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Omero, Iliade, Libro 3. Lo scontro tra Menelao e Paride

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ILIADE

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartiene ad Omero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se ed allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.

INTRODUZIONE al TERZO LIBRO

I due eserciti si fronteggiano. Paride retrocede alla vista di Menelao. Rampognato da Ettore, si offre di venire a duello con Menelao, a patto che il vincitore abbiasi Elena e i suoi tesori. Elena per consiglio d’Iride viene a vedere il combattimento dalla torre della porta Scea, ove stava Priamo in compagnia d’alcuni vecchi Troiani. Ella mostra al suocero i capitani greci. Apparecchio e patti del duello confermati con giuramento da Agamennone e da Priamo. Si combatte. Paride, nel punto di essere ucciso da Menelao, è salvato da Venere, che cinto di nebbia lo trasporta nel suo palagio. Elena, avvertita dalla Dea medesima, viene a ritrovarlo e lo accusa di viltà. I due coniugi si rappacificano. Agamennone dichiara vincitore Menelao, e chiede l’adempimento dei patti.

TESTO LIBRO III

Quando i due eserciti si schierarono, ognuno con il suo comandante,                                       1

si mossero i Troiani con clamore e grida, come fanno gli uccelli

quando nel cielo si spande lo strepito delle gru,

che fuggono l’inverno e la pioggia senza fine;

volano strepitando sulle correnti dell’Oceano                                                                                5

e portano strage e morte ai Pigmei,

di prima mattina esse ingaggiano dura battaglia;

gli Achei, invece, avanzavano in silenzio, con furore:

erano ben decisi a darsi aiuto a vicenda sul campo.

E come sulle cime della montagna il Noto diffonde la nebbia                                                   10

(non certo gradita ai pastori, ma più propizia dell’oscurità per un ladro)

e si vede distante quanto è lungo il lancio di un sasso:

così sotto loro i piedi si levava una fitta polvere,

mentre i guerrieri marciavano, tanto rapidamente percorrevano la piana.

E quando già si trovarono di fronte, vicini a scontrarsi,                                                             15

si fece avanti tra i Troiani, Alessandro (Paride) , simile a un dio.

Portava sulle spalle una pelle di pantera, l’arco ricurvo e la spada,

con le mani palleggiava due giavellotti con la punta di bronzo:

sfidava così i i più valorosi degli Argivi

a combattere corpo a corpo, in un duello mortale.                                                                     20

Non appena il valoroso Menelao lo vide

avanzare a grandi passi dinanzi alla massa dei soldati,

gioì come un leone che si imbatte in una grossa preda,

sia che trovi un cervo dalle alte corna o una capra selvatica,

quando ha fame: lo divora con furia anche                                                                                  25

se gli danno la caccia cani veloci cani e giovani robusti.

Così si rallegrò Menelao nel vedere Alessandro simile

a un dio: pensava di vendicarsi di quello scellerato.

E subito saltò giù dal carro con le armi.

Ma appena Alessandro simile a un dio lo vide                                                                            30

comparire tra i primi, fu sconvolto da terrore:

e si tirava indietro nel gruppo dei suoi compagni per evitare la morte.

Come chi ha visto un serpente fa un balzo indietro,

tra le gole di una montagna, il tremito afferra le membra,

ritorna sui suoi passi, le guance diventano pallide:                                                                    35

così sparì di nuovo tra la folla dei battaglieri Troiani

Alessandro simile a un dio: aveva paura del figlio di Atreo.

Lo vide Ettore e lo prese a male parole:

“Paride sciagurato, bello solo nell’aspetto! Pazzo per le donne,

ingannatore! Potessi restare senza prole o morire senza moglie!                                             40

Questo avrei preferito e sarebbe stato assai meglio,

piuttosto che essere una vergogna, che esser malvisto dagli altri.

Sono certo che esultano gli Achei dalle chiome fluenti:

pensavano che tu fossi un valoroso campione perché hai una bella

presenza: invece non c’è forza in te, né coraggio.                                                                        45

Così come sei, sulle navi che solcano il mare

ti sei imbarcato, hai raccolto compagni fedeli,

ti sei mischiato a genti straniere, hai riportato una donna bellissima

da una terra lontana, una nuora di guerrieri armati di lancia,

per la grande sventura di tuo padre, della città e di tutto il popolo,                                         50

per la gioia dei nemici e la tua vergogna.

E ora non vuoi affrontare il valoroso Menelao?

Sapresti così di quale uomo ti tieni la fiorente sposa!

Non ti saranno di aiuto la cetra e i doni di Afrodite,

la bellezza e la chioma, quando cadrai nella polvere.                                                                  55

Ma i Troiani hanno troppo riguardo: altrimenti da tempo

avresti addosso una veste di pietre, per tutto il male che hai fatto”.

E a lui allora rispose Alessandro simile a un dio:

“Ettore, hai ragione a rimproverarmi, non hai torto.

Ma il tuo cuore è sempre duro come una scure che penetra                                                     60

il legno di un tronco per mano dell’uomo, quando con arte

taglia le travi per una nave, e ne moltiplica la forze.

Così il tuo animo in petto è inflessibile.

Non mi rinfacciare i doni amabili dell’aurea Afrodite:

lo sai che non si possono respingere i preziosi doni degli Dei;                                                  65

sono loro che li concedono, non si può scegliere a proprio piacere.

Ma ora, se davvero vuoi che io scenda in campo e mi batta,

fai sedere gli altri, i Troiani e tutti gli Achei:

mettete di fronte me e il valoroso Menelao, al centro,

a batterci per Elena e tutte le sue ricchezze.                                                                                70

Chi riesce a vincere e si rivela più forte,

si prenda in pace tutti quanti i tesori e la donna.

Voi altri, dopo aver fatto un accordo e leali patti,

continuerete ad abitare la fertile regione di Troia; gli altri

facciano ritorno ad Argo ricca di cavalli e in Acaia dalle belle donne”.                                    75

Così disse ed Ettore si rallegrò nell’udire queste parole;

subito andò nel mezzo e tratteneva le schiere dei Troiani,

impugnando la lancia al centro: tutti si fermarono.

