Omero, Iliade, Libro 7. Ettore contro Aiace.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ILIADE

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartiene ad Omero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.

RIASSUNTO al VII LIBRO

Ettore e Paride ritornano sul campo di battaglia e si cimentano in numerosi, violenti duelli. Atena e Apollo intervengono nuovamente nella battaglia per riprenderne la regia: fanno sospendere i combattimenti perché Ettore da solo affronti un guerriero greco in un duello, nel quale comunque il Troiano non correrà alcun pericolo, giacché il suo destino non si è ancora compiuto. Dopo alcune esitazioni degli Achei, che temono la forza dell’avversario, la sorte designa Aiace Telamonio per il duello: i due si battono in uno scontro aspro ma cavalleresco; al calar della sera il combattimento viene interrotto, i due eroi si scambiano doni secondo il rituale, e, al momento di separarsi, si riconoscono reciproco rispetto. Nestore suggerisce di chiedere una tregua per seppellire i morti e per costruire un muro a difesa delle navi. Intanto a Troia gli anziani tengono un’assemblea, nella quale Antenore consiglia a Paride di restituire Elena e i suoi beni; Paride, appoggiato da Priamo, accetta solo di riconsegnare i beni, non la donna. Ideo, l’ambasciatore mandato da Priamo, riferisce la proposta ai Greci e chiede una tregua per consentire la sepoltura e le cerimonie in onore dei morti d’ambo le parti. Gli Achei rifiutano l’offerta di Paride ma accettano la tregua, in occasione della quale, oltre a celebrare riti funebri, costruiscono il muro attorno alle navi. Posidone, temendo che l’opera possa rivaleggiare con le mura costruite un tempo da lui e da Apollo, ottiene da Zeus la garanzia che il muro sarà abbattuto non appena gli Achei torneranno in patria.

TESTO LIBRO VII

Poi ch’ebbe detto cosí, tutto fulgido fuor dalle porte
Ettore irruppe, e seco moveva il fratello Alessandro,
pieni di brama entrambi, nel cuore, di guerra e di zuffe.
E come ai marinai che ansiosi lo attendono, un Nume
manda propizio vento, quando essi, correndo sul mare,
stanchi già sono sui remi, fiaccate han le membra al travaglio:
tali ai Troiani, che brama ne avevano, apparvero quelli.
Quivi Alessandro uccise Menestio figliuol d’Aritòo,
ch’Arne abitava: Aritòo, clavigero sir, gli fu padre,
Filomedusa dagli occhi rotondi lo diede alla luce.
Ed Ettore colpí con l’acuta zagaglia Eionèo,
sotto il frontale di rame dell’elmo, e gli tolse la vita.
Glauco, d’Ippòloco figlio, signor della gente di Licia,
con la zagaglia Ifímo trafisse, nel fiero cimento,
figlio di Dexïo, mentre pugnava sul rapido carro.
L’omero gli ferí: cadde a terra, e fiaccato fu il corpo.
Come di lor s’accorse la Diva dagli occhi azzurrini,
che nel cimento fiero, sterminio facevan d’Argivi,
giù con un lancio verso Ilio piombò dalle vette d’Olimpo.
Ma Febo, che voleva conceder vittoria ai Troiani,
come veduta l’ebbe da Pèrgamo, incontro le mosse.
Stettero presso al faggio, vicin l’uno all’altro, i due Numi;
e parlò primo Apollo sovrano, figliuolo di Giove:
«Perché con tanta furia, figliuola di Giove possente,
sei dall’Olimpo discesa? Che gran desiderio ti spinge?
Conceder forse vuoi la dubbia vittoria agli Achivi?
Ché già, pietà di tanti Troiani caduti, non senti.
Questo, se tu vorrai darmi ascolto, sarebbe pel meglio:
tregua facciam che quest’oggi si ponga agli scontri e le zuffe:
riprenderanno poi la pugna diman, sin che d’Ilio
trovino il fine fatale, giacché questo avete deciso,
voi, sempiterne Dive: che questa città sia distrutta».
E a lui cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
«Sia pur cosí, dell’arco Signore: con questo pensiero,
d’Olimpo anche io venuta son qui, fra Troiani ed Achivi.
Ma dimmi, come pensi che fine si ponga alla pugna?»
E a lei cosí rispose Apollo figliuolo di Giove:
«Ettore ardito eccitiamo, l’eroe domator di cavalli,
ch’egli a combattere inviti qualcuno dei Dànai guerrieri,
da solo a sol provando le forze nell’aspro cimento.
E, provocati, anch’essi, gli Achei da le belle gambiere,
qualcuno ecciteranno, che d’Ettore affronti la furia».
Cosí disse. E concorde fu pur l’occhiglauca Diva.

