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Omero, Iliade, Libro XI. Gli Achei in difficoltà.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.

criseide
Crise si appella ad Agamennone per riavere la figlia. Vaso attico del 360 AC.


RIASSUNTO XI LIBRO

La Discordia alza il grido di guerra. Agamennone fa armare e conduce alla battaglia le schiere. Pugna dubbiosa da prima. Agamennone prevale. Giove spedisce Iride a Ettore per ordinargli di starsi in disparte finchè non vegga Agamennone ritirarsi ferito alle navi. Morte d’Ifidamante e di Coone. Prodezze di Ettore, visto Agamennone ferito. Diomede e Ulisse gli si oppongono. Paride ferisce Diomede che è costretto a ritirarsi. Ulisse circondato dai troiani, li rispinge da sè. Uccide Soco, da cui era stato ferito. È protetto da Aiace e condotto da Menelao fuori della mischia. Macaone, ferito da Paride, viene ricondotto da Nestore nella sua tenda. Ettore sbaraglia il campo greco, mentre in altra parte Aiace fa strage di Troiani. Ritirata di Aiace. Achille, parendogli di vedere Macaone che parta ferito, manda Patroclo il quale s’accerti chi sia quell’eroe. Patroclo, abboccatosi con Nestore, è da lui pregato a tentare d’indurre Achille a combattere pei Greci, o ad acconsentire almeno ch’egli stesso venga rivestito delle armi dell’amico in loro soccorso. Patroclo, ritornando, scontrasi in Euripilo ferito da Paride, lo mena alla sua tenda e ne medica la piaga.

TESTO LIBRO XI

Aurora si alzava dal suo letto, a fianco del nobile Titone,                            1

per portare la luce agli uomini e agli immortali

Zeus allora mandò alle rapide navi degli Achei

la tremenda Eris, con in mano un segnale di guerra.

Si piantò accanto alla nave nera, dal vasto ventre, di Odisseo:                 5

era proprio al centro, per farsi sentire da una parte e dall’altra,

dalle tende di Aiace Telamonio sino a quelle

di Achille (i due che avevano tratto in secco le navi bilanciate

agli estremi del campo, fidando nel proprio valore e nella loro forza).

In piedi lassù, la Dea lanciò un urlo potente, spaventoso,                           10

acutissimo: mise nel petto degli Achei l’energia e la forza

(nel cuore di ognuno) per combattere e lottare.

A un tratto, per loro la battaglia era più dolce del ritorno

sulle concave navi nella terra dei padri.

L’Atride allora levò un grido e diede ordine agli Argivi                                  15

di cingere le armi: anche lui indossò il fulgido bronzo.

Prima si mise intorno alle gambe gli schinieri

eleganti: se li allacciava con fibbie d’argento.

Quindi, vestì la corazza sul suo petto:

gliela aveva data un giorno Cinira quale dono ospitale.                                    20

Aveva appreso la grande notizia, giunta fino a Cipro, che gli Achei

stavano per salpare con la flotta alla volta di Troia:

allora, per fare cosa gradita al sovrano, gliene fece dono;

era placcata a strisce, dieci di smalto scuro,

dodici d’oro e venti di stagno;                                                                       25

serpenti di smalto si inarcavano sino al collo:

erano tre sul petto e tre sul dorso, come arcobaleni che il Cronide

posa immobili tra le nubi, come segno augurale per i mortali;

poi si appese la spada a tracolla: vi splendevano sopra

borchie d’oro, intorno alla lama un fodero                                                      30

d’argento, attaccato a pendagli d’oro.

Prese lo scudo ampio, robusto, ben lavorato:

era bellissimo; aveva dieci cerchi di bronzo,

sopra c’erano venti placche di stagno,

tutte bianche: al centro ce n’era una di smalto nero.                                     35

Sulla superficie era raffigurata la Gorgone

dallo sguardo tremendo: e intorno Deimos e Fobos;

vi era attaccata una cinghia d’argento e intorno

snodava le sue spire un serpente di smalto con tre teste

attorcigliate che uscivano da un unico collo.                                                 40

Sul capo si mise un elmo a doppio cimiero con quattro borchie,

con una criniera di cavallo: la cresta oscillava paurosamente

sull’elmo. Afferrò due lance robuste dalla punta di bronzo,

ben aguzze: il metallo mandava i bagliori lontano,

fino al cielo. Hera e Atena tuonarono,                                                          45

per rendere onore al re di Micene.

mascxhera di a
La cosiddetta maschera di Agamennone.


Allora ogni eroe dava ordine al suo auriga

di tenere in ordine i cavalli, non lontano dal fossato;

i fanti, armati da capo a piedi, con le corazze in petto,

accorrevano: prima dell’alba un grande clamore si levò.                                   50

Si schierarono lungo il fossato, molto avanti ai carri;

i carri venivano a breve distanza. Il Cronide fece risuonare

un boato tremendo e mandò giù dall’alto del cielo

una pioggia intrisa di sangue, perché doveva

sprofondare nell’Ade molte anime di guerrieri.                                             55

I Troiani dall’altro lato, sulla parte alta della pianura,

stavano intorno al grande Ettore, al perfetto Polidamante,

ad Enea, che i Troiani veneravano come un Dio,

ai tre figli di Antenore: Polibo, il divino Agenore

e il giovane Acamante simile agli immortali.                                              60

In prima fila Ettore reggeva lo scudo ben bilanciato;

come, fuori dalle nubi, appare l’astro maligno

(tutto splendente) e poi sprofonda nelle nuvole ombrose:

così lui appariva a volte tra le prime file dei soldati,

a volte tra le ultime, a dare ordini. Il bronzo                                                   65

brillava come la folgore del padre Zeus Egioco.

Come i mietitori, gli uni di fronte agli altri, avanzano

seguendo il solco, nel campo di frumento o di orzo

del ricco padrone (cadono fitti i mannelli);

così i Troiani e gli Achei si avventavano addosso,                                     70

si massacravano, non pensavano alla fuga.

L’esito della battaglia era incerto; come lupi i due eserciti

infuriavano. Eris luttuosa godeva a quella vista:

lei sola, tra tutti gli Dei, stava in mezzo ai combattenti.

Gli altri invece non erano presenti, ma se ne stavano                             75

in pace nelle loro stanze, dove ciascuno aveva

il suo bel palazzo costruito tra le valli dell’Olimpo.

E tutti accusavano il Cronide, il dio delle nuvole nere,

di voler concedere ai Troiani la gloria.

Ma il padre non se ne curava: in disparte, tutto solo,                                  80

era seduto lontano dagli altri, fiero della sua potenza;

contemplava la città dei Troiani e le navi degli Achei:

il bagliore del bronzo, quelli che uccidevano e che morivano.

Fino a quando era mattino e cresceva il sacro giorno,

da entrambe le parti i dardi partivano e gli uomini morivano;                            85

giunta l’ ora in cui il boscaiolo si prepara il pasto

fra le gole della montagna (si è stancato le braccia

a tagliare alberi altissimi, è molto affaticato

e lo prende il desiderio del cibo ristoratore)

ecco che i Danai grazie al loro valore ruppero le linee nemiche,                           90

urlando tra i ranghi per incitarsi; tra di loro Agamennone

andò per primo all’assalto: uccise Bienore pastore di popoli

e poi il suo compagno Oileo, l’auriga;

questi era saltato giù dal carro e l’aveva affrontato:

ma lui lo colpì mentre gli si avventava contro, in mezzo alla fronte,                           95

con la lancia aguzza: l’elmo pesante di bronzo non resse l’urto;

l’asta trapassò l’elmo e l’osso: dentro, il cervello

si spappolava tutto; così l’uomo venne abbattuto nel suo slancio.

Agamennone sovrano di popoli li lasciò lì entrambi,

con il petto nudo biancheggiante, dopo aver preso le tuniche.                                  100

Poi si mosse per uccidere Iso e Antifo:

erano due figli di Priamo, uno legittimo e l’altro bastardo, e stavano

entrambi sullo stesso carro; il bastardo reggeva le briglie,

il glorioso Antifo combatteva al suo fianco. Un giorno Achille

li aveva legati tra le gole dell’Ida con giunchi pieghevoli,                                                      105

cogliendoli di sorpresa a pascolare le pecore: poi li lasciò liberi

dietro riscatto. Il figlio di Atreo, il potente Agamennone,

ne colpì uno in pieno petto con la lancia, sopra la mammella;

ferì Antifo con un fendente vicino all’orecchio, lo buttò giù dal carro.

Si affrettò poi a spogliarli delle belle armature,                                                                       110

nel riconoscerli: li aveva già veduti presso le rapide navi,

quella volta che, dal monte Ida, li portò Achille dal piede veloce.

Come un leone stritola con facilità i cuccioli

di un’agile cerva, nella stretta dei denti robusti,

non appena entra nella tana e toglie loro la gracile vita:                                                        115

ed essa non può aiutarli, anche se è lì vicino,

perché un tremito terribile la invade;

balza via veloce attraverso le fitte boscaglie e la selva,

tutta sudata, affannata, sotto la furia della belva invincibile;

così nessuno poteva evitare la loro rovina,                                                                              120

tra i Troiani: tutti fuggivano sotto l’urto degli Argivi.

