Dante, Paradiso, Canto VIII. Gli angioini in Sicilia.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO VIII

È la sera di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300. Ascesa al III Cielo di Venere.
Dante spiega che il mondo pagano credeva che la dea Venere diffondesse dal terzo pianeta la tendenza all'amore sensuale, per cui gli antichi adoravano questa divinità e anche Dione e Cupido, madre e figlio della dea. Dante non si accorge di ascendere al III Cielo, se non per il fatto che la bellezza di Beatrice è accresciuta: poi vede varie luci (gli spiriti amanti) ruotare in cerchio più o meno veloci, simili a faville che si distinguono nella fiamma o a una voce modulante che si sente insieme a una voce ferma. Le luci si avvicinano a Dante e Beatrice rapidissime, più veloci di qualunque folgore si sia mai vista sulla Terra. Quelle più vicine a Dante intonano il canto Osanna, in modo tale che il poeta ha sempre avuto il desiderio di sentire ancora quella melodia.

martello

Carlo Martello D'Angiò, Illustrazione del XIV secolo.

Una delle anime (Carlo Martello) si fa più vicina a Dante e dichiara di essere pronta, come gli altri beati, a soddisfare ogni richiesta del poeta. Spiega che essi ruotano insieme all'intelligenza angelica dei Principati, cui Dante stesso si rivolse con la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, e sono talmente pieni di amore che pur di compiacerlo sono disposti a fermarsi un poco. Dante si rivolge con uno sguardo a Beatrice, che risponde con un cenno di assenso, quindi torna a parlare all'anima e le chiede di presentarsi. La luce che avvolge il beato si fa assai più splendente, tale è la gioia che egli prova nel rispondere a Dante.
Il beato spiega di essere vissuto poco tempo sulla Terra, mentre se fosse rimasto lì più a lungo si sarebbero evitati molti mali ora presenti. La sua gioia lo avvolge completamente di luce, rendendolo inconoscibile a Dante che in vita lo amò molto e con ragione: se lui fosse vissuto più a lungo, avrebbe ricambiato il suo affetto in modo adeguato. Egli si presenta come il signore atteso nella terra di Provenza, solcata dai fiumi Rodano e Sorga, e in Italia meridionale, dove sorgono le città di Bari, Gaeta e Catona e dove scorrono i fiumi Tronto e Verde. Era già stato incoronato re d'Ungheria, la terra attraversata dal Danubio, e avrebbe regnato anche sulla Sicilia, dove l'Etna erutta per un fenomeno naturale e non per la presenza del gigante Tifeo, se il malgoverno degli Angioini non avesse scatenato la rivoluzione del Vespro. E se il fratello di Carlo Martello, Roberto d'Angiò, ponesse mente a questo, eviterebbe l'avara povertà dei Catalani per non subire danni: bisogna che lui stesso o altri pongano rimedio, per evitare che il regno di Napoli non subisca più gravi conseguenze. Roberto, pur discendendo da antenati di indole liberale, ha un'indole gretta e meschina, per cui avrebbe bisogno di truppe che non badassero unicamente a intascare i guadagni.
Dante manifesta la sua gioia nel parlare con Carlo Martello, osservando che il beato la può leggere nella mente di Dio, il che rende il poeta anche più lieto. Ora Dante chiede allo spirito di chiarirgli come sia possibile che da un padre liberale nasca un figlio avaro. Carlo risponde dicendosi pronto a illuminare Dante con la verità e spiega che Dio, che fa ruotare i Cieli del Paradiso, fa che la sua Provvidenza diventi virtù operante negli astri. Dio determina non solo le nature umane per la loro essenza, ma anche per il loro fine nel mondo, per cui ogni cosa stabilita dalla Provvidenza si avvera in base a un determinato scopo. Se non fosse così, le influenze celesti sarebbero rovinose per gli uomini, il che non è possibile dal momento che le intelligenze angeliche che muovono i Cieli non sono manchevoli, come non lo è Dio. Carlo chiede a Dante se su questo punto necessiti di un'ulteriore spiegazione, ma il poeta si dichiara soddisfatto. Carlo prosegue spiegando che l'uomo sulla Terra deve soprattutto essere cittadino, cosa che trova Dante d'accordo, e ciò richiede che gli uomini svolgano diverse funzioni e mestieri, come argomentato da Aristotele. Dunque è inevitabile che l'indole degli uomini sia volta a volta diversa, per cui uno nasce legislatore (Solone) e un altro re (Serse), uno sacerdote (Melchisedech) e un altro ingegnere (Dedalo). La virtù dei Cieli opera queste distinzioni, ma non distingue tra le varie casate: perciò accade che Esaù sia del tutto diverso dal fratello Giacobbe, mentre Romolo ha un padre talmente umile che si favoleggia essere nato da Marte. Se la Provvidenza divina non operasse in tal modo, i figli seguirebbero sempre le orme dei padri e ciò non sarebbe utile alla società.
Ora, afferma Carlo, Dante ha compreso perfettamente, ma vuole aggiungere ancora un corollario alla sua spiegazione. Se la disposizione naturale trova l'ambiente intorno a sé discordante per via della sorte, gli effetti sono sempre negativi; e se gli uomini badassero di più alle inclinazioni naturali di ciascuno, avrebbero persone più rette e adatte alla loro funzione. Invece il mondo, conclude Carlo, forza a diventare monaco chi sarebbe nato per diventare guerriero, e costringe a diventare re chi sarebbe portato alla vita religiosa, per cui il cammino degli uomini è fuori dalla strada tracciata da Dio.
Interpretazione complessiva