Ma su di lui tiravano con l’arco gli Achei dalle chiome fluenti,

lo bersagliavano di frecce e gli scagliavano pietre.                                                                     80

Allora con forza gridò Agamennone, signore di popoli:

“Fermi, Argivi! Non tirate, figli degli Achei!

Ettore dall’elmo ondeggiante ci vuole dire qualcosa”.

Così parlava; e quelli smisero di combattere e stettero subito

in silenzio. Ettore, in mezzo ai due eserciti, disse:                                                                      85

“Ascoltatemi, Troiani e Achei dai solidi schinieri!

Sentite la proposta di Alessandro (è per causa sua che è sorto il conflitto):

lui propone che gli altri Troiani e tutti gli Achei

posino a terra le loro armi.

In mezzo al campo, lui ed il valoroso Menelao                                                                            90

combatteranno da soli per Elena e per tutte le sue ricchezze.

Chi riesce a vincere e si rivela più forte,

si prenda in pace tutti quanti i tesori e la donna.

Noi altri faremo un accordo e leali patti”.

Così disse: e tutti restarono in profondo silenzio.                                                                       95

Tra loro parlò Menelao, possente nel grido di guerra:

“Ascoltate ora anche me, poichè il dolore tormenta di più

il mio animo. Mi sembra opportuno, ormai, che si dividano

gli Argivi e i Troiani: molti mali avete sofferto

a causa della mia contesa e della colpa di Alessandro.                                                             100

Tra noi due, muoia chi è destinato a un fato

di morte! Voi altri troverete al più presto un accordo.

Ora portate due agnelli, un maschio bianco e una femmina nera,

per la Terra e per il Sole. Per Zeus ne porteremo noi un altro.

E portate qui il potente Priamo: lui stringerà i patti,                                                                105

poiché i suoi figli sono arroganti e sleali.

Che nessuno violi i giuramenti sacri a Zeus.

Le menti dei giovani sono sempre incostanti:

ma se c’è un vecchio, egli vede il prma e il dopo,

così sia meglio per entrambe le parti”.                                                                                      110

Così parlava: e si rallegrarono gli Achei e i Troiani,

nella speranza di finire la luttuosa guerra.

Disposero i cavalli in fila, scesero dai carri

e si spogliarono delle armi: poi le posarono a terra,

le une vicino alle altre: poco era lo spazio tra i fronti.                                                               115

Ettore allora mandava in città due araldi

a prendere in fretta gli agnelli e a chiamare Priamo.

E il sovrano Agamennone spediva a sua volta Taltibio

alle navi ricurve e gli dava l’ordine di portare un agnello:

lui prontamente obbedì al divino Agamennone.                                                                       120

Iris intanto giunse messaggera a Elena dalle bianche braccia:

assumeva l’aspetto di sua cognata, sposa del figlio di Antenore,

(era la consorte del principe Elicaone, figlio di Antenore):

era Laodice, la più bella delle figliole di Priamo.

La trovò nelle sue stanze: lei tesseva un grande mantello,                                                       125

doppio di larghezza, color porpora, e vi ricamava le avventure

dei Troiani, domatori di cavalli, e degli Achei rivestiti di bronzo,

che essi affrontarono per lei sotto i colpi di Ares.

Quando le fu vicino, così disse Iris dai piedi celeri:

“Vieni qui, figliola cara! Vedrai un fatto inaudito,                                                                    130

fra i Troiani, domatori di cavalli, e gli Achei rivestiti di bronzo.

Quelli che prima si battevano tra di loro

nella pianura, smaniosi di scontri mortali,

siedono là in silenzio: la guerra è finita,

stanno appoggiati agli scudi, le lance sono piantate al suolo.                                                  135

Alessandro e il valoroso Menelao,

con le lunghe lance, si batteranno per te in duello:

chi ne esce vincitore ti chiamerà sua legittima sposa”.

Così diceva la Dea e le mise in cuore un dolce desiderio

del suo primo marito, della sua città e dei suoi genitori.                                                         140

Subito si avvolgeva con un candido velo

e usciva dalla stanza piangendo lacrime di tenerezza;

non era sola, insieme a lei venivano due ancelle:

Etra, figlia di Pitteo, e Climene dai grandi occhi.

E ben presto arrivarono alle porte Scee.                                                                                     145

Qui vi era Priamo con Pantoo e Timete;

c’erano Lampo, Clizio e Ichetaone, rampollo di Ares;

c’erano Ucalegonte e Antenore, pieni di senno.

Gli anziani del popolo sedevano sulle porte Scee:

non combattevano più, per via della vecchiaia. Ma erano                                                        150

valenti parlatori: simili alle cicale che nella selva,

sull’albero, effondono la loro voce armoniosa:

così sulla torre stavano seduti i capi dei Troiani;

quando videro Elena venire sulla torre,

a bassa voce dicevano tra di loro:                                                                                                 155

“Non vi è biasimo, se per una donna del genere da tempo

i Troiani e gli Achei dai solidi schinieri soffrono dolori:

nell’aspetto somiglia tremendamente alle Dee immortali;

ma anche così, bella com’è, magari facesse ritorno sulle navi,

per non portare sventura a noi e ai nostri figli in futuro”.                                                       160

Così dicevano. Ma Priamo chiamò Elena ad alta voce:

“Vieni qui, figlia mia! Siediti davanti a me! Vedrai

il tuo primo marito, i tuoi parenti e i tuoi amici:

tu per me non hai colpa, gli Dei sono responsabili;

sono loro che mi hanno portato la sciagurata guerra degli Achei.                                          165

Dimmi il nome di quell’uomo straordinario:

chi è quell’Acheo nobile e grande nella statura?

Ci sono, è vero, altri più alti di lui di una testa intera,

ma io non ho mai visto prima d’ora un uomo così bello

e maestoso: ha tutta l’aria di essere un re”.                                                                                170

Elena, divina tra le donne, così rispose:

“Provo per te venerazione e soggezione, suocero mio:

Magari fossi morta in malo modo, quando giunsi

sin qui con tuo figlio, abbandonando il marito, i familiari,

la figliola in tenera età e le mie amate compagne.                                                                     175

Ma questo non è avvenuto: perciò mi consumo nel pianto.

