Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo. 
 Seneca
 
 
 
 
  Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo
 L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto. 
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi: 
 - fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo; 
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);  
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene. 
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati. 
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro.
Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine.
L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini.
Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica. 
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò.
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme.
Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi. 
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade. 
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche. 
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.
Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C.
L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi. 
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.
Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici. 
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti.
L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto.
L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future.
Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane.
Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.
 Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo  dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la  cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la  Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito. 
  L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’ 
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade: 
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra». 
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo  il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
 
 
  Contesa tra Atena e Poseidone
RIASSUNTO  XII LIBRO
 La lotta infuria intorno al muro costruito dagli Achei, destinato a essere distrutto da Apollo e Posidone non appena gli Achei stessi partiranno. Ettore guida l’assalto, ma Polidamante gli sconsiglia di far avanzare l’esercito con i carri fin dentro il fossato, per timore che gli animali vi restino intrappolati: Ettore accetta la proposta prudente e decide di attaccare a piedi.
La lotta divampa atroce, grazie alla resistenza dei Greci all’interno del muro e intorno a esso. Un prodigio inviato da Zeus (un’aquila che vola alta a sinistra tenendo un serpente fra gli artigli e che, morsa da questo, lo scaglia fra gli armati) viene interpretato da Polidamante come un avvertimento negativo verso i Troiani.
Ettore, affermando di non credere agli oracoli (ma alle parole di Zeus che lo dava per vincente fino al tramonto), si getta con accanimento ancor maggiore nella mischia. Una tempesta inviata da Zeus mette in difficoltà gli Achei, che solo grazie all'intervento dei due Aiaci trovano la forza per resistere. Agli Aiaci si contrappone Sarpedonte, figlio di Zeus, che, assistito da Glauco, dà vita a una lotta accanita, spronato dalla consapevolezza dell’impossibilità di sfuggire il destino. Nel frattempo i due Aiaci trattengono Sarpedonte ma non riescono a respingerlo, mentre Ettore, favorito da Zeus, riesce a oltrepassare il muro; i Danai, ormai in fuga, si dirigono verso le navi.
TESTO LIBRO XII 
 
  Così dentro alle tende medicava
    D’Eurípilo la piaga il valoroso
    Menezíade. Frattanto alla rinfusa
    Pugnan Teucri e Achei; nè scampo a questi
    È più la fossa omai, nè l’ampio muro5
    Che l’armata cingea. L’avean gli Achivi
    Senza vittime eretto a custodire
    I navigli e le prede. Edificato
    Dunque malgrado degli Dei, gran tempo
    Non durò. Finchè vivo Ettore fue,10
    E irato Achille, e Troia in piedi, il muro
    Saldo si stette; ma de’ Teucri estinte
    L’alme più prodi, e degli Achei pur molte,
    E al decim’anno Ilio distrutto, e il resto
    Degli Argivi tornato al patrio lido,15
    Decretâr del gran muro la caduta
    Nettunno e Apollo, l’impeto sfrenando
    Di quanti fiumi dalle cime idée 
Si devolvono al mar, Reso, Graníco,
    Rodio, Careso, Eptáporo ed Esépo20
    E il divino Scamandro e Simoenta
    Che volge sotto l’onde agglomerati
    Tanti scudi, tant’elmi e tanti eroi.
    Di questi rivoltò Febo le bocche
    Contro l’alta muraglia, e vi sospinse25
    Nove giorni la piena. Intanto Giove,
    Perchè più ratto l’ingoiasse il mare,
    Incessante piovea. Nettunno istesso
    Precorrea le fiumane, e col tridente
    E coll’onda atterrò le fondamenta30
    Che di travi e di sassi v’avean posto
    I travagliosi Achivi; infin che tutta
    Al piano l’adeguò lungo la riva
    Dell’Ellesponto. Smantellato il muro,
    Fe’ di quel tratto un arenoso lido,35
    E tornò le bell’acque al letto antico.
    Di Nettunno quest’era e in un d’Apollo
    L’opra futura. Ma la pugna intorno
    A quel valido muro or ferve e mugge.
       Cigolar delle torri odi percosse40
    Le compági, e gli Achei dentro le navi
    Chiudonsi domi dal flagel di Giove,
    E paventosi dell’ettoreo braccio,
    Impetuoso artefice di fuga;
    Perocchè pari a turbine l’eroe45
    Sempre combatte. E qual cinghiale o bieco
    Leon cui fanno cacciatori e cani
    Densa corona, di sue forze altero
    Volve dintorno i truci occhi, nè teme
    La tempesta de’ dardi nè la morte,50
    Ma generoso si rigira e guarda
    Dove slanciarsi fra gli armati, e ovunque 
	Urta, s’arretra degli armati il cerchio;
    Tal fra l’armi s’avvolge il teucro duce,
    I suoi spronando a valicar la fossa.55
    Ma non l’ardían gli ardenti corridori
    Che mettean fermi all’orlo alti nitriti,
    Dal varco spaventati arduo a saltarsi
    E a tragittarsi: perocchè dintorno
    S’aprían profondi precipizi, e il sommo60
    Margo d’acuti pali era munito,
    Di che folto v’avean contro il nemico
    Confitto un bosco gli operosi Achei,
    Tal che passarvi non potean le rote
    Di volubile cocchio. Ma bramosi65
    Ardean d’entrarvi e superarlo i fanti.
    Fattosi innanzi allor Polidamante
    Ad Ettore sì disse: Ettore, e voi
    Duci troiani e collegati, udite.
       Stolto ardire è il cacciar dentro la fossa70
    Gli animosi cavalli. E non vedete
    Il difficile passo e la foresta
    D’acute travi, che circonda il muro?
    Di niuna guisa ai cavalier non lice
    Calarsi in quelle strette a far conflitto,75
    Senza periglio di mortal ferita.
    Se il Tonante in suo sdegno ha risoluta
    Degli Achei la ruina e il nostro scampo,
    Ben io vorrei che questo intervenisse
    Qui tosto, e che dal caro Argo lontani80
    Perdesser tutti coll’onor la vita.
    Ma se voltano fronte, e dalle navi
    Erompendo con impeto, nel fondo
    Ne stringono del fosso, allor, cred’io,
    Niuno in Troia di noi nunzio ritorna85
    Salvo dal ferro de’ conversi Achei. 
	Diam dunque effetto a un mio pensier. Sul fosso
    Ogni auriga rattenga i corridori,
    E noi pedoni, corazzati e densi
    Tutti in punto seguiam l’orme d’Ettorre.90
    Non sosterranno il nostro urto gli Achivi,
    Se l’ora estrema del lor fato è giunta.
       Disse; e ad Ettore piacque il saggio avviso.
    Balzò dunque dal carro incontanente
    Tutto nell’armi, e balzâr gli altri a gara,95
    Visto l’esempio di quel divo. Ognuno
    Fe’ precetto all’auriga di sostarsi
    Co’destrieri alla fossa in ordinanza;
    Ed essi in cinque battaglion divisi
    Seguiro i duci. Andò la prima squadra100
    Con Ettore e col buon Polidamante,
    Ed era questa il fiore e il maggior nerbo
    De’ combattenti, desïosi tutti
    Di spezzar l’alto muro, e su le navi
    Portar la pugna: terzo condottiero105
    Li seguía Cebrïon, messo in sua vece
    Alla custodia dell’ettoreo carro
    Altro men prode auriga. Erano i duci
    Della seconda Paride, Alcatóo
    Ed Agenorre. Della terza il divo110
    Dëifobo ed Eléno ed Asio, il prode
    D’Irtaco figlio, cui d’Arisba a Troia
    Portarono e dall’onda Selleente
    Due destrier di gran corpo e biondo pelo.
    Capitan della quarta era d’Anchise115
    L’egregia prole, Enea, co’ due d’Anténore
    Pugnaci figli Archíloco e Acamante.
    Degl’incliti alleati è condottiero
    Sarpedonte, con Glauco e Asteropéo,
    Da lui compagni del comando assunti120 
	Come i più forti dopo sè, tenuto
    Il più forte di tutti. In ordinanza
    Posti i cinque drappelli, e di taurine
    Targhe coperti, mossero animosi
    Contro gli Achei, sperando entro le navi125
    Precipitarsi alfin senza ritegno.