Protagonista assoluto del Canto è Carlo Martello, il primogenito di Carlo II d'Angiò che Dante conobbe giovanissimo a Firenze nel 1294 e al quale fu legato da affettuosa amicizia, per cui l'episodio si può accostare agli incontri con Casella, Nino Visconti e Forese Donati nel Purgatorio (almeno nel tema, poiché il tono è qui decisamente lontano da quello colloquiale della II Cantica). Carlo è incluso fra gli spiriti amanti del III Cielo, anche se ignoriamo per quale motivo Dante faccia questa scelta: è probabile che il poeta vedesse nell'amico l'esemplare di buon sovrano, che come detto nella Monarchia (I, 11) deve essere governato dalla carità come virtù opposta alla cupidigia, il che spiega anche il duro attacco rivolto a suo fratello Roberto nel corso del Canto. Certo Dante lo colloca fra i beati a meno di cinque anni dalla morte e il suo esempio è molto diverso da quello di Cunizza e Folchetto, esempi entrambi di personaggi che arsero prima di amore sensuale, poi si ravvidero e si rivolsero all'amore spirituale; del resto all'inizio di questo Canto Dante spiega che l'influsso all'amore che promana dal Cielo di Venere non è quello all'amore fisico che credevano le genti pagane e che può portare alla dannazione, bensì ovviamente quello all'ardore di carità che deve condurre a Dio, come del resto aveva già chiarito in Conv., II, 5 (con la differenza che là tale influsso era riferito all'intelligenza angelica dei Troni, mentre qui ai Principati: e non è il solo punto del Convivio ad essere rivisto da Dante nella III Cantica, come si è visto nel Canto delle macchie lunari).
L'incontro con Carlo Martello è diviso in due parti, che corrispondono all'autopresentazione del beato con le critiche rivolte al fratello Roberto (vv. 49-84) e al discorso sulle inclinazioni individuali (94-148) che si riallaccia a quello più ampio degli influssi astrali. Il discorso di Carlo è in stile alto e solenne, come si conviene a un personaggio del suo rango e molto simile per tono a quella di Giustiniano nel Canto VI: dopo essersi presentato come amico di Dante e aver rimpianto di non essere vissuto più a lungo per non aver potuto dimostrare a Dante il suo affetto e non aver evitato il malgoverno degli Angioini, il beato allude a se stesso come l'erede dei domini di Provenza, Napoli e Ungheria, senza mai fare il proprio nome direttamente. Le tre regioni vengono anch'esse indicate con una elegante perifrasi geografica, in quanto la Provenza è la terra solcata dai fiumi Rodano e Sorga, il regno di Napoli è il corno d'Ausonia (la punta estrema dell'Italia, ovvero le penisole calabra e salentina che formano una mezzaluna) dove sorgono le città di Bari, Gaeta e Catona (che erano poste ai confini del regno) e il cui confine settentrionale è segnato dal Tronto e dal Liri, mentre l'Ungheria è nuovamente indicata come la terra attraversata dal fiume Danubio. Carlo parla poi della Sicilia che fu sottratta al dominio angioino dalla rivolta dei Vespri, indicata nuovamente col termine classico Trinacria, poi coi due capi di Pachino e Peloro che ne costituiscono gli estremi a nord e a sud, infine col riferimento mitologico a Tifeo che non è la causa naturale delle eruzioni dell'Etna, dovute in realtà al nascente solfo: ciò porta Carlo a rivolgere il suo duro attacco alla mala segnoria degli Angioini sull'isola, causa prima secondo Dante della loro cacciata a favore degli Aragonesi, e poi al malgoverno del fratello Roberto re di Napoli che dovrebbe prendere esempio dalla storia passata per non commettere gli stessi errori. Roberto viene criticato in quanto gretto e meschino, diversamente dalla liberalità dei suoi predecessori (probabilmente il beato si riferisce alla stirpe angioina in genere e non al padre, Carlo II d'Angiò altrove duramente attaccato da Dante), per cui meglio farebbe a modificare la sua condotta se vuole evitare di danneggiare lo Stato e fare la stessa fine di Carlo I in Sicilia.
Qui Dante prosegue la sua dura polemica contro gli Angioini, colpevoli ai suoi occhi di aver cacciato Manfredi di Svevia dal regno di Napoli con l'appoggio della Chiesa e di governare malamente i territori a loro sottoposti, cioè principalmente la Provenza e l'Italia meridionale: Dante ha già più volte sottolineato le colpe di Carlo I d'Angiò e del figlio Carlo II lo Zoppo (cfr. Purg., VII, 112 ss.; XX, 61 ss.), mentre lo stesso Giustiniano nel Canto precedente (vv. 106-108) ha severamente ammonito Carlo II a non voler abbattere l'aquila imperiale, simbolo dell'unica autorità politica riconosciuta da Dante. Il lamento di Carlo Martello è quindi quello di un buon principe che avrebbe potuto essere un sovrano migliore di quelli attualmente presenti in Provenza e a Napoli, specie pensando al fatto che Roberto aveva ingiustamente sottratto il dominio di Napoli al figlio Caroberto (di ciò c'è forse un accenno profetico in IX, 1-6); la polemica di Dante è ancora una volta contro i sovrani temporali che tentano di ribellarsi all'autorità imperiale con l'appoggio della Chiesa, come Filippo il Bello re di Francia, per cui la morte prematura di Carlo Martello ha causato molto... di mal che il principe angioino, vivendo più a lungo, avrebbe potuto evitare.
L'accusa contro Roberto d'Angiò la cui indole avara è diversa da quella dei padri porta poi Dante a chiederne conto a Carlo, il quale nella seconda parte del Canto affronta la delicata questione delle inclinazioni individuali: essa si ricollega a quella più ampia degli influssi celesti, quindi è un aspetto del problema più volte toccato da Beatrice in questo inizio di Cantica (specie nei Canti I, IV-V e VII). Dante ha già chiarito che gli influssi delle stelle non determinano le azioni degli uomini (Purg., XVI) né il loro destino, tuttavia indirizzano la vita dei singoli individui che, quindi, nascono ognuno con una particolare inclinazione: Dante si rifà ovviamente al pensiero cristiano e anche ad Aristotele, che in varie opere (De anima, III, 9; Politeia, I, 1 e altrove) sottolinea la necessità che gli uomini svolgano diversi uffici e varie funzioni in qualità di cittadini di uno Stato, per cui ci sono