Quindi toccò a Pisandro e all’intrepido Ippoloco,

figli del bellicoso Antimaco (costui, più di ogni altro,

avendo preso oro da Alessandro – splendidi doni —

si opponeva alla restituzione di Elena al biondo Menelao);                                                  125

il sovrano Agamennone piombò addosso ai suoi figli:

stavano sullo stesso carro e cercavano insieme di tenere

i cavalli veloci poichè erano sfuggite loro di mano le lucide briglie;

le bestie si inalberavano. Come un leone balzò loro addosso

il figlio di Atreo; loro lo supplicavano dal carro:                                                                     130

“Prendici vivi, figlio di Atreo! Accetta un giusto riscatto!

Ci sono tanti tesori nella casa di Antimaco,

oro e bronzo e ferro ben lavorato.

Nostro padre ti darà un immenso riscatto per liberarci,

se sa che siamo ancora in vita presso le navi degli Achei”.                                                    135

Così piangendo i due si rivolgevano al re

con dolci parole. Ma ebbero una risposta dura:

“Voi siete dunque i figli del bellicoso Antimaco,

che un giorno, nell’assemblea dei Troiani, diceva che Menelao

(quando venne in ambasciata con il grande Odisseo)                                                            140

doveva essere ucciso e che non doveva tornare dagli Achei!

Adesso pagherete l’infame oltraggio di vostro padre!”.

Così disse e spinse Pisandro giù dal carro, a terra,

con un colpo di lancia nel petto: lui stramazzò al suolo.

Ippoloco allora saltò giù ma Agamennone lo uccise:                                                              145

gli tagliava le mani con la spada; gli mozzava il collo,

facendoglielo rotolare come un rullo, in mezzo alla folla.

Lo lasciò lì e, dove le schiere si battevano più fitte,

lui accorreva; e con lui gli altri Achei dai solidi schinieri:

i fanti facevano strage dei fanti, costretti alla fuga,                                                                150

i cavalieri uccidevano i cavalieri; sotto di loro, s’innalzava la polvere

del piano, sollevavata dai piedi risuonanti dei cavalli:

con le armi di bronzo facevano strage. Agamennone sovrano

si buttava all’inseguimento, trucidava, esortava gli Argivi.

Come quando un fuoco distruttore si abbatte su una selva vergine,                                    155

il vento vorticoso lo espande dappertutto, le piante

cadono di schianto, investite dalla furia dell’incendio;

Così sotto l’assalto dell’Atride Agamennone cadevano le teste

dei Troiani in fuga, molti cavalli superbi

trascinavano i carri vuoti per il campo di battaglia,                                                               160

privi dei loro aurighi. Essi giacevano

sul terreno, più cari ormai ai rapaci che alle mogli.

Ma Zeus proteggeva Ettore dalla frecce e dalla polvere,

dal massacro degli uomini, dal sangue e dal trambusto;

l’Atride inseguiva implacabile, incitava i Danai.                                                                     165

I Troiani nel piano andarono oltre il monumento sepolcrale di Ilo,

l’antico Dardanide, e ancora oltre il caprifico,

puntando verso la città. Con alte grida incalzava

l’Atride, si lordava di sangue le mani invincibili.

Ma quando giunsero alla quercia delle porte Scee,                                                                 170

allora si fermarono e aspettarono gli altri.

Altri fuggivano spaventati nella piana: sembravano giovenche

che un leone, uscito nel cuore della notte, fa scappare

tutte insieme: a una sola però tocca una morte terribile:

le spezza il collo, con la stretta dei denti robusti,                                                                    175

per prima cosa, poi ne divora il sangue e le viscere;

così dava addosso l’Atride Agamennone sovrano,

uccidendo sempre chi rimaneva indietro; gli altri scappavano.

Molti caddero giù dai carri, riversi o supini,

sotto i colpi dell’Atride: imperversava con la lancia.                                                              180

Ma quando stava per raggiungere la città,

sotto le alte mura, allora il padre degli uomini e degli Dei

si mise a sedere in vetta all’Ida ricca di sorgenti,

sceso dal cielo: teneva la folgore in mano.

Subito inviava Iris dalle ali d’oro con un messaggio:                                                              185

“Vai, rapida Iris, e riferisci a Ettore il mio volere!

Fino a quando vede Agamennone signore di popoli

infuriare tra le prime file e trucidare schiere di guerrieri,

lui si tiri indietro e dia ordine agli altri guerrieri

di combattere con i nemici nella battaglia cruenta.                                                                190

Ma quando sarà ferito da una lancia o da una freccia

e salirà sul suo cocchio, allora io gli darò la forza

di fare strage, finché arriverà alle solide navi, quando

il sole tramonterà e sopraggiungerà la notte sacra”.

Così parlava e prontamente obbedì la rapida Iris dai piedi di vento,                                   195

si avviò giù dalle cime dell’Ida verso la sacra Ilio.

Qui trovò il figlio del saggio Priamo, il divino Ettore,

in piedi sul suo solido carro, con i cavalli davanti.

Iris dai celeri piedi gli si mise vicino e parlò:

“Ettore, figlio di Priamo, pari a Zeus in saggezza:                                                                  200

il padre Zeus mi ha mandato qui a dirti queste parole:

fino a quando vedi Agamennone signore di popoli

infuriare tra le prime file e trucidare schiere di guerrieri,

tirati indietro e dai ordine agli altri guerrieri

di combattere con i nemici nella battaglia cruenta.                                                               205

Ma quando sarà ferito da una lancia o da una freccia

e salirà sul suo cocchio, allora lui ti darà la forza,

di fare strage, finché arriverai alle solide navi, quando

il sole tramonterà e sopraggiungerà la notte sacra”.

Così disse Iris dai piedi veloci; e se ne andò via.                                                                     210

Ettore allora saltò giù dal carro a terra, armi in pugno:

brandendo due lance aguzze correva in mezzo al campo,

incitava a combattere: voleva risvegliare la dura lotta.

Quelli si rigirarono e fecero fronte agli Achei:

gli Argivi, dall’altro lato, serrarono le file.                                                                                215

Si riaccese lo scontro, i due eserciti si fronteggiavano. Agamennone

andò per primo all’assalto, ben deciso a battersi davanti a tutti.

Ditemi ora, o Muse che avete le case sull’Olimpo,

chi fu il primo a muovere incontro ad Agamennone,

fra i Troiani e i loro famosi alleati.                                                                                            220

Era Ifidamante, figlio di Antenore, valoroso e di grande statura,

che era cresciuto nella fertile Tracia, madre di greggi.

L’aveva allevato nel suo palazzo, da piccolo, il nonno

Cisse, padre di Teanò dalle belle guance;

quando poi raggiunse il pieno della splendida giovinezza,                                                   225

lo trattenne presso di sè e gli diede in moglie sua figlia.

Ma lui, appena sposato, lasciò il talamo, dopo la venuta degli Achei:

dodici navi ricurve lo seguivano;

Lasciò poi a Percote le sue navi ben bilanciate

e giunse via terra sino ad Ilio:                                                                                                   230

ed era proprio lui che affrontò l’Atride Agamennone.

Avanzarono uno verso l’altro, erano ormai vicini:

l’Atride fallì il colpo, la lancia deviò di lato.

Ifidamante invece lo colpì al di sotto della corazza,

alla cintura, poi spinse con il braccio, sicuro della sua forza.                                               235

Non riuscì a forare la cinta variegata, la punta molto prima

si piegò come piombo nell’urtare l’argento.

Allora il potente Agamennone afferrò l’arma con la mano

 

e la tirò verso di sé, furioso come un leone: gliela strappò

di mano. Poi con la spada lo colpì al collo e gli sciolse le membra.                                     240

L’altro cadde giù steso, addormentandosi in un sonno di bronzo

(l’infelice!). Era lì per difendere i suoi concittadini, lontano dalla sposa,

giovinetta ancora. Non poté goderne, anche se aveva fatto i doni nuziali:

prima aveva dato per lei cento buoi, poi aveva promesso altri mille capi,

tra pecore e capre, che possedeva in numero immenso.                                                        245

Quel giorno l’Atride Agamennone lo spogliò,

e si portò via le belle armi, tra la folla degli Achei.

 

Quando lo vide Coone, glorioso tra gli uomini,

il più anziano dei figli di Antenore, un violento dolore

gli offuscò la vista: era morto suo fratello!                                                                              250

Si appostò di lato con la sua lancia, di nascosto dal divino Agamennone,

e lo ferì in mezzo al braccio, al di sotto del gomito.

La punta dell’asta lucente lo passò da parte a parte.

Rabbrividì allora Agamennone, signore di popoli,

ma neppure così si ritirò dalla lotta e dalla battaglia:                                                            255

anzi assaltò Coone con la sua lancia di legno indurito dai venti.