minerva 1
ATENA di Andrea Mantegna


Ed Èleno sentí, di Priamo il figlio, nell’alma,
quale partito fosse piaciuto al consiglio dei Numi,
verso Ettore mosse, gli stette vicino, e gli disse:
«Ettore, figlio di Priamo, che a Giove sei pari nel senno,
vuoi far ciò ch’io ti dico? ch’io son tuo fratello germano.
Fa’ che i Troiani tutti si fermino, e tutti gli Achivi,
e il più prode invita dei loro, che teco s’azzuffi
da solo a solo,
 provi le forze nell’aspro cimento:
poi che destino non è che tu muoia ancora e soccomba:
la voce a me lo disse dei Numi che vivono eterni».
Ettore, a queste parole, pervaso di gioia profonda,
tra le falangi balzò dei guerrieri troiani, a frenarli,
la lancia a mezzo pugno stringendo; e ristettero tutti.
Anche Agamènnone, allora, le schiere frenò degli Achivi.
Atena allora, e Apollo, signore dall’arco d’argento,
assunsero la forma di vúlturi alati, e del faggio
sacro all’egíoco Giove posâr su l’altissima vetta,
mirando con diletto le schiere. E posavan le schiere,
fitte, con lucidi guizzi di scudi, di lance, d’elmetti.
Come allorché sul mare di Zefiro un brivido corre
sorto da poco, e negri sotto esso divengono i flutti,
cosí nella pianura le schiere d’Achivi e Troiani
stavano; ed Ettore, in mezzo, cosí cominciava a parlare:
«Datemi ascolto. Troiani, e Achei dai robusti schinieri,
sí ch’io vi dica quello che il cuor mi consiglia nel seno.
Giove, l’eccelso re, compiuto non ha i patti,
e gli uni e gli altri pose, con animo infesto, al cimento,
sinché di Troia voi le solide torri prendiate,
o siate voi domati vicino alle rapide navi.
Ma i primi son tra voi campioni di tutta l’Acaia.
Ora, se alcuno di questi lo spinge il suo cuore a battaglia,
venga, e l’eletto sia fra tutti, contro Ettore.

Questo io vi dico; e sia Giove re testimonio a entrambi:
se quegli a me la morte darà con la spada affilata,
faccia dell’armi preda, le porti alle concave navi,
in Troia il corpo mio di nuovo rimandi, e i Troiani
possano al fuoco dare la salma
, e le spose troiane.
E s’io l’uccido, e Apollo tal gloria mi dà, l’armi sue
io prenderò, porterò di Troia nel sacro recinto,
le appenderò nel tempio d’Apollo che lungi saetta,
il corpo renderò ai legni dai solidi banchi,
perché gli dian sepolcro gli Achei dalle floride chiome,
e d’una tomba il clivo gl’innalzin su l’ampio Ellesponto,
sí che taluno dica, di quanti verranno in futuro,
con la sua nave grande solcando il purpureo mare:
— Questa è la tomba d’un uomo che visse nei tempi remoti:
Ettore illustre l’uccise, mentre ei combatteva da prode. —
Cosí dirà taluno. Né fine avrà mai la sua gloria».
Cosí diceva. E muti rimasero tutti gli Achivi,
ché avean di rifiutare vergogna, e timor d’accettare
.

