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Virgilio, Eneide, Libro XII. EPILOGO

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

L'Eneide (in latino: Aeneis) è un poema epico della cultura latina scritto da Publio Virgilio Marone tra il 29 a.C. e il 19 a.C. Narra la leggendaria storia dell'eroe troiano Enea (figlio di Anchise e della dea Venere) che riuscì a fuggire dopo la caduta della città di Troia, e che viaggiò per il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, diventando il progenitore del popolo romano. Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri per un totale di 9.896 esametri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti; perciò nel suo testamento il poeta fece richiesta di farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma gli amici Vario Rufo e Plozio Tucca, non rispettando le volontà del defunto, salvaguardarono il manoscritto dell'opera e, successivamente, l'imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato. I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all'Italia, mentre la seconda parte del poema narra la guerra, dall'esito vittorioso, dei troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall'Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi; sotto il nome di Latini finiranno per essere conosciuti in seguito Enea e i suoi seguaci. Enea è una figura già presente nelle leggende e nella mitologia greca e romana, e compare spesso anche nell'Iliade; Virgilio mise insieme i singoli e sparsi racconti dei viaggi di Enea, la sua vaga associazione con la fondazione di Roma e soprattutto un personaggio dalle caratteristiche non ben definite tranne una grande devozione (pietas in latino), e ne trasse un avvincente e convincente "mito della fondazione", oltre a un'epica nazionale che allo stesso tempo legava Roma ai miti omerici, glorificava i valori romani tradizionali e legittimava la dinastia giulio-claudia come discendente dei fondatori comuni, eroi e dei, di Roma e di Troia.

Attraverso quest'opera, Virglio ha reso celebri e trasmesso ai posteri numerosissime storie e racconti mitologici della classicità greca e romana. Molti racconti sono tipici della tragedia greca; "fortunatamente" per gli antichi greci e romani l'uccisione di mogli, amanti, figli, mariti, come stupri, incesti e altre violenze sessuali erano dovute all'intervento di qualche dio, che, spesso, funge da artefice e da giudice. Giova anche notare che, dall'antichità classsica, ai giorni nostri i massimi artisti si sono cimentati, con dipinti e sculture, nel raccontare e farci godere con grande intensità i racconti della mitologia tramandatici da Virgilio. Anche Dante, nelle sue metafore, ha attinto molto da lui la cui opera conosceva molto bene, a ulteriore dimostrazione dell'immensa cultura del poeta fiorentino. Giova anche notare che, allora, non era facile trovare un manoscritto dell'Eneide: se ne potevano trovare solo nelle grandi abbazie e presso i palazzi di famiglie blasonate.

LIBRO XII

RIASSUNTO

Turno, vedendo che la battaglia volge a favore dei Troiani, decide di risolvere la situazione con un duello con Enea e chiede al re Latino di prendere gli opportuni accordi. Il re però gli consiglia di ritirarsi dalla guerra, rinunciando a Lavinia. Anche la regina Amata lo supplica di salvarsi, ma Turno è ben deciso e manda un araldo da Enea. Enea accetta. I due eroi stringono patti solenni sanciti da riti sacri: se vincerà Turno, i Troiani si ritireranno a vivere nella città di Evandro; se invece prevarrà Enea, egli sposerà Lavinia e i due popoli vivranno in città vicine, che costituiranno un unico stato; ci saranno due re, uno troiano e l’altro latino, ma le decisioni sulla guerra spetteranno a quest’ultimo. Giunone sta osservando dall’alto di un colle e chiama Giuturna, la ninfa sorella di Turno. Le chiede di salvare il fratello organizzando la violazione dei patti. Giuturna, preso allora l’aspetto di un nobile guerriero, Camerte, fa apparire nel cielo un’aquila che ghermisce il cigno più bello di uno stormo. L’aquila viene però messa in fuga e costretta ad abbandonare la preda dalla reazione degli altri cigni. L’augure Tolumnio interpreta il prodigio come un segnale favorevole e incita i Latini a riprendere la guerra. Scaglia un giavellotto con cui uccide un nemico: la tregua è così violata e subito si accende lo scontro. L’altare dei giuramenti è travolto; il re Latino fugge in città con i simulacri degli dèi. Una freccia scagliata da un ignoto nemico ferisce Enea, che sta cercando di tenere a freno gli animi dei suoi. Si allontana dal campo per farsi medicare, ma il suo medico non riesce a estrarre la punta della freccia. Interviene allora sua madre Venere, che mescola ai medicamenti del medico Iapige un’erba miracolosa che rimargina istantaneamente la ferita. Enea saluta il figlio Ascanio e rientra nella mischia deciso ad affrontare Turno, che sta combattendo con ardore. Enea va in cerca di Turno, ma la sorella Giuturna prende il posto di Metisco, auriga del fratello, e guida il suo carro lontano da Enea. Entrambi i guerrieri combattono con valore e seminano strage, ma in punti diversi del campo. Su consiglio di Venere, Enea esorta i suoi ad attaccare la città di Laurento per distruggerla e dà assalto alle mura. All’interno i cittadini sono divisi tra i sostenitori della guerra e i fautori di un accordo di pace. Vedendo l’attacco troiano alle mura, la regina Amata crede che Turno sia morto e, sentendosi responsabile di tanti disastri s’impicca. La giovane figlia Lavinia, il re e il popolo si abbandonano a un lutto disperato. I lamenti strazianti che si levano dalla reggia e il clamore della città assediata giungono fino a Turno. Giuturna, che vuole tenerlo lontano dalle mura, lo invita a inseguire i Troiani, ma Turno la riconosce e le dice che ormai non può più sottrarsi alla morte, aspira solo alla gloria. Decide di raggiungere subito le mura e invita i soldati dei due schieramenti a sospendere gli scontri, in attesa del duello risolutivo. Enea si affretta, gioioso, al duello. Il duello finale vive diverse fasi: la spada di Turno s’infrange contro l’armatura divina di Enea; Turno fugge, inseguito da Enea; compiono per dieci volte di corsa il giro del campo riservato al duello. Enea cerca invano di recuperare la sua asta, confitta in un cespuglio sacro a Fauno; Giuturna accorre per dare una nuova spada a Turno. Allora Venere, indignata, strappa l’asta dal sacro cespuglio e la restituisce a Enea. Così i due eroi, recuperate le armi, riprendono il confronto. Intanto sull’Olimpo si stringe il patto definitivo tra Giove e Giunone, Giove è infatti stanco di queste avversità create da Giunone ai troiani: Giunone s’impegna ad abbandonare Turno al suo destino e a non avversare più Enea e i Troiani, accettando che si stanzino nel Lazio. Vuole però che, una volta celebrate le nozze tra Enea e Lavinia, nel Lazio non restino tracce di Troia né nella lingua né nei nomi né nei costumi. Giove accetta e promette che la stirpe futura, discesa da Troiani e Latini, sarà particolarmente devota a Giunone. Giove manda una delle Furie a distogliere Giuturna da ogni ulteriore aiuto al fratello. La ninfa comprende che la sorte di Turno è segnata; si arrende, piange per la sua morte e lamenta di non poter a propria volta morire. Turno, angosciato dalla lugubre e infausta visione di una civetta che gli vola intorno, si sente finito. Turno tenta invano di abbattere Enea con un masso, ma un colpo di lancia del Troiano lo trafigge a una coscia. Turno, prostrato a terra, chiede pietà in nome del suo vecchio padre Dauno. L’eroe troiano si sta lasciando commuovere, quando vede la cintura di Pallante sul corpo del rivale e, preso dal furore della vendetta, lo uccide. L’Eneide si chiude sull’immagine dell’anima di Turno che fugge indignata tra le ombre. In sostanza, Turno viene trascinato alla morte da tre donne: Giunone, Amata moglie di re Latino e la sorella Giuturna.