artefici, artisti, uomini politici e così via. Dante spiega attraverso le parole di Carlo che non sempre la Provvidenza divina nell'ordinare le inclinazioni distingue l'un da l'altro ostello, cioè tiene conto delle famiglie: non necessariamente, allora, chi è figlio di re sarà un buon sovrano, e viceversa, per cui il beato ammonisce gli uomini a tener conto delle disposizioni individuali e a non forzare le persone a un destino che non gli compete, tenendo conto unicamente della stirpe cui appartengono. Tale affermazione trae spunto dal discorso politico fatto poco prima, quindi Dante sottolinea che molti dei mali del suo tempo nascono dal fatto che i successori dei governanti sono inadatti a questa funzione e vengono designati unicamente per linea dinastica: questo vale certamente per Roberto d'Angiò, ma anche per il padre Carlo II nei confronti di Carlo I, come del resto Dante aveva già affermato nella rassegna dei principi negligenti di Purg., VII, dove si diceva che raramente la virtù dei padri si trasferisce nei figli perché essa è dispensata Dio, che agisce secondo i suoi voleri imperscrutabili (di cui gli uomini però non tengono conto, il che è causa del malgoverno e dei problemi politici dell'Italia del tempo di Dante).
Note
- La bella ciprigna (v. 2) è la dea Venere, così detta perché secondo il mito era nata dalle acque del mare intorno all'isola di Cipro.
- Il terzo epiciclo (v. 3) vale «terzo cielo» e indica la sfera minore che gli astronomi medievali immaginavano inserita nella più ampia sfera del Cielo, dove appunto ruotava l'astro. Tale concezione era necessaria per quadrare i calcoli della rotazione dei pianeti intorno alla Terra, che si immaginava immobile mentre ovviamente non è così.
- Il v. 9 allude al passo dell'Eneide (I, 657 ss.) in cui Cupido, prese le sembianze di Ascanio, il figlio di Enea, siede in grembo alla regina Didone e la ferisce con una freccia, facendola innamorare dell'eroe troiano. - - Anche Folchetto dirà che il folle amore di Didone danneggiò Creusa e Sicheo, rispettivamente la prima moglie di Enea e il primo marito di Didone (IX, 97-98).
- Venere è indicata ai vv. 11-12 come la stella / che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio, cioè il pianeta che è corteggiato dal Sole alle sue spalle oppure di fronte, a seconda che Venere sia mattutino o vespertino. Ciò non avviene nello stesso giorno, ovviamente, ma in diversi momenti dell'anno.
- I vv. 17-18 alludono al canto polifonico, in cui spesso c'è una voce che mantiene la stessa nota (riferimento analogo in Purg., XXVIII, 18).
- I venti... visibili (vv. 22-23) sono i lampi, mentre quelli invisibili sono i turbini: entrambi si generavano, secondo la fisica del tempo, dall'urto di vapori caldi e secchi all'interno delle «fredde nubi».
- Al v. 27 in li alti Serafini indica probabilmente il Primo Mobile, dove questi spiriti sono passati lasciando la loro sede nell'Empireo e dove hanno iniziato la loro danza circolare. Altri commentatori intendono invece lo stesso Empireo, dove però i beati sono fermi.
- Al v. 34 i prìncipi celesti sono i Principati, l'intelligenza angelica che governa il III Cielo: Dante corregge quindi l'opinione espressa in Conv., II, 5, dove il Cielo di Venere era associato ai Troni (il poeta segue qui una diversa angelologia, per cui si veda la Guida al Canto XXVIII). Il verso citato poi da Carlo Martello al v. 37 è l'incipit della canzone commentata da Dante nel II Trattato del Convivio.
- Al v. 61 Ausonia è l'antico nome classico dell'Italia, mentre il corno è rappresentato da Calabria e Puglia che formano una specie di mezzaluna. Le città citate dopo (Bari, Gaeta, Catona) indicano le località più periferiche rispetto a Napoli (Catona era in Calabria, oggi vicino a Reggio: alcuni mss. leggono Crotona).
- Al v. 67 la Trinacria è ovviamente la Sicilia, indicata col nome classico ma, forse, anche con un riferimento al titolo di «re di Trinacria» assunto da Federico d'Aragona dopo i Vespri. Caliga vuol dire «è coperta di caligine», con allusione alle frequenti eruzioni dell'Etna che, nel mito classico, erano attribuite al gigante Tifeo sepolto sotto il vulcano.
- Al v. 72 Carlo e Ridolfo sono, probabilmente, Carlo I d'Angiò e Rodolfo d'Asburgo, padre della moglie di Carlo Martello.
- Il grido "Mora, mora!" (v. 75) allude alla rivolta che il 30 marzo 1282 mosse i Siciliani contro gli Angioini, a causa del sopruso di un soldato francese all'ora del Vespro il lunedì di Pasqua.
- L'avara povertà di Catalogna (v. 77) che Roberto d'Angiò deve fuggire indica probabilmente solo l'indole gretta e avara del fratello di Carlo Martello e non, come si è pensato, un'allusione ai ministri catalani di cui il sovrano si sarebbe circondato nel governo di Napoli: è vero invece che Roberto ebbe al soldo dei mercenari catalani, gli Almogaveri, di cui c'è forse un accenno nella milizia del v. 83 e la cui avidità avrebbe danneggiato il regno. Carlo parla al presente (già fuggeria) nonostante Roberto diventerà re solo nel 1309, quindi è probabile che il beato parli proprio dell'indole del fratello degenere rispetto ai suoi antenati.
- Al v. 102 salute vuol dire «fine», «scopo» delle varie nature.
- Il maestro vostro citato al v. 120 è Aristotele.
Solone (v. 124) è il celebre riformatore ateniese del VI sec. a.C., mentre Serse è il gran re persiano che mosse guerra alla Grecia nel 480-479 a.C.; Melchisedèch (v. 125) è il primo grande sacerdote di Israele (Gen., XIV, 18-20), mentre quello / che, volando per l'aere, il figlio perse è Dedalo, il cui figlio Icaro morì volando troppo vicino al Sole con le ali di cera da lui fabbricate.
- Quirino (v. 131) è Romolo, figlio in realtà del pastore Faustolo ma attribuito a Marte per nobilitarne l'origine.