Pure, a parlar si levò Menelao, con parole rissose,
con vituperî ai compagni: ché il cuor gli gemeva nel petto:
«Ahimè!, millantatori, Achivi non più, bensí Achive,
che macchia sarà questa, tremenda e assai più che tremenda,
se niuno degli Achei contro Ettore ardisse pugnare?
Or tutti quanti possiate disperdervi in polvere e acqua,
senza coraggio qui, senza gloria restando seduti;
e d io contro costui pugnerò: delle pugne l’evento
tengono su, dall’Olimpo, i Numi che vivono eterni».
Come ebbe detto ciò, prese a cingere l’armi sue belle.
E qui giungeva il fine per te, Menelao, di tua vita,
d’Ettore sotto le mani, che era di tanto piú forte,
se, per frenarti, in pie’ non balzavano i principi Achivi.
Primo il possente re, l’Atríde Agamènnone, ei stesso
la destra t’afferrò, ti parlò con alate parole:
«Di senno uscito sei, Menelao, caro alunno di Giove,
né tal follia ti s’addice. Per quanto crucciato, rattienti,
non voler, nell’ira, pugnar con un uomo più forte
di te,
 col Priamíde, di cui sbigottiscono tutti.
Achille, anch’esso trema, che tanto di te piú gagliardo,
se negli scontri deve di guerra affrontare quell’uomo.
Via, fra le schiere tu dei compagni ritorna tranquillo,
e contro Ettore, un altro campion manderanno gli Achivi;
ed ei, sebbene intrepido sia, né mai sazio di lotte,
sarà pago, dico io, di piegar le ginocchia al riposo,
se pure scamperà della pugna alla furia, all’orrore».
Cosí disse, distolse cosí del fratello la mente,
ché buono era il consiglio. Convinto fu quello, e allora,
ben lieti, i suoi scudieri gli tolsero l’arme di dosso.
E fra gli Argivi, in pie’ surse Nèstore allora, e sí disse:
«Ahimè, che lutto grande colpisce la terra d’Acaia!
Ahimè, quanto dovrà lagrimare l’antico Pelèo
re dei Mirmidoni probo, valente a parlar nei consigli!
Nella sua casa, un giorno, domande su tutti gli Argivi
ei mi rivolse: le stirpi di tutti mi chiese, e le genti,
e s’allegrò. Ma, se udisse che treman per Ettore tutti,
ei leverebbe ai Numi le palme, pregando, che, uscita
l’anima sua dalle membra, piombasse nel regno d’Averno.
Deh!, Giove padre, Apollo, Atena, se giovane io fossi,
come allorché le schiere degli Arcadi, prodi lancieri
del Celadóne sui flutti veloci pugnaron coi Pili,
presso le mura di Feia, lunghessi del Giàrdano i rivi!
Euritalíone primo sorgeva fra loro, d’aspetto
simile a un Dio: cingeva le membra con l’armi d’Arète,
d’Arète sire, stirpe divina, a cui gli uomini tutti,
tutte le donne, dare solean di Clavígero il nome,
perché non combatteva con l’arco e le lunghe zagaglie,
bensí con una clava di ferro spezzava le schiere.
Licurgo uccise lui con la frode, non già con la forza,
in un’angusta via, là dove la clava di ferro
non lo salvò dalla morte, perché lo prevenne Licurgo
che lo trafisse a mezzo con l’asta; e quei cadde supino.
Dell’armi lo spogliò, ch’eran dono del ferreo Marte,
ed egli or le indossava negli aspri tumulti di guerra.
E poi che nella casa Licurgo fu giunto a vecchiaia,
Euritalíone l’ebbe da lui, suo diletto scudiero.
E con quell’arme indosso sfidava i più prodi alla pugna.
Tutti tremavano, tutti temevano, e niun s’arrischiava:
sol me spinse alla zuffa lo spirito ardito e tenace,
col suo coraggio; ed ero per anni il più giovin di tutti.
E combattei con lui, e Atena a me diede vittoria:
quell’uomo uccisi, ed era di tutti il più forte e il più grande,
ché in lungo e in largo, molto di suolo ingombrava la salma.
Deh!, cosí giovine io fossi, deh!, avessi tuttor quella forza!
Ettore il prode, ben presto dovrebbe esser sazio di pugne.
Ma voi, quanti qui siete più prodi fra tutti gli Argivi,
neppure voi bramate venire con Ettore a pugna!».
Li rampognava il vecchio cosi. Nove sursero tosto.
Surse Agamènnone, primo fra tutti, pastore di genti;
secondo si levò Dïomède, il gagliardo Tidíde;
quindi gli Aiaci entrambi, vestiti di furia guerresca;
e quindi Idomenèo, poi d’Idomenèo lo scudiere,
Meríone, ch’era pari a Eníalo vago di stragi;
Eurípilo poi surse, d’Evèmone il fulgido figlio,
surse Toante, il figlio d’Andrèmone, e Ulisse divino:
tutti volevano a zuffa venire con Ettore divo.
Nèstore allora parlò, cavaliere Gerenio, e sí disse:
«Ora, su’ via, la sorte provate, chi venga prescelto.
Costui potrà recare non piccolo aiuto agli Achei,
e darne anche a sé stesso, se salvo riesce a sfuggire
dalla battaglia infesta, dall’urto nemico furente».
Cosí diceva. E quelli segnarono ognun la sua sorte,
e d’Agamènnone re la gittaron nell’elmo.
 E le genti,
alte le braccia ai Numi levaron con molte preghiere;
e ognuno, verso il cielo rivolte le luci, diceva:
«Deh!, Giove padre, Aiace sia scelto, o il figliuol di Tidèo,
oppur lo stesso re di Micene che sfolgora d’oro».
Cosí dicean. Le sorti nel casco agitava il guerriero
Nèstore; e quella fuori balzò che bramavano tutti:
quella d’Aiace.
 Si mosse da destra pel campo l’araldo,
di luogo in luogo; e il segno mostrava a quei prodi campioni.
Niuno però lo conobbe, diniego ne fecero tutti.
Ma quando poi, girando via via per le schiere, pervenne
a chi l’aveva impresso, gittato nel casco, ad Aiace,
tese costui la mano, l’araldo vi pose la sorte.
E quegli, il proprio segno conobbe; e, gioendo nel cuore,
presso ai suoi piedi, a terra, lasciò che cadesse, e proruppe:
«Amici, è proprio mio, questo segno, e il cuore mi gode,
ché io vincere spero di Priamo il figlio divino.

Orsú, dunque, mentre io mi cingo dell’armi di guerra,
le preci voi frattanto levate al figliuolo di Crono,
muti, fra voi, che nulla ne debban sapere i Troiani:
o anche, apertamente, ché noi non temiamo nessuno.
Niuno a sua posta potrà, se non voglio, respingermi a forza,
né ciò potrà con l’arte: ché tanto inesperto di guerra,
in Salamina, io credo, non fui generato, né crebbi».
Cosí diceva; e quelli pregarono il figlio di Crono;
e ognuno, verso il cielo volgendo le luci, diceva:
«O Giove, o sommo padre famoso, che regni dall’Ida,
fa’ tu che vinca Aiace, che fulgida gloria riporti;
e pur se il suo rivale te caro, se d’Ettore hai cura,
uguale all’uno e all’altro concedi la forza e la gloria».