TESTO

L'IRA DI TURNO  
Turno, poscia che vede afflitti e domi
Già due volte i Latini, e non pur scemi
Di forze, ma di speme e di baldanza,
Da lui farsi rubelli, e che a lui solo
Ognun rivolto in tanto affare attende5
Le pruove, le promesse e i vanti suoi,
Furïoso, implacabile, inquïeto
Arde, s’inanimisce, e si rinfranca
Prima in sè stesso. Qual massíla fera
Ch’allor d’insanguinar gli artigli e il ceffo10
Disponsi, allor s’adira, allor si scaglia
Vèr chi la caccia, che da lui si sente
Gravemente ferita; e già godendo
De la vendetta, sanguinosa e fiera
Con le iube s’arruffa, e con le rampe15
Frange l’infisso tèlo e graffia e rugge:
Così la vïolenza era di Turno
Accesa, impetüosa e furibonda;
E così conturbato appresentossi
al re davanti, e disse: Indugio, o scusa20
Più non fa Turno: e più non ponno i Teucri
Da quel ch’è patteggiato e stabilito,
Se non se per viltà, ritrarsi omai.
Eccomi in campo: ecco parato e pronto
Sono al duello. Or fa’, padre, che ’l patto25
Sia fermo e rato e sacro; e i sacrifici
E ’l giuramento appresta. Oggi, signore,
Sii certo ch’io con le mie mani a morte
Questo de l’Asia fuggitivo adduco,
E ’l difetto di tutti io solo ammendo30
(Stiansi pure a vedere i tuoi Latini);
O ch’ei vincendo fia padrone a voi,
E marito a Lavinia. A cui Latino.
RE LATINO CERCA DI CALMARE TURNO
Col cor sedato in tal guisa rispose:
     Giovine valoroso, al tuo valore,35
A la ferocia tua che tanto eccede
Ne l’armi, io deferisco. E tu dovrai
Appagarti di me, s’io, d’ogni cosa
Temendo, con ragione e con maturo
Consiglio in tutti i casi inveglio e curo40
Che ’l mio stato si salvi e la tua vita.
A te del vecchio Dauno erede e figlio,
Seggio e regno non manca, oltre a le terre
Di cui tu fatto hai da te stesso acquisto
Per forza d’armi. Oro, favori e gradi45
Da Latino avrai sempre; e maritaggi
E donne d’alto affar son per lo Lazio,
E per le terre di Laurento assai.
Ma soffri ch’io ti parli, e senti, e nota
Poscia quel ch’io dirò: che dirò vero,50
Ben che noia ti sia. Fatal divieto
Mi proibiva, e gli uomini e gli Dei
M’avean vaticinando in molte guise
Denunzïato, che mia figlia a nullo
Io maritassi di color che chiesta55
Me l’avean prima. E pur dall’amor vinto
Che ti port’io, dal parentado astretto
C’ho con la casa tua, mosso dal pianto
E da le preci de la donna mia,
Dandola a te mi sono al fato opposto:60
Ho rotto fede al genero; ho con lui
Presa non giusta e non sicura guerra.
     Da indi in qua tu stesso, tu che primo
Soffri tante fatiche e tanti affanni,
Hai veduto in che rischi, in che travagli65
Siam noi caduti; chè due volte rotti
In due sì gran battaglie, in questo cerchio
Ne siam rinchiusi a sostentare a pena
La speranza d’Italia. Il Tebro è caldo
Del nostro sangue. I campi son già bianchi70
De le nostr’ossa. E io, folle, a che torno
Tante fïate al precipizio mio?
Chi così da me stesso mi sottragge?
Se, Turno estinto, io nel mio regno deggio
I Troiani accettar, chè non gli accetto75
Or ch’egli è vivo e salvo? e chè non pongo
Fine a la guerra, a la ruina espressa
Del mio regno e de’ miei? Che ne diranno
I Rutuli parenti? che diranne
Italia tutta, quando a morte io lasci80
(Voglia Dio che non sia) gir un che tanto
Ama la parentela e ’l sangue mio?
Rimira de la guerra come vana
Sia la fortuna. Abbi pietà del vecchio
Dauno tuo padre, che da te lontano85
In Ardèa se ne sta mesto e dolente.
TURNO NON SI PLACA
Turno a questo parlar nulla si mosse
De la ferocia sua: crebbe più tosto
Il suo furore; e lo rimedio stesso
Gli aggravò ’l male. Ei, come pria poteo90
Formar parola, in tal guisa rispose:
Nulla per conto mio di me ti caglia,
Signor benigno: anzi, ti prego, in grado
Prendi ch’io per la lode e per l’onore
Patteggi con la morte. Ed anch’io, padre,95
Ho le mie mani; ed anco il ferro mio
Ha taglio e punta, e fa ferita e sangue.
Non sempre avrà, cred’io, la madre a canto
Che di nube lo cuopra e lo trafugga
Come vil femminella, e di vane ombre100
Seco s’involva. E, ciò detto, si tacque.
     Ma la regina, de l’audace impresa
Del genero dolente e spaventata,
Piangendo, e per angoscia a morte giunta,
Lo tenea, lo pregava, e gli dicea:105
Turno, per queste lagrime, per quanto
T’è, se pur t’è, de l’infelice Amata
L’onor, l’amore e la salute in pregio
(Già che tu sola speme, e sol riposo
Sei de la mia vecchiezza: a te s’appoggia,110
In te si fonda di Latino il regno,
E la sua dignitade, e la sua casa
Che ruina minaccia), in don ti chieggio,
Astienti di venir co’ Teucri a l’arme;
Chè qualunque ne segua avverso caso115
Sopra me cade; ch’io teco di vita
Escirò pria che mai suocera o serva
Io mi veggia d’Enea. Queste parole
De la madre sentì Lavinia virgo,
Di rugiadose lagrime e d’un foco120
Di vergineo rossor le guance aspersa,
Qual fòra se di purpura macchiato
Fosse un candido avorio, o che di rose
Si spargessero i gigli. In lei mirando
Il giovine, d’amor non men che d’ira125
Acceso, a la regina brevemente
Così rispose: Ah, madre mia, ti prego,
In così perigliosa e dura impresa
Non mi far col tuo pianto e col tuo duolo
Sinistro annunzio. Chè s’a Turno è dato130
Che muoia, in suo poter più non è posto
Che di morire indugi. Indi a l’araldo
Rivolto: Va, gli disse, e da mia parte
Quest’ingrata e spiacevole ambasciata
Porta al frigio tiranno, che dimane135
Tosto che fia la rubiconda Aurora
A l’orïente apparsa, i Teucri suoi
Contr’a Rutuli addur più non s’affanni.
Stiensi l’armi de’ Rutuli e de’ Teucri
Per mio conto in riposo. Chè tra noi140
Col nostro sangue a diffinir la guerra,
E di Lavinia le bramate nozze
In su quel campo a procurar ci avemo.
     Detto così, vèr la magion s’invia
Rapidamente; addur si fece avanti145
I suoi cavalli, e le fattezze e ’l fremito
Notando, se ne gode, e ne concepe
Speme e vittoria: chè di razza usciti
Eran già d’Orizìa, da cui Pilunno
Ebbe giumente e corridori in dono,150
Che di candor la neve, e di prestezza
Superavano il vento. Avean d’intorno
I valletti e gli aurighi che palpando,
Forbendo e vezzeggiando, in varie guise
Gli facean lieti, baldanzosi e fieri.155
Fatte poscia venir l’armi, si veste
La sua corazza d’oricalco e d’oro
E dentro vi s’adatta e vi si vibra
Con la persona. Imbracciasi lo scudo,
Pruovasi l’elmo; e la vermiglia cresta160
Squassando, il brando impugna, il fido brando
Da lo stesso Vulcano al padre Dauno
Temprato in Mongibello a tutte pruove.
Alfine un’asta poderosa e grave,
Ch’appo un’alta colonna era appoggiata165
In mezzo de la casa, in man si pianta,
Spoglio d’Àttore aurunco. E poichè l’ebbe
Brandita e scossa: Asta, gridando disse,
Ch’a le mie fazïoni unqua non fosti
Chiamata indarno, ora al maggior bisogno170
Da te soccorso imploro. Il grande Attòre
Armasti in prima, or sei di Turno in mano.
Dammi che ’l corpo atterri, e la corazza
Dischiodi, e ’l petto laceri e trapassi
Di questo frigio effeminato eunuco;175
Dammi che ’l profumato, inanellato,
Col ferro attorcigliato zazzerino
Gli scompigli una volta, e ne la polve
Lo travolga e nel sangue. In cotal guisa
Dicendo, infurïava, ardea nel volto,180
Scintillava negli occhi, orribilmente
Fremea, qual mugghia il toro allor che irato
Si prepara a battaglia, e l’ira in cima
Si reca de le corna, indi l’arruota
A qualche tronco, e ’l tronco e l’aura in prima185
Ferendo, alto co’ piè sparge l’arena,
E del futuro assalto i colpi impara.
ACCORDO PERCHE' ENEA E TURNO SI AFFRONTINO
     Da l’altro canto Enea, non men feroce
Ne l’armi di sua madre, al fiero Marte
S’inanima e s’accinge, e del partito190
Che gli era per compor la guerra offerto,
Si rallegra, l’accetta; e i suoi compagni
E ’l suo figlio assicura, or di sè stesso
La franchezza mostrando, or le venture
De’ fati rammentando e le promesse.195
     Indi con la risposta al re Latino
Manda chi la disfida e ’l patto accetti,
E del patto i capitoli e le leggi
Stabilisca e confermi. Era de’ monti
In su la cima a pena il sole apparso200
De l’altro giorno, allor ch’i suoi destrieri
Sorgon da l’onde, e con le nari in alto
Fiamme anelando, il mondo empion di luce:
Quando nel campo i Rutuli discesi
E i Teucri insieme, sotto l’alte mura,205
Fabricâr lo steccato, a cui nel mezzo
I fochi e l’are di gramigna asperse
Furo agli Dei d’ambe le parti eretti
Comunemente; e d’ambi i sacerdoti
Di bianco lino involti, e di verbena210
Cinti le tempie, andaro altri con l’acqua,
Altri con le facelle intorno accese.
Poscia ecco degli Ausoni da l’un canto
A piene porte l’ordinate schiere
Uscir da la città di picche armate;215
Da l’altro de’ Troiani e de’ Tirreni