E ora ti dirò ciò che mi domandi e richiedi:

quello là è il figlio di Atreo, il potente Agamennone:

è un valente sovrano e nello stesso tempo un forte guerriero;

era anche mio cognato (se pure mai lo fu), di me faccia di cagna”.                                        180

elena 1

ELENA. Dipinto di Evelyn de Morgan

 

Così rispose; il vecchio prese ad ammirarlo e disse:

“O fortunato Atride, uomo felice e figlio della buona sorte;

sono veramente numerosi, lo vedo, i figli degli Achei sotto il tuo regno.

Un tempo mi recai nella Frigia rigogliosa di vigne

e là vidi una moltitudine di Frigi, dagli agili cavalli:                                                                 185

erano le genti di Otreo e di Migdone simile a un dio,

che allora si accampavano lungo le rive del Sangario.

Anche io venni annoverato tra i loro alleati,

il giorno in cui arrivarono le Amazzoni, forti come uomini:

ma nemmeno loro erano tanti quanti sono gli Achei dal vivido sguardo”.                            190

Poi il vecchio scorgeva Odisseo e domandava ancora:

“Dimmi, figlia mia, chi è quell’altro laggiù:

è più basso di una testa rispetto all’Atride Agamennone,

ma è più robusto nelle spalle e nel petto, a vedersi.

Le sue armi giacciono sulla terra feconda                                                                                   195

e lui si aggira come un ariete tra le file dei guerrieri;

lo trovo proprio simile a un ariete villoso,

che va in mezzo a un vasto gregge di pecore bianche”.

Gli rispondeva allora Elena, nata da Zeus:

“Quello è il figlio di Laerte, l’accorto Odisseo,                                                                          200

che crebbe nella terra di Itaca aspra e rocciosa:

conosce inganni di ogni sorta e ha sottili pensieri”.

A lei si rivolse allora il saggio Antenore:

“Donna, è proprio vero quanto hai detto ora.

Una volta è venuto qui da noi il divino Odisseo,                                                                       205

nell’ambasciata per te, con il valoroso Menelao.

Li accolsi e li ospitai io nel mio palazzo,

ho potuto conoscerli entrambi di persona.

Si presentarono in mezzo all’assemblea dei Troiani;

se ne stavano in piedi, Menelao sovrastava con le sue ampie spalle:                                     210

ma se stavano seduti, Odisseo era più imponente.

Quando formulavano discorsi e pensieri in pubblico,

Menelao parlava in modo conciso: poche parole,

ma efficaci; non era certo un chiacchierone

ma neppure divagava: del resto era anche più giovane.                                                           215

Ma ogni volta che si alzava l’accorto Odisseo, si metteva

in piedi a lungo, guardava in giù con gli occhi fissi a terra,

non agitava lo scettro né avanti né indietro,

ma lo teneva immobile: sembrava proprio un inesperto;

si poteva credere che fosse imbronciato o stolto.                                                                      220

Ma quando mandava fuori dal petto la sua gran voce

e le parole, dense come fiocchi di neve d’inverno,

non c’era uno che fosse disposto a stargli di fronte.

E allora guardavamo in faccia Odisseo, senza stupirci più”.

Per la terza volta il vecchio domandava, guardando Aiace:                                                     225

“Chi è quell’altro Acheo là, forte ed alto di statura,

che sorpassa gli Argivi con l’intera testa e le larghe spalle?”.

E a lui rispondeva Elena dal lungo peplo, divina tra le donne:

“Quello è il gigantesco Aiace, baluardo degli Achei.

Dall’altro lato, in mezzo ai Cretesi, si leva come un dio                                                           230

Idomeneo: intorno a lui sono raccolti i capi di Creta.

Più di una volta lo ospitava il prode Menelao

a casa nostra, quando veniva da Creta.

Ora vedo tutti gli altri Achei dal vivido sguardo,

saprei riconoscerli bene e rivelartene il nome:                                                                          235

ma non riesco a scorgere due condottieri di popoli,

Castore domatore di cavalli e Polluce forte nel pugilato.

Sono i miei fratelli, li generò la mia stessa madre.

O non sono venuti con gli altri partendo dall’amabile Lacedemone,

oppure sono venuti con le navi per mare sin qua,                                                                    240

ma ora non se la sentono di scendere nel campo di battaglia,

per paura della vergogna e dell’ignominia su di me”.

Così diceva: invece li copriva ormai la terra feconda

laggiù a Lacedemone, nella loro patria.

Intanto gli araldi portavano per la città le vittime sacre                                                          245

agli Dei: due agnelli e il vino delizioso, frutto dei campi,

dentro un otre di pelle caprina: l’araldo Ideo portava

un cratere splendido e le coppe d’oro;

avvicinandosi al vecchio Priamo, lo esortava:

“Su, figlio di Laomedonte! Ti mandano a chiamare i capi                                                       250

dei Troiani, provetti cavalieri, e degli Achei vestiti di bronzo:

devi scendere in pianura per stringere i patti.

Dunque, Alessandro e il valoroso Menelao

con le lunghe lance si sfideranno a duello per la donna:

chi riesce vincitore avrà la donna e le ricchezze.                                                                       255

Noi altri, dopo aver fatto un accordo e stretto patti leali,

continueremo ad abitare la fertile regione di Troia: loro invece

faranno ritorno ad Argo ricca di cavalli e in Acaia dalle belle donne”.

Così disse e il vecchio rabbrividì: e diede ordine ai suoi

di aggiogare i cavalli. E loro ubbidirono prontamente.                                                            260

Priamo salì sul carro e tirò a sé le briglie;

accanto a lui, sul bellissimo cocchio, montò Antenore.

I due attraverso le porte Scee guidarono i rapidi destrieri in pianura.