aiace1
Aiace si prepara a combattere contro Ettore


Cosí diceano. E Aiace s’armava del fulgido bronzo.
E poscia ch’ebbe tutte le membra coperte dell’armi,
solo si mosse, come procede l’orribile Marte,
quando egli a guerra muove fra genti che il figlio di Crono
spinge a pugnar, nella furia di scontri che struggon le vite.
Tale l’immane Aiace sorgea, degli Achei baluardo,
con un terribile riso ridendo; ed i piedi moveva
a lunghi passi, e l’ombra crollava dell’asta sua lunga.
E lieti anch’essi, quando lo videro, furon gli Argivi;
ma di tremore orrendo fu invaso ciascun dei Troiani;
e sino Ettore, in petto sentí forte battere il cuore
.
Ma non poteva più ritirarsi, piegar tra le schiere,
ch’ei provocata aveva la pugna. E gli fu presso Aiace.
Simile a torre uno scudo  di pelli bovine e di bronzo
egli recava: Tichio foggiato l’aveva, che in Ila
dimora aveva, il primo fra quanti foggiavano il cuoio.
Questi costrutto aveva lo scudo brillante, con sette
giri di pelli di buoi ben pasciuti; e l’ottavo di bronzo.
Questo dinanzi al petto reggea di Telàmone il figlio.
Stette a Ettore presso, parlò con minacciose parole:
«Ben chiaro, Ettore, adesso, da solo a solo, vedrai
quanti gagliardi sono fra i Dànai campioni di guerra,
anche oltre Achille, sterminio di genti, dal cuor di leone.
Ora ei sopra le navi ricurve che solcano il mare
poltrisce, in odio al re Agamènnone: molti
però ci sono ancora, che stare ti possono a fronte.
Su via, dunque, si dia principio alla guerra e alla zuffa».
Ettore, grande elmo lucente, cosí gli rispose:
«O Telamònio Aiace, divino pastore di genti,
non fare questa prova su me, come io fossi un fanciullo
privo di forze, o una donna che ignora le prove di guerra.
Esperto io molto sono di guerre e di zuffe omicide:
a destra e a manca so palleggiare lo scudo di guerra,
senza fatica: cosí leggera è per me la battaglia:
precipitarmi so nel tumulto dei rapidi carri;
so, combattendo a pie’ fermo, danzare in duello la danza di Marte.
Ora, cercare il modo non vo’ di colpire a inganno
te cosí prode; bensí, se posso, di colpo palese».
Detto cosí,  vibrò la sua lunga zagaglia
contro l’orrendo scudo foggiato di pelli bovine.
Percosse il disco ottavo, di bronzo, sui sette di pelle:
sei falde penetrò la furia del solido bronzo,
e trattenuta fu dalla settima. Aiace, di Giove
stirpe, per secondo l’asta vibrò che gittava lunga ombra,
ed Ettore colpi sovresso lo scudo rotondo.
L’asta massiccia passò fuor fuori lo scudo lucente,
e nell’usbergo, tutto d’agèmine vario, s’infisse.
La tunica passò, presso il fianco, diritta la punta;
ed egli si chinò, schivando la livida Parca.
Trassero fuori ancora entrambi le lunghe zagaglie;
e l’un sull’altro poi piombarono, pari a leoni
crudi, a cignali selvaggi, di cui non è poca la forza.
Il Priamíde colpi con l’asta lo scudo nel mezzo,
né frangerlo poté
, ché la punta si torse.
Aiace s’avventò, lo scudo percosse, e fuor fuori
l’asta passò, 
frenò del figlio di Priamo la furia,
toccando a striscio il collo, sprizzare facendone il sangue.
Né desisté dalla pugna, per questo, il Priàmide forte.
Ma, fatto un balzo indietro, raccolse di terra un macigno
giacente al suolo, negro, tutto aspro; e con mano possente
l’avventò contro Aiace. Percosse lo scudo nel concavo centro:
fu alto il rimbombo del bronzo percosso.
Ecco, e un macigno Aiace raccolse di molto più grosso,
lo roteò, lo scagliò, v’impresse una forza infinita.
Quella pietra colpí, spezzò lo scudo,
a Ettore fiaccò le ginocchia: ed ei cadde supino,

stretto serrato allo scudo. Ma Febo l’alzò senza indugio.
E adesso, a corpo a corpo, venivano già con le spade,
quando gli araldi, che sono di Giove e degli uomini messi,
giunser, da Troia l’uno, dai prodi guerrieri d’Acaia
l’altro, Taltibio e Idèo, di mente scaltrissimi entrambi.
In mezzo ai due campioni frapposer gli scettri; e tai detti
rivolse ad essi Idèo, maestro d’accorti consigli:
«Ponete fine, figli diletti, allo scontro e alla zuffa,
però ch’entrambi siete diletti al tonante Croníde,
e prodi entrambi: questo, nessuno è fra noi che nol sappia.
Ma già scende la notte: conviene alla notte ubbidire».
Aiace a lui rispose cosi, di Telàmone il figlio:
«Queste parole volgetele ad Ettore, ed egli proponga:
ei provocava alla pugna per primo i più forti campioni:
anche or sia primo; e io farò come fare a lui piace».
Ettore, dall'elmo luvente, cosí gli rispose:
“Poi che un Celeste, o Aiace, ti die’ la grandezza e la forza
e la saggezza, e prode guerrier sei fra tutti gli, Achivi,
per questo giorno, fine si ponga allo scontro e alla zuffa.
Un’altra volta, poi, torneremo a pugnare, sin quando
giudichi un Nume, e a uno dei due, la vittoria conceda.
Ora, la notte scende: conviene alla notte ubbidire,
sicché presso le navi tu possa far lieti gli Achivi
tutti, e gli amici più di tutti, e i diletti compagni;
e io torni alla grande città di Priamo, e lieti
tutti i Troiani, e tutte di Troia le donne eleganti
renda, che pregheranno per me nelle case dei Numi.
E l’uno e l’altro, su, scambiamoci fulgidi doni,
ché dir possa cosí ciascun degli Achivi e i Troiani:
«L’un contro l’altro questi pugnarono in lotta mortale,
ma poi, fatto un accordo, la pugna lasciar come amici».
Disse. E una spada gli offri, tutta ornata di borchie d’argento:
con la guaina la porse, con la cinghia di taglio elegante.
un cinto diede a lui, di porpora fulgido, Aiace.
Cosí furon divisi. L’un dessi tornò fra gli Achivi,
l’altro fra le falangi troiane
, e il frastuono. E i Troiani
furono lieti, quando lo videro incolume e vivo,
sfuggito all’ira e al pugno d’Aiace invincibile; e ad Ilio
lo ricondussero, quando perduta n’avean la speranza.
Dall’altra parte, poi, gli Achivi belligeri, Aiace
lieto di sua vittoria guidarono al figlio d’Atrèo.
Come alla tenda poi d’Agamènnone giunse, per essi
fece immolare l’Atride signore di genti, un giovenco
maschio, che aveva cinque anni, di Crono al possente figliuolo.
Tutta gli tolser la pelle, gli fecero a quarti le membra:
fattolo a pezzi minuti, lo infissero poi negli spiedi,
con cura lo arrostiron, poi tolsero tutto dal fuoco.
E poi che fu il lavoro cessato, e allestito il banchetto.
si banchettò, né alcuno restò con la brama del cibo.
Ed i filetti interi, donò, per sua parte, ad Aiace
l’eroe figlio d’Atrèo, Agamènnone, sire possente.