TESTO CANTO VIII

Solea creder lo mondo in suo periclo 
che la bella Ciprigna il folle amore 
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;                                   3

per che non pur a lei faceano onore 
di sacrificio e di votivo grido 
le genti antiche ne l’antico errore;                                    6

ma Dione onoravano e Cupido, 
quella per madre sua, questo per figlio, 
e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;                       9

e da costei ond’io principio piglio 
pigliavano il vocabol de la stella 
che ‘l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.              12

Io non m’accorsi del salire in ella; 
ma d’esservi entro mi fé assai fede 
la donna mia ch’i’ vidi far più bella.                                15

E come in fiamma favilla si vede, 
e come in voce voce si discerne, 
quand’una è ferma e altra va e riede,                            18

vid’io in essa luce altre lucerne 
muoversi in giro più e men correnti, 
al modo, credo, di lor viste interne.                                 21

Di fredda nube non disceser venti, 
o visibili o no, tanto festini, 
che non paressero impediti e lenti                                 24

a chi avesse quei lumi divini 
veduti a noi venir, lasciando il giro 
pria cominciato in li alti Serafini;                                      27

e dentro a quei che più innanzi appariro 
sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi 
di riudir non fui sanza disiro.                                            30

Indi si fece l’un più presso a noi 
e solo incominciò: «Tutti sem presti 
al tuo piacer, perché di noi ti gioi.                                   33

Noi ci volgiam coi principi celesti 
d’un giro e d’un girare e d’una sete, 
ai quali tu del mondo già dicesti:                                    36

Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete’; 
e sem sì pien d’amor, che, per piacerti, 
non fia men dolce un poco di quiete».                           39

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti 
a la mia donna reverenti, ed essa 
fatti li avea di sé contenti e certi,                                      42

rivolsersi a la luce che promessa 
tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue 
la voce mia di grande affetto impressa.                        45

E quanta e quale vid’io lei far piùe 
per allegrezza nova che s’accrebbe, 
quando parlai, a l’allegrezze sue!                                   48

Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe 
giù poco tempo; e se più fosse stato, 
molto sarà di mal, che non sarebbe.                             51

La mia letizia mi ti tien celato 
che mi raggia dintorno e mi nasconde 
quasi animal di sua seta fasciato.                                 54

Assai m’amasti, e avesti ben onde; 
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava 
di mio amor più oltre che le fronde.                                57

Quella sinistra riva che si lava 
di Rodano poi ch’è misto con Sorga, 
per suo segnore a tempo m’aspettava,                        60

e quel corno d’Ausonia che s’imborga 
di Bari e di Gaeta e di Catona 
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.                         63

Fulgeami già in fronte la corona 
di quella terra che ‘l Danubio riga 
poi che le ripe tedesche abbandona.                            66

E la bella Trinacria, che caliga 
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo 
che riceve da Euro maggior briga,                                  69

non per Tifeo ma per nascente solfo, 
attesi avrebbe li suoi regi ancora, 
nati per me di Carlo e di Ridolfo,                                    72

se mala segnoria, che sempre accora 
li popoli suggetti, non avesse 
mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!".                       75

E se mio frate questo antivedesse, 
l’avara povertà di Catalogna 
già fuggeria, perché non li offendesse;                         78

ché veramente proveder bisogna 
per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca 
carcata più d’incarco non si pogna.                               81

La sua natura, che di larga parca 
discese, avria mestier di tal milizia 
che non curasse di mettere in arca».                            84

«Però ch’i’ credo che l’alta letizia 
che ‘l tuo parlar m’infonde, segnor mio, 
là ‘ve ogne ben si termina e s’inizia,                              87

per te si veggia come la vegg’io, 
grata m’è più; e anco quest’ho caro 
perché ‘l discerni rimirando in Dio.                                90

Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro, 
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso 
com’esser può, di dolce seme, amaro».                      93

Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso 
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi 
terrai lo viso come tien lo dosso.                                    96

Lo ben che tutto il regno che tu scandi 
volge e contenta, fa esser virtute 
sua provedenza in questi corpi grandi.                          99

E non pur le nature provedute 
sono in la mente ch’è da sé perfetta, 
ma esse insieme con la lor salute:                              102

per che quantunque quest’arco saetta 
disposto cade a proveduto fine, 
sì come cosa in suo segno diretta.                               105

Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine 
producerebbe sì li suoi effetti, 
che non sarebbero arti, ma ruine;                                 108

e ciò esser non può, se li ‘ntelletti 
che muovon queste stelle non son manchi, 
e manco il primo, che non li ha perfetti.                        111

Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?». 
E io: «Non già; ché impossibil veggio 
che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».                  114

Ond’elli ancora: «Or di’: sarebbe il peggio 
per l’omo in terra, se non fosse cive?». 
«Sì», rispuos’io; «e qui ragion non cheggio».            117

«E puot’elli esser, se giù non si vive 
diversamente per diversi offici? 
Non, se ‘l maestro vostro ben vi scrive».                     120

Sì venne deducendo infino a quici; 
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse 
convien di vostri effetti le radici:                                      123

per ch’un nasce Solone e altro Serse, 
altro Melchisedèch e altro quello 
che, volando per l’aere, il figlio perse.                          126

La circular natura, ch’è suggello 
a la cera mortal, fa ben sua arte, 
ma non distingue l’un da l’altro ostello.                       129

Quinci addivien ch’Esaù si diparte 
per seme da Iacòb; e vien Quirino 
da sì vil padre, che si rende a Marte.                            132

Natura generata il suo cammino 
simil farebbe sempre a’ generanti, 
se non vincesse il proveder divino.                               135

Or quel che t’era dietro t’è davanti: 
ma perché sappi che di te mi giova, 
un corollario voglio che t’ammanti.                               138

Sempre natura, se fortuna trova 
discorde a sé, com’ogne altra semente 
fuor di sua region, fa mala prova.                                  141

E se ‘l mondo là giù ponesse mente 
al fondamento che natura pone, 
seguendo lui, avria buona la gente.                              144

Ma voi torcete a la religione 
tal che fia nato a cignersi la spada, 
e fate re di tal ch’è da sermone; 

onde la traccia vostra è fuor di strada».                       148

PARAFRASI CANTO VIII

Il mondo antico era solito credere, a suo rischio, che la dea Venere girando nel III Cielo irradiasse l'influsso all'amore sensuale;

per cui i popoli antichi, nell'errore del paganesimo, non rendevano onore solo a lei con sacrifici e voti, ma onoravano anche la madre Dione e il figlio Cupido, e dissero che quest'ultimo si era seduto in grembo a Didone;

e da questa divinità di cui parlo prendevano il nome per indicare il pianeta che il sole corteggia ora da dietro, ora di fronte.