Quando poi giunsero tra i Troiani e gli Achei

scesero dal carro sulla terra feconda,                                                                                          265

avanzarono in mezzo ai due eserciti.

Si fece avanti Agamennone signore di popoli

e insieme a lui l’accorto Odisseo. I nobili araldi

riunivano le vittime sacre agli dei e mescolavano nel cratere

il vino puro; versarono ai re l’acqua sulle mani.                                                                        270

L’Atride allora estrasse con la mano il coltello

che gli pendeva accanto al grande fodero della spada

e recideva dalla testa degli agnelli un ciuffo di peli. Gli araldi

li distribuirono ai principi dei Troiani e degli Achei.

Tra loro l’Atride pregava ad alta voce, levando le mani al cielo:                                             275

“Zeus padre, signore dell’Ida, glorioso e sommo;

e tu Sole che tutto vedi e tutto ascolti;

e voi Fiumi e Terra, voi due che sottoterra

punite gli uomini defunti e gli spergiuri:

siatemi tutti testimoni e vigilate sui patti.                                                                                 280

Se Alessandro uccide Menelao,

allora si tenga lui Elena e le sue ricchezze:

noi faremo ritorno sulle navi che solcano il mare.

Se invece il biondo Menelao uccide Alessandro,

allora i Troiani restituiscano Elena e tutti i tesori                                                                     285

e paghino agli Argivi un’ammenda adeguata,

che resti viva nel ricordo degli uomini a venire.

Se poi Priamo e i figli di Priamo non vorranno

pagare l’ammenda alla morte di Alessandro,

allora io combatterò per la vendetta anche dopo,                                                                     290

restando qui sino a che non porterò a termine questa guerra”.

Così disse,e tagliò la gola agli agnelli con il bronzo spietato.

Li posò a terra mentre ancora palpitavano,

ma ormai privi di vita: il bronzo tolse loro ogni forza.

Poi attingevano vino con le coppe dal cratere,                                                                           295

lo versavano a terra e pregavano gli Dei sempiterni.

E così diceva ognuno degli Achei e dei Troiani:

“Zeus glorioso e sommo e voi altri Dei immortali!

A quelli che per primi violano i giuramenti,

potesse colare a terra il cervello, come questo vino:                                                                300

ad essi ed ai figlioli; e le loro mogli siano sottomesse agli stranieri!”.

Così dicevano: ma il Cronide non adempiva il loro voto.

Tra essi, Priamo, discendente di Dardano, prese a parlare:

“Ascoltatemi, Troiani e Achei dai solidi schinieri!

Ora io me ne tornerò alla ventosa Ilio,                                                                                       305

perché non ho cuore di stare qui a vedere, con i miei occhi,

mio figlio scontrarsi in duello con il prode Menelao.

Lo sa Zeus di certo, come pure gli altri Dei immortali,

per chi dei due vi è destino di morte”.

Così disse e l’uomo simile a un dio mise gli agnelli sul carro,                                                 310

ci salì sopra e tirò indietro le briglie.

Accanto a lui, sul bellissimo cocchio, montò Antenore.

I due poi facevano ritorno a Ilio.

Allora Ettore figlio di Priamo e il divino Odisseo

segnavano dapprima il terreno dello scontro,                                                                            315

poi prendevano le tessere della sorte e le agitavano in un elmo di bronzo,

per vedere chi per primo doveva scagliare la lancia.

I combattenti rivolsero preghiere agli Dei, sollevando le braccia,

e così diceva ognuno degli Achei e dei Troiani:

“Zeus padre, signore dell’Ida, tu glorioso e grande,                                                                 320

chi è l’origine di questi guai per i due popoli,

fa’ che perisca ed entri nella casa di Ade

e che tra noi si faccia un accordo e patti leali!”.

Così dicevano. E il grande Ettore agitava le sorti nell’elmo,

tenendo gli occhi rivolti indietro: uscì prima quella di Paride.                                               325

Gli altri sedettero sedevano tra le file, dove ciascuno aveva

i suoi cavalli scalpitanti e le armi ricche di fregi.

Intanto indossava la sua bella armatura

il divino Alessandro, marito di Elena dalla bella chioma.

Prima si mise gli eleganti schinieri intorno                                                                               330

alle gambe e se li allacciava con fibbie d’argento;

poi vestì sul petto la corazza di suo fratello

Licaone – gli andava a pennello.

Si mise a tracolla la spada dalle borchie d’argento,

tutta di bronzo, e poi lo scudo grande e massiccio;                                                                   335

sulla testa vigorosa mise l’elmo ben lavorato con una criniera

di cavallo. Il cimiero ondeggiava paurosamente.

Prese infine una lancia robusta, che si adattava alla sua mano.

Così, nella stessa maniera, indossava le sue armi il valoroso Menelao.

Dopo che essi si furono armati, da una parte e dall’altra                                                        340

della folla, si disposero entrambi in mezzo ai Troiani e agli Achei,

con sguardo feroce negli occhi; lo stupore invase

i Troiani domatori di cavalli e gli Achei dai solidi schinieri.

Si fermarono di fronte, dentro al terreno segnato,

scuotendo le lance, si portavano a vicenda odio e rancore.                                                     345

Per primo Alessandro scagliava l’asta dalla lunga ombra

e colpì l’Atride nello scudo ben bilanciato,

ma non infranse il bronzo, la punta si ripiegò

contro lo scudo rotondo; per secondo attaccò

l’Atride Menelao e così supplicò Zeus padre:                                                                             350

“Zeus signore, lasciami punire chi mi ha fatto del male senza motivo,

il divino Alessandro, fallo cadere sotto i miei colpi,

in modo che anche tra gli uomini a venire si abbia timore

nel fare del male a un ospite che offre amicizia”.

Disse e traendo all’indietro l’asta dalla lunga ombra la scagliò                                               355

e colpiva il figlio di Priamo sullo scudo ben bilanciato;

la lancia pesante trapassò il lucido scudo

e restò confitta nella corazza ben cesellata;

passò da parte a parte il fianco e lacerò la tunica:

ma Alessandro si piegò ed evitò il nero destino.                                                                       360

L’Atride allora sguainava la spada dalle borchie d’argento

e gli percosse dall’alto la cresta dell’elmo: ma nell’urto

si rompeva in tre o quattro pezzi e gli sfuggì di mano.