ettore 3
Il combattimento tra ettore e Aiace


Quando èbber poi sedata la brama del cibo e del vino,
incominciò tra loro per primo a intesser progetti
Nèstore, il cui consiglio sembrato era innanzi il migliore.
Pensando al loro bene, cosí prese questi a parlare:
«Atríde, e quanti siete piú forti fra tutti gli Achivi,
Achei molti, di già, dalla florida chioma son morti,
e il loro sangue negro d’intorno al veloce Scamandro
Marte feroce sparse, discesero l’anime all’Orco.
Quindi, convien che a l’alba diman tu sospenda la zuffa,
e che gli Achei, raccolte le salme, coi muli e coi bovi
qui le trascinin sui carri: qui poi li daremo alle fiamme,
tanto cosí lontano dai legni ché l’ossa d’ognuno
possano avere, quando si torni alla patria, i suoi figli.
una tomba s’innalzi d’intorno alla pira, indistinta
dalla pianura; e presso la tomba s’innalzino presto
eccelse torri, a noi riparo e alle navi; e costrutte
sian nelle torri porte di salda compagine, in guisa
che schiusa sia per esse la strada ai cavalli ed ai carri;
e fuori, innanzi a esse, si scavi una fossa profonda,
che tutto intorno giri, respinga i cavalli e i fanti,
sicché non ci soverchi l’assalto dei prodi Troiani».
Cosí diceva; e i prenci lodarono tutti i suoi detti.
Ed anche in Ilio sacra tenevan concione i Troiani,
con gran tumulto e grida, di Priamo presso a le porte.
E cominciò per primo Antènore saggio a parlare:
«Udite, voi Troiani, voi Dàrdani, e genti alleate,
ché udir possiate quello che il cuore m’impone ch’io dica.
Su’, dunque, Elena argiva si renda, con tutti i suoi beni,
che se la portin gli Atridi. Ché or, nella pugna, spergiuri
noi combattiamo: per questo giammai non avremo il vantaggio».
Come ebbe detto ciò, sedette. E il divino Alessandro,
d’Elena lo sposo, allor surse fra loro;
e a lui cosí rispose, parlò queste alate parole:
«Le tue parole a me non furono, Antènore, grate.
Certo potresti dire parole migliori di queste.
Se poi quello ch’ài detto, l’hai detto davvero, sul serio,
allora si, che i Numi t’avranno levato di senno!
Ma voglio tuttavia parlare ai guerrieri troiani,
e senza ambagi dico: non restituisco la donna;
ma i beni, quanti d’Argo ne addussi alla casa paterna,
restituire tutti li voglio, e aggiunger del mio
».
Com’ebbe detto ciò, sedette. E successe a parlare
Priamo, di Dàrdano figlio, l’uguale dei Numi per senno.
Esso, pensando al bene, parlò, disse queste parole:
«Udite, voi. Troiani, voi Dàrdani, e genti alleate,
ché udir possiate quello che il cuore m’impone ch’io dica.
Or, come al solito, dentro le mura, si pensi alla cena,
e si provveda alla guardia, ché ognuno sia vigile e desto.
Domani, all’alba, Idèo si rechi alle concave navi,
e dica ai due figliuoli d’Atrèo, condottieri di turbe,
quanto propone Alessandro, che origine fu della guerra.
Ed anche questa saggia proposta si faccia: che tregua
ora si ponga all’orrendo frastuono di guerra,
 sin quando
arse le salme abbiamo. Sarà poi ripresa la guerra,
sin che decida un Nume di chi pur sarà la vittoria».
Cosí diceva. E tutti l’udirono, e dieder consenso.
Fecero quindi, a schiere nel campo divisi, la cena.
E mosse Idèo, sul fare dell’alba, alle concave navi,
e i Dànaï trovò, valletti di Marte, a convegno,
presso alla poppa del legno del sire Agamènnone. Stette
fra loro, e disse queste parole l’araldo canoro:
«Atrídi, e quanti siete qui primi fra tutti gli Achivi,
Priamo, e seco gli altri valenti Troiani, m’impose
ch’io vi dicessi, se pure l’udirlo v’aggradi e vi piaccia,
quanto propone Alessandro, che origine fu della guerra.
I beni tutti, quanti sovresse le concave navi
ei n’ha recati a Troia — deh!, prima cosí fosse morto! —
ei tutti quanti vuole ridarveli, e aggiunger del proprio;
ma non di Menelao ridar la bellissima sposa
vuole
, per quanto a ciò lo esortino tutti i Troiani.
Questa proposta ancora mi disse, se mai vi piacesse:
che si sospenda l’orrendo furore di guerra, sin quando
arse le salme abbiamo.
 Sarà poi ripresa la guerra,
sin che decida un Nume a chi pur darà la vittoria».
Cosí diceva; e tutti rimasero a lungo in silenzio.
Pure, alla fine, parlò Dïomede, alto grido di guerra:
«Nessuno accetti mai, né i doni che v’offre Alessandro,
né pure Elena. È chiara cosí, da vederlo un fanciullo
che sui Troiani oramai sovrasta l’estrema rovina».
Cosí diceva. Ed alto levarono un grido d’assenso
tutti gli Achivi, ammirando, per ciò ch’egli disse, il Tidíde;
Agamènnone queste parole rivolse all’araldo:
«Idèo, tu stesso l’odi, che cosa rispondon gli Achivi:
la lor parola è chiara; né ciò che a me piace è diverso.
Quanto alle salme, oppormi non so che si diano alle fiamme
ché niuno impedimento pei corpi si fa degli estinti,
quando la vita han persa, che tosto si plachin col fuoco.
E Giove, sposo d’Era, sia vigile ai patti giurati».
Cosí disse; e invocò tutti i Numi, levando lo scettro.
E Idèo fece ritorno di nuovo alla rocca di Troia
Stavano quivi accolti coi Dàrdani in piazza i Troiani,
e attendevano, insieme ristretti, che Idèo pur tornasse.
Ed ecco, egli tornò. Fermandosi in mezzo a la folla,
die’ la risposta. E quelli si mossero, tolti gli arnesi,
questi a raccoglier le salme, quegli altri nel bosco, a far legna.
Cosi, dall’altra parte, dai legni si mosser gli Achivi,
questi a raccoglier le salme, quegli altri nel bosco a far legna.
Il sole allora allora scagliava sui campi i suoi raggi,
surto dal placido corso, dai gorghi d’Ocèano profondi
salendo al cielo. E qui s’incontrarono Achivi e Troiani.
E qui, difficile era distinguere un corpo dall’altro.
Ma pure, via con l’acqua tergendone i grumi del sangue,
versando caldo pianto, le salme levaron sui carri.
Ma Priamo proibiva che pianto versassero; e muti,
pieni di cruccio il cuore, sui roghi ammucchiarono i morti;
e poi, dopo bruciati, tornarono ad Ilio la sacra.
Cosi, dall’altra parte, gli Achivi dai vaghi schinieri,
pieni di cruccio il cuore, sui roghi ammucchiarono i morti:
e poi, dopo bruciati, tornarono ai concavi legni.
ancor l’alba non era, ma incerto bagliore di notte,
quando alla pira intorno d’Achivi, uno scelto drappello
s’accolse, e intorno ad essa levarono un tumulo
 solo
nella pianura; e ad esso vicino costrussero un muro,
sul muro eccelse torri, ripari alle navi e a sé stessi,
e vi dischiusero porte di salda compagine, in guisa
che aperta fosse qui la strada ai cavalli e ai carri.
Fu poi dal lato esterno del muro scavata una fossa
grande, profonda, larga, confitti vi furono pali.
Stavan cosí gli Achei dalle floride chiome al travaglio.
i Numi, presso Giove, che i folgori avventa, seduti,
stupivan degli Achei loricati di bronzo, le gesta.
Ed a parlare prese fra loro Posídone, e disse:
«Deh!, Giove padre, qual uomo piú mai su la terra infinita
agli Immortali vorrà svelar ciò che crede e che sente?
Or non vediamo noi che gli Achei dalla florida chioma
hanno levato un muro dinanzi alle navi, e una fossa
hanno scavata, e ai Numi non hanno immolata ecatombe?
Dovunque Aurora sorge, sarà questo muro famoso,
e quello oblieranno che io con Apolline Febo
già costruimmo per Laömedonte, e fu grave fatica!».
E a lui crucciato, Giove che i nugoli aduna, rispose:
«Ahimè, Nume possente che scuoti la terra, che dici?
Altri, se mai, fra i Numi, di questo potrebbe temere,
che assai fosse di te piú fiacco e di mani e d’ardire.
La gloria tua sarà dovunque rifulga l’Aurora.
Animo, dunque, allorché gli Achei dalle floride chiome
faranno, essi e le navi, ritorno alla terra nativa,
tu la muraglia spezza, disperdila tutta nel mare;