Gir l’esercito tutto in varie guise
D’abiti e d’armi; e questi incontro a quelli
Non altramente ch’a battaglia instrutti.220
Fra mezzo a tante mila i condottieri
Ciascun da la sua parte si vedea
Gir d’oro e d’ostro alteramente adorni.
E ’l gran Memmo con questi e ’l forte Asíla,
E Messápo con quelli, de’ cavalli 230
Il domatore e di Nettuno il figlio.
     Poscia che, dato il segno, ebbe ciascuno
Chi di qua chi di là preso il suo loco,
Piantâr le lance, dechinâr gli scudi.
Le donne, i vecchi, i putti e ’l volgo inerme, 230
Di veder desïosi, altri in su’ tetti,
Altri in su’ rivellini e ’n su le torri
Stavan mirando. E non dal campo lunge
Sedea Giuno in un colle, Albano or detto,
Ch’allor nè d’Alba il nome avea, nè ’l pregio 235
Nè i sacrifici. In questo monte assisa
Vedea de’ Laürenti e de’ Troiani
L’accolte genti, e di Latino il seggio.
Ivi la Dea di Turno a la sirocchia,
Che Dea de’ laghi era e de’ fiumi anch’ella 240
(Privilegio che Giove allor le diede
Che de la pudicizia il fior le tolse)
Disse così: Ninfa, de’ fiumi onore,
Sovr’ogni ninfa a me gioconda e cara,
Tu sai come te sola ho preferita,
A tutte l'altre che di Giove, in Lazio,
L'ingrato letto han di salire osato:
E come volontier del cielo a parte
Meco t’ho posta. Ascolta i tuoi dolori,
Perchè di me dolerti unqua non possa.
Finchè di Lazio la fortuna e ’l fato
Me l’han concesso, io prontamente e Turno
E la tua terra e i tuoi sempre ho difeso.
Or veggio questo giovine a duello
Con disegual destino esser chiamato:
Veggio il dì della Parca e la nemica
Forza che gli è vicina. Io questo accordo,
Questa pugna veder con gli occhi miei
Per me non posso. Tu, se cosa ardisci
In pro del tuo germano, ora è mestiero
Che tu l’adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fallo: e chi sa che ’l misero non cangi
Ancor fortuna? A pena avea ciò detto
Che Iuturna gemendo e lagrimando
Tre volte e quattro il petto si percosse.
A cui Giuno soggiunse: E’ non è tempo
Da stare in pianti. Affretta; e da la morte
Scampa, se scampar puossi, il tuo fratello,
O turbando l’accordo, o suscitando
Nuova cagion di mischia e di tumulto
Io son che l’impongo, e te n’affido.
Con questo la lasciò sospesa e mesta,
E d’amara puntura il cor trafitta.
     Ecco vengono al campo i regi intanto;
Latino il primo, alto in un carro assiso,275
Che da quattro suoi nitidi corsieri,
Di gran macchina in guisa, era tirato,
E, di dodici raggi il fronte adorno,
Del Sole, avo di lui, sembianza avea.
Turno traean due candidi destrieri,
Con due suoi dardi in mano agili e forti.
Enea, de la romana stirpe autore,
Con l’armi sue celesti e con lo scudo
Che dianzi da le stelle era venuto,
Uscio da l’altro canto, e seco a pari
Ascanio, il figlio suo, de la gran Roma
La seconda speranza. A mano a mano
Il sacerdote in pura veste involto
Anzi agli accesi altari il nuovo parto
D’una setosa porca, e una agnella
Ancor non tosa al sacrificio addusse;
E vòlti a l’orïente, in atto umíle
S’inchinâr tutti e vino e farro e sale
Sparser d’ambe le parti; ambe col ferro,
Sì com’era uso, a le devote belve
295Segnâr le tempie.
IL DISCORSO DI ENEA
Allor il padre Enea
Strinse la spada, e, gli occhi al ciel rivolti,
Così disse pregando: Io questo sole
Per testimone invoco e questa terra,
Per cui tanti ho fin qui sofferti affanni;
Invoco te, celeste, onnipotente,
Eterno padre, e te, saturnia Giuno,
Già vèr me più benigna, e ben ti prego
Che mi sii tale, e te gran Marte invoco,
Ch’a l’armi imperi; e voi fonti, e voi fiumi,
E voi tutti del mar, tutti del cielo
Numi possenti; e vi prometto e giuro
Che se Turno per sorte è vincitore
Di questa pugna, il successor del vinto
Gli cederà: ch’a la città d’Evandro
Si ritrarrà; che mai poscia ribelle
Non gli sarà: che guerra o lite o sturbo
Alcun altro più mai non gli farà.
Ma se più tosto, come io prego, e come
Spero che mi succeda, al nostro marte
La dovuta vittoria non si froda;
Io non vo’ già che gl’Itali soggetti
Siano a’ miei Teucri, nè d’Italia io solo
Tener l’impero; io vo’ ch’ambi del pari
Questi popoli invitti aggian tra lor
Governo e leggi eguali, e pace eterna.
A me basta ch’io dia ricetto e culto
A’ miei numi, a’ miei Teucri, e sia Latino
Suocero mio, del suo regno e de l’armi
Signor, rettore e donno. Io poscia altrove
Altre mura ergerommi, e de’ miei stessi
Fien le fatiche, e di Lavinia il nome.
IL DISCORSO DI LATINO
Così pria disse Enea; così Latino
Seguitò poi con gli occhi e con la destra
Al ciel rivolto: Ed io giuro, dicendo,
Le stesse deità, la terra, il mare,
Le stelle, di Latona ambo i gemelli,
Di Giano ambe le fronti, il chiuso centro,
E la gran possa degl’inferni dii.
Odami di là su l’eterno padre,
Che fulminando stabilisce e ferma
Le promesse e gli accordi. I numi tutti
Chiamo per testimoni: e tocco l’ara,
E tocco il foco, e questa pace approvo
Dal canto mio. Nè mai, che che si sia
Di questa pugna, nè per forza alcuna,
Nè per tempo sarà ch’ella si rompa
Di voler mio; non se la terra in acqua
Si dileguasse, non se ’l ciel cadesse
Ne l’imo abisso: così come ancora
Questo mio scettro (chè lo scettro in mano
Avea per sorte) più nè fronda mai
Nè virgulto farà, poichè reciso
Dal vivo tronco, o da radice svelto
Mancò di madre, e già d’arbore ch’era,
Sfrondato, diramato e secco legno
Di già venuto, e d’oricalco adorno
E per man de l’artefice ridotto
In questa forma, e per quest’uso in mano
Dei re latini è posto. In cotal guisa
Fermati i patti e l’ostie in mezzo addotte
Tra i più famosi, anzi a l’accese fiamme
Le svenâr, le smembrâr, le svisceraro.
E sì com’eran palpitanti e vive,
Le fibre ne spiâr, le diero al foco,
N’empiêr le squadre e ne colmâr gli altari.
     Di già disvantaggioso e diseguale
Questo duello a’ Rutuli sembrava:
E già vari bisbigli e vari moti
N’eran tra loro; e com’ più sanamente
Si rimirava, più di forze impári
Si vedea Turno; ed egli stesso indizio
Ne diè, che lento e tacito e sospeso
Entrò nel campo. E come ancor di pelo
Avea le guance lievemente asperse
Orando anzi a l’altar pallido il volto
Mostrossi, e chino il fronte, e grave il ciglio.
DISCORSO DELLA SORELLA DI TURNO, INTERVENTO DI GIUNONE
     Tale una languidezza rimirando,
E tal del volgo un susurrare udendo
Giuturna, sua sorella, infra le schiere
Gittossi, e di Camerte il volto prese.
D’alto legnaggio, di valor paterno,
E di propria virtute era Camerte
Famoso in fra la gente. E tal sembrando,
Già degli animi accorta, iva Giuturna
Rumor diversi e tai voci spargendo:
Ahi! che vergogna, che follia, che fallo,
Rutuli, è ’l nostro, che per tanti e tali
Sola un’alma s’arrischi? Or siam noi forse
Di numero a’ nemici inferïori,
O d’ardire, o di forze? Ecco qui tutti
Accolti i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi
Che sono anco per fato a Turno infensi.
A due di noi contra un di loro a mischia
Che si venisse, di soverchio ancora
Fòrano i nostri. Ei che per noi combatte,
Ne sarà fra gli Dei, cui s’è devoto,
In ciel riposto, e qui tra noi famoso
Viverà sempre. Ma di noi che fia,
Ch’or ce ne stiam sì neghittosi a bada?
La patria perderemo, e da stranieri,
E da superbi in servitude addotti,
Preda e scherno d’altrui sempre saremo?
     Da questo dir la gioventù commossa
Via più s’accende, e ’l mormorio serpendo
Più cresce per le squadre. Onde i Latini
E gli stessi Laurenti, che pur dianzi
Di pace eran sì vaghi e di quïete,
Pensier cangiando e voglie, or l’arme tutti
Gridano, tutti pregan che l’accordo
Sia per non fatto; e tutti han de l’iniqua
Sorte di Turno ira, pietate e sdegno.
     In questa, ecco apparir ne l’aria un mostro
Per opra di Giuturna, onde turbati
E dal primo proposito distolti
Fur da vantaggio de’ Latini i cuori.
Videsi per lo lito, e per lo cielo
Di roggio asperso, un di palustri augelli
Impaürito e strepitoso stuolo.
Dietro un’aquila avea, ch’a mano a mano
Giuntolo de lo stagno in su la riva,
Un cigno ne ghermì ch’era di tutti
Il maggiore e ’l più bello. A cotal vista
Gli occhi e gli animi alzâr l’itale squadre;
E gli augei, che pur dianzi erano in fuga
(Mirabile a vedere!), in un momento
Stridendo si rivolsero, e ristretti
In densa nube, ond’era il ciel velato,
La nimica assaliro. E sì d’intorno
La cinser, l’aggirâr, l’attraversaro,
Ch’a cielo aperto, u’ dianzi erano in fuga,
Le fêr gabbia, ritegno e forza, al fine
Che, gravata dal peso e stretta e vinta,
De la lena mancasse e de la preda.
Il cigno dibattendosi, da l’ugne
Sovra l’onde gli cadde; ed ella scarca,
Da la turba fuggendo, al cielo alzossi.