Io non mi accorsi di ascendere all'astro; ma compresi di esservi dentro dal fatto che vidi che la mia donna era diventata più bella.

E come si distingue una scintilla nella fiamma, oppure come si sente una voce modulante su una voce ferma, così io vidi in quel Cielo luminoso altre luci, che ruotavano più o meno veloci, così come - credo - godevano della loro visione interiore.

Da una fredda nube non discesero mai venti visibili (lampi) o invisibili (turbini) tanto veloci, che non sembrassero frenati e lenti a chi avesse visto quelle luci divine venire verso di noi, lasciando la danza che prima avevano iniziato nel Primo Mobile;

e dentro a quelle che ci apparvero più vicine, risuonava un 'Osanna' tale che in seguito non fui mai privo del desiderio di risentirlo.

Allora uno spirito si fece più vicino a noi e iniziò da solo a parlare: «Tutti siamo solleciti a soddisfare il tuo piacere, affinché tu gioisca grazie a noi.

Noi ruotiamo, condividendo la stessa danza, lo stesso movimento e lo stesso desiderio di Dio, coi Principati, ai quali tu nel mondo un tempo dicesti: 'Voi che col vostro intelletto muovete il terzo Cielo'; e siamo così pieni d'amore che, per compiacerti, non ci sarà meno dolce restare fermi per un po'».

Dopo aver rivolto uno sguardo riverente alla mia donna e dopo che lei mi ebbe rassicurato con un cenno, rivolsi gli occhi alla luce che tante promesse mi aveva fatto e dissi con la voce piena di grande affetto: «Orsù, chi siete?»

In che modo vidi quella luce diventare più grande e luminosa, quando parlai, per via dell'accresciuta allegria che si aggiunse alla gioia che già provava!

Dopo esser divenuta tale, mi disse: «Il mondo mi ebbe con sé poco tempo; e se fossi vissuto più a lungo, molto del male che avverrà non accadrebbe.

La mia gioia che mi risplende intorno mi nasconde ai tuoi occhi, come un animale (il baco) fasciato dalla seta.

Mi amasti molto e ne avesti ben ragione; infatti, se io fossi vissuto ancora, ti avrei dimostrato non solo le fronde del mio affetto.

Quella riva sinistra che è bagnata dal Rodano dopo che il Sorga è sfociato in esso (la Provenza) mi attendeva da tempo come suo signore, così come quel corno d'Italia (il regno di Napoli) che ha come città Bari, Gaeta e Catona, da dove i fiumi Tronto e Liri sfociano in mare.

Già splendeva sulla mia fronte la corona di quella terra (l'Ungheria) che il Danubio attraversa, dopo aver abbandonato le terre tedesche.

E la bella Sicilia, che è coperta di caligine tra Pachino e Peloro, sul golfo che è battuto dallo Scirocco, non a causa del gigante Tifeo ma lo zolfo che è prodotto dal sottosuolo, avrebbe atteso ancora i suoi sovrani nati attraverso me da Carlo e Rodolfo, se il malgoverno che spinge sempre i popoli a ribellarsi, non avesse indotto Palermo a gridare: "Muoia, muoia!" (la rivolta del Vespro).

E se mio fratello Roberto prevedesse questo, già eviterebbe l'avarizia degna dei Catalani perché non lo danneggi;

infatti bisogna veramente che lui o qualcuno al suo posto provveda, per evitare che il suo regno subisca ulteriori danni.

La sua indole, che pur discendendo da antenati liberali è avara, avrebbe bisogno di soldati tali da non preoccuparsi solo di intascare guadagni (i mercenari catalani, Almogaveri)».

«Poiché credo che la grande gioia che mi infonde il tuo discorso, mio signore, tu la vede là dove finisce e inizia ogni bene (la mente di Dio) come la vedo io, essa mi è anche più gradita; e mi è caro il fatto che la vedi osservando in Dio (il fatto che tu sia beato).

Tu mi hai reso lieto, così ora rendimi le cose chiare, dal momento che con le tue parole mi hai indotto a dubitare di come sia possibile che un figlio sia degenere rispetto al padre».

Questo io dissi a lui; e lui mi rispose: «Se io posso mostrarti la verità, rispetto al tuo dubbio avrai il viso rivolto là dove ora volgi le spalle.

Il bene (Dio) che fa ruotare e accontenta tutto il regno che tu attraversi (il Paradiso), fa sì che la Provvidenza diventi virtù operativa in questi astri.

E nella mente di Dio che è perfetta di per sé, non sono determinate solo le varie nature, ma insieme ad esse anche il loro fine:

infatti, qualunque cosa sia indirizzata dagli influssi celesti, si attua con un fine ben preciso e determinato, proprio come una freccia diretta contro un bersaglio.

Se non fosse così, il Cielo che tu percorri produrrebbe i suoi effetti in modo tale che non sarebbero benefici influssi, ma rovine;

e questo non può succedere, se le intelligenze angeliche che muovono queste stelle non sono difettose, e se non lo è neppure il primo intelletto (Dio) che non le avrebbe rese perfette.

Vuoi ulteriori spiegazioni relativamente a questo?» E io: «No, poiché capisco che è impossibile che la natura fallisca in quello che è necessario».

Allora proseguì: «Allora dimmi: sarebbe peggio, per l'uomo che vive in Terra, se non fosse cittadino?» Risposi: «Sì, e di questo non chiedo spiegazioni».

«E potrebbe accadere questo, se sulla Terra non si vivesse svolgendo ciascuno una funzione diversa? Certo che no, se il vostro maestro (Aristotele) scrive il vero».

Così venne ragionando fino a questo punto; poi concluse: «Dunque è necessario che siano diverse le radici dei vostri effetti:

ecco perché uno nasce legislatore e un altro condottiero, uno sacerdote e un altro ingegnere, come quello (Dedalo) che perse il figlio che volava in cielo.