e poi la spiaggia grande di nuovo ricopri di sabbia:
sia degli Achei cosí da te la muraglia distrutta».
Queste parole cosí scambiavano l’uno con l’altro.
E il sol s’immerse, e l’opra compiuta era già degli Achivi.
buoi presso le tende sgozzarono, e presero il pasto.
E poi, giunsero navi da Lemno, e recarono vino,
molto: lo avea mandato Evèno figliuol di Giasone,
cui generava a Giasone, signore di genti, Issipíle;
or, per i due figliuoli d’Atrèo condottieri di turbe,
mille misure mandò di vin pretto il figliuol di Giasone.
Vino da lui compravan gli Achei dalle floride chiome,
e davano in compenso, chi bronzo, chi lucido ferro,
altri di bove pelli, ed altri gli stessi giovenchi,
ed altri, schiavi. Lauto cosí fu allestito il banchetto.
Tutta la notte, gli Achei dalla florida chioma nel campo,
e i Troiani in città banchettaron coi loro alleati:
tutta la notte Giove per essi annunziò la sciagura,
terribilmente tonando. Invasi di bianco terrore,
quelli lasciavano il vino cader dalle coppe; e nessuno
bevve, che non avesse libato al possente Croníde.
Giacquero poscia. E tutti goderono i doni del sonno.