       Mentre tutti e Troiani ed alleati
    Al consiglio obbedían dell’incolpato
    Polidamante, il duce Asio sol esso
    Lasciar nè auriga nè corsier non volle,130
    Ma vêr le navi li sospinse. Insano!
    Que’ corsieri, quel cocchio, ond’egli esulta,
    Nol torranno alla morte, e dalle navi
    In Ilio no nol torneran. La nera
    Parca già il copre, e all’asta lo consacra135
    Del chiaro Deucalíde Idomenéo.
    Alla sinistra del naval recinto
    Ove carri e cavalli in gran tumulto
    Venían cacciando i fuggitivi Achei,
    Spins’egli i suoi corsier verso la porta,140
    Non già di sbarre assicurata e chiusa,
    Ma spalancata e da guerrier difesa
    A scampo de’ fuggenti. Il coraggioso
    Flagellò drittamente i corridori
    A quella volta, e con acute grida145
    Altri il seguían, sperandosi che rotti,
    Senza far testa, nelle navi in salvo
    Precipitosi fuggirían gli Achivi.
    Stolta speranza. Custodían la porta
    Due fortissimi eroi, germi animosi150
    De’ guerrieri Lapiti. Era l’un d’essi
    Polipéte, figliuol di Piritóo,
    L’altro il feroce Leontéo. Sublimi
    Stavan quivi costor, sembianti a due 
	Eccelse querce in cima alla montagna,155
    Che ferme e colle lunghe ampie radici
    Abbracciando la terra, eternamente
    Sostengono la piova e le procelle;
    Così fidati nelle man robuste,
    Ben lungi dal voltar per tema il tergo,160
    Voltan anzi la fronte i due guerrieri,
    D’Asio aspettando la gran furia. Ed esso
    Coll’Asiade Acamante, e con Oreste
    E Jameno e Toone ed Enomáo
    Sollevando gli scudi, il forte muro165
    Van con fracasso ad assalir. Ma fermi
    Sull’ingresso i due prodi altrui fan core
    Alla difesa delle navi. Alfine
    Visti i Teucri avventarsi alla muraglia
    D’ogni parte, e fuggir con alto grido170
    Di spavento gli Achivi, impeto fece
    L’ardita coppia: e fiero anzi le porte
    Un conflitto attaccâr, come silvestri
    Verri ch’odon sul monte avvicinarsi
    Il fragor della caccia: impetuosi175
    Fulminando a traverso, a sè dintorno
    Rompon la selva, schiantano la rosta
    Dalle radici, e sentir fanno il suono
    Del terribile dente, infine che colti
    D’acuto strale perdono la vita;180
    Di questi due così sopra i percossi
    Petti sonava il luminoso acciaro,
    E così combattean, nelle gagliarde
    Destre fidando, e nel valor di quelli
    Che di sopra dai merli e dalle torri185
    Piovean nembi di sassi alla difesa
    Delle tende, dei legni e di sè stessi.
    Cadean spesse le pietre come spessa 
La grandine cui vento impetuoso
    Di negre nubi agitator riversa190
    Sull’alma terra; nè piovean gli strali
    Sol dalle mani achive, ma ben anco
    Dalle troiane, e al grandinar de’ sassi
    Smisurati mettean roco un rimbombo
    Gli elmi percossi e i risonanti scudi.195
       Fremendo allor si battè l’anca il figlio
    D’Irtaco, e disse disdegnoso: O Giove
    E tu pur ti se’ fatto ora l’amico
    Della menzogna? Chi pensar potea
    Contro il nerbo di nostre invitte mani200
    Tal resistenza dagli Achei? Ma vèlli
    Che come vespe maculose in erti
    Nidi nascoste, a chi dà lor la caccia
    S’avventano feroci, e per le cave
    Case e pe’ figli battagliar le vedi:205
    Così costor, benchè due soli, addietro
    Dar non vonno che morti o prigionieri.
       Così parlava, nè perciò di Giove
    Si mutava il pensier, che al solo Ettorre
    Dar la palma volea. Aspro degli altri210
    All’altre porte intanto era il conflitto.
    Ma dura impresa mi saría dir tutte,
    Come la lingua degli Dei, le cose.
    Perocchè quanto è lungo il saldo muro
    Tutto è vampo di Marte. Alta costringe215
    Necessità, quantunque egri, gli Achei
    A pugnar per le navi; e degli Achei
    Tutti eran mesti in cielo i numi amici.
       Qui cominciâr la pugna i due Lapiti.
    Vibrò la lancia il forte Polipéte,220
    E Damaso colpì tra le ferrate
    Guance dell’elmo. L’elmo non sostenne 
La furïosa punta che, spezzati
    I temporali, gli allagò di sangue
    Tutto il cerébro, e morto lo distese:225
    Indi all’Orco Pilon spinse ed Ormeno.
    Nè la strage è minor di Leontéo,
    D’Antimaco figliuolo anzi di Marte. 
Sul confin della cintola ei percote
    Ippomaco coll’asta: indi cavata230
    Dal fodero la daga, per lo mezzo
    Della turba si scaglia, e pria d’un colpo
    Tasta Antifonte che supin stramazza;
    Poi rovescia Menon, Jameno, Oreste,
    Tutti l’un sovra l’altro nella polve.235
       Mentre che Polipéte e Leontéo
    Delle bell’armi spogliano gli uccisi,
    La numerosa e di gran core armata
    Troiana gioventude, impazïente
    Di spezzar la muraglia, arder le navi,240
    Polidamante ed Ettore seguía,
    I quai repente all’orlo della fossa
    Irresoluti s’arrestâr dubbiando
    Di passar oltre: perocchè sublime
    Un’aquila comparve, che sospeso245
    Tenne il campo a sinistra. Il fero augello
    Stretto portava negli artigli un drago
    Insanguinato, smisurato e vivo,
    Ancor guizzante, e ancor pronto all’offese;
    Sì che volto a colei che lo ghermía,250
    Lubrico le vibrò tra il petto e il collo
    Una ferita. Allor la volatrice,
    Aperta l’ugna per dolor, lasciollo
    Cader dall’alto fra le turbe, e forte
    Stridendo sparve per le vie de’ venti.255
       Visto in terra giacente il maculato 
Serpe, prodigio dell’Egíoco Giove,
    Inorridiro i Teucri, e fatto avanti
    All’intrepido Ettór Polidamante
    Sì prese a dir: Tu sempre, ancorchè io porti260
    Ottimi avvisi in parlamento, o duce,
    Hai pronta contro me qualche rampogna,
    Nè pensi che non lice a cittadino
    Nè in assemblea tradir nè in mezzo all’armi
    La verità, servendo all’augumento265
    Di tua possanza. Dirò franco adunque
    Ciò che il meglio or mi sembra. Non si vada
    Coll’armi ad assalir le navi achee.
    Il certo evento che n’attende è scritto
    Nell’augurio comparso alla sinistra270
    Dell’esercito nostro, appunto in quella
    Che si volea travalicar la fossa,
    Dico il volo dell’aquila portante
    Nell’ugna un drago sanguinoso, immane
    E vivo ancor. Com’ella cader tosto275
    Lasciò la preda, pria che al caro nido
    Giungesse, e pasto la recasse a’ suoi
    Dolci nati; così, quando n’accada
    Pur de’ Greci atterrar le porte e il muro
    E farne strage, non pensar per questo280
    Di ritornarne con onor; chè indietro
    Molti Troiani lasceremo ancisi
    Dall’argolico ferro, combattente
    Per la tutela delle navi. Ognuno,
    Che ben la lingua de’ prodigi intenda285
    E da’ profani riverenza ottegna,
    Questo verace interpretar faría.
       Lo guatò bieco Ettorre, e gli rispose:
    Polidamante, il tuo parlar non viemmi
    Grato all’orecchio, e una miglior sentenza290 
	Or dal tuo labbro m’attendea. Se parli
    Persuaso e davvero, io ti fo certo
    Che l’ira degli Dei ti tolse il senno,
    Poichè m’esorti ad obblïar di Giove
    Le giurate promesse, e all’ale erranti295
    Degli augelli obbedir; de’ quai non curo,
    Se volino alla dritta ove il Sol nasce,
    O alla sinistra dove muor. Ben calmi
    Del gran Giove seguir l’alto consiglio,
    Ch’ei de’ mortali e degli Eterni è il sommo300
    Imperadore. Augurio ottimo e solo
    È il pugnar per la patria. Perchè tremi
    Tu dei perigli della pugna? Ov’anco
    Cadiam noi tutti tra le navi ancisi,
    Temer di morte tu non dei, chè cuore305
    Tu non hai d’aspettar l’urto nemico,
    Nè di pugnar. Se poi ti rimanendo
    Lontano dal conflitto, esorterai
    Con codarde parole altri a seguire
    La tua viltà, per dio! che tu percosso310
    Da questa lancia perderai la vita.