L’Atride emise un lamento, volgendo gli occhi verso l’ampio cielo:

“Zeus padre, non c’è un altro Dio più maligno di te.                                                                 365

Vedi, pensavo proprio di punire Alessandro per la sua scelleratezza.

E invece ora mi si è rotta la spada tra le mani, la lancia

è stata scagliata a vuoto e non l’ho ucciso”.

Disse e con un salto afferrò Paride per la fitta criniera dell’elmo,

lo trascinava verso le file degli Achei dai solidi schinieri.                                                        370

La cinghia trapunta veniva strozzando Paride sotto al collo delicato,

tanto era teso sotto il mento il legaccio dell’elmo.

E Menelao sarebbe riuscito a tirarlo guadagnadosi una gloria immensa,

se la figlia di Zeus Afrodite non avesse visto chiaro.

Ella ruppe la cinghia, ritagliata nella pelle di un bue abbattuto:                                            375

così l’elmo vuoto rimase nella mano robusta di Menelao.

E allora l’eroe lo scagliò roteandolo in mezzo agli Achei

dai solidi schinieri: lo raccoglievano i suoi fedeli compagni d’armi;

poi si avventò di nuovo ad assalire Paride

con la lancia di bronzo: ma Afrodite lo portò via                                                                      380

con molta facilità: Dea qual era l’avvolse in una densa nebbia

e lo portò nelle sue stanze, tutte fragranti di aromi.

men vs paride

Scontro tra Menelao e Paride

 

Ella poi andava a chiamare Elena: la trovò

sull’alta torre, intorno a lei c’erano numerose Troiane.

Con la mano le prese la deliziosa veste                                                                                       385

e le parlava: aveva l’aspetto di una donna avanti con gli anni,

una filatrice che già quando abitava a Lacedemone

lavorava per lei le belle lane e le voleva un gran bene.

A lei era simile la divina Afrodite e diceva:

“Vieni! Alessandro ti chiama, vuole che tu rientri in casa:                                                      390

lui è nella camera nuziale, sul suo letto tornito con arte,

raggiante di bellezza nelle sue vesti. Davvero non si direbbe

che sia di ritorno dallo scontro con un guerriero, ma sembra che vada

a una danza o che si riposi appena dopo aver ballato.»

Così diceva: e le mise in agitazione il cuore.                                                                              395

Non appena Elena riconobbe il collo leggiadro della Dea,

il suo seno incantevole e il luccicchio degli occhi,

ebbe un sussulto sorpresa e prese a parlare:

“Mia cara, perché vuoi ora ingannarmi così?

Tu mi condurrai più lontano, in una delle popolose città                                                       400

della Frigia o della ridente Meonia,

se là vi è qualcuno che ti è caro tra gli uomini mortali.

Ormai Menelao ha riportato una vittoria su Alessandro

e, anche se sono odiosa, intende portarmi a casa:

e proprio tu mi appari a tessere inganni?                                                                                   405

Vai a sedere accanto a lui, abbandona le strade degli Dei,

non fare più ritorno all’Olimpo con i tuoi piedi:

dedicagli tempo, affannati per lui, veglialo,

fino al giorno in cui ti farà sua sposa o sua schiava!

Io non andrò da lui (sarebbe una vergogna)                                                                              410

a dividere il suo letto. Poi, sono certa, le Troiane

parlerebbero male di me. E io ho già tante pene”.

Sdegnata, la divina Afrodite rispose:

“Non irritarmi, sciagurata, se non vuoi che nella mia ira ti abbandoni,

che prenda ad odiarti, quanto finora ti ho amata perdutamente.                                           415

Posso suscitare odio profondo fra Troiani e Danai:

e tu faresti una ben misera fine”.

Così parlava. Elena, la figlia di Zeus, ebbe paura;

si avviò, coperta con la veste bianca splendente,

in silenzio, senza farsi notare dalle Troiane: la Dea la guidava.                                             420

Quando giunsero alla bellissima casa di Alessandro,

le ancelle prontamente tornarono alle loro faccende:

Elena, la divina tra le donne, entrà nel talamo dall’alto soffitto.

Per lei Afrodite che ama il sorriso prendeva uno scranno

e lo spostò per metterlo di fronte ad Alessandro.                                                                      425

Qui si sedeva Elena, la figlia di Zeus Egioco,

volgendo altrove lo sguardo, e rimproverò duramente il marito:

“Sei dunque tornato dalla battaglia! Avresti dovuto cadere,

invece, vinto da quel valoroso che era il mio primo marito!

E dire che in passato ti vantavi di essere superiore                                                                  430

al prode Menelao per la tua forza nella mani e nella lancia.

Adesso vai, sfida il valoroso Menelao,

a combattere un’altra volta faccia a faccia. Io ti consiglio

di lasciar perdere, di non scontrarti in duello

con il biondo Menelao, in modo così imprudente:                                                                    435

non vorrei che venissi ucciso da lui con la lancia”.

Paride a sua volta le rispondeva così:

“Non mi tormentare, donna, con le tue umilianti offese:

oggi, con l’aiuto di Atena, il vincitore è Menelao;

ma un’altra volta sarò io a batterlo. Gli Dei proteggomo anche me.                                      440

Ma ora, via, andiamo a letto e godiamo l’amore.

Mai, ti confesso, il desiderio mi ha ottenebtato così tanto la mente;

neppure il giorno in cui dalla bella Lacedemone

ti ho rapita, veleggiando per mare con le navi,

e nell’isola di Cranae mi sono unito a te nel giaciglio d’amore.                                               445

Ora ho voglia di te e un dolce desiderio mi prende”.

Così disse e per primo si avviò verso il letto: lo seguiva la moglie.