Lui stava trascinando per un piede Ifidamante, fratello

anche per parte di padre, e chiamava in aiuto i più prodi.

Mentre lo tirava attraverso la calca, sotto lo scudo ombelicato,

l’altro lo ferì con l’asta dalla punta di bronzo e gli ruppe le membra;                                 260

poi si accostò  e gli mozzò la testa sopra il corpo di Ifidamante.

Così allora i due figli di Antenore, per mano dell’Atride sovrano,

compivano il loro destino e sceserò così nella casa di Ade.

Il sovrano si avventava sulle schiere degli altri combattenti

con la lancia, con la spada e con grossi macigni,                                                                    265

finchè il sangue gli sgorgava caldo dalla ferita.

Ma poi la piaga si asciugò e il sangue finì di colare:

allora strazianti dolori fiaccarono la forza dell’Atride.

Come quando una donna, tra le doglie, è presa da una freccia aguzza,

lancinante, che mandano le Ilitie, le Dee del parto                                                                270

(sono figlie di Hera e portano amari travagli),

così acuti erano i dolori che fiaccavano la forza dell’Atride.

Saltò allora sul carro e diede ordine all’auriga

di correre verso le navi ricurve: sentiva un grande dolore.

Intanto gridava forte, facendosi udire dai Danai:                                                                   275

“Amici, condottieri e capi degli Argivi,

difendete ora voi ora le navi che solcano il mare

dal tremendo assalto. Il sapiente Zeus

non mi ha concesso di combattere i Troiani l’intera giornata”.

Così disse. L’auriga frustò i cavalli                                                          280

verso le navi ricurve: ed essi di buona lena presero il volo;

avevano la schiuma sino al petto, sotto si insozzavano di polvere

portando lontano dalla battaglia il re dolorante.

Ettore, quando vide che Agamennone andava via,

spronava Troiani e Lici, gridando a voce spiegata:                                                                285

“Troiani e Lici e voi Dardani combattenti:

siate uomini, amici, e pensate all’aspra lotta!

Se ne è andato il guerriero più valoroso; Zeus Cronide

mi ha promesso un grande trionfo. Spingete i cavalli

contro i Danai, se volete acquistare onore e gloria”.                                                     290

Così diceva ed acuiva l’energia e il coraggio di ciascuno.

Come quando un cacciatore aizza i suoi cani

contro un cinghiale selvaggio o un leone:

così contro gli Achei aizzava i Troiani animosi

Ettore figlio di Priamo, simile ad Ares sterminatore.                                                  295

Egli stesso avanzava tra le prime file, baldanzoso e superbo,

e piombò nella mischia: sembrava una tempesta di vento,

che abbatte dall’alto e sconvolge il mare violaceo.

Chi uccise per primo, a chi tolse le armi da ultimo

Ettore il Priamide, quando Zeus gli concesse gloria?                                                            300

Il primo fu Aseo, poi Autonoo e Opite;

e Dolope figlio di Clito, Ofelzio e Agelao;

quindi Esimno e Oro e l’intrepido Ipponoo.

Questi i capi dei Danai che lui uccise: poi si lanciava

sulla massa; come quando Zefiro disperde le nubi addensate                                             305

dall’impetuoso Noto, investendole con raffiche profonde;

le onde gonfie si agitano, sull’onda la schiuma

si espande sotto il fischiare del vento errante:

fitte così cadevano le teste dei guerrieri per mano di Ettore.

Allora avvenne uno sterminio, un disastro irreparabile;                                                       310

gli Achei si sarebbero buttati in fuga sulle navi,

se Odisseo non avesse gridato al Tidide Diomede:

“Tidide, cosa succede? Non sappiamo più batterci?

Vieni qui, mio caro: stammi vicino; sarebbe un’infamia,

se Ettore riuscisse a prendere le navi”.                                             315

A lui rispose di rimando il forte Diomede:

“Sono pronto a resistere e a tenere duro. Ma per poco

avremo da star allegri. Lo vedi, Zeus adunatore di nembi

vuole dare la vittoria ai Troiani e non a noi”.

Così disse e gettò Timbreo a terra, giù dal carro,                                                                   320

con un colpo di lancia alla mammella sinistra; Odisseo

uccideva il suo scudiero Molione, simile a un Dio.

Dopo averli messi fuori combattimento, li lasciarono lì;

avanzarono insieme nella turba nemica; come quando due cinghiali

si lanciano orgogliosi contro i cani da caccia:                                                                          325

così, nel tornare all’attacco, facevano strage di Troiani. Gli Achei,

in rotta davanti al grande Ettore, riprendevano fiato, con gioia.

I due presero un carro e due guerrieri, i più prodi del loro paese:

erano i figli di Merope, nato a Percote, che più di ogni altro

conosceva l’arte dell’indovino; non voleva che i suoi ragazzi                                               330

andassero alla guerra omicida; ma questi nonvgli diedero

retta; li trascinava il destino della nera morte.

Il Tidide Diomede, famoso per i suoi tiri di lancia,

li privò del respiro e della vita, e li spogliò delle armi;

Odisseo uccise Ippodamo e Ipeiroco.                                                                                       335

Allora il Cronide ristabilì l’equilibrio nello scontro:

stava a guardare dall’Ida, mentre si trucidavano a vicenda.

Ecco, il figlio di Tideo con l’asta colpì sull’anca Agastrofo,

l’eroe figliolo di Peone: non aveva lì vicino i suoi cavalli,

per fuggire via; era stato davvero un folle.                                                                              340

Glieli teneva in disparte il suo scudiero, mentre lui a piedi

si slanciava con impeto tra i primi. E così perse la vita.

Li vide chiaramente Ettore tra le file e balzò avanti

gridando: insieme a lui venivano le schiere dei Troiani.

A vederlo, Diomede possente nel grido di guerra rabbrividì;                                               345

subito disse a Odisseo che gli stava accanto:

“Una rovina ci precipita addosso: è il gagliardo Ettore.

Resistiamo e teniamogli testa, saldamente!”.

Così disse e, palleggiando l’asta dalla lunga ombra,

la scagliò e lo colpì senza sbagliare, mirando alla testa,                                                        350

in cima all’elmo. Ma il bronzo fu respinto dal bronzo,

non raggiunse il bel volto. L’elmo a tre strati fermò il colpo:

aveva un pennacchio e una visiera; glielo aveva dato Febo Apollo.

Ettore allora corse lontano, si mescolò nella turba;

si fermò, cadde in ginocchio, si appoggiò a terra                                                                    355

con la robusta mano. La notte oscura gli calò sugli occhi.

Mentre il Tidide correva dietro al volo della sua asta,

distante dalle prime file, dove si era conficcata al suolo,

Ettore riprese a respirare: balzò sul cocchio e si spinse

tra la folla. Sfuggiva così al nero destino di morte.                                                                360

Lo inseguiva, con la lancia in pugno, il forte Diomede:

“Sei scampato alla morte ancora una volta, cane!

Ma la sventura era vicina! Anche ora ti ha salvato Febo Apollo.

Lo devi pregare spesso, quando affronti le lance!

Ma prima o poi ti ucciderò, se ti incontro,                                                                               365

se è vero che anche io ho un Dio che mi protegge.

Ora mi getterò addosso agli altri, chiunque mi capiti”.

Così disse e spogliò delle armi il valoroso figlio di Peone.

Intanto Alessandro, lo sposo di Elena,

tendeva l’arco contro il Tidide signore di popoli:                                                                   370

era appoggiato a una colonna, accanto al monumento sepolcrale

di Ilo Dardanide, l’antico patriarca del popolo.

L’uno stava togliendo dal petto del forte Agastrofo

la corazza ben lavorata (dalle spalle toglieva lo scudo

e il pesante elmo). L’altro incoccò l’arco                                                                                  375

e scagliò il dardo: non andò a vuoto,

ma colpì la pianta del piede destro: passò da parte a parte

e si conficcò in terra. Quello, ridendo allegramente,

saltò fuori dal suo nascondiglio, e vantandosi diceva:

“Sei ferito! La freccia non è partita a vuoto. Magari                                                              380

ti avessi raggiunto al basso ventre e tolto la vita!

Così anche i Troiani avrebbero ripreso fiato dopo tanti guai,

invece di tremare come capre belanti di fronte al leone”.

A lui rispose, senza turbarsi, il forte Diomede:

“Sei solo un arciere vigliacco, effemminato e con i capelli ricci.                                          385

Se mi sfidassi a duello, faccia a faccia,

non ti servirebbero né l’arco né la provvista di frecce.

Ti vanti tanto per un graffio al piede!