       Si spinse avanti così detto, e gli altri
    Con alte grida lo seguiéno. Allora
    Il Folgorante dall’idéa montagna
    Un turbine destò, che drittamente315
    Verso le navi sospingea la polve,
    E agli Achivi rapía gli occhi e l’ardire,
    Ad Ettorre il crescendo ed a’ Troiani
    Che nel prodigio e nelle proprie forze
    Confidati assalîr l’alta muraglia320
    Per diroccarla. E già divelti i merli
    Delle torri cadean, già le bertesche
    Si sfasciano, e le leve alto sollevano
    Gli sporgenti pilastri, eccelso e primo 
	Fondamento alle torri. Intorno a questi325
    Travagliansi i Troiani, ampia sperando
    Aprir la breccia. Nè perciò d’un passo
    S’arretrano gli Achei, ma di taurine
    Targhe schermo facendo alle bastite,
    Ferían da quelle chi venía di sotto.330
       Animosi dall’una all’altra torre
    L’acheo valor svegliando ambo frattanto
    Scorrean gli Aiaci, e con parole or dure
    Or blande rampognando i neghittosi,
    O compagni, dicean, quanti qui siamo335
    Primi, secondi ed infimi (chè tutti
    Non siamo eguali nel pugnar, ma tutti
    Necessari), or gli è tempo, e lo vedete,
    D’oprar le mani. Non vi sia chi pieghi
    Dunque alle navi per timor di vana340
    Minaccia ostil, ma procedete avanti,
    E l’un l’altro incoratevi, e mertate
    Che l’Olimpio Tonante vi conceda
    Di risospinger l’inimico, e rotto
    Inseguirlo fin dentro alle sue mura.345
       Sì sgridando, animâr l’acheo certame.
    Come cadono spessi ai dì vernali
    I fiocchi della neve, allorchè Giove 
	Versa incessante, addormentati i venti,
    I suoi candidi nembi, e l’alte cime350
    Delle montagne inalba e i campi erbosi,
    E i pingui seminati e i porti e i lidi:
    L’onda sola del mar non soffre il velo
    Delle fioccanti falde onde il celeste
    Nembo ricopre delle cose il volto;355
    Tale allor densa di volanti sassi
    La tempesta piovea quinci da’ Teucri
    Scagliata e quindi dagli Achivi; e immenso 
	Sorgea rumor per tutto il lungo muro.
    Ma nè i Troiani nè l’illustre Ettorre360
    N’avrían le porte spezzato e le sbarre,
    Se alfin contro gli Achei non incitava
    Giove l’ardir del figlio Sarpedonte,
    Quale in mandra di buoi fiero lïone.
    Imbracciossi l’eroe subitamente365
    Il bel rotondo scudo, ricoperto
    Di ben condotto sottil bronzo, e dentro
    V’avea l’industre artefice cucito
    Cuoi taurini a più doppi, e orlato intorno
    D’aurea verga perenne il cerchio intero.370
    Con questo innanzi al petto, e nella destra
    Due lanciotti vibrando, incamminossi
    Qual montano lïon che, stimolato
    Da lunga fame e dal gran cor, l’assalto
    Tenta di pieno ben munito ovile;375
    E quantunque da’ cani e da’ pastori
    Tutti sull’armi custodito il trovi,
    Senza prova non soffre esser respinto
    Dal pecorile, ma vi salta in mezzo
    E vi fa preda, o da veloce telo380
    Di man pronta riceve aspra ferita:
    Tale il divino Sarpedon dal forte
    Suo cor quel muro ad assalir fu spinto
    E a spezzarne i ripari. E volto a Glauco
    D’Ippoloco figliuol, Glauco, gli disse,385
    Perchè siam noi di seggio, e di vivande
    E di ricolme tazze innanzi a tutti
    Nella Licia onorati ed ammirati
    Pur come numi? Ond’è che lungo il Xanto
    Una gran terra possediam d’ameno390
    Sito, e di biade fertili e di viti?
    Certo acciocchè primieri andiam tra’ Licii 
Nelle calde battaglie, onde alcun d’essi
    Gridar s’intenda: Glorïosi e degni
    Son del comando i nostri re: squisita395
    È lor vivanda, e dolce ambrosia il vino,
    Ma grande il core, e nella pugna i primi.
    Se il fuggir dal conflitto, o caro amico,
    Ne partorisse eterna giovinezza,
    Non io certo vorrei primo di Marte400
    I perigli affrontar, ned invitarti
    A cercar gloria ne’ guerrieri affanni.
    Ma mille essendo del morir le vie,
    Nè scansar nullo le potendo, andiamo:
    Noi darem gloria ad altri, od altri a noi.405
       Disse, nè Glauco si ritrasse indietro,
    Nè ritroso il seguì. Con molta mano
    Dunque di Licii s’avviâr. Li vide
    Rovinosi e diritti alla sua torre
    Affilarsi il Petíde Menestéo,410
    E sgomentossi. Girò gli occhi intorno
    Fra gli Achivi spïando un qualche duce
    Che lui soccorra e i suoi compagni insieme.
    Scorge gli Aiaci che indefessi e fermi
    Sostenean la battaglia, e avean dappresso415
    Teucro pur dianzi della tenda uscito.
    Ma non potea far loro a verun modo
    Le sue grida sentir, tanto è il fragore
    Di che l’aria rimbomba alle percosse
    Degli scudi, degli elmi e delle porte420
    Tutte a un tempo assalite, onde spezzarle
    E spalancarle. Immantinente ei dunque
    Manda ad Aiace il banditor Toota,
    E, Va, gli dice, illustre araldo, vola,
    Chiama gli Aiaci, chiamali ambedue,425
    Chè questo è il meglio in sì grand’uopo. Un’alta 
Strage qui veggo già imminente. I duci
    Del licio stuol con tutta la lor possa
    Qua piombano, e mostrâr già in altro incontro
    Ch’elli son nelle zuffe impetuosi.430
    S’ambo gli eroi ch’io chiedo, in gran travaglio
    Si trovano di guerra, almen ne vegna
    Il forte Aiace Telamónio, e il segua
    Teucro coll’arco di ferir maestro.
       Corse l’araldo obbedïente, e ratto435
    Per la lunga muraglia traversando
    Le file degli Achei, giunse agli Aiaci,
    E con preste parole, Aiaci, ei disse,
    Incliti duci degli Argivi, il caro
    Nobile figlio di Petéo vi prega440
    D’accorrere veloci, ed aitarlo
    Alcun poco nel rischio in che si trova.
    Pregavi entrambi per lo meglio. Un’alta
    Strage gli è sopra: perocchè di tutta
    Forza si vanno a rovesciar sovr’esso445
    I licii capitani, e di costoro
    L’impeto è noto nel pugnar. Se voi
    Siete in gran briga voi medesmi, almeno
    Vien tu, forte figliuol di Telamone,
    E tu, Teucro, signor d’arco tremendo.450
       Tacque, ed il grande Telamónio figlio
    Al figlio d’Oiléo si volse e disse:
    Tu, Aiace, e tu forte Licomede
    Qui restatevi entrambi, ed infiammate
    L’acheo coraggio alla battaglia. Io volo455
    Colà allo scontro del nemico, e data
    La chiesta aita, subito ritorno.
    Partì l’eroe, ciò detto, ed il germano
    Teucro il seguiva, e Pandïon portante
    L’arco di Teucro. Costeggiando il muro460 
	Alla torre arrivâr di Menestéo:
    Ed entrâr nella zuffa, appunto in quella
    Che a negro turbo simiglianti i duci
    Animosi de’ Licii avean de’ merli
    Già vinto il sommo. Si scontrâr gli eroi465
    Fronte a fronte, e levossi alto clamore.