L'intelligenza angelica, che imprime il suggello alla cera mortale, opera la sua arte ma non distingue una famiglia dall'altra.

Ecco perché Esaù è diverso dal fratello Giacobbe; ecco perché Romolo discende da un padre tanto umile che lo si attribuisce a Marte.

La natura creata percorrerebbe un cammino sempre uguale a quello dei generanti, se la Provvidenza divina non fosse più forte.

Ora quello che ti era dietro ti è davanti (ho chiarito i tuoi dubbi): ma affinché tu sappia che ho piacere di essere con te, voglio donarti ancora un corollario.

La natura, ogni qual volta trova le condizioni esterne discordi, produce cattivi effetti come un seme caduto in un terreno non adatto a quella specie.

E se il mondo terreno badasse di più al fondamento posto dalla natura (alle inclinazioni individuali), seguendolo avrebbe persone migliori.

Ma voi forzate alla vita religiosa uno che sarebbe nato a portare la spada, e fate re chi sarebbe portato alla religione; ecco perché il vostro cammino è fuori dalla retta via».

CARLO MARTELLO D'ANGIO'

Carlo Martello d'Angiò (Napoli, 8 settembre 1271 – Napoli, 12 agosto 1295) era il figlio primogenito di Carlo II di Napoli e di Maria Arpad d'Ungheria. Fu Principe di Salerno dal 1289 e Re titolare d'Ungheria dal 1290 fino alla sua morte. Carlo Martello era il figlio primogenito dell'erede al trono di Napoli, Carlo II detto lo Zoppo, duca di Calabria, figlio primogenito di re Carlo I di Napoli, e di Maria Arpad d'Ungheria (1257 ca. – 25 marzo 1323), figlia del re d'Ungheria, Stefano V e di Elisabetta di Cumania. Tra i suoi fratelli vi furono san Ludovico di Tolosa, il re di Napoli Roberto d'Angiò e Filippo I di Taranto. Carlo Martello trascorse la prima infanzia insieme alla madre nel castello del Parco di Nocera (nel quale passò lunghi periodi della sua vita). Nel 1280 il nonno Carlo I d'Angiò che aveva acquisito i diritti al trono del Regno di Arles pensò con l'imperatore Rodolfo d'Asburgo di ricostituire il regno e fece un accordo in seguito al quale, l'imperatore avrebbe ricostituito il regno di Arles per assegnarlo al momento delle future nozze tra Carlo Martello, e Clemenza, figlia di Rodolfo. Evento che non si realizzò a causa dei Vespri siciliani del 1282. Tra il 1290 e il 1291 il padre gli concesse il feudo e le fortezze di Nocera dei Cristiani. Destinato al trono ungherese per diritto ereditario, non divenne mai sovrano a tutti gli effetti. Sua madre Maria era figlia di Stefano V e sorella di Ladislao IV, ultimo discendente senza eredi del ramo principale della dinastia degli Arpadi, il che investiva Carlo Martello del pieno diritto di successione. Re Ladislao morì il 10 luglio 1290 e Carlo Martello, diciannovenne, fu formalmente eletto Re d'Ungheria, incoronato ad Aix due anni dopo. Secondo Nuova Cronica di Villani fu coronato a Napoli: "il re Carlo si tornò a Napoli; e ’l giorno di nostra Donna di settembre prossimo il detto re fece in Napoli grande corte e festa, e fece cavaliere Carlo Martello suo primogenito figliuolo, e fecelo coronare del reame d’Ungaria per uno cardinale legato del papa, e per più vescovi e arcivescovi". Ma ad occupare di fatto il trono magiaro, grazie anche al sostegno di alcuni nobili, fu Andrea III, discendente di un altro ramo della dinastia degli Arpadi, di cui fu ultimo sovrano. A Carlo Martello non restò che il puro titolo formale, destinato comunque a tramandarsi a suo figlio Caroberto, e non tentò mai di recarsi direttamente in Ungheria a pretendere il rispetto dei propri diritti ereditari. Carlo Martello d'Angiò adottò quale suo stemma uno scudo di Francia (azzurro con gigli dorati) con una brisura, all'interno della quale sono raffigurati dei martelli da fabbro neri: il tutto allusivo al suo nome. L'11 gennaio 1281 a Vienna sposò Clemenza d'Asburgo, figlia dell'imperatore Rodolfo I e di Gertrude di Hohenberg. Dall'unione nacquero tre figli: Carlo Roberto (1288-1342), che fu Re d'Ungheria; Beatrice (1290 - Grenoble, 1354), che il 25 maggio 1296 sposò Giovanni II de la Tour-du-Pin, delfino del Viennois; Clemenza (febbraio 1293 – Parigi, 12 ottobre 1328), che il 13 agosto 1315 sposò a Parigi il Re Luigi X di Francia. Nel 1294 Carlo Martello si recò a Firenze, dove incontrò i suoi genitori che rientravano dalla Francia. In questa occasione, per accoglierlo con tutti gli onori del caso, la città toscana inviò una delegazione della quale pare facesse parte anche Dante Alighieri. In ogni caso appare quasi certo che Dante e il giovane principe angioino abbiano avuto modo di conoscersi di persona e apprezzarsi vicendevolmente, anche per il fatto di condividere gli stessi gusti letterari.