guerra 2 ,
RIPRENDE LA BATTAGLIA


LA TREGUA E' ROTTA
     I Rutuli a tal vista con le grida
Salutâr pria l’augurio: indi a la pugna
Si prepararo. E fu Tolunnio il primo,
Ch’augure, incontro al patto, anzi le schiere
Si spinse armato, e disse: Or questo è, questo
Ch’io desïava; e questo è quel ch’io cerco
Ho ne’ miei vóti. Accetto e riconosco
Il favor degli Dei. Me, me seguite,
Rutuli miei. Con me l’armi prendete
Contro al malvagio che di strana parte
Venuto con la guerra a spaventarci,
Ha voi per vili augelli, e i vostri lidi
Così scorre e depreda. Ma ritolto
Questo cigno gli fia; di nuovo al mare
In fuga se n’andrà. Voi combattendo
In guisa de la pria fugace torma,
Ristringetevi insieme, e riponete
Il vostro re, che v’è rapito, in salvo.
Detto così, spinse il destriero, e trasse
Contr’a’ nimici. Andò stridendo e dritto
L’aura secando il fulminato dardo:
E ’nsieme udissi col suo rombo un grido
Che insino al ciel, de’ Rutuli, sentissi.
Insieme scompigliossi il campo tutto,
Turbârsi i petti, ed infiammârsi i cuori.
L’asta volando giunse ove a rincontro
Nove fratelli eran per sorte accolti,
Che tutti d’una sola etrusca moglie
Da l’arcadio Gilippo eran creati.
Un di lor ne colpì là ’ve nel mezzo
Il cinto s’attraversa, e con la fibbia
S’afferra al fianco. Ivi tra costa e costa,
Penetrando altamente, lo trafisse,
E morto in su l’arena lo distese.
Questi, il più riguardevole ne l’armi
Era degli altri, e ’l più bello e ’l più forte,
E gli altri come tutti eran feroci,
Dal dolore infiammati incontinente
Chi la spada impugnò, chi prese il dardo;
E contra il feritor tutti in un tempo
Come ciechi, avventârsi. Incontro a loro
Si mosser de’ Laurenti e de’ Latini
Le genti a schiere, e d’altro lato a schiere
Spinsero i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi.
Così d’arme e di sangue uguale ardore
Surse d’ambe le parti; e l’are e ’l foco
Ch’eran di mezzo, e l’ostie e le patene
N’andar sossopra; e tal di ferri e d’aste
Denso levossi e procelloso un nembo,
Che ’l sol se n’oscurò, sangue ne piovve.
Grida e fugge Latino, e i numi offesi
Se ne riporta, e detestando abborre
Il vïolato accordo. Armasi intanto
Il campo tutto; e chi frena i destrieri,
Chi ’l carro appresta; e già con l’aste basse
E con le spade a investir si vanno.
Messápo desïoso che l’accordo
Si disturbasse, incontro al tosco Auleste
Che, come re, di regal fregi adorno
E d’ostro, al sacrificio era assistente,
Spinse il cavallo e spaventollo in guisa,
Che mentre si ritragge infra gli altari
Ch’avea da tergo, urtando, si travolse.
Messapo con la lancia incontinente
Gli si fe’ sopra, e sì com’era in atto
Di supplicarlo, il petto gli trafisse,
Così ben va, dicendo: or a’ gran numi
Porco più grato e miglior ostia cadi. 500
Cadde il meschino, e fu, spirante e caldo,
Sovraggiunto dagl’Itali e spogliato.
     Diè Corinèo per un gran tizzo a l’ara
Di piglio; e sì com’era ardente e grave,
Ad Èbuso ch’incontro gli venía,
Nel volto il fulminò. Schizzonne insieme
Il foco e ’l sangue; e di baleno in guisa
Un lampo ne la barba gli rifulse
Che diè d’arsiccio odore, indi gli corse
Sopra senza ritegno; e qual trovollo 510
Da la percossa abbarbagliato e fermo,
L’afferrò per la chioma, a terra il trasse,
Col ginocchio lo strinse, e col trafiere
Gli passò ’l fianco. Podalirio ad Also
Pastor, che fra le schiere infurïava,
S’affilò dietro; e già col brando ignudo
Gli soprastava, allor ch’Also rivolto
La gravosa bipenne ond’era armato
Gli piantò nella fronte e ’nsino al mento
Il teschio gli spartì, l’armi gli sparse
Tutte di sangue: ond’ei cadde, e le luci
Chiuse al gran buio e al perpetuo sonno.
     Enea senz’elmo in testa, infra le genti
La disarmata destra alto levando,
E discorrendo, e richiamando i suoi:
Dove, dove ne gite? Che tumulto,
Dicea, che furia, che discordia è questa
Così repente? Oh trattenete l’ire;
Oh non rompete. Il patto è stabilito;
L’accordo è fatto. Solo a me concesso
È ch’io combatta. A me sol ne lasciate
La cura e ’l carco. Io, non temete, io solo
Il patto vi ratifico e vi fermo
Con questa sola destra; e Turno a morte
Di già mi si promette, e mi si deve
Da questi sacrifici. In questa guisa
Gridava il teucro duce; ed ecco intanto
Venir d’alto stridendo una saetta;
Non si sa da qual mano, o da qual arco
Si dipartisse. O caso, o dio che fosse
Che tanta lode a’ Rutuli prestasse,
L’onor se ne celò, nè mai s’intese
Chi del ferito Enea vanto si desse.
     Turno, poichè dal campo Enea fu tratto,
E turbar vide i suoi, di nuova speme
S’accese, e gridò l’armi, e sopra al carro
D’un salto si slanciò, spinse i cavalli
Infra’ nemici, e molti a morte dienne.
Molti ne sgominò, molti n’infranse,
E con l’aste, fuggendo, ne percosse. 550
Qual è de l’Ebro in su la fredda riva
Il sanguinoso Marte, allor ch’entrando
Ne la battaglia, o con lo scudo intuona,
O fulmina con l’asta, e i suoi cavalli
Da la furia e da lui cacciati e spinti
Ne van co’ venti a gara, urtando i vivi,
E calpestando i morti; e fan col suono
De’ piè fino agli estremi suoi confini
Tremar la Tracia tutta, e van con essi
Lo spavento, il timor, l’insidie e l’ire,
Del bellicoso iddio seguaci eterni;
In così fiera e spaventosa vista
Se ne gía Turno, la campagna aprendo,
Uccidendo, insultando e di nemici
Miserabil ruina e strage e strazio
Or con l’armi facendo, or co’ destrieri
Che sudanti, fumanti e polverosi,
Spargean di sangue e di sanguigna arena
Con le zampe e con l’ugne un nembo intorno.
Stènelo, ne l’entrar, Támiro e Polo
Condusse a morte; i due primi da presso,
L’ultimo da lontano. E da lunge anco
Glauco percosse e Lado; i due famosi
Figli d’Imbráso, ne la Lìcia nati,
Da lui stesso nutriti, e parimente
A cavalcare e guerreggiare instrutti.
     Da l’altra parte Eumède il chiaro germe
De l’antico Dolóne. Il nome avea
Costui de l’avo, e l’ardimento e i fatti
Seguia del padre, che de’ Greci il campo
Spiare osando, osò d’Achille ancora
In premio de l’ardir chiedere il carro.
Ma d’altro che di carro premïollo
Il figlio di Tidèo; nè però degno
D’un tanto guiderdone unqua si tenne.
Turno, poscia che ’l vide (che da lunge
Lo scòrse) con un dardo il giunse in prima:
Indi a terra gittossi: e qual trovollo
Di già caduto e moribondo, il piede
Sopr’al collo gl’impresse, e ne la strozza
Lo suo stesso pugnal cacciògli, e disse:
Troiano, ecco l’Italia, ecco i suoi campi,
Che tanto desïasti: or gli misura
Costì giacendo. E questo si guadagna
Chi contra a Turno ardisce; e ’n questa guisa
Si fondan le città. Dietro a costui
Bute, e di mano in man Darete, Cloro
E Śìbari e Tersíloco e Timete
Lanciando, uccise. Ma Timete in terra
Ferì, che per sinistro o per difetto 600
D’un suo restio cavallo era caduto.
     Qual sopra al grande Egèo sonando scorre
Il tracio Bora, che le nubi e i flutti
Si sgombra avanti; e questi ai lidi, e quelle
A l’orizzonte in fuga se ne vanno:
Tal per lo campo, ovunque si rivolge,
Fa Turno sgominar l’armi e le schiere;
E tal seco ne va furia e spavento,
Che financo al cimier morte minaccia.
     Fegèo, tanta fierezza e tanto orgoglio
Non sofferendo, al concitato carro
Parossi avanti; e lievemente un salto
Spiccando, con la destra al fren s’appese
Del sinistro corsiero. E sì com’era
Da la fuga rapito e da la forza
Di tutti insieme, insiememente a tutti
(Dal sentier divertendoli e dal corso)
Facea storpio e disturbo. Ed ecco al fianco
Che da la destra parte era scoperto,
Cotal sentissi de la lancia un colpo
Che la corazza ancor che doppia e forte,
Stracciogli, e ’n fino al vivo lo trafisse
Ma di lieve puntura. Ond’ei rivolto,
E ’mbracciato lo scudo e stretto il brando,
Contra gli s’affilava, e per soccorso
Gridava intanto. Ma la ruota e l’asse
Ch’erano in moto, urtandolo, a rovescio
Gittârlo; e Turno immantinente addosso
Sagliendogli, infra l’elmo e la gorgiera
Il collo gli recise, e dal suo busto
Tronco il capo lasciogli in su l’arena.
     Mentre così vincendo e d’ogni parte
Con tanta strage il campo trascorrendo
Se ne va Turno; Enea dal fido Acate,
Da Memmo e dal suo figlio accompagnato
(Come da la saetta era ferito),
Sovr’un’asta appoggiato, a lento passo
Verso gli alloggiamenti si ritragge.
Ivi contro a lo stral, contro a se stesso
S’inaspra e frange il tèlo, di sua mano
Ripesca il ferro. e poi che indarno il tenta,
Comanda che la piaga gli s’allarghi
Con altro ferro, e d’ogn’intorno s’apra,
Sì che tosto dal corpo gli si svelga,
E tosto alla battaglia se ne torni.
Comparso intanto era a la cura Iäpi
D’Iäso il figlio, sovr’ogn’altro amato
Da Febo. E Febo stesso, allor ch’acceso
Era da l’amor suo, la cetra e l’arco
E ’l vaticinio, e qual de l’arti sue 650
Più l’aggradasse, a sua scelta gli offerse.
Ei che del vecchio infermo e già caduco
Suo padre la salute e gli anni amava,
Saper de l’erbe la possanza, e l’uso
