baroni. Enrico la accompagnò fino a Salerno, dove dovette lasciarla per recarsi in Germania per i funerali della madre. Il 23 agosto 1185, per il valore simbolico e politico che aveva l'approvazione da parte della Chiesa nella prima città oltre i confini del Regno di Sicilia incontrata sul percorso, si tenne a Rieti una prima celebrazione del matrimonio, alla presenza di una delegazione imperiale in rappresentanza di Enrico. Il matrimonio fu poi ripetuto a Milano il 27 gennaio 1186. Nel 1189 Guglielmo II, in punto di morte, non avendo discendenti diretti avrebbe indicato la zia Costanza, sorella di suo padre e figlia di Ruggero II, come erede e obbligato i cavalieri a giurarle fedeltà, cercando così di appianare le divergenze che opponevano la nobiltà siciliana e il clero alla casata straniera degli Hohenstaufen. Infatti i baroni e il papato non amavano gli svevi e la loro politica, che consideravano poco influenzabile ed eccessivamente autoritaria, e preferirono eleggere re di Sicilia Tancredi di Sicilia, cugino di Guglielmo II e figlio naturale di Ruggero III duca di Puglia; suo nonno era Ruggero II e sua zia la stessa principessa Costanza, solo di un anno più giovane di lui. La scelta cadde proprio su Tancredi perché era riuscito a ottenere una certa stima come comandante militare ed era l'unico discendente maschio, per quanto illegittimo, di stirpe normanna. Inoltre, essendo l'imperatore Federico il Barbarossa impegnato nella crociata in Terra Santa, Enrico VI e Costanza furono costretti a rimanere nel regno di Germania allora in una situazione particolarmente delicata e a distogliere l'attenzione dalla Sicilia. In questo contesto, nel novembre del 1189, Tancredi fu incoronato a Palermo re di Sicilia. Il papa Clemente III, che non vedeva di buon occhio un unico sovrano della casata degli Hohenstaufen dalla Germania alla Sicilia, approvò e riconobbe l'elezione. Quando Enrico nel 1191 succedette al padre sul trono imperiale partì subito per la conquista della Sicilia, sostenuto anche dalla flotta pisana, da sempre fedele all'imperatore. Tuttavia la flotta siciliana di Tancredi riuscì a battere la marineria pisana e l'esercito di Enrico, a causa di una serie di eventi sfortunati (fra tutti una pestilenza), fu decimato. Inoltre Tancredi riuscì anche a catturare e imprigionare Costanza a Salerno. Per il rilascio dell'imperatrice il re normanno pretese che Enrico scendesse a patti con un accordo di tregua. Pensò di consegnare Costanza al papa Celestino III che si era offerto quale mediatore; durante il viaggio verso Roma, però, il convoglio fu attaccato da una guarnigione sveva e l'imperatrice liberata. Nel febbraio del 1194 Tancredi però morì e gli succedette così sul trono Guglielmo III di soli nove anni, con la reggenza della madre Sibilla di Medania. Il regno di Sicilia Costanza di Sicilia (dettaglio di una miniatura del Liber ad honorem Augusti. Nascita di Federico II. Dal ms della Cronica di Giovanni Villani Il sarcofago di Costanza nella cattedrale di Palermo In questo contesto Enrico tornò in Italia e riuscì a sottomettere in poco tempo il regno di Sicilia. Il 20 novembre entrò a Palermo e il 25 dicembre del 1194 fu incoronato re di Sicilia nella cattedrale di Palermo, innanzi Sibilla e il piccolo Guglielmo III di Sicilia, ultimo della stirpe d'Altavilla, cui venne offerta in cambio la contea di Lecce, ma che dopo pochi giorni saranno accusati di complotto e deportati in Germania. Costanza il giorno seguente, in procinto di giungere in Sicilia dalla Germania, diede alla luce a Jesi il futuro Federico II di Svevia. La nascita del figlio di Costanza era importante per la successione del regno di Sicilia, ma fu avvolta da dicerie e illazioni: Federico fu considerato da alcuni detrattori l'Anticristo, che una leggenda medievale sosteneva sarebbe nato da una vecchia monaca: Costanza d'Altavilla al momento del parto aveva quaranta anni e, prima del matrimonio, si diceva, aveva vissuto in un convento. Inoltre a causa dell'età avanzata molti non credevano alla gravidanza di Costanza. Per questo motivo sarebbe stato allestito un baldacchino al centro della piazza di Jesi, dove Costanza partorì pubblicamente, al fine di fugare ogni dubbio sulla nascita del futuro imperatore. Villani nella sua Cronica scriverà: «Quando la 'mperatrice Costanza era grossa di Federigo, s'avea sospetto in Cicilia e per tutto il reame di Puglia, che per la sua grande etade potesse esser grossa; per la qual cosa quando venne a partorire fece tendere un padiglione in su la piazza di Palermo e mandò bando che qual donna volesse v'andasse a vederla; e molte ve n'andarono e vidono, e però cessò il sospetto» (Giovanni Villani) Costanza fu così regina consorte di Sicilia dal 1194 alla scomparsa del marito. Nel 1197 morì a Messina Enrico di Svevia, dopo una malattia contratta durante l'assedio di Castrogiovanni: le circostanze misteriose hanno spesso fatto sorgere dubbi anche su un eventuale avvelenamento ordito dalla stessa moglie. Il fatto, però, non è stato mai storicamente documentato. Costanza comunque assunse il ruolo di tutrice di Federico II e reggente del regno. Poco prima di morire mise lo stesso figlio sotto la tutela del papa Innocenzo III: un atto al momento politicamente assai accorto ma che non mancò di suscitare più tardi problemi di non facile soluzione. Costanza morì, quarantaquattrenne, il 27 novembre del 1198; il figlio Federico aveva allora quasi quattro anni di età. Fu sepolta nella cattedrale di Palermo, vicino al sarcofago del padre Ruggero II.

