Omero, Iliade, Libro XIII. I troiani superano il muro eretto dagli achei.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.


RIASSUNTO XIII LIBRO

È Poseidone il protagonista della prima parte del tredicesimo libro dell’Iliade. Preoccupato per la sorte degli Achei e adirato con Zeus, il dio del mare assume le sembianze di Calcante per infondere vigore allo schieramento che gli è caro, cominciando dai due Aiaci. Ettore è come un macigno che rotola da una vetta: investe tutto quanto gli si para davanti, ma poi è costretto ad arrestare lo slancio di fronte al muro oppostogli dalla schiera compatta degli Achei. Lo scontro infuria violento e il poeta lo descrive con particolari anche molto crudi, come la decapitazione del cadavere di Imbrio da parte di Aiace figlio di Oileo che ne scaglia la testa “come una palla tra la massa dei Troiani”.
Per rivolgersi a Idomeneo e incoraggiarlo, Poseidone prende la voce di Toante. A sua volta il consigliere dei Cretesi sollecita il saggio Merione a tornare in prima fila. I due si riarmano di lancia e muovono verso la parte sinistra dello schieramento, al momento la più debole ed esposta alla pressione dei Troiani. Da una parte e dall’altra gli eroi cadono sotto i colpi dei nemici che aggiungono lo scherno di commenti crudeli alle ferite mortali inflitte. Enea vuole vendicare il cognato e va in cerca di Idomeneo che però lo attende senza indietreggiare, fiducioso della propria forza, ma senza tralasciare di chiamare a raccolta i suoi compagni.
I due si affrontano, ma nessuno riesce ad avere la meglio. La battaglia si frammenta in scontri personali, in vendette da consumarsi all’istante, subito rimpiazzate da nuove “offese” e offensive. Polidamante torna a rimproverare Ettore, accusandolo di essere incapace di ascoltare i consigli degli altri. Eppure dovrebbe saperlo che Zeus non concede tutte le qualità a uno solo; dunque, se pure lui è il più forte dei Troiani, deve accettare di buon grado i suggerimenti di chi (come lui, Polidamante – è sottinteso!) è in grado di avere una visione migliore della situazione. Questa volta Ettore la prende bene e lo asseconda, lasciandolo sul posto perché trattenga i migliori dei combattenti, mentre egli torna in prima linea. Il libro si chiude con il duello di parole tra Ettore e Aiace, mentre le grida mescolate di Achei e Troiani salgono al cielo, “fino alla luce di Zeus”.

TESTO LIBRO XIII

Spinti i Troiani cosí con Ettore, sopra le navi,
Giove qui li lasciò, fra pianti e continuo travaglio;
ed egli altrove gli occhi fulgenti rivolse, a guardare
lungi, la terra dei Traci che allevan corsieri, dei Misi
prodi a combatter da presso, dei belli Ippomòlgi, che latte
cibano equino, degli Abî, fra gli uomini tutti i piú giusti;
né verso Troia piú volgeva il suo fulgido sguardo,
perché nessuno, certo, pensava, dei Numi d’Olimpo,
osato avrebbe dare soccorso ai Troiani e agli Argivi.
Però, cieco il Signore che scuote la terra, non era:
stava a vedetta, mirava stupito lo scontro di guerra,
alto, sovressa la cima piú alta di Samo di Tracia
fitta di selve; e di qui distinta vedea tutta l’Ida,
vedeva la città di Priamo, ed i legni d’Acaia.
Quivi era accorso, balzando dal mare; e pietà degli Achivi
sentia
, cosí fiaccati, ardea contro Giove di sdegno.
Giú, senza indugio, balzò dai dirupi del monte, volgendo
rapidi i passi: i monti tremavano eccelsi e le selve
sotto i piedi immortali del Nume che scuote la terra.