Di medicare elesse, e senza lingua
E senza lode e del futuro ignaro
Mostrarsi in pria, che non ritorre a morte
Chi li diè vita. A la sua lancia Enea
Stava appoggiato, e fieramente acceso
Fremendo, avea di giovani un gran cerchio
Col figlio intorno, al cui tenero pianto
Punto non si movea. Sbracciato intanto
E con la veste e la cintura avvolta,
Qual de’ medici è l’uso, il vecchio Iäpi
Gli era d’intorno; e con diverse pruove
Di man, di ferri, di liquori e d’erbe
Invan s’affaticava, invano ogn’opra,
Ogn’arte, ogni rimedio, e i preghi e i voti
Al suo maestro Apollo eran tentati.
     De la battaglia rinforzava intanto
Lo scompiglio e l’orrore; e già ’l periglio
S’avvicinava; già di polve il cielo,
Di cavalieri il campo era coverto;
Che fin dentro a’ ripari e fra le tende
Ne cadevano i dardi; e già da presso
S’udian de’ combattenti e de’ caduti
I lamenti e le grida. Il caso indegno
D’Enea suo figlio, e ’l suo stesso dolore
In sè Ciprigna e nel suo cor sentendo,
Ratto v’accorse, e fin di Creta addusse
Di dittamo un cespuglio, che recente
Di sua man còlto, era di verde il gambo,
Di tenero le foglie, e d’ostro i fiori
Tutto consperso e rugiadoso ancora.
Quest’erba per natura ai capri è nota,
E da lor cerca allor che ’l tergo o ’l fianco
Ne van di dardo o di saetta infissi.
Con questa Citerèa per entro un nembo
Ne venne ascosa, e col salubre sugo
D’ambrosia e d’odorata panacea
Mischiolla, e poscia i tiepidi liquori
Ch’eran già presti in tal guisa ne sparse,
Che nïun se n’avvide. E n’ebbe a pena
La piaga infusa, che l’angoscia e ’l duolo
Cessò repente, il sangue d’ogni parte
De la ferita in fondo si raccolse,
E seguendo la mano, il ferro stesso
Come da sè n’uscio. Spedito e forte,
E nel pristino suo vigor ridotto,
Enea dritto levossi. Iäpi il primo: 700
A che, disse, badate? e perchè l’arme
Tosto non gli adducete? Indi a lui vòlto,
Contro a’ nemici in tal guisa infiammollo:
Enea, non è, non è per possa umana
O per umano avviso o per mia cura
Questo avvenuto. Un dio, certo un gran dio
A gran cose ti serba. In questo mezzo
Ei, già di pugna desïoso, entrambi
S’avea gli stinchi di dorata piastra,
Il dorso di lorica, e la sinistra
Di scudo armata. E già l’asta squassando,
D’indugio impazïente, in su la soglia
Tanto sol de la tenda si ritenne,
Che, sì com’era di tutt’armi involto,
Il caro Iulo caramente accolse,
E con le labbia a pena entro l’elmetto
Baciollo, e disse: Figlio mio, da me
La sofferenza e la virtute impara;
La fortuna dagli altri. Io, quel che posso
Or con questa mia destra ti difendo:
Onor, grandezza e signoria t’acquisto
Col sangue mio. Tu poi, quando maturi
Fian gli anni tuoi, fa che d’Enea tuo padre
E d’Ettore tuo zio sì ti rammenti,
Che ti sian le fatiche e i gesti loro
A gloria ed a vertute essempi e sproni.
     Detto così, fuor de le porte uscendo,
Brandì la lancia, e tutti in un drappello
Ristrinse i suoi. Memmo ed Antèo con esso,
E quanti altri del vallo erano in prima
Lasciati a guardia, il vallo abbandonando,
Dietro gli s’inviaro. Allor di polve
Levossi un nembo, e d’ogn’intorno scossa
Al calpitar de’ piè tremò la terra.
     Turno di sopra un argine mirando,
Questa gente venir si vide incontro.
Viderla, e ne temero e ne tremaro
Gli Ausoni tutti. Udinne il suon da lunge
Giuturna in prima, e per timore indietro
Se ne ritrasse. Enea volando, al campo
Spinse lo stuol, che polveroso e scuro
Tal se n’andò qual d’alto mare a terra
Squarciato nembo, quando, ohimè! che segno
E che spavento, e che ruina apporta
Ai miseri coloni! e quanta strage
Agli alberi, a le biade, a la vendemmia
Se ne prepara! e qual se n’ode intanto
Sonar procella, e venir vento a riva!
Cotal contro a’ nemici il teucro duce
Co’ suoi, come in un gruppo insieme uniti, 750
Entrò ne la battaglia. Al primo incontro
Osìri, Archezio, Ufente ed Epulone
Ne gir per terra. Acate e Memmo e Gia
E Timbrèo gli affrontaro, e ciascun d’essi
Atterrò ’l suo. Cadde Tolunnio appresso,
L’augure che primiero il dardo trasse
Nel turbar de l’accordo. Al suo cadere
Tutto in un tempo empiessi il ciel di grida,
La campagna di polve; e vòlti in fuga
Se ne giro i Latini. Enea sdegnando
E di seguire e d’incontrar qual fosse
Pedone o cavalier, che o lunge o presso
Di provocarlo e di ferirlo osasse,
Sol di Turno cercando iva per entro
Quella densa caligine, e ’l suo nome
Solamente gridando, a la battaglia
Lo disfidava. Impaürita e mesta
Di ciò Iuturna, la virago ardita,
Tosto di Turno al carro appropinquossi,
E giù Metisco, il suo fedele auriga,
Subito trabocconne. Ed ella in vece
E ’n sembianza di lui, lui stesso al corpo,
A l’armi, a la favella, ad ogni moto
Rassomigliando, in seggio vi si pose,
E ne prese le redini, e lo resse.
    Qual ne va negra rondine alïando
Per le case de’ ricchi, allor che piume
E fuscelletti al cominciato nido
Quinci e quindi rauna, o picciol’esca
A’ suoi loquaci pargoletti adduce;
Che sotto a’ porticali e sopra l’acque,
E per gli atri volando e per le sale
Or alto or basso si travolve e gira;
Cotal Iuturna il campo attraversando
Per ogni parte si spingea col carro
E co’ destrieri infra i nemici a volo,
Sovente a loco a loco il suo fratello
Vincitor dimostrando, e non soffrendo
Che punto dimorasse, o ch’a rincontro,
O pur vicino al gran Teucro ne gisse.
Enea da l’altro canto incontro a lui
Volgendo, e rivolgendo, e fra le schiere
Così com’eran dissipate e sparse,
Indarno ricercandolo, il chiamava
Ad alta voce. E mai gli occhi non torse
Ov’ei si fusse, e dietro non gli mosse,
Ch’ella co’ suoi corsieri in più diversa
E più lontana parte non fuggisse.
Or che farà, ch’ogni pensiero, ogni opra,
Ogni disegno gli rïesce invano? 800
E i pensier son diversi? Ecco Messápo,
Che per lo campo discorrendo intanto
D’improvviso l’incontra. E sì com’era
D’una coppia di dardi a la leggiera
Ne la sinistra armato, un ne gli trasse
Dritto sì che fería; se non ch’Enea
Gli fece schermo, e rannicchiato e stretto
Chinossi alquanto. E pur ne l’elmo il colse
E ’l cimier ne divelse. Irato surse;
E poichè da’ nemici attorneggiato
Si vide, e che i cavalli eran di Turno
Di già spariti, a Giove, ai sacri altari
Del vïolato accordo e de l’insidie
Molto si protestò: poscia tra loro
Gittossi impetuoso, e strazio e strage
Prosperamente, ovunque si rivolse,
Ne fece a tutto corso; e senza freno
Si diede a l’ira ed a la furia in preda.
     Or qual nume sarà ch’a dir m’aìti
Le tante occisïoni e sì diverse
Che di duci e di schiere e di falangi
Fecer quel giorno, Enea da l’una parte,
Turno da l’altra? Ah, Giove! sì crudele,
Sì sanguinosa guerra infra due genti
Che saran poscia eternamente in pace?
    Enea, Sucrone, un de’ più forti Ausoni
Occise in prima, e primamente i Teucri
Fermò, ch’eran da lui rivolti in fuga.
L’incontrò, lo ferì, senza dimora
Morto a terra il gittò; ch’in un de’ fianchi
Con la spada lo colse, e ne le coste
E ne la vita stessa ne gl’immerse.
     Turno a piè dismontato, Àmico in terra,
Che da cavallo era caduto, infisse:
E seco il frate suo Dïòro estinse.
L’un di lancia ferì, l’altro di brando;
E d’ambi i capi dai lor tronchi avulsi,
Sì com’eran di polvere e di sangue
Stillanti e lordi, per le chiome appesi
Anzi al carro si pose. E via seguendo
Quegli Talone e Tánaï e Cetègo
Tre feroci Latini a un assalto
Si stese avanti, e ’l mesto Onite appresso
Figlio di Peritía, gloria di Tebe.
E tre dal canto suo questi n’ancise
Ch’eran fratelli de la Licia usciti
E de’ campi d’Apollo; a cui per quarto
Menète aggiunse. Ah come il fato indarno
Si fugge! Infin d’Arcadia fu costui
Qui condotto a morire. E ’n su la riva 850
Era nato di Lerna, ove pescando,
Da l’armi, da le corti e da’ palagi
Si tenea lunge; e solo il suo tugurio
Avea per reggia, e per signore il padre,
Povero agricoltor de’ campi altrui.
     Come due fochi in due diverse parti
D’un secco bosco accesi, ardon sonando
Le querce e i lauri; o due rapidi e gonfi
Torrenti che nel mar dagli alti monti
Precipitando, se ne va ciascuno
Il suo cammino aprendo, e ciò che truova
Si caccia avanti e rumoreggia e spuma;
Così per la campagna, ambi fremendo,
Le schiere sgominando, e questi e quelli
Atterrando ne gían, da l’una parte
Enea, Turno da l’altra. Or sì che d’ira,
Or sì che di furor si bolle e scoppia,
E con tutte le forze a ferir vassi;
Chè l’esser vinto, e non la morte è morte.
E qui Murráno (un che superbo e gonfio,
Del nome e de l’origine vantando
Se ne gía degli antichi avi e bisavi
Latini regi) fu d’un balzo a terra
Da la furia d’Enea spinto e travolto;
Sì che di lui, del carro e de le ruote
Fatto un viluppo, i suoi stessi cavalli,
Il signore oblïando, incrudelîrsi,
E sotto al giogo e sotto ai calci accolto
L’infranser, lo pigiâr, lo strascinaro
E l’ancisero alfine. Ilo, che fiero
E minaccioso avanti gli si fece,