    Primo l’Aiace Telamónio uccise
    Il magnanimo Epícle, un caro amico
    Di Sarpedon. Giacea sull’ardua cima
    Della muraglia un aspro enorme sasso,470
    Tal che niun de’ presenti, anco sul fiore
    Delle forze, il potrebbe agevolmente
    A due man sollevar. Ma lieve in alto
    Levollo Aiace, e lo scagliò. L’orrendo
    Colpo diruppe il bacinetto, e tutte475
    L’ossa del capo sfracellò. Dall’alta
    Torre il percosso a notator simíle
    Cadde, e l’alma fuggì. Teucro di poi
    Di strale a Glauco il nudo braccio impiaga
    Mentre il muro assalisce, e lo costrigne480
    La pugna abbandonar. Glauco d’un salto
    Giù dagli spaldi gittasi furtivo,
    Onde nessuno degli Achei s’avvegga
    Di sua ferita, e villanía gli dica.
    Ben se n’accorse Sarpedonte, ed alta485
    Dell’amico al partir doglia il trafisse.
    Ma non lentossi dalla pugna, e giunto
    Colla lancia il Testóride Alcmeone,
    Gliela ficca nel petto, e a sè la tira.
    Segue il trafitto l’asta infissa, e cade490
    Boccone, e l’armi risonâr sovr’esso.
    Colla man forte quindi il licio duce
    Un merlo afferra, a sè lo tragge, e tutto 
Lo dirocca. Snudossi al suo cadere
    La superna muraglia, e larga a molti495
    Fece la strada. Allor ristretti insieme
    Mossero contra Sarpedonte i due
    Telamonídi, e Teucro d’uno strale
    Al petto il saettò. Raccolse il colpo
    Il lucente fermaglio dell’immenso500
    Scudo, chè Giove dal suo figlio allora
    Allontanò la Parca, e non permise
    Che davanti alle navi egli cadesse.
    L’assalse Aiace ad un medesmo tempo,
    E allo scudo il ferì. Tutto passollo505
    La fiera punta, ed aspramente il caldo
    Guerrier represse. Dagli spaldi adunque
    Recede alquanto ei sì, ma non del tutto,
    Chè il cor pur anco gli porgea speranza
    Della vittoria, e al suo fedel drappello510
    Rivoltosi, gridò: Licii guerrieri,
    Perchè l’impeto vostro si rallenta? 
	Benchè forte io mi sia, solo poss’io
    Atterrar questo muro, ed alle navi
    Aprir la strada? A me v’unite or dunque,515
    Chè forza unita tutto vince. - Ei disse,
    E vergognosi rispettando i Licii
    Le regali rampogne, s’addensaro
    Dintorno al saggio condottier. Dall’altro
    Lato gli Argivi nell’interno muro520
    Rinforzan le falangi, e d’ambe parti
    Cresce il travaglio della dura impresa.
    Perocchè nè il valor degli animosi
    Licii a traverso dell’infranto muro
    Alle navi potea farsi la strada,525
    Nè i saettanti Achei dall’occupata 
Muraglia i Licii discacciar: ma quale
    In poder che comune abbia il confine,
    Fan due villan, la pertica alla mano,
    Del limite baruffa, e poca lista530
    Di terra è tutto della lite il campo:
    Così dei merli combattean costoro,
    E sovra i merli contrastati un fiero
    Spezzar si fea di scudi e di brocchieri
    Su gli anelanti petti; e molti intorno535
    Cadean gli uccisi; altri dal crudo acciaro
    Nel voltarsi trafitti il tergo ignudo;
    Altri, ed erano i più, da parte a parte
    Trapassati le targhe. Da per tutto
    Torri e spaldi rosseggiano di sangue540
    E troiano ed acheo; nè fra gli Achei
    Nullo ancor segno si vedea di fuga.
       Siccome onesta femminetta, a cui
    Procaccia il vitto la conocchia, in mano
    Tien la bilancia, e vi sospende e posa545
    Con rigorosa trutina la lana,
    Onde i suoi figli sostentar di scarso
    Alimento; così de’ combattenti
    Equilibrata si tenea la pugna,
    Finchè l’ora pur venne in che dovea550
    Spinto da Giove superar primiero
    Ettore la muraglia. Alza ei repente
    La terribile voce, ed, Accorrete,
    Grida, o forti Troiani, urtate il muro,
    Spezzatelo, gittate alfin le fiamme555
    Vendicatrici nella classe achea.
       L’udiro i Teucri, ed incitati e densi
    Avventârsi ai ripari, e sovra il muro
    Montâr coll’aste in pugno. Appo le porte 
Un immane giacea macigno acuto:560
    Non l’avrían mosso agevolmente due
    De’ presenti mortali anche robusti
    Per carreggiarlo. A questo diè di piglio
    Ettore; ed alto sollevollo, e solo
    Senza fatica l’agitò; chè Giove565
    In man del duce lo rendea leggiero.
    E come nella manca il mandrïano
    Lieve sostien d’un arïéte il vello,
    Insensibile peso; a questa guisa
    Ettore porta sollevato in alto570
    L’enorme sasso, e va dirittamente
    Contro l’assito che compatto e grosso
    Delle porte munía la doppia imposta,
    Da due forti sbarrata internamente
    Spranghe traverse, ed uno era il serrame.575
    Fattosi appresso, ed allargate e ferme
    Saldamente le gambe, onde con forza
    Il colpo liberar, percosse il mezzo.
    Al fulmine del sasso sgangherârsi
    I cardini dirotti; orrendamente580
    Muggîr le porte, si spezzâr le sbarre,
    Si sfracellò l’assito, e d’ogni parte
    Le schegge ne volâr; tale fu il pondo
    E l’impeto del sasso che di dentro
    Cadde e posò. Pel varco aperto Ettorre585
    Si spinse innanzi simigliante a scura
    Ruinosa procella. Folgorava
    Tutto nell’armi di terribil luce;
    Scotea due lance nelle man; gli sguardi
    Mettean lampi e faville, e non l’avría,590
    Quando ei fiero saltò dentro le porte,
    Rattenuto verun che Dio non fosse.   
Alle sue schiere allor si volse, e a tutte
    Comandò di varcar l’achea trinciera.
    Obbediro i Troiani; immantinente595
    Altri il muro salîr, altri innondaro
    Le spalancate porte. Al mar gli Achivi
    Fuggono, e immenso ne seguía tumulto.
Traduzione di Vincenzo Monti (Ha latinizzato i nomi greci ad es. Poseidone è chiamato Nettuno). 
 
  Poseidone. Per i romani Nettuno.
POSEIDONE 
 
Poseidone o Posidone (in greco antico: Poseidon), è il dio del mare, dei terremoti e dei maremoti nella mitologia greca. Figlio di Crono e fratello di Zeus, di Ade, di Era, di Estia e di Demetra, Poseidone è uno dei dodici dèi dell'Olimpo. La sua consorte è la Nereide Anfitrite, dalla quale ha avuto quattro figli: Tritone, un essere mezzo uomo e mezzo pesce, Roda, ninfa marina protettrice dell'isola di Rodi (chiamata così in suo onore) e sposa di Elio, Cimopolea, dea minore delle tempeste marine molto violente, e Bentesicima, dea minore delle onde. Il simbolo del dio era il tridente e gli animali a lui sacri erano il cavallo, il toro e il delfino. Suo epiteto ricorrente è "Enosìctono". Nell'età dell'oro, Poseidone, se si fa affidamento sulle tavolette d'argilla in scrittura Lineare B giunte fino a noi, nell'antica città di Pilo era considerato il più importante tra gli dei; in queste iscrizioni il nome PO-SE-DA-WO-NE (Poseidone) ricorre con frequenza molto maggiore rispetto a DI-U-JA (Zeus). Si trova anche una variante femminile dello stesso nome, PO-SE-DE-IA, il che indica l'esistenza di una dea compagna di Poseidone che in tempi successivi venne dimenticata. Le tavolette rinvenute a Pilo riportano la memoria di sacrifici in onore de Le due regine e Poseidone oppure Le due regine e il re. L'identità che più facilmente può essere attribuita alle due regine è quella di Demetra e Persefone o di due dee loro antesignane, in ogni caso divinità che in epoche successive non furono più associate alla figura di Poseidone. Il dio era già identificato come Scuotitore di terra ovvero E-NE-SI-DA-O-NE nella Cnosso di epoca micenea, un titolo estremamente importante, soprattutto considerando che i terremoti sono stati una delle cause principali della caduta della civiltà minoica. In una delle tavolette di Pilo si trova un legame tra i nomi di Demetra e Poseidone, che compaiono come PO-SE-DA-WO-NE e DA-MA-TE, inseriti in un contesto di richieste di grazia agli dei. La sillaba DA, presente in entrambi i nomi sembrerebbe derivare da una radice protoindoeuropea associata al concetto di distribuzione di terre e privilegi, per cui Poseidone potrebbe significare Signore distributore o Compagno della distributrice parallelamente a Demetra, La madre distributrice. Nella mitologia romana fu chiamato Nettuno.