poseid
Poseidone

Tre volte il passo spinse, col quarto raggiunse la mèta,
Ege, dov’è per lui costrutta, nel fondo dei gorghi,
l’inclita casa d’oro, che folgora tutta, immortale.
Quivi al carro aggiogò due cavalli dal piede di bronzo,
rapidi al corso, che d’oro avevan le chiome: egli stesso
d’oro le membra tutte recinse, in man prese una sferza
bene costrutta, d’oro, salí sopra il cocchio, e i corsieri
spinse sui flutti.
 I mostri del mare balzâr d’ogni parte,
dagli abissi, riconobbero il loro Signore:
e per la gioia il mare si schiuse: con rapida furia
quelli volavano; e l’asse di bronzo neppur fu bagnato.
Una spelonca larga, del mare nei bàratri fondi,
s’apre, fra Tènedo ed Imbro tutta irta di rocce. I cavalli
fermò quivi il Signore che scuote la terra, dal carro
li sciolse, e innanzi a essi, perché si cibassero, pose
l’ambrosia biada, ai piedi li strinse con auree pastoie
che non si frangono o spezzano, acciò che il ritorno del Nume
quivi attendessero; ed egli si volse all’esercito achèo.
Stretti i Troiani, intanto, che fuoco parevan, procella,
con implacata furia seguiano di Priamo il figlio,
con grida alte e frastuono: speravan le navi d’Acaia
prendere, e, presso quelle, dar morte a quanti eran piú prodi.
Ma il Dio che scuote e stringe la terra, Posídone sire,

fuori balzò dagli abissi del mare, e fe’ cuore agli Achivi.
Ei di Calcante assunse l’aspetto e la voce possente;
e pria disse agli Aiaci, che eran da sé tutta furia:
«Voi due potete, Aiaci, salvare gli Achivi, se il cuore
non alla fuga orrenda, bensí volgerete all’offesa.
Nell’altre parti no, dei Troiani le mani gagliarde
io non pavento, che a frotte passarono sopra il gran muro:
ch’ivi frenarli sapranno gli Achei dalle belle gambiere;
ma qui, pavento assai che ci debba toccare un malanno,
dove s’avanza 
questo furente, che pare una fiamma,
Ettore, che si vanta figliuolo di Giove possente.
Cosí voi due potesse convincere alcuno dei Numi
a far fronte voi stessi da prodi, a incitar l’altra gente!
Spingerlo allor potreste lontan dalle rapide navi,
per quanto infurî, pure se Giove egli stesso lo incita».
E, cosí detto, il Nume che cinge, che scuote la terra,
col suo bastone entrambi percosse, e di furia gagliarda
li empie’, leggeri i piedi ne rese, le mani, le membra.

Ed egli a volo surse, che sembrò sparviere veloce
che da un’altissima rupe scoscesa libratosi a volo,
giú, per cacciare un altro pennuto, si lancia nel piano.
Tal si spiccò da loro il Nume che scuote la terra.
E primo Aiace, figlio veloce d’Ilèo, lo conobbe,
e volse al Telamonio cosí la veloce parola:
«Aiace, uno dei Numi d’Olimpo, l’aspetto del vate
assunse, e ci ordinò di combattere presso le navi.
Non è costui Calcante, l’interprete saggio d’auspíci:
le mosse ho conosciute bene io delle gambe e dei piedi,
quando è da noi partito: ch’è facil conoscere i Numi.
E vedi, ora, anche a me, nel fondo del petto, il mio cuore
s’agita piú di prima, per muovere a guerra ed a zuffa,
fremere i piedi sotto mi sento, e le valide mani».