Seguì Turno a ferir di dardo, in guisa
Che de l’elmetto la dorata piastra
E le tempie e ’l cerebro gli trafisse.
Nè tu, Crèteo, di man di Turno uscisti,
Perchè de’ più robusti e de’ più forti
Fosti de’ Greci. Nè di man d’Enea
Scampâr Cupento i suoi numi invocati:
Chè nel petto ferillo, e non gli valse
Lo scudo che di bronzo era coverto.
E tu che contra a tante argive schiere
E contra al domator di Troia Achille,
Eölo, non cadesti, in questi campi
Fosti, qual gran colosso, a terra steso.
Ma che? Quest’era il fin de’ giorni tuoi:
Qui cader t’era dato. Appo Lirnesso
Altamente nascesti: appo Laurento
Umil sepolcro avesti. Eran già tutti
Quinci i Latini e quindi i Teucri a fronte,
E tra lor mescolati Asíla e Memmo, 900
E Seresto e Messápo, e le falangi
Degli Arcadi e de’ Toschi, ognun per sè,
E tutti insieme con estrema possa,
Con estremo valor senza riposo
Facean mortale e sanguinosa mischia.
     Qui nel pensiero al travagliato figlio
Pose Ciprigna di voltar le schiere
Subitamente a le nimiche mura,
E con quel nuovo, inopinato avviso
Assalir, disturbare, e l’oste insieme
E la città por de’ Latini in forse.
E sì come, di Turno investigando,
Volgea le luci in questa parte e ’n quella,
Vide Laurento che non tocco ancora
Stava da tanta guerra immune e scevro.
E da l’occasïon subitamente
Preso consiglio, a sè Memmo, Seresto
E Sergesto chiamando, indi vicino
Sovr’un colle si trasse, ove de’ Teucri
A mano a man si raunâr le schiere.
E sí come raccolti, armati e stretti
S’eran già fermi, in mezzo alto levossi
E cosí disse: Udite, e senza indugio
Fate quel ch’io dirò. Giove è con noi.
E perché sì repente io mi risolva
A questa impresa, non però di voi
Alcun sia che men pronto vi si mostri.
Oggi o che re Latino al nostro impero
Converrà ch’obbedisca e freno accetti;
O che questa città, seme e cagione
Di questa guerra, e questo regno tutto
A foco, a ferro ed a ruina andranne.
E che deggio aspettar? Che non piú Turno
Fugga, sì come fa, la pugna mia?
E che vinto una volta, si contenti
Di combattere un’altra? Il capo e ’l fine,
Cittadin miei, di questa guerra è questo.
Via, col foco a le mura e con le fiamme
Ne vendichiam del vïolato accordo.
     Avea ciò detto, quando ognuno a gara
E tutti insieme inanimati e stretti
Di conio in guisa, qual intera massa,
Appressâr la città. Vi furon preste
Le scale e ’l foco. Altri assalîr le porte,
E questi e quelli occisero e cacciaro,
Come pria s’abbattero. Altri lanciando
Oppugnâr la muraglia; onde levossi
Di terra un nembo che fece ombra al sole.
     Enea sotto le mura attorneggiato
Da’ primi suoi, la destra alto e la voce 950
Levando, or con Latino or con gli Dei
Si protestava, che due volte a l’armi
Era forzato e che due volte il patto
Gli si turbava. I cittadini intanto
Facean tumulto. E chi volea che dentro
Si chiamassero i Teucri e che le porte
Fossero aperte, il re fin sulle mura
A ciò traendo e chi l’armi gridando
S’apprestava a difesa. Era a vederli
Qual è di pecchie entro una cava rupe
Accolto sciamo allor che dal pastore
D’amaro fumo è la caverna offesa;
Che trepide, confuse e d’ira accese,
Per l’incerate fabbriche travolte,
Discorrendo e ronzando se ne vanno:
Al cui stridor l’affumigata grotta
Mormora, e tetro odore a l’aura esala.
SUICIDIO DI AMATA
     In questo tempo un infortunio orrendo,
Timor, confusïone e duolo accrebbe
Agli afflitti Latini, e pose in pianto
Il popol tutto: e fu che la reina,
Visto da lunge incontro a la cittade
Venire i Teucri, e già le faci e l’armi
Volar per entro, e piú nulla sentendo
O vedendo de’ Rutuli o di Turno.
Onde aita o speranza le venisse,
Si credè la meschina che già l’oste
Fosse sconfitto, e ’l genero caduto,
Ogni cosa in ruina. E presa e vinta
Da súbito dolore, alto gridando:
Ah! ch’io la colpa, disse, io la cagione,
Io l’origine son di tanto male.
E dopo molto affliggersi e dolersi,
Già furïosa e di morir disposta
Il petto aprissi, e la purpurea veste
Si squarciò, si percosse, e de l’infame
Nodo il collo s’avvinse, e strangolossi.
     Udito il caso, la diletta figlia
I biondi crini e le rosate guance
Prima si lacerò, poscia la turba
V’accorse de le donne, e di tumulto,
Di pianti, di stridori e d’ululati
La reggia tutta e la cittade empiessi.
Ognun si sgomentò. Latino, afflitto
De la morte d’Amata e del periglio
Del regno tutto, lanïossi il manto,
Bruttossi il bianco e venerabil crine
D’immonda polve: amaramente pianse
Che per suocero dianzi e per amico
Non si confederò col frigio duce. 1000
   Turno, che in questo mezzo combattendo
Rimaso era del campo in su l’estremo
Incontro a pochi, e quelli anco dispersi,
Già scemo di vigore, e trasportato
Da’ suoi cavalli, che ritrosi e stanchi
Ognor piú se n’andavano e lontani,
In sè confuso e dubio se ne stava.
Quando ecco di Laurento ode le grida
Con un terror che, non compreso ancora,
Gli avea da quella parte il vento addotto.
Porse l’orecchie, e ’l mormorio sentendo
De la città, che tuttavia più chiaro
Di tumulto sembrava e di travaglio.
Oh, disse, che sent’io? che novitate
E che rumore e che trambusto è questo
Che di dentro mi fere? E, quasi uscito
Di sè, mirando ed ascoltando stette.
Cui la sorella (come già conversa
Era in Metisco, e come i suoi cavalli
Stava reggendo) si rivolse, e disse:
Di qua, Turno, di qua. Quinci la strada
Ne s’apre a la vittoria. Altri a difesa
Saran de la città. Se d’altra parte
Enea de’ tuoi fa strage, e tu da questa
Distruggi i suoi; chè non men gloria aremo,
E più sangue faremo. E Turno a lei:
O mia sorella! (chè mia suora certo
Sei tu) ben ti conobbi infin da l’ora
Che turbasti l’accordo, e che poi meco
Ne la battaglia entrasti. Or, benchè Dea,
Indarno mi t’ascondi. E chi dal cielo
Così qua giù ti manda a soffrir meco
Tante fatiche? A veder forse a morte
Gir tuo fratello? E che, misero! deggio
Far altro mai? qual mi si mostra altronde
O salute o speranza? Io stesso ho visto
Con gli occhi miei, lo mio nome chiamando,
Cadere il gran Murráno. E chi mi resta
Di lui più fido e piú caro compagno?
E ’l magnanimo Ufente anco è perito,
1Credo, per non veder le mie vergogne:
E ’l corpo e le armi sue, lasso! in potere
Son de’ nemici. E soffrirò (chè questo
Sol ci mancava) di vedermi avanti
Aprir le mura, e ruinare i tetti
De la nostra città? Nè fia che Drance
Menta de la mia fuga? E fia che Turno
Volga le spalle, e quella terra il vegga?
Sì gran male è morire? Inferni dii,
Accoglietemi voi, poichè i superni1050
Mi sono infesti. A voi di questa colpa
Scenderò spirto intemerato e santo,
E non sarò de’ miei grand’avi indegno.
     Ciò disse a pena; ed ecco a tutta briglia
Venir per mezzo a le nemiche schiere
Un cavalier che Sage era nomato.
Di spuma e di sudore il suo cavallo,
E di sangue era sparso. In volto infissa
Portava una saetta, e con gran furia
Turno chiamando e ricercando andava.
     Poscia che ’l vide, In te, disse, è riposta
Ogni speranza: abbi pietà de’ tuoi.
Enea va come un folgore atterrando
Tutto ciò che davanti gli si para;
E le mura e le torri e ’l regno tutto
Di ruinar minaccia; e già le faci
Volano ai tetti. A te gli occhi rivolti
Son de’ Latini. E già Latino stesso
Vacilla, e fra due stassi a qual di voi
S’attenga, e di cui suocero s’appelli.
La regina che solo era sostegno
De la tua parte, di sua propria mano,
Per timore e per odio de la vita,
S’è strangolata. Solamente Atina
E Messápo a difesa de le porte
Fan testa; ma gli vanno i Teucri a schiere
Con tant’aste a rincontro e tante spade
Serrati insieme, quante a pena in campo
Non son le biade. E tu per questa vòta
E deserta campagna il carro indarno
Spingendo e volteggiando te ne stai?
     Turno da tante orribili novelle
Sopraggiunto in un tempo e spaventato,
Si smagò, s’ammutí, col viso a terra
Chinossi. Amor, vergogna, insania e lutto
E dolore e furore e coscïenza
Del suo stesso valore accolti in uno,
Gli arsero il core e gli avvamparo il volto.
     Ma poscia che gli fu la nebbia e l’ombra
De la mente sparita, e che la luce
Gli si scoprì della ragione in parte:
Così com’era ancor turbato e fero,
Di sopra al carro a la città rivolse
L’ardente vista. Ed ecco in su le mura
Vede che una gran fiamma al cielo ondeggia,
Gli assiti, i ponti e le bertesche ardendo
D’una torre ch’a guardia era da lui
De la muraglia in su le ruote eretta.
E disse: Già, sorella, già son vinto
Dal mio destino. A che più m’attraversi? 1100
Via dove la fortuna e Dio ne chiama!
Fermo son di venir col Teucro a l’armi,
E soffrir de la pugna e de la morte
Ogni acerbezza, anzi che tu mi vegga
De la gloria de’ miei, sorella, indegno.
Or al fato mi lascia: e sostien ch’io
Disfoghi infurïando il mio furore.
     Così dicendo, fuor del carro a terra
Gittossi incontinente, e la sirocchia
Lasciando afflitta, via per mezzo a l’armi
E per mezzo a’ nemici a correr diessi.