Così loro due giacquero insieme nel letto traforato:

intanto l’Atride si aggirava tra la folla, come una belva,

andava in cerca del divino Alessandro.                                                                                       450

Ma nessuno dei Troiani e dei nobili alleati era in grado

di mostrare Alessandro al valoroso Menelao. Se anche

l’avessero vediuto, non l’avrebbero nascosto per amicizia:

poiché a tutti là era odioso, come la nera morte.

In mezzo a loro parlò Agamennone signore di popoli:                                                             455

“Ascoltatemi, Troiani e Dardani e voi altri alleati!

La vittoria spetta chiaramente al valoroso Menelao.

Consegnate allora Elena argiva e con lei

le sue ricchezze: pagate un’ammenda adeguata,

che resti viva nel ricordo degli uomini a venire”.                                                                      460

Così parlava l’Atride: e approvavano tutti gli Achei.

PARIDE ALESSANDRO

paride 1

Paride di Antonio Canova

Paride, detto anche Alessandro o Paride Alessandro, è una figura della mitologia greca, figlio secondogenito di Priamo, re di Troia, e di Ecuba. Principe troiano, esposto ancora neonato sul Monte Ida a causa delle profezie funeste che lo accompagnarono sin dalla nascita, visse da pastore fino a quando non fu scelto dagli dèi affinché desse il suo giudizio sulla più bella fra le dee Era, Atena e Afrodite. Riconosciuto dal padre, rientrò a corte e partì in missione diplomatica per Sparta, dove conobbe Elena, moglie di Menelao, la donna più bella del mondo: Afrodite per rispettare la promessa fattagli per ottenere il pomo d’oro fece innamorare la donna perdutamente dell'eroe. Paride rapì quindi Elena e la portò con sé a Troia. Nel corso della guerra che ne seguì, affrontò Menelao in duello e fu salvato per intervento di Afrodite; in battaglia uccise Achille con l'aiuto del dio Apollo mentre scoccava la freccia. Secondo la tradizione più accettata, Priamo, re di Troia, all'indomani della sua salita al trono, aveva cinquanta figli, la maggior parte dei quali illegittimi. Come afferma lui stesso nell’Iliade, diciannove di essi erano frutto di una sola donna, riconosciuta come la regina Ecuba.
«Cinquanta ne avevo quando vennero i figli dei Danai.
E diciannove venivano tutti da un seno,
gli altri, altre donne me li partorirono in casa.»

(Omero, Iliade, libro XXIV, versi 495-497. Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti.)
Nei poemi successivi, Paride appare come il secondo e legittimo figlio del re e di Ecuba, sua moglie. Il troiano aveva dunque nove fratelli (il maggiore, Ettore, seguito da Deifobo, Eleno, Pammone, Polite, Antifo, Ipponoo, Polidoro e forse anche Troilo) e quattro sorelle (Creusa, Laodice, Polissena e la profetessa Cassandra). Una notte poco prima della sua nascita, Ecuba sognò di partorire una fascina di legna ricolma di serpenti striscianti, e una fiaccola ardente che divampava appiccando fuoco alla città e ai boschi del monte Ida. Priamo consultò Esaco, suo figlio di primo letto, che era stato investito della facoltà di emettere oracoli, il quale profetizzò che il bambino che Ecuba era in procinto di partorire avrebbe provocato la rovina della città, e consigliò di ucciderlo appena nato. Il bambino venne alla luce, ed Esaco si presentò dal padre esortandolo a uccidere il neonato. Ma quel giorno partorirono due donne nel palazzo di Priamo, la sorella Cilla che partorì Munippo, ed Ecuba che partorì Paride. Priamo rinunciò a sacrificare la vita del figlio a discapito della vita di sua sorella Cilla e del figlio di lei Munippo, che ella aveva generato quello stesso giorno dal matrimonio con Timete. La stessa visione l'avrebbe avuta in seguito anche Cassandra. Per questo motivo il neonato fu abbandonato sui monti in balia delle fiere e salvato da un pastore e cresciuto da questo come un figlio. Apollodoro ci dice che Priamo mandò il suo servo sul monte Ida per esporre il bambino, che però fu allevato per cinque giorni da un'orsa e lo stesso schiavo, meravigliato dalla vicenda, decise di accoglierlo come figlio proprio, e Paride crebbe come un pastore. Il pastore presentò poi a Priamo la lingua di un cane per far verificare che i suoi ordini erano stati eseguiti; alcuni però sospettano che la stessa Ecuba pagò Agelao affinché risparmiasse la vita del figlio che divenne un giovane di straordinaria bellezza. Paride manifestò il suo sangue reale nella sua luminosa bellezza e nella sua forza; ancora ragazzo mise in fuga una banda di predatori di bestiame e riuscì a recuperare le bestie rubate, meritandosi per queste gesta il soprannome di Alessandro. Il divertimento prescelto dal giovane pastore consisteva nel far lottare i tori di Agelao l'uno contro l'altro; riservava poi al vincitore una corona di fiori, e al perdente una di paglia. Quando cominciò a verificare che uno di questi tori vinceva con più regolarità, propose una sfida ai tori delle mandrie circostanti dalla quale uscirono tutti sconfitti. Paride allora promise di coronare d'oro il toro che fosse riuscito a soppiantare il suo finché, Ares, per soddisfare un suo capriccio, raccolse la sfida e in sembianze di toro conseguì la vittoria. Allora Paride lo ricompensò con la corona pattuita, conquistando con questo gesto il favore di Ares e degli altri dei che osservavano dall'Olimpo. Per questo motivo Zeus delegò al mortale il compito di arbitro nella disputa delle tre dee. Qualche tempo dopo, Priamo mandò alcuni suoi uomini a procurarsi un toro nella mandria di Agelao; esso sarebbe stato assegnato come premio al campione dei giochi funebri che si celebravano ogni anno in onore del figlio morto del re. Quando la loro scelta ricadde sul toro campione, Paride fu sorpreso dall'irresistibile desiderio di gareggiare ai giochi. Invano Agelao provò a dissuadere il giovane proponendogli di continuare a far lottare i tori in campagna, non riuscendoci accompagnò Paride a Troia. Era consuetudine delle celebrazioni che, dopo aver disputato il sesto giro di pista nella gara di cocchi, i concorrenti alla gara di pugilato cominciassero a scontrarsi davanti al trono. Paride decise di misurarsi nello scontro, nonostante le proteste di Agelao, e conseguì la corona più per merito del suo coraggio che della sua bravura. Vinse anche la gara di corsa procurando lo sdegno dei figli di Priamo che lo sfidarono di nuovo: il giovane gareggiò di nuovo e vinse la terza corona. Imbarazzati per la pubblica umiliazione che il ragazzo aveva loro inflitto, i principi complottarono di ucciderlo e incaricarono una guardia armata di posizionarsi ad ogni uscita dallo stadio mentre Ettore e Deifobo manovravano le spade contro di lui. Paride si rifugiò sull'altare di Zeus Erceo e Agelao intercedette per lui annunciando a Priamo che il ragazzo era il figlio che credeva perduto. Priamo consultò allora Ecuba la quale, riconosciuto un sonaglio che Agelao aveva trovato nelle mani del bambino abbandonato, verificò l'identità di Paride, il quale fu allora condotto trionfalmente a palazzo dove Priamo organizzò un sontuoso banchetto e sacrifici agli dèi per festeggiare il suo ritorno. Tuttavia quando i sacerdoti di Apollo furono al corrente delle manifestazioni di entusiasmo del re, protestarono annunciando che se nessuno avesse inflitto al ragazzo una condanna a morte, Troia sarebbe andata incontro al declino. Ma Priamo non si curò del verdetto, proclamando: «Perisca pure Troia, ma non mio figliolo». Un giorno, Paride pascolava le sue mandrie sul monte Gargaro, la cima più alta del monte Ida, quando vide avvicinarsi a lui tre bellissime donne (Era, Atena, Afrodite) scortate dal dio Ermes, il quale ripose nelle sue mani la mela d'oro destinata a quella che fosse stata giudicata la più bella delle tre, riportandogli l'ordine di Zeus di pronunciare un giudizio in merito. Il giovane considerò le promesse delle dee: Era gli assicurò che sarebbe diventato l'uomo più potente del mondo, se avesse dato a lei la vittoria; la stessa cosa fece Atena, promettendogli invece di diventare l'uomo più sapiente del mondo; infine Afrodite gli garantì il possesso della donna più bella che mai si fosse vista. Paride sceglie quest'ultima.