I VESPRI SICILIANI

I Vespri siciliani furono una ribellione scoppiata a Palermo all'ora dei vespri di Lunedì dell'Angelo nel 1282. Bersaglio della rivolta furono i dominatori francesi dell'isola, gli Angioini, avvertiti come oppressori stranieri. Da Palermo i moti si sparsero presto all'intera Sicilia e ne espulsero la presenza francese. La ribellione diede avvio a una serie di guerre, chiamate "guerre del Vespro" per il controllo della Sicilia, che si conclusero definitivamente con il trattato di Avignone del 1372. Dopo la morte dell'imperatore Corrado IV, la sconfitta di Manfredi a Benevento e la decapitazione a Napoli il 29 ottobre 1268 dell'ultimo pretendente svevo Corradino, il Regno di Sicilia era stato definitivamente assoggettato al sovrano francese Carlo I d'Angiò. Papa Clemente IV, che il 6 gennaio 1266, aveva già incoronato Carlo re di Sicilia, sperando così di poter estendere la propria influenza all'Italia meridionale senza dover subire i veti precedentemente imposti dagli svevi, dovette rendersi conto che gli angioini avrebbero perseguito una politica espansionistica aggressiva: conquistato il meridione d'Italia, le mire di Carlo volgevano infatti già ad Oriente e al neo-restaurato Impero bizantino. In Sicilia la situazione si era fatta particolarmente critica per una generalizzata riduzione delle libertà baronali e, soprattutto, per una opprimente politica fiscale. L'isola, da sempre fedelissima roccaforte sveva, che dopo la morte di Corradino di Svevia aveva resistito ancora per alcuni anni, era ora il bersaglio della rappresaglia angioina. Gli Angiò si mostrarono insensibili a qualunque richiesta di ammorbidimento e applicarono un esoso fiscalismo, praticando usurpazioni, soprusi e violenze. Va segnalato a tal proposito che Dante, che nel 1282 aveva solo 17 anni, nell'VIII canto del Paradiso, indicherà come Mala Segnoria il regno angioino di Sicilia. I nobili siciliani e in particolare il diplomatico Giovanni da Procida riponevano le proprie speranze in Michele VIII Paleologo, imperatore bizantino già in contrasto con Carlo I d'Angiò, in papa Niccolò III, che si era dimostrato disponibile a una mediazione, e in Pietro III d'Aragona. Poiché Michele si trovava in una situazione critica a causa dell'invasione dei Balcani da parte di Carlo d'Angiò, scelse la via diplomatica, in cui i Bizantini si erano sempre distinti, per distogliere il re angioino dai suoi piani di conquista. Durante il pontificato di Niccolò III, Michele VIII con la sua mediazione aveva stretto un'alleanza con Pietro. Il re aragonese avrebbe dovuto attaccare l'Angioino alle spalle e togliergli il regno, così come nel 1266 Carlo lo aveva tolto a re Manfredi. L'imperatore bizantino gli avrebbe messo a disposizione i mezzi per costruire una flotta. Il re d'Aragona, in particolare, era guardato con favore perché sua moglie Costanza, in quanto figlia di Manfredi e nipote di Federico II, risultava l'unica pretendente legittima della casa di Svevia; tuttavia il sovrano aragonese era impegnato nella riconquista di quella parte della penisola iberica ancora in mano agli arabi. Alla fine del 1280, in concomitanza con la morte di papa Niccolò III e con la guerra che impegnava il Paleologo contro una coalizione di cui facevano parte veneziani e angioini, i baroni siciliani ruppero gli indugi organizzando una sollevazione popolare che desse un segno tangibile della loro determinazione, convincendo l'unico interlocutore rimasto, Pietro d'Aragona, ad accorrere in loro aiuto. In quel mentre avveniva l'elezione del papa di origini francesi Martino IV che, eletto proprio grazie al determinante sostegno degli Angiò, si mostrò fin dall'inizio insensibile alla causa dei siciliani. Intanto, agenti bizantini e aragonesi, largamente provvisti di denaro bizantino, istigarono i Siciliani alla rivolta. Nell'instabile panorama politico della fine del XIII secolo, la rivolta siciliana, intrecciando l'opposizione al potere temporale dei papi al contenimento dell'inarrestabile ascesa dei loro vassalli angioini, innescherà nel Mediterraneo un vero e proprio conflitto internazionale: da una parte Carlo I d'Angiò, sostenuto da Filippo III di Francia e dai guelfi fiorentini, oltreché dal papato; dall'altra Pietro III d'Aragona, appoggiato dall'imperatore Michele VIII Paleologo, da Rodolfo d'Asburgo, da Edoardo I d'Inghilterra, dalla fazione ghibellina genovese, dal Conte Guido da Montefeltro e da Alfonso X di Castiglia, oltreché, più tiepidamente, dalle Repubbliche marinare di Venezia e di Pisa. Tutto ebbe inizio in concomitanza con la funzione serale dei Vespri del 30 marzo 1282, lunedì dell'Angelo, sul sagrato della chiesa del Santo Spirito, a Palermo. A generare l'episodio fu - secondo la ricostruzione storica - la reazione al gesto di un soldato dell'esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa a una giovane nobildonna accompagnata dal consorte, mettendole le mani addosso con il pretesto di doverla perquisire. A difesa di sua moglie, lo sposo riuscì a sottrarre la spada al soldato francese e a ucciderlo. Tale gesto costituì la scintilla che dette inizio alla rivolta. Nel corso della serata e della notte che ne seguì i palermitani - al grido di "Mora, mora!" - si abbandonarono a una vera e propria "caccia ai francesi" che dilagò in breve tempo in tutta l'isola, trasformandosi in una carneficina. I pochi francesi che sopravvissero al massacro vi riuscirono rifugiandosi nelle loro navi, attraccate lungo la costa. Si racconta che i siciliani, per individuare i francesi che si camuffavano fra i popolani, facessero ricorso a uno shibboleth, mostrando loro dei ceci («cìciri», nella lingua siciliana) e chiedendo di pronunciarne il nome; quelli che venivano traditi dalla loro pronuncia francese (sciscirì), venivano immediatamente uccisi. Secondo la tradizione, la rivoluzione del Vespro fu organizzata in gran segreto dai principali esponenti della nobiltà siciliana. Tre furono i principali organizzatori, insieme a Giovanni da Procida, medico di Federico II, ed Enrico Ventimiglia, conte di Geraci: Alaimo da Lentini, signore di Ficarra; Palmiero Abate, signore di Trapani e