Non importa! È come il colpo di una donnicciola o di un ragazzino:

è spuntato il dardo di un guerriero vile e buono a nulla.                                                       390

Ben diversa, anche se ti sfiora appena, è la punta

dell’arma che scaglio io: e subito uccide un uomo;

così sua moglie ha le guance graffiate,

i suoi figli rimangono orfani; la terra è rossa di sangue

e marcisce: attorno vi sono più rapaci che donne!”.                                                               395

Così disse. Odisseo, glorioso per la lancia, gli venne vicino

e gli si piantò davanti. L’eroe si sedette a terra e si tirò fuori dal piede

il dardo acuto: un dolore straziante gli attraversava la carne.

Saltò allora sul carro e diede ordine all’auriga

di correre verso le navi ricurve: si sentiva affranto.                                                               400

Rimase solo Odisseo, glorioso per la lancia: nessuno degli Argivi

gli restava accanto, tutti erano presi dal panico;

Turbato, parlò al suo stesso cuore magnanimo:

“Misero me, che mi succede? È un grosso guaio, se scappo

per paura della folla. Ma sarà ancor peggio, se mi faccio                                                      405

prendere da solo: gli altri Danai li ha messi in rotta il Cronide”.

Perché mi lascio andare a questi pensieri?

Lo so bene che sono i vigliacchi a fuggire dalla guerra.

Chi è prode in battaglia, ha il dovere

di resistere con forza, sia che ferisca sia che rimanga ferito”.                                               410

Mentre meditava queste cose nell’animo e nel cuore,

le schiere dei Troiani armati di scudi piombarono su di lui

e lo chiusero in mezzo: ma si mettevano nei guai!

Come quando cani e giovani robusti si muovono in fretta,

accerchiano un cinghiale: questo sbuca dal folto della boscaglia,                                        415

arrotando le bianche zanne tra le mascelle ricurve;

gli saltano addosso e nel mezzo si leva uno stridore

di zanne, ma loro sono pronti ad affrontarlo, anche se terribile.

Così allora avanzavano, per circondare Odisseo caro a Zeus,

i Troiani; quello colpì per primo, colpì in cima alla spalla                                                    420

l’irreprensibile Deiopite, balzando con la lancia appuntita;

subito dopo uccise Toone e Ennomo;

quindi colpì Chersidamante che balzava giù dal carro:

lo trafisse alla vita, con l’asta, sotto lo scudo ombelicato:

l’uomo crollò nella polvere mentre ghermiva la terra con le dita;                                        425

lo lasciò lì e ferì con la lancia Carope figlio di Ippaso

e fratello germano del ricco Soco.

Soco, simile a un Dio, partì di scatto alla riscossa,

andò a piantarsi vicino all’altro e disse:

“Odisseo glorioso, maestro di inganni e di imprese!                                                             430

Oggi trionferai sui due figli di Ippaso,

uccidendo noi valorosi e togliendoci le armi,

oppure perderai la vita sotto i colpi della mia lancia”.

Così diceva e lo colpì sullo scudo ben bilanciato;

la lancia gagliarda atraversò il lucido scudo                                                                            435

e si conficcò nella corazza ben cesellata:

gli tagliò via di netto la pelle del fianco; Pallade Atena

non lasciò entrare l’arma nelle viscere dell’eroe.

Odisseo sentì che il colpo non era giunto in una parte vitale;

si ritrasse indietro e rivolse a Soco queste parole:                                                                 440

“Sventurato! Ora sì che per te è la fine.

Mi hai fatto smettere di battagliare contro i Troiani:

ma posso dirti che la morte e il nero destino

ti toccheranno proprio oggi, atterrato dalla mia lancia.

Darai a me il vanto e l’anima ad Ade”.                                                      445

Così disse. L’altro si era già voltato indietro e fuggiva;

era girato e Odisseo divino gli piantò la lancia nella schiena,

proprio in mezzo alle spalle, e gliela cacciò dentro nel petto:

crollò a terra con un tonfo; Odisseo divino levò un grido di trionfo:

“Soco, figlio del battagliero Ippaso,                                                       450

ti ha sorpreso il destino di morte, non sei riuscito a evitarlo.

Sventurato! A te né il padre né la nobile madre

chiuderanno gli occhi da morto; ma ti strazieranno invece

gli uccelli rapaci, sbattendo le folte ali.

A me invece, se muoio, gli Achei renderanno gli onori”.                                                       455

Così disse; e la robusta lancia del bellicoso Soco

tirò via dalla carne e dallo scudo ombelicato:

una volta tirata ne uscì fuori il sangue; era uno strazio.

I coraggiosi Troiani, quando videro il sangue di Odisseo,

si incitarono a vicenda nella calca e avanzarono contro di lui.                                             460

Egli indietreggiava e gridava aiuto ai suoi.

Tre volte allora gridò con quanto fiato aveva in corpo,

per tre volte udì il suo appello il bellicoso Menelao.

E subito diceva ad Aiace che gli stava a fiasnco:

“Aiace Telamonio, discendente di Zeus, signore di popoli:                                                   465

è giunta al mio orecchio la voce del tenace Odisseo.

Sembra che sia tagliato fuori e che gli stiano addosso

i Troiani dopo averlo isolato, in una violenta mischia.

Facciamoci largo nella calca: è meglio dargli una mano.

Ho paura che possa soccombere, solo in mezzo ai Troiani,                                                  470

anche se è un prode. Sarebbe una perdita enorme per i Danai”.

Così disse e andò avanti; l’altro lo seguiva, l’eroe simile a un Dio.

Trovarono ben presto Odisseo caro a Zeus. Lo attorniavano

i Troiani e lo premevano. Sembravano sciacalli sanguinari, sui monti,

attorno a un cervo dalle enormi corna: un uomo lo ha ferito,                                               475

tirandogli una freccia con l’arco; lui è scappato di corsa,

va fuggendo finché il sangue è caldo e si muovono le sue ginocchia.

Ma quando il rapido dardo lo sfinisce,

gli sciacalli voraci  se lo sbranano sui monti,

dentro una selva ombrosa. Ma per sorte arriva lì un leone                                                  480

feroce: si disperdono gli sciacalli e lui si mangia la preda.

Così allora, intorno a Odisseo battagliero e scaltro,

accorrevano numerosi e gagliardi i Troiani. L’eroe

attaccava con la sua lancia e teneva lontano il giorno fatale.

Aiace gli venne accanto portando lo scudo come una torre                                                  485

e si mise al suo fianco: i Troiani scappavano, alla rinfusa.

Allora il bellicoso Menelao lo condusse fuori dalla mischia,

tenendolo per il braccio, finché il suo scudiero non accostò il carro.

Aiace intanto si avventava contro i Troiani: uccise Doriclo,

figlio bastardo di Priamo, poi ferì Pandoco;                                                                            490

ferì anche Lisandro, Piraso e Pilarte.

Come quando un fiume in piena scende giù a valle,

impetuoso dai monti, rigonfio della pioggia di Zeus:

porta via molte querce secche e molti pini,

butta in mare una grande quantità di fango;                                                                           495

così lo splendido Aiace entrò in campo, attaccando

e massacrando cavalli e guerrieri; Ettore ancora

non sapeva niente: combatteva sul lato sinistro della mischia,

lungo le rive del fiume Scamandro, dove più fitte cadevano

le teste degli eroi; un grido immenso si levava                                                                       500

intorno al grande Nestore e al prode Idomeneo.

Ettore era laggiù e faceva prodezze con la sua lancia

e la sua abilità con il carro; sterminava schiere di giovani.

Gli Achei divini non avrebbero certo perso terreno,

se Alessandro, il marito di Elena,                                                             505

non avesse bloccato Macaone sovrano, che si batteva tra i primi,

colpendolo alla spalla destra con una freccia a tre punte.

Gli Achei allora, anche se furenti, ebbero paura per lui

(temevano che lo catturassero e che la guerra volegesse al peggio).

Subito Idomeneo disse a Nestore:                                                                                 510

“Nestore, figlio di Neleo, grande gloria degli Achei,

presto! Monta sul tuo carro, fai salire vicino a te

Macaone; guida di corsa i cavalli sino alle navi!

Un guaritore, lo sai bene, conta più degli altri,

quando c’è da estrarre dardi o spalmare farmaci curativi”.                                                   515

Così disse. Subito acconsentì Nestore Gerenio, condottiero di carri.

Montò subito sul suo cocchio, accanto a lui saliva

Macaone, figlio di Asclepio il perfetto guaritore;

frustò i cavalli e quelli di buona lena volarono

sino alle navi ricurve: non vedevano l’ora di arrivare.                                                           520

Cebrione vide lo scompiglio tra i Troiani:

stava sul carro al fianco di Ettore e disse queste parole:

“Ettore, noi due stiamo qui a batterci con i Danai

all’estremità del campo; ma gli altri Troiani

sono messi in rotta e sono nel panico: uomini e cavalli.                                                        525

Aiace Telamonio li sbaraglia, lo riconosco bene.