paride giudizio

Il giudizio di Paride di P. P. Rubens

Paride architettò di appropriarsi di Elena, moglie di Menelao, sfruttando un compito di cui era stato investito, ossia recuperare Esione, sorella del re Priamo. Quando venne convocato un nuovo concilio per esaminare le condizioni per la restituzione di Esione, dal momento che le offerte pacifiche erano state rifiutate dai Greci, Paride si propose volontario a condurre una spedizione, se Priamo avesse organizzato una flotta competente e militarizzata, annunciando ingegnosamente che se non fosse riuscito a recuperare Esione, forse avrebbe portato con sé una principessa greca sua pari per ratificare il riscatto. Ma in cuor suo questi aveva già deciso di imbarcarsi per Sparta e rapire Elena. Quel giorno stesso Menelao sbarcò con grande sorpresa a Troia e chiese di visitare le tombe di Lico e Chimereo, figli di Prometeo e Celeno annunciando che l'oracolo delfico gli aveva imposto di sacrificare sulle loro tombe per porre fine a una pestilenza che scatenava stragi a Sparta. Paride strinse amicizia con Menelao e gli propose di farsi purificare da lui a Sparta per discolparsi di un assassinio involontario che aveva inflitto a un ragazzino malcapitato, Anteo, figlio di Antenore, con cui si era misurato in una sfida di spade giocattolo da bambino. Quando Menelao cedette a praticare questa operazione, il giovane, sollecitato da Afrodite, si preparò a salpare incaricando Fereclo di preparare la flotta autorizzatagli da Priamo; la prua della nave ammiraglia era dominata da una Afrodite che stringeva tra le braccia un piccolo Eros come prova del consenso che la dea manifestava per la missione. Afrodite stessa predispose Enea al compito di appoggiare il cugino in veste di complice del ratto. Al momento dell'imbarco, Cassandra, percorsa da schizzi e con i capelli irti in testa, predisse la guerra che quel viaggio avrebbe procurato e lo stesso Eleno approvò le sue parole; ma non furono sufficienti per persuadere Priamo. Nemmeno Enone riuscì a dissuadere Paride dal lanciarsi nell'avventura nonostante egli piangesse al momento del commiato. Quando la flotta ebbe preso il largo, Afrodite fece soffiare personalmente una brezza marina che sospinse Paride verso la sua meta e qui come prova del patto che i due uomini avevano stretto al momento del loro incontro Menelao festeggiò il suo arrivo per nove giorni. Questi aveva una bellissima moglie Elena, Paride se ne innamorò e fu ricambiato. Nonostante il parere contrario di Enea, Paride prese con sé Elena e scatenò la guerra, dopo essersi messo d'accordo con Antimaco, consigliere di Priamo, che convinse il re e gran parte dei concittadini a respingere ogni possibilità di trattare coi greci. Dall'unione con la donna gli nacquero quattro figli, Agano, Bugono, Corito e Ideo e una figlia, Elena, chiamata dunque come la madre. Allo scoppio della guerra di Troia, Corito, figlio di Paride ed Enone, omonimo del figlio di Elena, giunse in città per difenderla dagli assalti degli Achei. Elena, colpita dalla sua raggiante bellezza, lo ospitò nel suo talamo suscitando l'ira di Paride il quale, geloso, uccise senza pietà il figlio. La Guerra di Troia Nel corso della guerra Paride si dimostrò più volte timoroso di sostenere un duello con Menelao e, per questo, viene più volte criticato dal fratello Ettore, che ne esaltava la bellezza esteriore ma la mancanza delle qualità necessarie a un eroe, come la forza e il coraggio. Durante un combattimento contro il marito di Elena, inoltre, Paride fu salvato dalla dea Afrodite, che lo riportò al talamo direttamente dalla battaglia. Paride era però un ottimo arciere, non mancava mai il bersaglio. Dopo che Achille uccise Memnone, e ormai i Troiani erano in fuga verso le mura dalla città, Paride scoccò una freccia che, guidata da Apollo, andò a conficcarsi nell'unico punto debole di Achille - il tallone - uccidendolo. Dopo aver ucciso Achille, mentre Paride entrava in città attraverso le porte Scee, fu colpito dalle frecce di Eracle scagliate da Filottete. Agonizzante, il giovane chiese aiuto alla ninfa Enone, madre dello stesso Corito ucciso da lui in un impeto di gelosia ed esperta in erbe curative, che però si rifiutò d'aiutarlo; quando ella infine s'impietosì, la morte l'aveva già colto.