Favignana; Gualtiero di Caltagirone, signore di Butera. Secondo I Raguagli Historici del Vespro Siciliano di Filadelfo Mugnos, nell'organizzazione della rivolta questa fu la ripartizione: Ad Alaimo di Lentini fu assegnato il Val Demone con la città di Messina. A sua volta questi affidò: Milazzo e le terre vicine a Natale Anzalone e Bartolomeo Collura; Castroreale a Bartolomeo Graffeo; il territorio da Patti a Cefalù a Tommaso Crisafi e Cefaldo Camuglia; il territorio da Taormina a Catania a Pandolfo Falcone; San Filippo a Girolamo Papaleo; Nicosia a Pietro Saglinpepe e Lorenzo Baglione; Troina a Iacopino Arduino. A Palmiero Abate fu assegnato il Vallo di Mazara e a sua volta questi affidò: Trapani ed Erice ai fratelli; Marsala, Mazara e le terre vicine a Berardo Ferro; Termini a Giovanni Campo; Enna, Calascibetta e altre terre ad Arrigo Barresi; Castelvetrano, Salemi, Polizzi e Corleone a Guido Filangeri; Licata a Rosso Rossi e Berardo Passaneto; Agrigento a Giovanni Calvelli; Naro a Niccolò Lentini e Lucio Patti. A Gualtiero di Caltagirone fu assegnato il Val di Noto, il quale si riservò di organizzare la rivolta in prima persona a Caltagirone, Piazza e Aidone. Affidò invece: Mineo e alcune terre vicine al figlio Perotto; Catania a Pietro Cutelli e Cau Tedeschi; Lentini a Giovanni Balsamo e Lanfranco Lentini; Siracusa a Perrello Modica e Pietro Manuele; Modica, Ragusa e altri luoghi a Manfredi Mosca; Vizzini ad Arnaldo Callari e Luigi Passaneto; Noto a Luigi Landolina e Giorgio Cappello. All'alba dell'indomani, la città di Palermo si proclamò indipendente. La rivolta si estese subito a tutta la Sicilia. Dina e Clarenza suonano la campana per avvertire i messinesi dell'attacco angioino. Dopo Palermo fu la volta di Corleone, Taormina, Siracusa, Augusta, Catania, Caltagirone e, via via, tutte le altre città. Infine anche Messina si unì alla Communitas Siciliae. Successivamente, gli insorti richiesero il sostegno di papa Martino IV, affinché appoggiasse l'indipendenza dell'isola e la patrocinasse; tuttavia, il pontefice era stato eletto al soglio papale grazie all'appoggio dei suoi connazionali francesi e pertanto non accolse le richieste degli isolani, bensì appoggiò l'azione repressiva degli angioini. Carlo I d'Angiò tentò invano di sedare la rivolta con la promessa di numerose riforme; alla fine decise di intervenire militarmente. Famoso simbolo di quella lotta divenne il termine «Antudo!», una parola d'ordine usata dagli esponenti della rivolta. Antudo è l'acronimo per le parole latine "Animus Tuus Dominus" e che vuol dire "il coraggio è il tuo Signore". Il 3 aprile 1282 veniva adottata la bandiera giallo-rossa, con al centro la Triscele e che diverrà il vessillo di Sicilia. La bandiera venne formata dal giallo di Corleone e dal rosso di Palermo a seguito di un atto di confederazione stipulato da 29 rappresentanti delle due città. Antudo fu scritto anche nel vessillo. A luglio, Carlo d'Angiò sbarcò in Sicilia, al comando di una flotta con 24.000 cavalieri e 90.000 fanti per sedare la rivolta dei siciliani e cinse d'assedio Messina, strenuamente difesa da Alaimo da Lentini. A Palermo, allora prevalse la tesi legittimista, per il richiamo dell'ultima degli Svevi, Costanza, moglie di Pietro III d'Aragona, figlia del defunto re Manfredi di Sicilia. Pietro, insieme al suo esercito, sbarcò a Trapani il 30 agosto grazie alla flotta donatagli dal Paleologo e il 4 settembre fu incoronato re a Palermo dal parlamento siciliano come Pietro I di Sicilia. Carlo si ritirò il 26 settembre 1282 e, fece ritorno a Napoli, lasciando la Sicilia nelle mani di Pietro III, che pochi mesi dopo tornò in Aragona lasciando la moglie Costanza II di Sicilia come reggente fino al 1285. Ebbe inizio nel frattempo un ventennale periodo di guerre tra gli angioini e gli aragonesi per il possesso dell'isola. La pace di Caltabellotta fu il primo accordo ufficiale di pace firmato il 31 agosto 1302 nel castello della cittadina siciliana fra Carlo di Valois, come capitano generale di Carlo II d'Angiò, e Federico III d'Aragona; tale trattato concluse quella che viene indicata come la prima fase dei Vespri. La seconda fase della guerra riprese nel 1313 e durò fino al 1372, quando si chiuse con il trattato di Avignone. I Vespri rappresentano una fondamentale tappa della storia siciliana: il lungo legame tra Sicilia e Aragona, che poi diverrà inclusione dell'isola nel regno unificato alla fine del XV secolo, nasce in questo contesto. Tale legame realizzò l'inserimento della Sicilia nel teatro mediterraneo, in cui la Corona d'Aragona rappresentava l'avversario degli Angioini e del Papa. L'isola divenne inoltre fulcro di interessi commerciali, contesi tra le potenze marittime di quel tempo (Valencia-Barcellona, Genova, Pisa-Firenze, Venezia). Infine, moltissime famiglie nobili si trasferirono in Sicilia dalla penisola iberica, integrandosi con la nobiltà siciliana e finendo per costituire una componente importante della nobiltà isolana nei secoli successivi. Un altro elemento degno di considerazione è la natura particolare del regno così nato. I ceti siciliani dominanti, attraverso il governo provvisorio, avendo richiesto a Pietro di assumere la corona, si rapportarono agli Aragonesi sempre come interlocutori piuttosto che come sudditi, nel segno di una monarchia "pattista", che avrebbe dovuto tutelare e conservare le tradizioni del Regno e quindi anche la sua origine. Sotto questo aspetto, la monarchia sorta nel 1282 differisce profondamente da quella costituita sull'isola dai Normanni e dagli Svevi. I Vespri furono determinanti anche per la salvezza dell'Impero bizantino, che dopo la riconquista di Costantinopoli del 1261 aveva aumentato enormemente la sua influenza nel teatro mediterraneo, ma rischiava molto a causa delle mire espansionistiche del potente vicino angioino. Grazie alla rivolta in Sicilia, Carlo fu costretto ad abbandonare la sua campagna di conquista nei Balcani dopo una catastrofe senza precedenti, che coinvolse lo stesso papa.

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Eugenio Caruso - 09- 07 - 2021

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