Ha sulle spalle il grande scudo. Via, dirigiamo anche noi

i cavalli da quella parte! È lì che con rabbia

fanti e cavalieri sostengono una lotta spietata,

vanno massacrandosi a vicenda. Un grido immenso si leva”.                                              530

Così disse e sferzò i cavalli

con la frusta schioccante. Nel sentire il colpo,

essi condussero il carro veloce in mezzo ai Troiani e agli Achei,

calpestando cadaveri e scudi insieme. L’asse di sotto

era tutto imbrattato di sangue e così le fiancate intorno al carro,                              535

schizzavano spruzzi dagli zoccoli degli animali

e dai cerchi delle ruote. Ettore bramava di gettarsi nella mischia

dei combattenti, di sfondarla di slancio; mise scompiglio

tra i Danai, tremendo, non temeva le lance.

Poi si aggirava tra le file degli altri guerrieri,                                                                          540

a battersi con l’asta, con la spada e con grossi macigni.

Evitava di scontrarsi con Aiace Telamonio.

[…]

Ma Zeus, altissimo padre, suscitò paura in Aiace;

rimase lì attonito, si mise sulle spalle lo scudo dai sette strati                                              545

e prese a fuggire; guardava i suoi, sembrava una belva.

Si voltava di tanto in tanto indietro, muoveva appena

le ginocchia. Come un leone focoso che dal recinto dei buoi

viene scacciato via dai cani e dalla gente dei campi;

non gli lasciano predare le grasse bestie,                                                                                 550

perché vegliano tutta la notte; lui brama la carne,

si lancia all’assalto, ma inutilmente: tanti sono

i giavellotti che gli volano contro, tirati da braccia ardite;

tante le torce accese di cui ha il terrore, anche se è furioso;

sul far del giorno se ne va lontano con la tristezza in cuore.                                                 555

Così un avvilito Aiace veniva via dai Troiani,

di malavoglia; temeva per le navi degli Achei.

Come quando un asino presso un campo disobbedisce ai ragazzi,

caparbio; molti bastoni gli vengono rotti sulla schiena,

ma lui va dentro il campo a divorare la folta messe: i fanciulli                                            560

lo picchiano con i legni, ma la loro furia è vana:

riescono a scacciarlo a fatica, dopo che si è saziato di grano.

Così allora il grande Aiace, il figlio di Telamone,

dagli animosi Troiani e dagli alleati numerosi

veniva inseguito e colpito con le aste sullo scudo.                                                                  565

Ogni tanto Aiace ritrovava la furia guerresca,

si rigirava all’improvviso e tratteneva le schiere dei Troiani

domatori di cavalli: ora invece tornava a fuggire.

Ma a tutti impediva di avanzare verso le navi,

da solo imperversava tra Troiani e Achei:                                                                                570

teneva loro testa. Dalle lance tirate da braccia ardite,

alcune andavano a segno e si conficcavano nello scudo,

altre finivano a mezza strada senza sfiorargli la bianca pelle;

altre si piantavano al suolo, avide di assaggiare carne.

Ma appena lo vide lo splendido figlio di Evemone,                                                                 575

Euripilo, mentre era bersagliato da una tempesta di colpi,

andò a mettersi al suo fianco e scagliò la lucida lancia:

colpì Apisaone figlio Fausiade, signore di popoli,

al fegato (sotto il diaframma); subito gli sciolse le ginocchia,

balzò avanti e gli tolse di dosso l’armatura.                                                                             580

Ma lo vide Alessandro, simile a un Dio,

mentre spogliava Apisaone delle armi; subito tese l’arco

contro Euripilo e lo colpì con la freccia

alla coscia destra: il dardo si spezzava e straziava la gamba.

L’altro si tirò fra la turba dei suoi compagni, per evitare la morte,                                      585

e gridò forte per farsi sentire dai Danai:

“Amici, condottieri e capi degli Argivi,

tornate indietro e fate fronte! Allontanate il giorno fatale

da Aiace! È bersagliato di colpi. Non penso davvero

che possa scampare dalla battaglia crudele. Affrontate                                                         590

i nemici, raggruppatevi intorno ad Aiace Telamonio”.

Così diceva Euripilo ferito. E gli altri venivano a piantarsi

accanto a lui, appoggiando gli scudi sulle spalle,

con le lance protese; Aiace andò loro incontro:

si rigirò per tener fronte al nemico, una volta raggiunti i suoi.                                             595

Così battagliavano: era come il divampare di un incendio.

Intanto le cavalle di Neleo, sudate, portavano Nestore

fuori dal campo; portavano in salvo Macaone pastore di popoli.

Vedendolo, lo riconobbe il divino Achille dal piede veloce:

se ne stava dritto sulla poppa della sua nave dal grande ventre,                                         600

osservando l’accanita lotta e l’assalto crudele.

Subito si rivolse al suo compagno Patroclo,

chiamandolo dall’alto della nave. Questi lo sentì dalla sua tenda

e venne fuori: era simile ad Ares. Fu per lui il principio della rovina.

Per primo gli rivolse la parola il forte figlio di Menezio:                                                       605

“Perché mi chiami, Achille? Cosa vuoi da me?”.

Gli rispondeva Achille dal pie' veloce:

“Divino figlio di Menezio, amico caro,

penso che ora gli Achei saranno intorno alle mie ginocchia,

a supplicare. Le urgenti difficoltà li sovrastano.                                                                     610

Ma ora, Patroclo, caro a Zeus, vai a domandare a Nestore

chi è quello che porta ferito, fuori dalla battaglia.

A vederlo da dietro, è identico in tutto a Macaone:

sì, al figlio di Asclepio. Ma non l’ho visto in faccia.

Le cavalle mi sono passate davanti troppo in fretta”.                                                             615

Così disse. E Patroclo obbediva al suo compagno,

si avviò di corsa lungo le tende e le navi degli Achei.

Intanto quelli giungevano all’alloggio del Nelide

e scesero dal carro, sul suolo fecondo.

Eurimedonte, lo scudiero del vecchio, staccava i cavalli                                                         62o

dal carro. E loro si asciugavano il sudore dalle tuniche,

stando controvento, presso la riva del mare. Subito dopo

entravano nella tenda e sedevano sui loro scranni.

Gli preparava da bere Ecamede dalle belle chiome,

che il vecchio si prese a Tenedo, quando Achille la distrusse:                                              625

era la figlia del magnanimo Arsinoo; per lui la sceglievano

gli Achei, perché nel consiglio primeggiava su tutti.

Lei dapprima pose davanti a essi una tavola

elegante, ben levigata, con i piedi di smalto; poi ci mise sopra

un canestro in bronzo con dentro delle cipolle, compagne del bere,                                   630

anche poi del miele biondo e farina di orzo sacro.

Vi metteva una coppa bellissima, che il vecchio aveva portato da casa:

era tutta adorna di borchie d’oro: i manici della coppa

erano quattro e intorno a ciascuno stavano beccando

due colombe d’oro; sotto vi erano due sostegni.                                                                     635

Chiunque altro faceva fatica a spostarla dalla tavola,

quando era piena: Nestore il vecchio la sollevava senza sforzo;

dentro, la donna simile a una Dea faceva un impasto

con vino di Pramno, vi grattò sopra del formaggio caprino

con una grattugia di rame e vi spargeva bianca farina.                                                         640

Preparato il beveraggio, li invitava a dissetarsi.

Essi sorseggiarono e si tolsero la sete ardente:

poi si scambiarono qualche parola tra di loro.

Ecco che comparve sulla porta Patroclo, l’eroe simile a un Dio.

A vederlo, il vecchio si levò dal suo splendido seggio.                                                            645

Lo prese per mano, lo fece entrare lo invitò a sedersi.

Ma Patroclo si rifiutò e disse queste parole:

“Vecchio, stirpe di divina, non posso sedermi; non insistere.

Temibile e vendicativo è colui che mi ha mandato a chiedere

chi è il guerriero, che porti ferito. Ma ecco, anche da me                                                      650

lo riconosco: è Macaone pastore di popoli, lo vedo.

Ora torno da Achille a riferirgli la notizia.

Lo sai bene anche tu, o vecchio, che uomo terribile è quello;

é capace di biasimare anche chi è senza colpa”.

A lui rispondeva allora Nestore il Gerenio, condottiero di carri:                                          655

“Come mai Achille compiange così i figli degli Achei

che sono rimasti feriti? Oh, non ha neanche l’idea

del grande dolore che c’è in campo; i più valorosi

giacciono qui, tra le navi, colpiti da archi o lance:

è stato colpito il Tidide, il forte Diomede;                                                                               660

ha una piaga Odisseo, famoso per la lancia, e Agamennone;

anche Euripilo è stato colpito alla coscia, da una freccia;

e quest’altro l’ho portato fuori dalla battaglia poco fa,

colpito dal dardo di un arco. Achille, però,

con tutto il suo valore, non si cura dei Danai, non si preoccupa.                                         665

Aspetta forse che vicino al mare, a dispetto degli Argivi,

le navi veloci vengano arse dal fuoco nemico?

Che noi stessi veniamo massacrati? La mia forza

non è più quella che avevo una volta nelle agili membra.