MENELAO

menelao

Busto di Menelao di Giacomo Brogi

Menelao (in greco antico: Menèlaos; in latino: Menelaus) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Atreo e di Erope e fratello minore di Agamennone. È il re di Sparta e marito di Elena, che Paride portò a Troia, causando la spedizione greca contro la città. Nei testi omerici l'epiteto che lo accompagna è biondo, il che ne fa un personaggio di grande bellezza: Menelao costituisce un tipico esempio di kalokagathia, essendo anche molto valoroso in guerra. Fu uno dei più forti eroi greci della guerra di Troia, sebbene non quanto il fratello Agamennone, ma si distinse in numerose azioni valorose. La figura di Menelao si sviluppa principalmente nell'Iliade, ma il suo personaggio è conosciuto anche in numerosi testi secondari, soprattutto nelle tragedie.Secondo la versione più comune, ovvero quella che è riportata dall'Iliade, Menelao era figlio di Atreo e apparteneva alla stirpe di Pelope. Sua madre era invece Erope, figlia del re cretese Catreo. Un giorno Erope fu sorpresa dal padre mentre condivideva il suo letto con un amante, uno schiavo; sdegnato, Catreo ordinò che venisse gettata in un fiume, per essere da pasto ai pesci, ma su intercessione di Nauplio, il re decise di commutare la pena in schiavitù, stabilendo di venderla come schiava proprio a Nauplio, insieme alla sorella Climene, che sospettava tramasse contro di lui come gli era già stato vaticinato da un oracolo. Il viaggiatore Nauplio condusse le due fanciulle ad Argo, dove ciascuna di loro fu presa in moglie. Mentre Climene sposava Nauplio stesso, Erope sposò invece Atreo, il re di Argo, da cui ebbe i due figli Agamennone e Menelao, e anche una figlia, Anassibia. Secondo una diversa leggenda, Erope sposò il figlio di Atreo, Plistene, e da lui nacquero i due fratelli Atridi. Menelao fu scacciato dalla paterna signoria di Micene dallo zio Tieste e da suo figlio Egisto che ne avevano ucciso il padre, e si rifugiò, col fratello, presso il re di Sparta Tindaro, le cui due figlie, Clitemnestra e la bellissima Elena, sposarono rispettivamente Agamennone e Menelao. Alla morte di Tindaro, suo suocero, Menelao ricevette in eredità il trono di Sparta. Durante una sua assenza per un viaggio a Creta, Paride, grazie al volere di Afrodite, accolto alla corte di Sparta, infranse le regole dell'ospitalità greca e rapì Elena per condurla con sé a Troia. Menelao chiese la restituzione della moglie ma, non avendola ottenuta, cominciò i preparativi della guerra contro Troia, con i più importanti principi greci condotti dal fratello Agamennone. Nella lunga guerra sotto le mura di Troia, Menelao si coprì di gloria abbattendo un gran numero di nemici. Accettò la proposta dell'eroe troiano Ettore di porre fine alla guerra mediante un duello con Paride. Egli vinse nettamente contro l'avversario e l'avrebbe colpito a morte se Afrodite non gli avesse rapito l'avversario sotto gli occhi, avvolgendolo in una nube. Quando Troia fu presa, Menelao, accompagnato da Ulisse, si affrettò verso la casa di Deifobo, che aveva sposato Elena dopo la morte di Paride. Menelao in persona uccise Deifobo; secondo una versione del racconto, egli si scaraventò con la spada sguainata anche contro Elena, con l'intenzione di punire l'adultera; ma Elena si scoprì il petto ed egli non mandò a compimento il suo proposito. Secondo un'altra versione, invece, fu Elena aintrodurre segretamente Menelao nella stanza di Deifobo, consentendogli così di ucciderlo e riconciliandosi con il marito di un tempo. Finita la guerra, Menelao fu tra i primi a salpare alla volta della Grecia, insieme a Elena e Nestore ma, dopo varie peripezie, raggiunse la patria solamente otto anni dopo. A differenza di quello del fratello, il suo matrimonio sarebbe da allora rimasto felice, tanto che avrebbe in seguito ospitato Telemaco partito alla ricerca del padre Ulisse, ed Elena, mentre tutti (Telemaco, Menelao, Pisistrato) piangevano al racconto delle sofferenze degli eroi della guerra, avrebbe versato pozioni nel vino per indurli a dimenticare e a godere del racconto. Nell'Elena di Euripide è narrata invece la versione del mito che sosteneva che Elena non fosse mai stata rapita da Paride, ma che a Troia si fosse recato un èidolon (un'immagine di lei); le conseguenze di questa versione si ripercuotono anche sulla figura di Menelao, che in tal caso avrebbe a lungo viaggiato per il Mediterraneo, trovando poi Elena in Egitto. Nell'Odissea il dio marino Proteo profetizzò che Menelao ed Elena erano destinati a non conoscere la morte, ma a venir condotti dagli dei nei Campi Elisi; secondo questa versione Menelao appare come una figura legata al mondo infero. Secondo una versione diversa, invece, Menelao ed Elena si recarono nella Tauride, dove furono sacrificati da Ifigenia in onore della dea Artemide.

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Eugenio Caruso - 02-07 - 2021

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