AIACE

Aiace è una figura della mitologia greca, leggendario eroe, figlio di Telamone re di Salamina e di Peribea. Era sposo di Tecmessa, schiava e concubina frigia, e padre di un unico figlio, Eurisace. È uno dei protagonisti dell'Iliade di Omero e del Ciclo epico, cioè quel gruppo di poemi che narrano le vicende della Guerra di Troia e quelle collegate a questo conflitto. Per distinguerlo dal suo omonimo Aiace Oileo, viene chiamato con il patronimico di "Telamonio", o, più raramente, "Aiace il Grande". Nell'Iliade, Aiace viene descritto come il più alto tra gli achei, dotato di una robusta corporatura, secondo solo al cugino Achille quanto a forza negli scontri; è giudicato un autentico pilastro dell'esercito greco. Si racconta che poco prima della nascita dell'eroe, Eracle, grande amico del padre di Aiace, lo aveva trovato a Salamina a banchettare con i suoi amici. All'eroe fu subito offerta tra le mani una coppa aurea di vino e l'amico lo invitò a libare a suo padre Zeus. Eracle, che aveva visto che la madre del piccolo, Peribea, era sul punto di partorire, dopo aver libato tese le braccia al cielo e pregò così il padre: "O Padre, concedi a Telamone uno splendido figlio, con la pelle dura come quella del leone ed equivalente coraggio!". È stato educato dal centauro Chirone, che era stato istitutore anche del padre Telamone, da Peleo, padre di Achille, e da Achille stesso. Dopo il cugino, Aiace era il più valoroso guerriero dell'esercito guidato da Agamennone, sebbene non fosse dotato della stessa sagacia di Nestore, Idomeneo e, naturalmente, Odisseo. Si poneva alla testa dei suoi soldati, brandendo un'enorme scure e portando un largo scudo di bronzo, ricoperto con sette strati di pelle di bue. Uscì indenne da tutte le battaglie descritte dall'Iliade ed è l'unico tra i protagonisti del poema a non ricorrere mai all'aiuto di uno degli dei schierati al fianco delle parti in lotta. È l'incarnazione stessa delle virtù della costanza negli impegni e della perseveranza. Nell'Iliade, Aiace compie molte imprese valorose. Nel quarto libro colpisce con la lancia il giovane guerriero troiano Simoesio, uccidendolo. Quindi dimostra il suo coraggio nei duelli contro Ettore. Nel settimo libro, Aiace viene sorteggiato per scontrarsi con Ettore e disputa così un duello che si protrae quasi per un giorno intero. All'inizio sembra riuscire a vincere e riesce a ferire Ettore con la sua lancia e a gettarlo a terra, colpendolo con una grossa pietra, ma poi Ettore si riprende e il combattimento continua finché gli araldi, su ordine di Zeus, stabiliscono che lo scontro è pari: i due uomini si scambiano doni in segno di rispetto. Il secondo duello tra Aiace ed Ettore si verifica quando il troiano entra violentemente nell'accampamento acheo e affronta i greci in mezzo alle loro navi. Aiace scaglia contro Ettore un grosso sasso, che per poco non lo uccide. Nel XV libro, Apollo cura Ettore e gli restituisce le forze. Così, questi torna all'attacco. Aiace riesce intanto a tenere lontano l'esercito troiano praticamente da solo. Nel libro successivo, Ettore disarma Aiace, sebbene non lo abbia ferito, e questi è costretto a ritirarsi, mentre i troiani incendiano una delle navi. Aiace, però, prima che Ettore gli mozzasse di netto la punta dell'asta, e prima che l'incendio divampasse sulla nave di Protesilao, reagì all'atto di appiccare il fuoco alle sue navi, uccidendo molti guerrieri nemici, tra i quali il signore della Frigia, Forci, alleatosi coi troiani. A causa del suo litigio con Agamennone, Achille non partecipa a questi scontri. Nel IX libro, Agamennone e gli altri capi achei inviano Aiace, Odisseo e Fenice nella tenda di Achille per convincerlo a tornare in battaglia. Sebbene Aiace faccia del suo meglio, la missione fallisce. Durante l'assalto troiano alle navi greche, l'amico di Achille, Patroclo (che aveva tentato di impersonarlo per dare coraggio ai greci), viene ucciso da Ettore, che cerca di prenderne il cadavere e di darlo in pasto ai cani. Aiace, insieme a Menelao, lotta duramente per impedirglielo e alla fine riporta indietro il corpo con un carro all'accampamento e lo consegna ad Achille, che, furioso di dolore, deciderà di tornare a combattere. Aiace Telamonio si preparò a contrattaccare i Troiani, allorché, guidati