Se fossi ancora giovane e avessi intatto il mio vigore,                                                            670

come quando tra noi e gli Elei ci fu la guerra

per una razzia di bestiame! Allora io ammazzai Itimoneo,

il prode figlio di Ipiroco, che abitava nell’Elide;

feci una rappresaglia: lui difendeva le sue vacche

e fu colpito tra i primi da un giavellotto, per mano mia;                                                        675

cadde e il suo esercito di campagnoli si diede alla fuga.

Riportammo via dalla pianura un grande bottino:

c’erano cinquanta mandrie di buoi, altrettante greggi di pecore;

altrettanti branchi di porci, altrettante greggi di capre;

poi centocinquanta cavalle bionde,                                                                                          680

tutte femmine, e molte con il loro puledro.

Noi portammo tutto a Pilo, nel territorio di Neleo,

di notte, dentro la città. Neleo era felice in cuor suo

del successo che avevo avuto, andando così giovane in guerra.

Allo spuntare del giorno gli araldi gridarono forte il bando:                                                685

si presentasse chi aveva subito un danno nell’Elide divina!

I condottieri dei Pili si presentarono e procedevano

alla spartizione: a molti gli Epei dovevano un’ammenda.

Eravamo in pochi, noi altri a Pilo; subivamo di continuo.

Già era venuto il forte Eracle a farci violenza,                                                                        690

negli anni precedenti; tutti i più prodi erano stati uccisi.

Dodici figli aveva l’irreprensibile Neleo;

di loro solo io rimasi, tutti gli altri perirono.

Per questo gli Epei dalle tuniche di bronzo divennero arroganti:

facevano i prepotenti, tramavano scelleratezze.                                                                     695

Il vecchio Neleo si prese una mandra di buoi e un grande gregge

di pecore, scegliendo per sé trecento capi con i loro pastori.

Gli era dovuto un grosso compenso nell’Elide divina:

il valore di ben quattro cavalli da corsa con tutto il carro;

erano già andati per le gare: dovevano correre                                                                       700

per un tripode. Ma li tenne per sé il sovrano

Augia e rimandò indietro il cocchiere, avvilito.

Il vecchio, indispettito per quel comportamento,

si prese infinite ricchezze; il resto lo diede al popolo

e lo fece dividere (che nessuno andasse via senza la sua parte).                                          705

Compivamo ogni cosa a dovere, per la città facevamo

sacrifici agli Dei. Ecco che al terzo giorno quelli arrivarono

tutti insieme, una folla di fanti e di guerrieri sui carri,

con impeto e furia; con loro si muovevano anche i due Molioni,

ancora giovani e non esperti dell’aspra lotta.                                                                          710

Dovete sapere che c’è una città, Trioessa, su un colle scosceso,

laggiù sull’Alfeo, ai confini del territorio di Pilo sabbiosa:

la assediarono, con la furia di distruggerla;

attraversarono l’intera pianura. Venne da noi messaggera

Atena, slanciandosi giù dall’Olimpo, di notte,    

a dire di armarci: radunava l’esercito di Pilo; non erano fiacchi,

ma impazienti di scendere in campo. Neleo però non voleva

che io affrontassi in armi il nemico e mi nascose i cavalli:

diceva che non sapevo ancora nulla, delle fatiche di guerra.

Ma anche così riuscii a distinguermi tra i combattenti dai carri,                                         720

da semplice fante; c’era Atena a guidare lo scontro.

Vedete: c’è un fiume, il Minieo, che si getta nel mare

nei pressi di Arene. Lì aspettammo l’Aurora divina

con i cocchi, noi di Pilo: e intanto affluivano le schiere dei fanti.

Da qui, armati da capo a piedi, con azione fulminea                                                              725

arrivammo a mezzogiorno alla sacra corrente dell’Alfeo.

Qui sacrificavamo a Zeus potentissimo splendide vittime;

un toro all’Alfeo, un toro anche a Poseidone

e infine una giovenca di mandria ad Atena glaucopide.

Poi prendemmo il pasto della sera sul campo, per gruppi.                                                   730

e ci mettemmo a dormire, ognuno con la sua armatura,

lungo il corso del fiume. Già i coraggiosi Epei

accerchiavano la città, decisi a conquistarla;

ma prima per loro ci fu il grande cimento di Ares.

Appena il sole si levò in tutto il suo splendore sopra la terra,                                               735

ci scontravamo in battaglia invocando Zeus e Atena.

Così tra i Pili e gli Epei cominciò la lotta;

per primo uccisi un nemico e gli presi i cavalli:

era il bellicoso Mulio, provetto lanciere, genero di Augia

(aveva come sposa la figlia maggiore, la bionda Agamede,                                                   740

la quale conosceva tutti i farmaci che nutre la vasta terra).

Mi veniva addosso; io lo colpii con la lancia dalla punta di bronzo

e lui crollò nella polvere. Poi saltavo sul suo carro

e mi schieravo in prima fila. Così gli Epei

fuggirono alla rinfusa, nel vedere a terra colui                                                                        745

che era a capo dei cavalieri, un prode sul campo.

Io mi lanciai addosso a loro come una nera tempesta,

mi impadronii di cinquanta carri; accanto, due guerrieri

mordevano la polvere, abbattuti dalla mia lancia.

Avrei trucidato gli Attoridi, i due fratelli Molioni,                                                                  750

se il padre loro, l’Ennosigeo dall’ampio potere, non li avesse

portati in salvo dalla mischia, avvolgendoli in una densa nebbia.

Zeus concesse ai Pili una grande vittoria!

Li inseguivamo attraverso la spaziosa pianura,

facendone strage e predando le loro belle armi,                                                                      755

finché ci spingemmo con i carri sino a Buprasio ricca di grano

e alla Rocca Olenia, presso il luogo chiamato

Colle d’Alisio. Di lì Atena fece tornare indietro l’esercito:

lì uccisi l’ultimo guerriero e lo lasciai a terra. Allora gli Achei

da Buprasio guidavano i rapidi cavalli verso Pilo                                                                   760

e inneggiavano a Zeus fra gli Dei, a Nestore fra gli uomini.

Così ero io tra i guerrieri, se mai lo fui! Achille invece

si godrà da solo i vantaggi del suo valore. E sono convinto

che rimpiangerà a lungo la rovina dell’esercito.

Mio caro, così ti esortava Menezio,                                                                                           765

il giorno in cui da Ftia ti mandava da Agamennone.

Noi due eravamo lì dentro, io e Odisseo,

e sentivamo nella sala tutti i suoi consigli.

Eravamo venuti nella bella e accogliente reggia di Peleo,

nel nostro giro per la fertile terra achea, raccogliendo l’esercito.                                         770

E lì trovammo dentro il palazzo l’eroe Menezio

e te; e accanto a voi Achille. Il vecchio Peleo, condottiero di carri,

bruciava grasse cosce di bue per Zeus fulminatore,

nel recinto del cortile: teneva in mano una coppa d’oro

e libava vino rosso sopra le vittime che ardevano.                                                                  775

Voi due eravate affaccendati intorno alle carni del bue. Ecco che noi

comparimmo sulla porta. Per la sorpresa, Achille balzò in piedi,

ci prendeva per mano e ci portava dentro; ci invitava a sedere,

con cortesia ci rese gli onori, come bisogna fare con gli ospiti.

E dopo che ci fummo ristorati con cibo e bevande,                                                                780

Presi per primo la parola e vi esortai a seguirci.

Voi due eravate ben disposti: entrambi i padri vi diedero consigli:

il vecchio Peleo esortava suo figlio Achille

a primeggiare sempre e a essere superiore agli altri.

A te invece diede questi consigli Menezio, figlio di Attore:                                                   785

– Figliolo mio, per nobiltà di sangue Achille ti supera;

ma tu sei più grande. Lui è anche molto più forte.

Tu però con buone maniere potrai consigliarlo

e guidarlo: ti darà retta, se è per il meglio -.

Questo ti raccomandava il vecchio, ma non lo rammenti.                                                    790

Sei ancora in tempo: parla con Achille! Forse ti ascolta.

E chi sa che tu non riesca a smuoverlo, se ti aiuta un Dio,

con i tuoi consigli. Vale tanto, sai, la parola di un amico.

Ma se in segreto cerca di evitare qualche profezia

e gliene ha rivelata una, da parte di Zeus, l’augusta madre,                                                  795

almeno lasci andare te in campo e ti segua l’esercito

dei Mirmidoni: sarebbe la salvezza dei Danai.

E ti dia anche le sue belle armi da portare in battaglia.

Può darsi che i Troiani ti scambino per lui e smettano così

di combattere; così riprenderanno fiato i bellicosi figli degli Achei:                                   800

ci vuole poco a riprendere fiato in guerra.

E vi sarebbe facile, freschi come siete, ricacciare in città,

lontano dalle navi e dalle tende, dei guerrieri stanchi per la lotta”.

Così parlava e gli scosse l’animo in petto.