Poseidone era originariamente il dio dell'acqua (da cui il suo epiteto di Gaiéokos, "Possessore della terra" inteso come marito della Terra ovvero l'acqua che la feconda) e del terremoto (Ennosigeo, Scuotitore della terra), solo successivamente fu associato al mare. Questo perché l'ambiente originario dei Greci fu dapprima continentale, fatto dimostrato dalla rarità di nomi greci dei pesci.
Visto che la figura di Poseidone è in stretta relazione sia con il mare sia con i cavalli e considerando la lontananza dal mare delle zone in cui abitavano gli antichi indoeuropei, alcuni studiosi ritengono che Poseidone originariamente nasca come un dio-cavallo e che solo in seguito sia stato assimilato alle divinità acquatiche orientali quando i popoli greci mutarono la loro fonte di sostentamento principale passando dalla coltivazione della terra allo sfruttamento del mare con la pesca e i commerci marittimi. Secondo Pausania, Poseidone era uno dei custodi dell'Oracolo di Delfi prima che Apollo ne assumesse il controllo. Apollo e Poseidone spesso si occuparono degli stessi aspetti delle vicende umane: ad esempio durante la fase della fondazione di nuove colonie Apollo per mezzo dell'Oracolo autorizzava i coloni a partire e indicava loro dove stabilirsi, mentre Poseidone si prendeva cura dei coloni durante la navigazione verso la nuova patria e procurava le acque lustrali per celebrare i sacrifici propiziatori per la fondazione della nuova città. L'Anabasi di Senofonte descrive un gruppo di soldati Spartani che intonano, dedicandolo a Poseidone, un peana che è un tipo di inno che, normalmente, veniva dedicato ad Apollo.
Nell'antichità si diceva che Poseidone potesse con il suo tridente rovesciare intere isole, come ha fatto con l'isola di Tia.
Come anche Dioniso e le Menadi, Poseidone aveva la capacità di provocare alcune forme di disturbo mentale: uno dei testi di Ippocrate riporta come alla sua opera fosse attribuito l'insorgere di certi tipi di epilessia.
Poseidone era venerato come divinità principale in molte città: ad Atene era considerato secondo soltanto ad Atena, mentre a Corinto e in molte città della Magna Grecia era considerato il protettore della polis.
Le celebrazioni in onore di Poseidone si tenevano, all'inizio della stagione invernale, in molte città del mondo greco.
I marinai rivolgevano preghiere a Poseidone perché concedesse loro un viaggio sicuro e talvolta come sacrificio annegavano dei cavalli in suo onore. Quando mostrava il lato benigno della sua natura Poseidone creava nuove isole come approdo per i naviganti e offriva un mare calmo e senza tempeste. Quando invece veniva offeso e si sentiva ignorato allora colpiva la terra con il suo tridente provocando mari tempestosi e terremoti, annegando chi si trovasse in navigazione e affondando le imbarcazioni.
L'iconografia classica di Poseidone lo ritrae alla guida del suo carro trainato da cavallucci marini o da cavalli capaci di correre sul mare. Spesso era rappresentato insieme a delfini e con in mano il suo tridente.
Poseidone era figlio di Crono e Rea e fratello di Zeus, Ade, Estia, Demetra ed Era. Secondo Esiodo Poseidone è fratello maggiore di Zeus, mentre secondo Omero il maggiore è Zeus, Poseidone il secondo e Ade il terzo.
Esiodo racconta infatti che, come i suoi fratelli e sorelle, Poseidone venne divorato dal padre Crono e successivamente rigurgitato da esso grazie a Zeus, l'ultimogenito riuscito a sfuggire al terribile genitore grazie alla madre Rea. Secondo altre tradizioni invece Rea riuscì a salvare Poseidone: secondo Pausania diede in pasto al marito un puledro e nascose il figlio in un branco di cavalli; secondo Diodoro Siculo Rea affidò il figlio alle cure dei Telchini, magici abitanti di Rodi, e dell'Oceanina Cefira.
Poseidone insieme a fratelli e sorelle, agli Ecatonchiri e ai Ciclopi, che gli forgiarono la sua arma, il tridente, sconfisse Crono e i Titani nella Titanomachia. I Titani furono scaraventati nel Tartaro e Poseidone stesso provvide a costruire le mura di bronzo che li imprigionavano.
Quando poi si decise di dividere il mondo in tre regni, vi fu un sorteggio: Zeus ricevette il cielo, Ade, ingannato da Zeus, il mondo sotterraneo dell'oltretomba, mentre a Poseidone toccarono il mare e le acque.
Il dio del mare partecipò anche alla guerra tra gli Olimpi e i Giganti, la Gigantomachia, nella quale combatté contro il gigante Polibote e lo sconfisse tagliando un pezzo dell'isola di Coo con il suo tridente e scaraventandoglielo contro, creando così l'isola di Nisiro.
Agostino nel La città di Dio riporta la spiegazione di Varrone sull'etimologia del nome della città di Atene: la sfida tra Atena e Poseidone. In quel luogo spuntò all'improvviso un ulivo e sgorgò dell'acqua. Consultato l'Oracolo di Delfi, rispose  che l'ulivo simboleggiava la dea Atena e l'acqua il dio Poseidone e che i cittadini potevano scegliere il nome di una delle due divinità per denominare la propria città. Il re Cecrope allora convocò tutti i cittadini: i maschi votarono per Poseidone, le donne per Atena. Vinse la seconda perché si ebbe un voto in più delle donne. Allora Poseidone devastò i campi di Atene con le onde del mare e per placarne l'ira le donne furono punite: da allora in poi non avrebbero votato, nessun figlio avrebbe preso il nome della madre e nessuna sarebbe stata chiamata come la dea vincitrice della contesa.
Apollodoro invece narra che a giudicare la disputa tra le due divinità furono gli dei dell'Olimpo, che decretarono la vittoria di Atena poiché Cecrope aveva testimoniato che la dea aveva piantato l'olivo prima di Poseidone.
Si pensa che questa leggenda sia sorta nel ricordo di contrasti sorti nel periodo miceneo tra gli abitanti originari della città e dei nuovi immigrati. È interessante notare come Atene, nonostante questa scelta, all'apice del suo sviluppo fu una grande potenza navale, capace di sconfiggere la flotta persiana nella battaglia di Salamina.
In una versione della storia differente, Atena e Poseidone avevano rotto una relazione appena prima della contesa, aggiungendo quindi un altro motivo valido alla lotta per il possesso della città.
L'inno a Poseidone, incluso nella raccolta degli Inni omerici, consiste in una breve invocazione, un preambolo di sette versi che si rivolge al dio come "scuotitore della terra e delle lande marine, dio dei profondi abissi che è anche signore del Monte Elicona e dell'ampia Aigaì" e ricorda anche la sua doppia natura di dio dell'Olimpo: "domatore di cavalli e salvatore di navi".
Omero racconta che un giorno gli dei dell'Olimpo, capeggiati da Era, Atena e Poseidone, si ribellarono a Zeus e lo legarono. A salvare il Re degli Dei fu la nereide Teti, che chiamò il centimano Briareo che lo liberò.
Come punizione Zeus costrinse Poseidone e anche Apollo a servire il re di Troia Laomedonte. Questi chiese loro di costruire un'enorme cinta muraria che corresse tutt'attorno alla sua città e promise di ricompensarli per questo servizio. Il re di Troia tuttavia non mantenne la parola data. Per vendicarsi, Poseidone mandò un mostro marino ad attaccare la città, che però venne ucciso da Eracle.
Nell'Iliade Poseidone si schiera dalla parte dei Greci e in diverse occasioni scende in battaglia contro l'esercito Troiano. Tuttavia nel XX libro, interviene a salvare Enea quando il principe Troiano è sul punto di essere ucciso da Achille.