amata
MORTE DI AMATA

Qual di cima d’un monte in precipizio
Rotolando si svolge un sasso alpestro,
Che dal vento o dagli anni o da la pioggia
Divelto, per le piagge a scosse, a balzi
Vada senza ritegno, e de le selve
E degli armenti e de’ pastori insieme
Meni guasto, ruina e strage avanti;
MORTE DI TURNO.
Tal per l’opposte e sbaragliate schiere
Se ne gia Turno. E giunto ove in cospetto
De la città di molto sangue il campo
Era già sparso e pien di dardi il cielo;
Alzò la mano, e con gran voce disse:
     State, Rutuli, a dietro; e voi, Latini,
Toglietevi da l’armi. Ogni fortuna,
Qual ch’ella sia di questa pugna, è mia.
A me la colpa, a me si dee la pena
Del vïolato accordo: a me per tutti
Pugnar debitamente si conviene.
     A questo dir di mezzo ognun si tolse,
Ognun si ritirò. Di Turno il nome
Enea sentendo, il cominciato assalto
Dismise e da le mura e da le torri
E da tutte l’imprese si ritrasse.
Per letizia esultò, terribilmente
Fremè, si rassettò, si vibrò tutto
Ne l’armi, e ’n sè medesmo si raccolse;
Quanto il grand’Ato, o ’l grand’Èrice a l’aura
Non sorge a pena, o ’l gran padre Appennino.
Allor che d’elci la fronzuta chioma
Per vento gli si crolla, e che di neve
Gioioso alteramente s’incappella.
I Rutuli, i Latini, i Teucri, e tutti
O ch’a la guardia o ch’a l’offesa in prima
Fosser de la muraglia, ognuno a gara
L’armi deposte, a rimirar si diero.
Latino esso re stesso spettatore
Ne fu con meraviglia, ch’anzi a lui
Altri due re sì grandi, e di due parti
Del mondo sì diverse e sì remote, 1150
Fosser de l’armi al paragon venuti.
     Eglino, poichè largo e sgombro il campo
Ebber davanti, non si fur da lunge
Veduti a pena, che correndo entrambi
Mosser l’un contra l’altro. I dardi in prima
S’avventâr di lontano, indi s’urtaro;
E ’l tonar degli scudi e ’l suon degli elmi
Fe la terra tremare, e l’aura ai colpi
Fischiò de’ brandi. La fortuna insieme
Si mischiò col valore. In cotal guisa
Sopra al gran Sila o del Taburno in cima,
D’amore accesi, con le fronti avverse
Van due tori animosi a riscontrarsi;
Che pavidi in disparte se ne stanno
I lor maestri, s’ammutisce e guarda
La torma tutta, e le giovenche intanto
Stan dubbie a cui di lor marito e donno
Sia de l’armento a divenir concesso;
Ed essi urtando, con le corna intanto
Si dan ferute, che le spalle e i fianchi
Ne grondan sangue, e ne rimugghia il bosco.
Tal del troiano e dell’ausonio duce
Era la pugna e tal de le percosse
E degli scudi il suono. A questo assalto
Il gran Giove nel ciel librate e pari
Tenne le sue bilance, e d’ambi il fato
Contrapesando, attese a qual di loro
Desse la sua fatica e ’l suo valore
De la vittoria o de la morte il crollo.
     Qui Turno a tempo, che sicuro e destro
Gli parve, alto levossi, e con la spada
Di tutta forza a l’avversario trasse,
E ne l’elmo il ferì. Gridaro i Teucri,
Trepidaro i Latini, e sgomentârsi
Tutte d’ambi gli eserciti le schiere.
Ma la perfida spada in mezzo al colpo
Si ruppe, e ’n sul fervore abbandonollo,
Sí che la fuga in sua vece gli valse:
Ch’a fuggir diessi, tosto che la destra
Disarmata si vide, e che da l’else
L’arme conobbe che la sua non era.
     È fama che da l’impeto accecato,
Allor che prima a la battaglia uscendo
Giunse Turno i cavalli e ’l carro ascese,
Per la confusïone e per la fretta
Lasciato il patrio brando, a quel di piglio
Diè per disavventura, che davanti
Gli s’abbattè del suo Metisco in prima.
E questo, fin che dissipati e rotti
N’andaro i Teucri, assai fedele e saldo 1200
Lungamente gli resse. Ma venuto
Con l’armi di Vulcano a paragone
(Come quel che di mano era costrutto
Di mortal fabbro) mal temprato e frale,
Qual di ghiaccio, si franse e ne la sabbia
Ne rifulsero i pezzi. E così Turno
Fuggendo, or quinci or quindi per lo campo,
Qual forsennato, indarno s’aggirava,
D’ogni parte rinchiuso; che da l’una
Lo serravano i Frigi e la palude,
E ’l fosso e la muraglia era da l’altra.
E non men ch’ei fuggisse, il teucro duce
(Come che da la piaga ancor tardato
Fosse de la saetta, e le ginocchia
Si sentisse ancor fiacche) il seguitava.
L’ardente voglia, e la speranza eguale
A la téma di lui, sì lo spingea,
Che già già gli era sopra, e già ’l feria.
Così cervo fugace o da le ripe
Chiuso d’un alto fiume, o circondato
Da le vermiglie abbominate penne,
Se da veltro è cacciato o da molosso
Che correndo e latrando lo persegua,
Di qua di lui, di là del precipizio
Temendo e degli strali e degli agguati,
Fugge, rifugge, si travolge e torna
Per mille vie; nè dal feroce alano
È però meno atteso e men seguíto,
Che mai non l’abbandona; e già gli è presso
A bocca aperta, e già par che l’aggiunga,
E ’l prenda, e ’l tenga, e come se ’l tenesse,
Schiattisce, e ’l vento morde, e i denti inciocca.
     Allor le grida alzârsi, a cui le rupi
De’ monti e i laghi intorno rispondendo,
L’aria e ’l ciel tutto di tumulto empiero.
Mentre così fuggia Turno, gridando
E rampognando i suoi, del proprio nome
Ciascun chiamava, e ’l suo brando chiedea.
     Enea da l’altra parte, minacciando
A tutti unitamente ed a qualunque
Di sovvenirlo e d’appressarlo osasse,
Che faria delle genti occisïone
Senza pietà, ch’a sacco, a ferro, a foco
Metteria la cittade e ’l regno tutto,
Sì com’era ferito, il seguitava.
Cinque volte girando il campo tutto,
E cinque rigirando, e molte e molte
Di qua di là correndo, imperversaro;
Chè non per gioco, non per lieve acquisto
D’onor, ma per l’imperio, per lo sangue, 1250
Per la vita di Turno era il contrasto.
Per sorte in questo loco anticamente
Era a Fauno sacrato un oleastro
D’amare foglie, venerabil legno
A’ naviganti che dal mare usciti
A salvamento, al tronco, ai rami suoi
Lasciavano i lor voti e le lor vesti
A questo dio de’ Laürenti appese:
Non ebbero i Troiani a questo sacro
Più ch’agli altri profani arbori o sterpi
Alcun riguardo; onde con gli altri tutti
Lo distirpâr, perchè netto e spedito
Restasse il campo al marzïale incontro.
     De l’oleastro in loco era caduta
L’asta d’Enea: qui l’impeto la trasse;
Qui si tenea tra le sue barbe infissa.
E qui per ricovrarla il teucro duce
Chinossi, e per far pruova se con essa
Lanciando lo fermasse almen da lunge,
Poi ch’appressar correndo nol potea.
Allor per tèma in sè Turno confuso:
Abbi, Fauno, di me cura e pietate,
Disse, pregando, e tu, benigna terra,
Sii del suo ferro a mio scampo tenace,
Se i vostri sacrifici e i vostri onori
Io mai sempre curai, che pur da’ Frigi
Son così vilipesi e profanati.
     Ciò disse, e non fu ’l detto e ’l voto in vano:
Ch’Enea molta fatica e molto indugio
Mise intorno al suo tèlo, nè con forza,
Nè con industria alcuna ebbe possanza
Mai di sferrarlo. Or mentre vi s’affanna
E vi studia e vi suda, ecco Iuturna
Un’altra volta ne lo stesso auriga
Mutata gli si mostra, e la sua spada
Al fratello appresenta. E d’altra parte
Venere, disdegnando che la ninfa
Cotanto osasse, incontinente anch’ella
Accorse al figlio, e l’asta gli divelse.
Così d’arme, di speme e d’ardimento
Ambidue rinforzati, e l’un del brando,
L’altro de l’asta altero, un’altra volta
A vittoria anelando s’azzuffaro.
Stava Giuno a mirar questa battaglia
Sovr’un nembo dorato, allor che Giove
Così le disse: E che faremo alfine,
Donna? E che far ci resta? Io so che sai,
E tu l’affermi, che da’ fati Enea
Si deve al cielo, e che tra noi s’aspetta.
Ch’agogni più? Che macchini, e che speri? 1300
A che tra queste nubi or ti ravvolgi?
Convenevol ti sembra e degna cosa
Che mortal ferro a vïolar presuma
Un che fia Divo? E ti par degno e giusto
Ch’a Turno in man la spada si riponga
Quando egli stesso la si tolse e ruppe?
E l’avria senza te Iuturna osato,
Non che potuto? A crescer forza ai vinti!
Togliti giù da questa impresa omai,
Togliti; e me, che te ne prego, ascolta:
Nè soffrir che ’l dolor, ch’entro ti rode,
Cangiando il dolce tuo sereno aspetto,
Sì ti conturbi, e sì spesso cagione
Mi sia d’amaritudine e di noia.
Quest’è l’ultima fine. Assai per mare,
Assai per terra hai tu fin qui potuto
A vessare i Troiani, a muover guerra
Così nefanda, a scompigliar la casa
Del re Latino, e ’ntorbidar le nozze,
Sì come hai fatto. Or più tentar non lece;
Ed io tel vieto. E qui Giove si tacque.
Abbassò ’l volto, ed umilmente a lui
Così Giuno rispose: Io, perchè noto
M’è, signor mio, questo tuo gran volere,
Ancor contra mia voglia abbandonata
Ho l’aita di Turno, e qui da terra
Mi son levata. Che se ciò non fosse,
Me così solitaria non vedresti,
Com’or mi vedi, in queste nubi ascosa,
E disposta a soffrir tutto ch’io soffro
Degno e non degno; ma di fiamme cinta
Mi rimescolerei per la battaglia