Patroclo si avviò di corsa verso le navi, dall’Eacide Achille;                                                 805

correndo giunse davanti alle navi del divino Odisseo,

nel luogo dove si tenevano le assemblee,

si rendeva giustizia ed erano eretti gli altari degli Dei;

ecco che gli venne incontro Euripilo, il figlio divino

di Evemone, ferito alla coscia da una freccia:                                                                         810

zoppicava, di ritorno dalla battaglia; il sudore grondava copioso

dalle spalle e dalla testa, colava il sangue nero

dalla ferita dolorosa; la mente, però, era salda.

A vederlo, ne ebbe pietà il prode figlio di Menezio

e piangendo gli rivolgeva parole alate:                                                                                     815

“Sventurati capi e condottieri dei Danai!

Lontani qua dai vostri cari e dalla patria, era destino

che a Troia doveste sfamare i cani veloci con la vostra bianca carne!

Ma su, dimmi, Euripilo, eroe allievo di Zeus,

ce la fanno ancora gli Achei a tenere testa al poderoso Ettore                                             820

o sono destinati a perire sotto i colpi della sua lancia?”.

Così gli rispondeva Euripilo, ferito:

“Patroclo, allievo di Zeus, per gli Achei

non ci sarà più scampo: arriveranno alle navi nere.

Vedi, tutti quelli che erano i più valorosi                                                                                 825

giacciono nell’accampamento, colpiti da frecce o da lance

per mano dei Troiani. E la loro forza cresce di continuo.

Ma ora portami in salvo sulla nave!

Tirami fuori dalla coscia il dardo, lava con acqua tiepida

il sangue nero, spargi sopra la ferita dei farmaci lenitivi,                                                     830

che siano efficaci. Tu li hai imparati da Achille, si sa:

a lui li insegnò Chirone, il più giusto dei Centauri.

Abbiamo dei medici, Podalirio e Macaone:

ma uno giace nella tenda con una ferita grave

e ha bisogno anche lui di un bravo guaritore.                                                                         835

L’altro è nella pianura e affronta la furia dei Troiani”.

A lui allora diceva il forte figlio di Menezio:

“Come può essere? Che fare, Euripilo?

Devo riferire all’animoso Achille il consiglio

che mi ha dato Nestore Gerenio, custode vigile degli Achei.                                                840

Ma non ti voglio lasciare così, in preda allo strazio”.

Così disse e lo prese intorno alla vita, lo portava

alla sua tenda. A vederlo, lo scudiero distese delle pelli di bue.

Patroclo lo fece sdraiare e poi con il suo coltello estrasse dalla coscia

l’aguzzo dardo affilato. Poi lavò con acqua tiepida                                                                 845

il sangue nero, vi applicò una radice amara,

triturandola con le mani. Era un lenitivo che gli fece passare

il dolore. E così la piaga si asciugò, il sangue smise di uscire.

 

Traduzione di Daniele Bello

AGAMENNONE
Agamennone (in greco antico: Agamenion, "molto determinato") è una delle figure più importanti della mitologia greca. Re dell'Argolide e capo supremo degli Achei nella guerra di Troia. Era figlio del re Atreo di Micene (o Argo) e della regina Erope, era il fratello di Menelao e cugino di Egisto. Divenne a sua volta re di Micene e sposò Clitennestra, sorella di Elena. Dalla loro unione nacquero quattro figli: Elettra, Ifigenia, Crisotemi e Oreste. Secondo la tradizione più accettata, Agamennone era figlio di Atreo e di Erope e fratello maggiore di Menelao e Anassibia. Suo padre aveva sposato Erope dopo che la sua prima moglie, Cleola, era morta dando alla luce un figlio malato, Plistene. La leggenda racconta come Atreo e il suo gemello Tieste fossero divenuti acerrimi nemici, oltre che rivali; i due fratelli, infatti, si contendevano il trono di Micene. La loro feroce ostilità, aveva raggiunto il culmine quando Atreo aveva attirato Tieste con l'inganno proponendogli la cessazione della contesa, la spartizione del regno e l'allestimento a palazzo di un banchetto che doveva suggellare la pace ritrovata. Durante il banchetto però, Atreo servì al fratello, ignaro, la carne dei suoi stessi figli Orcomeno, Aglao e Callileonte. Tieste, furioso, cercò i figli di Atreo per consumare su di loro la sua vendetta, ma i due ragazzi, Agamennone e Menelao (Atridi perché discendenti da Atreo), erano riusciti a fuggire con l'aiuto di un servo ed erano riparati a Sparta. Qui vissero alla corte del re Tindaro, con i suoi figli e sotto la sua protezione. Successivamente, Agamennone riconquistò il trono di Micene e, dopo averne ucciso il primo marito, sposò Clitemnestra che era figlia di Tindaro, sorella di Elena di Troia e dei mitici gemelli Castore e Polluce. Su Micene regnò fino a quando morì accoltellato per mano della moglie Clitemnestra e del cugino Egisto. La guerra di Troia è raccontata nei XXIV canti dell'Iliade di Omero. L'opera non è una fonte storica, ma un poema epico che riporta la leggenda, cantata fino a quel momento e tramandata a voce dagli aedi, e riferentesi a vicende già antiche di 300 o 400 anni. Lo stesso Omero (colui che non vede) è un personaggio la cui biografia si trova in Erodoto (di Alicarnasso V secolo a. C.) e Plutarco (di Cheronea 50 d. C. - ivi dopo il 120) e si dice vissuto nel IX secolo a.C., ma la cui esistenza è stata a lungo messa in dubbio sollevando la secolare questione omerica. A Sparta, alla corte di Tindaro e Leda numerosi principi chiedono la mano di Elena, la donna più bella del mondo, figlia di Leda e di Zeus. La giovane principessa sceglie tra tutti, e sposa, Menelao che diventerà in seguito re della città. Ma Tindaro teme che le rivalità tra i pretendenti si riaccendano e conducano a conflitti armati. Per tutelare quindi la pace nel suo regno segue il consiglio di Ulisse, uno tra i pretendenti, e chiede a tutti un giuramento: qualora uno di loro fosse stato insidiato, avrebbe potuto contare sull'alleanza incondizionata degli altri. Quando, sotto il regno di Menelao, Elena viene rapita dal principe Paride e condotta a Troia alla corte del padre Priamo, l'alleanza si compatta attorno a Menelao ed Agamennone assume la carica di comandante supremo dell'armata achea. . Agamennone raccoglie le forze greche ed organizza la flotta per salpare verso Troia. In Aulide, porto della Beozia, le navi non possono partire perché Agamennone ha offeso la dea Artemide. Esistono diverse versioni sulle ragioni di quest'ira: nell'opera di Eschilo, Agamennone, Artemide è irata perché troppi giovani perderanno la vita sotto le mura di Troia, mentre nell'Elettra di Sofocle Agamennone ha ucciso un animale sacro ad Artemide, per vantarsi poi di essere pari alla dea, nella caccia. Calamità comprendenti una devastante pestilenza e la prolungata assenza di vento impediscono all'esercito di salpare. Quando infine si interroga l'indovino Calcante, questi svela che l'ira della dea può essere placata solo da un sacrificio da parte di Agamennone: egli che dovrà immolare sull'altare della dea, la propria figlia Ifigenia. Convinto da Ulisse, Agamennone attira con un inganno la figlia in Aulide e si sottomette al volere della dea (secondo una versione del mito la giovane viene sacrificata, secondo un'altra versione la dea la rapisce sostituendo Ifigenia con una cerbiatta e trasportando la giovane in Tauride come sua sacerdotessa). Solo allora Artemide permette alle navi di partire. Clitennestra non perdonerà mai l'uccisione della figlia, aspetterà dieci anni il ritorno del marito per assassinarlo, spinta da Egisto, cugino di Agamennone, che nel frattempo è divenuto suo amante. Le navi salpano, i guerrieri achei sbarcano sulle rive della Troade e vi pongono il loro accampamento. I troiani chiudono le porte della città e resistono all'assalto dietro le potenti mura di Ilio costruite da Poseidone, dio del mare, e Febo, dio del sole, per l'antico re Ilo, nonno di Priamo. L'assedio si protrarrà per dieci lunghi anni, fino a quando gli achei riusciranno ad entrare in città e la metteranno a ferro e fuoco. L'Iliade non vuol essere un racconto dettagliato della guerra, celebra invece le vicende degli ultimi 51 giorni di essa e si apre con la collera di Achille contro Agamennone, che ancora una volta aveva mostrato la propria tracotanza; egli infatti aveva fatto prigioniera Criseide, la bellissima figlia di Crise, sacerdote di Apollo, e aveva deciso di tenerla per sé, così, quando Crise gli si presentò per pregarlo di restituirla, egli lo insultò e lo cacciò, umiliando l'uomo e offendendo il dio. Apollo perciò si scaglia contro Agamennone, seminando dolore e morte tra i guerrieri achei, e Agamennone dovrà cedere, se vorrà por fine alla furiosa vendetta del dio. Cedette e liberò Criseide, ma pretese in cambio che gli fosse consegnata la preda di un altro dei capi achei. Prese Briseide, schiava di Achille, guerriero invincibile e veloce come il vento. In questo modo si apre l'ostilità tra i due e da questo momento Achille rifiuta la battaglia a fianco dei greci. Senza di lui e il suo esercito di Mirmidoni, i Greci sono in difficoltà e i Troiani giungono a minacciare le navi achee. Solo dopo la morte dell'amico Patroclo per mano del principe Ettore, Achille tornerà a combattere con l'intento di ottenere vendetta. Durante il viaggio di ritorno Agamennone fu protetto da Era (o Latona), moglie di Zeus, che salvò la sua nave da una violenta tempesta, che invece aveva investito le navi dei principi greci e aveva spinto Menelao fino in Egitto. Clitemnestra aveva precedentemente persuaso il marito ad accendere un falò sul monte Ida non appena avesse espugnato Troia. Una sentinella stava in piedi sul tetto del palazzo di Micene in attesa di scorgere quel fuoco; e quando lo vide, corse a comunicarlo a Clitemnestra. Questa indisse grandi festeggiamenti con ricchi sacrifici agli dei, simulando riconoscenza e gioia; Egisto, intanto, approntava il suo piano, mise uno degli uomini più fidati di guardia sulla torre presso il mare e gli promise una generosa ricompensa non appena gli avesse annunciato lo sbarco di Agamennone. Dopo il viaggio fortunoso, Agamennone sbarcò in patria. Portava con sé, come parte del bottino e come sua concubina, la principessa Cassandra, sorella di Paride e sacerdotessa di Apollo, che aveva il dono della preveggenza, ma anche la maledizione divina di non essere mai creduta. All'ingresso del palazzo ella ammonì il re di non entrare presagendo l'attentato, ancora una volta non fu creduta e il re non l'ascoltò. Secondo Pindaro e i tragici greci, Agamennone venne ucciso con un lábrys, mentre si trovava solo nel bagno. Su istigazione di Egisto, la moglie lo imbrigliò prima nella rete che gli aveva gettato addosso, poi lo colpì. Subito dopo, Clitemnestra si scagliò anche contro Cassandra e, con la stessa arma, la uccise. Il suo sordo rancore per il sacrificio di Ifigenia e la gelosia per Cassandra, avevano finalmente attuato la vendetta di Tieste, come era stato predetto dall'oracolo di Delfi.