Odisseo, come racconta lui stesso, per salvarsi dal selvaggio e antropofago Ciclope Polifemo, figlio del dio del mare e della ninfa marina Toosa, lo acceca e scappa. Poseidone, da quel momento, scatena tutta la sua furia nei confronti del re di Itaca, che non ucciderà, ma costringerà per anni lontano dalla sua patria.
Poseidone non partecipa al concilio degli dei nel quale viene deciso che Odisseo potrà tornare a casa lasciando Ogigia dopo tanti anni dal momento che partecipa a un banchetto presso gli Etiopi. Quando il dio del mare, tornando dal banchetto, si accorse che Odisseo stava navigando in mare, capì che gli dei avevano deciso che potesse ritornare a casa e scatenò i venti contro il mortale, facendolo naufragare dalla propria zattera prima che arrivasse a Scheria, la patria dei Feaci.
Per punire i Feaci che avevano riportato a casa Odisseo, il dio del mare trasformò la nave e gli uomini che avevano aiutato il re di Itaca in pietra.
Uno dei miti più antichi su Corinto è raccontato da Pausania nel II secolo d.C., secondo cui sarebbe sorta una disputa tra Poseidone e Elios sul possesso dell'istmo di Corinto. Per risolvere la controversia fu chiamato in causa Briareo, uno degli Ecatonchiri. Il suo verdetto fu che l'istmo di Corinto apparteneva a Poseidone e l'acropoli di Corinto (Acrocorinto) apparteneva a Helios. Così, i greci dell'età classica rappresentavano il culto arcaico del sole-titano nella parte più alta del sito e legato a Poseidone lungo la cosa, esiste infatti un antico Santuario di Poseidone a Istmia vicino a Corinto.
«Dicono pertanto i Corinti, che Nettuno venne a contesa col Sole per la loro terra; ma il loro mediatore Briareo decise, che l’istmo, e la terra a quello confinante fosse di Nettuno, e che la rupe, la qua- le domina la città appartenesse al sole. Da quel tempo dicono, che l’istmo appartenga a Nettuno.».
 
 
  Apollo insegue Dafne. Di G. B. Tiepolo
APOLLO      
 
  Apollo (in greco antico: Apóllon; in latino: Apollo) è una divinità della religione greca e romana.
Dio della musica, della profezia, della poesia, delle arti mediche (il dio della medicina è infatti suo figlio Asclepio), delle pestilenze e della scienza che illumina l'intelletto, il suo simbolo principale è la lira. Fu venerato anche nella religione romana.
In quanto dio della poesia, è il capo delle Muse. Viene anche descritto come un provetto arciere in grado di infliggere, con la sua arma, terribili pestilenze ai popoli che lo osteggiavano. In quanto protettore della città e del tempio di Delfi, Apollo è anche venerato come dio oracolare capace di svelare, tramite la sacerdotessa, detta Pizia, il futuro agli esseri umani; anche per questo era adorato nell'antichità come uno degli dei più importanti del Dodekatheon.
Apollo era uno degli dei più celebri e influenti nell'antica Grecia; ed erano due le città che si contendevano il titolo di luoghi di culto principali del dio: Delfi, sede del  citato oracolo, e Delo. L'importanza attribuita al dio è testimoniata anche da nomi teoforici come Apollonio o Apollodoro, comuni nell'antica Grecia, dalle molte città che portavano il nome di Apollonia, dall'ideale del koûros (?????, "giovane"), che gli appartiene e dà il "suo carattere peculiare alla cultura greca nel suo complesso". Il dio delle arti veniva inoltre adorato in numerosi siti di culto sparsi, oltre che sul territorio greco, anche nelle colonie disseminate sulle rive africane del Mediterraneo, nell'esapoli dorica in Caria, in Sicilia e in Magna Grecia.
Come divinità greca, Apollo è figlio di Zeus e di Leto (Latona per i Romani) e fratello gemello di Artemide (per i Romani Diana), dea della caccia e più tardi una delle tre personificazioni della Luna (Luna crescente), insieme con Selene (Luna piena) ed Ecate (Luna calante).
Nella tarda antichità greca Apollo venne anche identificato come dio del Sole, e in molti casi soppiantò Elio quale portatore di luce e auriga del cocchio solare. Nella Religione romana, non aveva nessuna controparte, e il suo culto venne introdotto a Roma circa nel 421 a.C. In ogni caso, presso i Greci Apollo ed Elio rimasero entità separate e distinte nei testi letterari e mitologici dell'epoca, ma non nel culto, dove Apollo era ormai stato assimilato con Elio.
A differenza di altri dei, Apollo non aveva un equivalente romano diretto: il suo culto venne importato a Roma dal mondo greco, ma fu mediato anche dalla presenza nei pantheon etrusco di un dio analogo, Apulu. Ciò avvenne in tempi piuttosto antichi nella storia romana, infatti fonti tradizionali riferiscono che il culto era presente già in epoca regia. Nel 431 a.C. ad Apollo fu intitolato un tempio in una località dove già sorgeva un sacello o un'area sacra di nome Apollinar come scrive Livio III, 63, 7, in occasione di una pestilenza che afflisse la città. Durante la seconda guerra punica, invece, vennero istituiti i Ludi Apollinares, giochi in onore del dio. Il culto venne incentivato poi, in epoca imperiale, dall'imperatore Augusto, che per consolidare la propria autorità asserì di essere un protetto del dio, che avrebbe anche lanciato un fulmine nell'atrio della sua casa come presagio fausto per la sua lotta contro Antonio; tramite la sua influenza Apollo divenne uno degli dei romani più influenti. Dopo la battaglia di Azio l'imperatore fece rinnovare e ingrandire l'antico tempio di Apollo Sosiano, istituì giochi quinquennali in suo onore e finanziò anche la costruzione del tempio di Apollo Palatino sull'omonimo colle dove fu conservata la raccolta di oracoli detta Libri sibillini. In onore del dio, e per compiacere il suo imperatore, il poeta romano Orazio compose inoltre il celebre Carmen saeculare. In epoca imperiale lentamente si arrivò all'identificazione tra Apollo-Elio e l'imperatore stesso, di cui la testimonianza più notevole era il celebre colosso di Nerone che poi diede il nome al vicino anfiteatro Flavio o Colosseo. In epoca tarda il culto di Apollo tornò a separarsi da quello di Elio o Sole, che divenne un culto sincretistico: il Sol Invictus, compagno dell'imperatore, che regnava sul cielo, così come l'altro regnava in terra. In epoca tarda il culto è ancora vivo fino ai primi anni di regno di Costantino I, che, prima della sua conversione al cristianesimo, si faceva raffigurare nelle statue onorarie come il Sole. Gli stessi cristiani d'occidente utilizzarono l'iconografia di Apollo-Sole per le prime raffigurazioni di Cristo, che era raffigurato come un tipo apollineo, giovane, imberbe, con un nimbo di luce sul capo. 
Le origini del culto apollineo si perdono nella notte dei tempi. È comunque opinione comune e consolidata tra gli studiosi che il culto del dio sia relativamente recente e che, precedentemente ad Apollo, il santuario di Pito avesse una sua antichissima religione ctonia, legata al culto della Dea Madre. Lo stesso racconto di Eschilo su Apollo che riceve il santuario da Gea, Febe e Temi, tenderebbe a confermarlo. Una teoria però, basata sulla decifrazione degli enigmatici e tanto discussi documenti greci di Glozel (Vichy, Francia), tenderebbe ad ampliare il quadro mitico-storico interessante l'oracolo e collegherebbe la nuova, non identificata divinità, alla vicenda cadmea di Europa e a quella dell'alfabeto portato dallo stesso Cadmo in Beozia in periodo premiceneo. Divinità semitica che di quell'alfabeto, di provenienza siro-palestinese, era l'assoluta detentrice. Il santuario ctonio di Pito era stato dunque occupato, in qualche modo, da una divinità non greca la quale però, a sua volta, venne grecizzata, secondo quanto fa intendere il noto racconto erodoteo  sulla cacciata dei Cadmei, ovvero dei semiti, da parte degli Argivi. Tuttavia la divinità inglobata nella sfera della cultura greca manteneva alcuni dei caratteri orientali della divinità, come ad esempio l'ineffabilità, la figura androgina, l'aspetto di dio cacciatore e inseguitore del lupo (da cui Apollo Liceo), le qualità di dio ambiguo od obliquo (Lossia) ma, per chi sapeva capirlo rettamente, salvatore e liberatore. Con la calata dei Dori (XII-XI secolo a.C.), una volta annientati i Micenei, il santuario, verosimilmente, subì l'umiliazione e la distruzione dei vincitori e solo verso il IX-VIII secolo a.C. fu riaperto e si risollevò, ma con un Lossia del tutto trasformato e in linea con la nuova religione. Il potentissimo dio androgino di origine semitica entrerebbe così a far parte della sacra famiglia olimpica, sdoppiandosi in Apollo e Artemide e diventando figlio di Zeus e di Leto. Sempre secondo questa teoria, supportata da accertati documenti, la famosa E apud Delphos (la lettera alfabetica epsilon posta tra le colonne nell'ingresso del santuario apollineo) di cui scrive Plutarco, la "E" che stava alla base dell'epifonema esprimente 'acuto dolore' (Esichio) dei fedeli, potrebbe fornire la prova che il nome di Apollo (mai sufficientemente compreso e spiegato dagli studiosi: Farnell, Kern, Hrozny, Nilsson, Cassola, ecc.) fosse derivato da un A/E -pollòn (il grido di dolore "ah!, eh!" esclamato più volte, così come testimoniano la letteratura greca tragica e paratragica). 