dalla regina Pentesilea e dalle Amazzoni, avanzarono sul campo di battaglia riempiendo la pianura di cadaveri. Sfiorato da un dardo di Pentesilea, che gli aveva appena scalfito l'elmo, l'eroe rinunciò a scontrarsi con la donna, giudicando una preda così facile degna del cugino. Achille, dopo aver ucciso Ettore in duello, per vendicare Patroclo, in seguito cadrà ucciso per mano di Paride: Aiace e Odisseo combattono contro i troiani per strappare loro il corpo dell'eroe caduto. Aiace, roteando la sua immensa ascia, si occupa di tenere lontani i troiani, mentre Odisseo carica Achille sul suo carro e lo porta via. Durante questa battaglia, Aiace compie sanguinosi prodigi massacrando Glauco, figlio di Ippoloco e sovrano licio, e ferendo Enea e Paride gravemente. Dopo la cerimonia funebre, entrambi gli eroi reclamano il diritto di tenere per sé le armi di Achille come riconoscimento del loro valore: alla fine, dopo alcune discussioni, è Odisseo a spuntarla e Aiace, accecato dal dolore, decide di vendicarsi dei responsabili del verdetto la sera stessa. Al suo risveglio, impazzito a causa di un incantesimo lanciatogli da Atena, si lancia contro un gregge di pecore e le massacra, credendo di uccidere gli Atridi, ovvero Agamennone e Menelao. Rientrato in sé, si vede coperto di sangue e capisce che cosa abbia in realtà fatto: perduto in questo modo l'onore, preferisce suicidarsi piuttosto che continuare a vivere nella vergogna. Si lancia sulla spada che Ettore gli aveva donato alla conclusione del loro duello. Dal terreno intriso del suo sangue spunta un fiore rosso (come era accaduto anche al momento della morte di Giacinto), che porta sulle sue foglie le lettere Ai, che rappresentavano sia le iniziali del suo nome che il dolore del mondo per la sua perdita. Le sue ceneri vennero deposte sul promontorio Reteo, all'ingresso dell'Ellesponto. Questo racconto della morte di Aiace si trova nella tragedia Aiace, scritta da Sofocle, nelle Nemee di Pindaro e ne Le metamorfosi di Ovidio, e di Foscolo in cui l'eroe incarna l'ideale di ribellione nei confronti del tiranno, mentre Omero, nell'Odissea, si mantiene sul vago, riferendo soltanto che la sua morte avvenne a causa della disputa per le armi di Achille: durante il suo viaggio nell'Ade, Odisseo incontrerà l'ombra di Aiace e lo pregherà di parlargli, ma Aiace, ancora risentito nei suoi confronti, rifiuterà e ritornerà silente nell'Erebo; una seconda ipotesi afferma che, come era successo con Achille, Aiace nell'Ade abbia cambiato la sua natura: da guerriero a uomo semplice, quindi Aiace potrebbe aver perdonato Odisseo, ma, non avendo bevuto il sangue necessario alle ombre dell'Ade per parlare e perciò non abbia parlato. Ma quello che Aiace e Odisseo non sanno è che le armi di Achille, che ormai Odisseo non possiede più, sono state portate sulla tomba di Aiace mentre parlano nell'Ade. Aiace era figlio di Telamone, che a sua volta era figlio di Eaco e nipote di Zeus e della sua prima moglie, Peribea. Era anche cugino di Achille, il più forte e famoso degli eroi greci, e fratellastro di Teucro. Sua moglie fu Tecmessa, una concubina frigia, Molti ateniesi illustri, tra i quali Cimone, Milziade, Alcibiade e lo storico Tucidide sostennero di essere discendenti di Aiace. Anche in Italia il culto di Aiace quale mitico avo di varie famiglie era diffuso. Lo studioso Maggiani ha recentemente mostrato come su una tomba etrusca dedicata a Racvi Satlnei a Bologna (V secolo a.C.) vi sia riportata l'espressione 'aivastelmunsl = della stirpe di Aiace Telamonio', insieme a una raffigurazione del suicidio di Aiace, come insegna araldica della famiglia etrusca Satlna. Nel 2001, l'archeologo Yannos Lolos cominciò degli scavi nelle rovine di un antico palazzo miceneo, sull'isola di Salamina, che si pensa sia potuto essere la reggia di Aiace. Le rovine sono state portate alla luce nei pressi del villaggio di Kanakia di Salamina, a pochi chilometri al largo di Atene. La struttura copre un'area di 750 m² ed è composta da una trentina di stanze. Pare essere stata abbandonata all'incirca all'epoca della Guerra di Troia

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Traduzione di Ettore Romagnoli

Eugenio Caruso - 16 - 08 - 2021

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