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Clitennestra ed Egisto si preparano a uccidere Agamennone

 

Scoperte archeologiche concernenti il regno di Agamennone - 3 ottobre 2021

Una scoperta che potrebbe contribuire a disegnare i confini del regno di Agamennone a Micene nel Peloponneso della tarda età del bronzo, che risulterebbero parzialmente coincidenti proprio con quelli suggeriti da Omero nell'Iliade. Si tratta del rinvenimento di tre spade, di fogge caratteristiche delle produzioni micenee palaziali, databili nell'ambito del XIV secolo a.C., ovvero nel periodo di pieno fulgore dei palazzi micenei di Micene, Tirinto e Pilo. I manufatti sono stati messi in luce dagli archeologi dell'Università di Udine, coordinati da Elisabetta Borgna, nello scorso mese di agosto, durante la decima campagna annuale di scavo della necropoli della Trapezà di Eghion in Acaia, nel Peloponneso occidentale, dove il gruppo udinese collabora dal 2010 a un più ampio progetto del Ministero greco della cultura. Rinvenute durante l'indagine di una delle tombe apparentemente più semplici e modeste, le spade molto probabilmente erano appartenute ad altrettanti guerrieri residenti in una comunità situata sulle propaggini montane dell'Acaia orientale, da cui si controllavano il centro di Eghion, la pianura costiera e il mar di Corinto.
Le scoperte di quest'anno si aggiungono a quella delle scorse campagne, quando l'indagine di un'altra tomba - la tomba 6, assai più ampia e profonda - ha portato alla luce ricchi corredi di ceramica e gioielli, nonché di un deposito di oggetti in bronzo che comprendeva una monumentale cuspide di lancia da parata, preliminarmente interpretata come dotazione di una figura particolare - un ufficiale, sovrintendente o governatore locale - legato all'autorità centrale di Micene. Lo scorso agosto gli archeologi hanno condotto inoltre indagini nell'antico villaggio individuato nel 2015 qualche centinaia di metri più a sud della necropoli. Fondato in età pre-micenea, verso l'inizio del II millennio a.C., l'abitato ebbe lunga durata.
Quest'anno è stato riportato alla luce un imponente edificio con focolare centrale del tipo a "megaron", caratteristico dell'architettura micenea. All'indagine sul campo presso la Trapezà, il gruppo di ricerca dell'Ateneo di Udine è invitato a collaborare dal direttore del museo di Eghion, Andreas Vordos, nell'ambito di un ampio progetto del Servizio Archeologico greco per il Ministero greco della cultura nell'area archeologica dell'antica città di Rhypes. Le campagne avviate nel 2010 e concentrate dal 2012 sui contesti funerari - un nucleo di tombe a camera scavate nella sabbia coesa del substrato di un pendio collinare - sono supportate, oltre che dall'Ateneo di Udine, dal Ministero italiano degli Affari esteri e dall'Institute for Aegean Prehistory di Philadelphia. Il sistema politico-sociale ed economico dei regni micenei era rigidamente centralizzato e dunque certi beni strategici come le armi avevano circolazione controllata e accesso limitato.
"Prodotte nelle officine centrali - spiega Elisabetta Borgna - esse erano conservate nei magazzini palaziali ed erano per lo più distribuite all'occorrenza agli uomini chiamati alle armi o erano detenute da guerrieri e ufficiali con ruoli specifici nell'ambito dell'amministrazione palatina. È dunque raro che durante la piena età palaziale, ossia quando era più efficiente e rigoroso il sistema di controllo dei palazzi, nelle tombe, e in particolare in quelle appartenenti a necropoli periferiche, venissero deposte delle armi; quando avveniva, queste ultime erano certamente incaricate di esprimere indicazioni rilevanti sullo status e sul ruolo dei defunti". L'individuazione, dunque, di un gruppo di guerrieri micenei nella necropoli achea in corso di indagine è un fatto molto significativo per la ricostruzione storica dei confini politici del regno miceneo nella tarda età del bronzo.
"Questa presenza - evidenzia Borgna - sembra costituire una conferma a quanto racconta Omero nel secondo libro dell'Iliade, quando, nel celebre Catalogo delle Navi, quantifica la potenza militare degli Achei impegnati nella spedizione a Troia elencando i comandanti e la provenienza dei contingenti. Il poeta greco riferisce che Agamennone in persona, re di Micene, avrebbe guidato da condottiero cento navi di guerrieri, reclutati, oltre che nei territori immediatamente circostanti al palazzo di Micene, in Argolide e Corinzia, anche nella periferica Eghialia, ossia la porzione orientale dell'Acaia intorno ad Eghion, sede di vari insediamenti di cui più tardi ci avrebbe parlato Pausania". In particolare, accennando a "coloro che abitavano intorno ad Eghion", "le parole di Omero - conclude Borgna - fanno riferimento a comunità in grado di fornire risorse in termini di seguito e forza militare per grandi iniziative come quella della leggendaria guerra di Troia che il poeta si apprestava a celebrare.
Le tracce ora rinvenute di quei guerrieri micenei che nel vasto Peloponneso servirono la potente organizzazione militare dei palazzi rappresentano dunque forse il nucleo storico di una realtà trasposta in leggenda ed evocata dal racconto epico". Il "megaron", a pianta rettangolare regolare, generalmente tripartito e con portico antistante, era un modello planimetrico-strutturale caratteristico dell'architettura micenea, e in particolare del nucleo dei palazzi in cui si svolgeva la vita di corte, che ospitava la sala del trono. Era caratterizzato dalla presenza di un grande focolare centrale, che, interpretando il passaggio dall'autorità familiare in sede domestica a quella pubblica nella sede cerimoniale e istituzionale, rappresentava, in veste monumentale, il simbolo del potere miceneo. L'edificio con impianto a "megaron" della Trapezà di Eghion - risalente agli inizi della civiltà micenea (XVII secolo a.C.), e dunque precedente alla fondazione dei palazzi - può essere confrontato con alcune strutture coeve, interpretate in altri insediamenti come dimore di gruppi emergenti a livello locale. Il focolare era costruito su imponenti fondazioni in grosse pietre, era delimitato da grandi ciottoli e allestito con un'articolata serie di stesure di ghiaia e ciottoli su cui poggiavano piastre di argilla da cottura. "Una complessità - sottolinea Borgna - che sembra la premessa del fiorente sviluppo dei secoli successivi, così ben documentato dalla necropoli. Le dinamiche di crescita, evoluzione ed estensione dell'abitato e il rapporto tra questo e la vicina necropoli sono tra gli affascinanti aspetti ancora da chiarire".

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Eugenio Caruso - 23 - 09 - 2021

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www.impresaoggi.com