Nell'età del bronzo greca non esistono attestazioni (almeno nelle tavolette di lineare B note) ad Apollo. Ne esistono invece numerose per il dio Paean, un epiteto di Apollo in età classica, noto in Acheo come pa-ja-wo-ne (e collegato con numerosi santuari antichi di Apollo). Paean è il guaritore degli dei, e il dio della magia e del canto (da cui peana) magico-profetico. Come dio della cura Paean compare anche nell'Iliade, dove, significativamente, non è completamente sovrapposto con Apollo (che parteggia esclusivamente per i troiani).
Infatti esisteva un importante dio anatolico (forse connesso con l'antica religione indoeuropea, e simile al dio vedico Rudra o meglio alla coppia Rudra-Shiba), noto come Aplu (stranamente lo stesso nome dell'Apollo etrusco) che è un dio terribile, legato alla malattia, ma anche alla cura, e un potente arciere, forse anche un protettore della caccia e degli animali selvatici. Per gli Ittiti e gli Hurriti Aplu era il dio della peste e della fine della pestilenza (come nell'Iliade). Per gli Hurriti soprattutto andava collegato agli dei mesopotamici Nergal e Šamaš. Molti culti anatolici sono legati alla profezia e alle sacerdotesse (o anche ai sacerdoti) che cadono in trance mistica per profetizzare, proprio come le sacerdotesse di Apollo a Delfi. Apollo, come già ricordato, è uno degli dei che parteggiano per l'asiatica e anatolica città di Troia nell'Iliade, forse elemento che nasconde una reminiscenza micenea, ovvero un dio che durante la fine dell'età del bronzo non sarebbe ancora greco, ma decisamente anatolico, e sarebbe aggiunto agli olimpi solo in un momento successivo a quella guerra (si veda anche di seguito).
Sempre in età arcaica, con probabili connessioni al periodo miceneo, esistono dei riferimenti ad Apollo Smintheus, il dio "ratto" legato all'agricoltura (forse una divinità pre-indeuropea, assunta a epiteto del dio Apollo), e in particolare ad Apollo Delfino. Questo epiteto di Apollo, molto venerato a Creta e in alcune isole egee, potrebbe essere un dio marino minoico. Ma Apollo poteva trasformarsi in tutti gli animali, fra cui proprio nei delfini, sovente raffigurati nell'arte minoica. Delfino (Delphinios) è un'etimologia alternativa a grembo (Delphyne) per il principale santuario del dio a Delfi. Sempre nella, per ora pressoché sconosciuta, religione minoica esisteva una signora degli animali, collegabile ad Artemide-Diana, o anche a Britomarti/Diktynna (nome a sua volta presumibilmente di etimologia minoica), che presumibilmente avrebbe dovuto avere un doppio maschile. E se la divinità femminile è antesignana di Artemide, quella maschile è da porsi in riferimento ad Apollo. Inoltre i sacerdoti di Apollo a Delfi si definivano Labryaden, nome che a sua volta rimanda alla doppia ascia e al labirinto, simboli religiosi importanti per i Cretesi. Tutti questi riferimenti secondo questa meticolosa ma discutibile analisi portano a ipotizzare che nell'Apollo classico siano confluiti uno o più dei minoici o comunque pre-indeuropei della Grecia e almeno un dio anatolico. 
Apollo è normalmente raffigurato coronato di alloro, pianta simbolo di vittoria, sotto la quale alcune leggende volevano che il dio fosse nato e anche in virtù dell'epilogo del suo infatuamento per Dafne (che in greco significa lauro, alloro). Suoi attributi tipici sono l'arco, con le sue portentose frecce, e la cetra. Altro suo emblema caratteristico è il tripode sacrificale, simbolo dei suoi poteri profetici. Animali sacri al dio sono i cigni (simbolo di bellezza), i lupi, le cicale (a simboleggiare la musica e il canto), e ancora i falchi, i corvi, i delfini, in cui spesso il dio amava trasformarsi e i serpenti, questi ultimi con riferimento ai suoi poteri oracolari. E ancora il gallo, come simbolo dell'amore omosessuale, diversi, infatti, gli uomini di cui il dio s'innamorò. Altro simbolo di Apollo è il grifone, animale mitologico di lontana origine orientale. 
Apollo nacque, come sua sorella gemella Artemide, dall'unione extraconiugale di Zeus con Leto. Quando Era seppe di questa relazione, desiderosa di vendetta proibì alla partoriente di dare alla luce suo figlio su qualsiasi terra, fosse essa un continente o un'isola. Disperata, la donna vagò fino a giungere sull'isola di Delo, appena sorta dalle acque e, stando al mito, ancora galleggiante sulle onde e non ancorata al suolo. Essendo perciò Delo non ancora una vera isola, Leto poté darvi alla luce Apollo e Artemide, precisamente ai piedi del Monte Cinto.  
Poco più che bambino, Apollo si cimentò nell'impresa di uccidere il drago Pitone, colpevole di aver tentato di stuprare Leto mentre questa era incinta del dio. Partito da Delo, Apollo subito si diresse verso il monte Parnaso, dove si celava il serpente Pitone, nemico di sua madre, e lo ferì gravemente con le sue frecce forgiate da Efesto. Pitone si rifugiò presso l'oracolo della Madre Terra a Delfi, città così chiamata in onore del mostro Delfine, compagna di Pitone; ma Apollo osò inseguirlo anche nel tempio e lo finì dinanzi al sacro crepaccio. La Madre Terra, oltraggiata, ricorse a Zeus che non soltanto ordinò ad Apollo di farsi purificare a Tempe, ma istituì i giochi pitici in onore di Pitone, e costrinse Apollo a presiederli per penitenza. Apollo, invece di recarsi a Tempe, andò a Egialia in compagnia della sorella Artemide, per purificarsi; e poiché il luogo non gli piacque, salpò per Tarra a Creta, dove re Carmanore eseguì la cerimonia di purificazione. Al suo ritorno in Grecia, Apollo andò a cercare Pan, il dio arcade dalle gambe di capra e dalla dubbia reputazione, e dopo avergli strappato con blandizie i segreti dell'arte divinatoria, si impadronì dell'oracolo delfico e ne costrinse la sacerdotessa, detta pitonessa o la Pitia, a servirlo. 
Apollo e Tizio 
Leto si era recata con Artemide a Delfi, dove si appartò in un sacro boschetto per adempiere a certi riti. Era, per vendicarsi di Leto suscitò un forte desiderio al gigante Tizio, che stava tentando di violentarla, quando Apollo e Artemide, udite le grida della madre, accorsero e uccisero Tizio con nugolo di frecce: una vendetta che Zeus, padre di Tizio, giudicò atto di giustizia. Nel Tartaro Tizio fu condannato alla tortura con le braccia e le gambe solidamente fissate al suolo e due avvoltoi gli mangiavano il fegato. 