PICCARDA DONATI

Figlia di Simone Donati e sorella di Forese e Corso, giovinetta pia e religiosissima, entrò nel convento di S. Chiara a Firenze per farsi monaca. Il fratello Corso, forse nel periodo in cui fu podestà e poi capitano del popolo a Bologna (1283-1293), per motivi di convenienza politica la volle dare in sposa a Rossellino della Tosa, violento esponente dei Guelfi Neri; per questo Corso venne a Firenze con un gruppo di facinorosi, la rapì dal monastero e la costrinse alle nozze con Rossellino. Antichi cronisti e commentatori danteschi riferiscono che Piccarda, appena tolta dal monastero, si ammalò e morì, anche se di questo non c'è alcuna conferma diretta. Secondo altre fonti, ugualmente poco attendibili, il nome da monaca di Piccarda sarebbe stato Costanza. Dante la include tra gli spiriti difettivi del I Cielo della Luna e ne fa la protagonista del Canto III del Paradiso. La sua condizione di beata è preannunciata in Purg., XXIV, 8-15 dal fratello Forese, incontrato da Dante fra i golosi della VI Cornice: alla domanda del poeta se sappia qual è il destino ultraterreno della sorella, Forese risponde che Piccarda, buona e bella durante la vita mortale, triunfa lieta / ne l'alto Olimpo già di sua corona (14-15). Dante incontra Piccarda, come visto, fra gli spiriti che gli appaiono nel I Cielo simili a immagini evanescenti come se fossero riflesse nell'acqua. Dopo che Beatrice gli ha spiegato che sono anime e non immagini, invitandolo a rivolgersi a loro, Dante parla a una di esse chiedendole di rivelare il proprio nome. La beata dichiara di essere Piccarda e racconta di essere stata vergine sorella, essendo relegata fra questi spiriti per aver mancato al proprio voto.

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Eugenio Caruso - 03- 06 - 2021

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