A danno de’ Troiani. Io, solo in questo,
Tel confesso, a Iuturna ho persüaso
Ch’al suo misero frate in sì grand’uopo
Non manchi di soccorso, e ch’ogni cosa
Tenti per la salute e per lo scampo
De la sua vita. E non però le dissi
Giammai che l’arco e le saette oprasse
Incontr’Enea. Tel giuro per la fonte
Di Stige, quel ch’a noi celesti numi
Solo è nume implacabile e tremendo.
Ora per obbedirti e perchè stanca
Di questa guerra e fastidita io sono,
Cedo e più non contendo. E sol di questo
Desio che mi compiaccia (e questo al fato
Non è soggetto), che per mio contento,
Per onor de’ Latini, per grandezza
E maestà de’ tuoi, quando la pace,
L’accordo e ’l maritaggio fia conchiuso 1350
(Che sia felicemente), il nome antico
Di Lazio e de le sue native genti,
L’abito e la favella non si mute:
Nè mai Teucri si chiamino e Troiani.
Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani
Sian d’Alba i regi, e la romana stirpe
D’italica virtù possente e chiara.
Poichè Troia perì, lascia che pèra
Anco il suo nome. A ciò Giove sorrise,
E così le rispose: Ah! sei pur nata
Ancor tu di Saturno, e mia sorella,
E consenti che l’ira e l’acerbezza
Così ti vinca? Or, come follemente
Lo concepeste, il cor te ne disgombra
Omai del tutto. E tutto io ti concedo
Che tu domandi, e vinto mi ti rendo.
La favella, il costume e ’l nome loro
Ritengansi gli Ausoni, e solo i corpi
Abbian con essi i Teucri uniti e misti.
D’ambedue questi popoli i costumi,
I riti, i sacrifici in uno accolti,
Una gente farò ch’ad una voce
Latini si diranno. E quei che d’ambi
Nasceran poi, sovr’a l’umana gente,
Si vedran di possanza e di pietade
Girne a’ celesti eguali; e non mai tanto
Sarai tu cólta e riverita altrove.
     Di ciò Giuno appagossi, e lieta e mite,
Già verso i Teucri, al ciel fece ritorno.
Giove poscia Iuturna da l’aita
Distor pensò di suo fratello, e ’l fece
In questa guisa. Due le pèsti sono,
Che son Dire chiamate, al mondo uscite
Con Megera a un parto, a lei sorelle,
Figlie a la Notte, e di Cocito alunne,
Che d’aspi han parimente irte le chiome,
E di ventose bucce i dorsi alati.
Queste di Giove al tribunale intorno,
E de la sua gran reggia anzi la soglia
Si presentano allor che pena e pèsti
E morti a noi mortali, e guerre a’ luoghi
Che ne son meritevoli apparecchia.
Una di loro a terra immantinente
Spinse il padre celeste, onde Iuturna
De la fraterna morte augurio avesse.
     Mosse la Dira, e di tempesta in guisa
Ch’impetüosamente trascorresse,
Volò come saetta che da Parto,
E da Cidone avvelenata uscisse,
E, non vista, ronzando e l’ombre aprendo, 1400
Ferita immedicabile portasse.
Giunta là ’ve di Turno e de’ Troiani
Vide le schiere, in forma si ristrinse
Subitamente di minore augello,
Ed in quel si cangiò che da’ sepolcri
E dagli antichi e solitari alberghi
Funesto canta, e sol di notte vola.
     Tal divenuta, a Turno s’appresenta,
Gli ulula, gli svolazza, gli s’aggira
Molte volte d’intorno; e fin con l’ali
Lo scudo gli percuote, e gli fa vento.
     Stupì, si raggricciò, muto divenne
Turno per la paura. E la sorella,
Tosto che lo stridor sentinne e l’ali,
Le chiome si stracciò, graffiossi il volto,
E con le pugna il petto si percosse.
Or che, dicendo, omai, Turno, più puote
Per te la tua germana? E che più resta
A far per lo tuo scampo, o per l’indugio
De la tua morte? E come a cotal mostro
Oppor mi posso io più? Già già mi tolgo
Di qui lontano. A che più spaventarmi?
Assai di téma, sventurato augello,
Nel tuo venir mi désti. E ben conosco
Ai segni del tuo canto e del tuo volo
Quel che m’apporti. E non punto m’inganna
Il severo precetto e 'l voler empio
Del superbo tonante. E questo è 'l pregio
De la verginità che mi ha rapita?
E perchè vita mi concesse eterna?
Perchè ’l morir mi tolse? Acciò morendo
Non finisse il mio duolo? acciò compagna
Gir non potessi al misero fratello?
Immortal io? Che valmi? E che mi puote
Ne l’immortalità parer soave
Senza il mio Turno? Or qual mi s’apre terra
Che seco mi riceva e mi rinchiugga
Tra l’ombre inferne; e non più ninfa e dea
Ma sia mortale e morta? E così detto,
Grama e dolente, di ceruleo ammanto
Il capo si coverse. Indi correndo
Nel suo fiume gittossi, ove s’immerse
Infino al fondo, e ne mandò gemendo
In vece di sospir gorgogli a l’aura.
     Intanto il suo gran tèlo Enea vibrando
Col nimico s’azzuffa, e fieramente
Lo rampogna, e gli dice: Or qual più, Turno,
Farai tu mora, o sotterfugio, o schermo?
Con l’armi, con le man, Turno, e da presso,
Non co’ piè si combatte e di lontano. 1450
Ma fuggi pur, diléguati, trasmútati,
Unisci le tue forze e ’l tuo valore,
Vola per l’aria, appiáttati sotterra,
Quanto puoi t’argomenta, e quanto sai,
Che pur giunto vi sei. Turno, squassando
Il capo: Ah, gli rispose, che per fiero
Che mi ti mostri, io de la tua fierezza,
Orgoglioso campion, punto non temo,
Nè di te: degli Dei temo e di Giove,
Che nimici mi sono e meco irati.
     Nulla più disse; ma rivolto, appresso
Si vide un sasso, un sasso antico e grande
Ch’ivi a sorte per limite era posto
A spartir campi e tôr lite a’ vicini.
Era sì smisurato e di tal peso,
Che dodici di quei ch’oggi produce
Il secol nostro, e de’ più forti ancora,
Non l’avrebbon di terra alzato a pena.
Turno diègli di piglio, e con esso alto
Correndo se ne gía verso il nimico,
Senza veder nè come indi il togliesse,
Nè come lo levasse, nè se gisse,
Nè se corresse. Disnervate e fiacche
Gli vacillâr le gambe, e freddo e stretto
Gli si fe’ ’l sangue. Il sasso andò per l’aura
Sì che ’l colpo non giunse, e non percosse.
     Come di notte, allor che ’l sonno chiude
I languid’occhi a l’affannata gente,
Ne sembra alcuna volta essere al corso
Ardenti in prima, e poi freddi in su ’l mezzo,
Manchiam di lena sì ch’i piè, la lingua,
La voce, ogni potenza ne si toglie
Quasi in un tempo: così Turno invano
Tutte del suo valor le forze oprava
Da la Dira impedito. Allora in dubbio
Fu di sè stesso, e molti per la mente
Gli andaro e vari e torbidi pensieri.
Torse gli occhi a’ suoi Rutuli, e le mura
Mirò de la città: poscia sospeso
Fermossi, e pauroso; sopra il tèlo
Vistosi del gran Teucro, orror ne prese,
Non più sapendo o dove per suo scampo
Si ricovrasse, o quel che per suo schermo,
O per l’offesa del nimico oprasse.
     Mentre così confuso e forsennato
Si sta, la fatal asta Enea vibrando,
Apposta ove colpisca, e con la forza
Del corpo tutto gli l’avventa e fere.
Macchina con tant’impeto non pinse
Mai sasso e mai non fu squarciata nube 1500
Che sì tonasse. Andò di turbo in guisa
Stridendo, e con la morte in su la punta
Furiosa passò di sette doppi
Lo rinforzato scudo; e la corazza
Aprendo, ne la coscia gli s’infisse.
Diè del ginocchio a questo colpo in terra
Turno ferito. I Rutuli gridaro;
E tal surse fra lor tumulto e pianto,
Che ’l monte tutto e le foreste intorno
Ne rintonaro. Allor gli occhi e la destra
Alzando in atto umilmente rimesso,
E supplicante: Io, disse, ho meritato
Questa fortuna; e tu segui la tua:
Chè nè vita, nè venia ti dimando.
Ma se pietà de’ padri il cor ti tange
(Chè ancor tu padre avesti, e padre sei),
Del mio vecchio parente or ti sovvenga.
E se morto mi vuoi, morto ch’io sia,
Rendi il mio corpo a’ miei. Tu vincitore,
Ed io son vinto. E già gli Ausoni tutti
Mi ti veggiono a’ piè, che supplicando1520
Mercè ti chieggio: e già Lavinia è tua;
A che più contro un morto odio e tenzone?
     Enea ferocemente altero e torvo
Stette ne l’arme, e vòlti gli occhi a torno,
Frenò la destra; e con l’indugio ognora1525
Più mite, al suo pregar si raddolciva:
Quando di cima all’omero il fermaglio
Del cinto infortunato di Pallante
Negli occhi gli rifulse. E ben conobbe
A le note sue bolle esser quel desso,1530
Di che Turno quel dì l’avea spogliato,
Che gli diè morte; e che per vanto poscia
Come nemica e glorïosa spoglia
Lo portò sempre al petto attraversato.
Tosto che ’l vide, amara rimembranza1535
Gli fu di quel ch’ei n’ebbe affanno e doglia;
E d’ira e di furore il petto acceso,
E terribile il volto, Ah, disse, adunque
Tu de le spoglie d’un mio tanto amico
Adorno, oggi di man presumi uscirmi,1540
Sì che non muoia? Muori: e questo colpo
Ti dà Pallante, e da Pallante il prendi,
A lui, per mia vendetta e per sua vittima,
Te, la tua pena, e ’l tuo sangue consacro.
E, ciò dicendo, il petto gli trafisse.1545
Allor da mortal gielo il corpo appreso
Abbandonossi; e l’anima di vita
Sdegnosamente sospirando uscío.1548

turno

ENEA uccide TURNO di LUCA GIORDANO

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Eugenio Caruso - 08- 06 - 2021

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www.impresaoggi.com