Apollo, Marsia e i figli di Niobe  
Altre azioni che gli sono state attribuite dai miti durante la giovinezza, non furono così nobili: il dio sfidò il satiro Marsia (o, secondo altre fonti, venne da questi sfidato) in una gara musicale di flauto; in seguito alla vittoria, per punire l'ardire del satiro, che si era impudentemente vantato di essere più bravo di lui, lo fece legare a un albero e scorticare vivo. Un altro mito racconta invece come si vendicò terribilmente di Niobe, regina di Tebe, la quale, eccessivamente fiera dei suoi quattordici figli (sette maschi e sette femmine), aveva deriso Leto per averne avuti solo due. Per salvare l'onore della madre, Apollo, insieme con sua sorella Artemide, utilizzò il suo terribile arco per uccidere la donna e i suoi figli, risparmiandone solo due, Amicla e Clori, i quali riuscirono a ottenere la pietà dei fratelli divini. 
Apollo e Admeto 
Quando Zeus uccise Asclepio, figlio di Apollo, come punizione per aver osato resuscitare i morti con il suo talento medico, il dio per vendetta massacrò i ciclopi, che avevano forgiato i fulmini di Zeus. Stando alla tragedia di Euripide Alcesti, come punizione per questo suo gesto Apollo venne costretto dal padre degli dei a servire l'umano Admeto, re di Fere, per nove anni. Apollo lavorò dunque presso il re come pastore, e venne da costui trattato in modo tanto gentile che, allo scadere dei nove anni, gli concesse un dono: fece sì che le sue mucche partorissero solo vitelli gemelli. In seguito, il dio aiutò Admeto a ottenere la mano di Alcesti, che per volere del padre sarebbe potuta andare in sposa solo a chi fosse riuscito a mettere il giogo a due bestie feroci: Apollo gli regalò dunque un carro trainato da un leone e un cinghiale. 
Apollo e Orfeo 
Orfeo era un suonatore di cetra. Perse sua moglie Euridice, per cui tentò di salvarla dagli Inferi ma non ci riuscì. Sedusse Persefone con la sua musica e in cambio chiese di riportare in vita Euridice e lei acconsentì a un solo prezzo: non dovette guardare sua moglie finché non fossero stati all'uscita degli Inferi. Ma lui, quasi alla fine del corridoio che conduceva alla salvezza, si girò e lei morì per sempre. Disperato tentò il suicidio e distrusse la sua cetra. Così Apollo, lo prese con sé e lo portò sull'Olimpo. 
Apollo ed Ermes 
Un mito degli inni omerici racconta dell'incontro tra il giovane Ermes e Apollo. Il dio dei ladri, appena nato, sfuggì infatti alla custodia della madre Maia e incominciò a vagabondare per la Tessaglia, fino a imbattersi nel gregge di Admeto, custodito da Apollo. Ermes riuscì con uno stratagemma a rubare gli animali e, dopo essersi nascosto in una grotta, usò gli intestini di alcuni di essi per confezionarsi una lira; un'altra leggenda a questo proposito parla invece di un guscio di tartaruga. Quando Apollo, infuriato, riuscì a rintracciare Ermes e a pretendere, con l'appoggio di Zeus, la restituzione del bestiame, non poté fare a meno di innamorarsi dello strumento e del suo suono, e accettò infine di lasciare a Ermes il maltolto, in cambio della lira, che sarebbe diventata da allora uno dei suoi simboli sacri. Divenne quindi il dio della musica, mentre Ermes venne considerato anche come il dio del commercio. La lira poi passò a Orfeo; alla morte di questi, Apollo decise di tramutarla in cielo nell'omonima costellazione. 
Apollo e Oreste 
Apollo ordinò a Oreste, tramite il suo oracolo di Delfi, di uccidere sua madre Clitennestra; per questo suo crimine Oreste venne a lungo perseguitato dalle Erinni.
 
Apollo durante la guerra di Troia 
L'inizio dell'Iliade di Omero vede Apollo schierato a fianco dei Troiani, durante la guerra di Troia. Il dio era infatti infuriato con i Greci, e in particolare con il loro capo Agamennone, per il rapimento da questi perpetrato di Criseide, giovane figlia di Crise, sacerdote di Apollo. Per vendicare l'affronto, il dio decimò le schiere achee con le sue terribili frecce, fino a che il capo dei Greci non acconsentì a rilasciare la prigioniera, pretendendo in cambio Briseide, schiava di Achille. Questo fatto provocò l'ira dell'eroe Mirmidone, che è uno dei temi centrali del poema.
Apollo continuò comunque a parteggiare per i Troiani durante la guerra: in un'occasione salvò la vita a Enea, ingaggiato in duello da Diomede. Da non dimenticare, infine, l'importantissimo aiuto che il dio offrì a Ettore e a Euforbo nel combattimento che li vedeva avversari del potente Patroclo, amante e allievo del valoroso Achille; il dio infatti, oltre ad aver stordito il giovane, che i Troiani avevano scambiato per il re mirmidone, vista l'armatura che indossava, lo privò di quest'ultima sciogliendola come neve al sole. Distrusse perfino la punta della lancia con cui Patroclo stava mietendo vittime tra le file troiane.
Fu infine Apollo a guidare la freccia scoccata da Paride che colpì Achille al tallone, l'unico suo punto debole, uccidendolo. 
Apollo e Daphne 
Un giorno, Cupido, stanco delle continue derisioni di Apollo, che vantava il titolo di dio più bello, di essere il dio della poesia nonché un arciere migliore di lui, colpì il dio con una delle sue frecce d'oro, facendolo cadere perdutamente innamorato della ninfa Daphne. Allo stesso tempo però, colpì anche la ninfa con una freccia di piombo arrugginita e spuntata in modo che rifiutasse l'amore di Apollo e addirittura rabbrividisse per l'orrore alla sua vista. Perseguitata dal dio innamorato, la ninfa, piangendo e gridando, chiese aiuto al padre Penéo, dio del fiume omonimo, che la tramutò in una pianta di lauro (alloro). Apollo pianse abbracciando il tronco di Daphne, che ormai era un albero. Per questo il lauro divenne la pianta prediletta da Apollo con la quale era solito far ornare i suoi templi e anche i suoi capelli. 
Apollo e Giacinto 
Uno dei miti più conosciuti riferiti al dio è quello della sua triste storia d'amore con il principe spartano Giacinto, mito narrato, fra gli altri, da Ovidio nelle sueMetamorfosi. I due si amavano profondamente, quando un giorno, mentre si stavano allenando nel lancio del disco, il giovane venne colpito alla testa dall'attrezzo lanciato da Apollo, spintogli contro da Zefiro, geloso dell'amore fra i due. Ferito a morte, Giacinto non poté che accasciarsi tra le braccia del compagno che, impotente, lo trasformò nel rosso fiore che porta il suo nome, e con le sue lacrime tracciò sui suoi petali le lettere ?? (ai), che in greco è un'esclamazione di dolore. Saputo che Tamiri, un pretendente "scartato" da Giacinto, reputava di superare le muse nelle loro arti, il dio andò dalle sue allieve per riferire tali parole. Le muse, allora, privarono Tamiri, reo di presunzione, della vista, della voce e della memoria. 
Apollo e Cassandra 
Per sedurre Cassandra, figlia del re di Troia Priamo, Apollo le promise il dono della profezia. Tuttavia, dopo aver accettato il patto, la donna si tirò indietro, rimangiandosi la parola data. Il dio allora, sputandole sulle labbra, le diede sì il dono di vedere il futuro, ma la condannò a non venir mai creduta per le sue previsioni. La previsione più tragica e inascoltata di Cassandra fu la caduta di Troia. 
Apollo e Marpessa 
Apollo amò anche una donna chiamata Marpessa, che era contesa fra il dio e l'umano chiamato Ida. Per dirimere la contesa tra i due intervenne addirittura Zeus che decise di lasciare la donna libera di decidere; questa scelse Ida, perché consapevole del fatto che Apollo, essendo immortale, si sarebbe stancato di lei quando l'avesse vista invecchiare. 
Apollo e Melissa 
Secondo un altro mito, Apollo s'innamorò della ninfa Melissa. Fu un amore profondo e incondizionato, e il dio lasciò spazio soltanto alla fedele e totale devozione per la fanciulla piuttosto che adempiere i suoi doveri da divinità del Sole. Il carro del Sole venne quindi sempre meno guidato e trasportato, e il mondo cadeva sempre più nelle tenebre. Allora, per un decreto di entità superiori, Apollo venne punito e la ninfa venne trasformata in un'ape regina. Fu così che la meschina ragione infranse il cuore del dio.
 
  
  Nascita di Apollo e Artemide. Di Marcantonio Franceschini
AUDIO
Eugenio Caruso - 06 - 10 - 2021 
		 
        
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