aiace 3
Il suicidio di AIACE di Nicolas Poussin

Il Telamonio Aiace rispose con queste parole:
«Ed anche a me cosí, le mani che stringon la lancia
fremono, e l’ira mia si desta, ed entrambi i miei piedi
sento balzarmi sotto, m’invade desío d’affrontare
Ettore, ch’or senza tregua c’investe; e sia pure da solo».
Queste parole cosí scambiarono l’uno con l’altro,
lieti per quell’ardore pugnace, ispirato dal Nume.
E dietro ad essi, il Nume che scuote la terra, eccitava
gli Achei,
 che stavan presso le navi, a riprendere fiato.
Eran le membra loro fiaccate da orrenda stanchezza,
e li rodeva un cruccio nel cuore, vedendo i Troiani
ch’eran passati a frotte di là dalla grande muraglia:
lagrime a essi dai cigli sgorgavano; e piú del malanno
non aspettavano scampo; ma il Nume che scuote la terra,
agevolmente eccitò, movendo fra lor, le falangi.
A Teucro prima il Nume rivolse e a Lèito il comando,
a Penelèo l’eroe, e a Dípiro insieme, a Toante,
a Meríone, ad Antiloco, esperti nel grido di guerra;
a questi, ad eccitarli, rivolse parole veloci:
«Vergogna, Achei, novellini, ragazzi! Se voi combatteste,
le nostre navi, certo ne sono, salvare potreste;
ma se pensate invece la guerra schivare, e i suoi lutti,
ora è spuntato il dí che i Troiani vi debban fiaccare.
Ahi!, che prodigio strano questo è, ch’ora io debbo vedere
con questi occhi, che mai creduto possibile avrei,
che sulle nostre navi sarebbero giunti i Troiani,
simili un tempo a cerve fugaci, che preda nel bosco
divengon di pantere, di lupi e sciacalli, ché a caso
vanno fuggendo, ché imbelli sono esse, né sanno la zuffa.
Cosí prima i Troiani resister, sia pure un istante,
dei guerrïeri achèi non potevano ai colpi e alla furia;
e or presso le navi combatton, lontano da Troia,
perché dappoco è il duce, perché la sua gente è infingarda
che seco lui contrasta, né vuole pugnare a difesa
delle veloci navi, ma cade su queste trafitta.
Ebbene, anche se proprio la colpa di tutti i malanni
sopra Agamènnone cade, sul figlio possente d’Atrèo,
perché fece al veloce di Pèleo figlio un oltraggio,
non è concesso a noi per ciò trascurare la guerra.

Su’, procuriamo un rimedio! Sanabile è il cuore dei prodi.
Bello non è che voi trascuriate la fiera battaglia,
quando i piú forti siete del campo. Non io con un uomo
m’adirerei, che la pugna schivasse, se fosse un vigliacco;
ma pieno è contro voi davvero di sdegno il mio cuore.
gente frolla, certo farete maggiore il malanno
con l’indolenza vostra!
 Su’ presto, pudore e vergogna
riscuota ognuno in cuore: ché fiera è la zuffa impegnata:
Ettore presso le navi combatte, guerriero gagliardo,
prode nell’urlo di guerra, spezzata ha la porta e la sbarra».
Con tali ordini, dunque, Posìdone scosse gli Achivi.
si disposero in due falangi vicine ad Aiace,
salde, che, neppur Marte, né Atena che i popoli scuote,
se fosser giunti, opporre potevano biasimo; e l’urto
d’Ettore e dei Troiani, qui scelti attendeano i piú forti
,
l’asta assiepando all’asta, lo scudo allo scudo proteso,
sicché scudo era a scudo puntello, elmo a elmo, uomo a uomo;
e si toccavan degli elmi criniti le lucide creste,
a ogni mossa: tanto fitti erano, l’uno su l’altro,
squassate eran le lance sporgenti dai pugni gagliardi,
e d’avanzare brama li ardea, d’appiccare la pugna.
E contro loro i Troiani cozzarono; ed Ettore primo
correa, simile a masso che rotola giú da una rupe,
cui dalla somma vetta, con impeto d’acque infinito,
spinse un torrente, e i sostegni scalzò dell’immane macigno:
vola a gran balzi in alto, rimbombano sotto le selve,
e innanzi corre, e intoppo non trova, sinché giunge al piano,
e qui, per quanto grande sia pur la sua furia, s’arresta.
Ettore, similemente, sin qui, fatto aveva minaccia
che giunto al mare, ai legni, sarebbe, e alle navi d’Acaia,
strage menando; ma poi che urtò nelle strette falangi,
stette, serrato ad esse di contro. 
E di contro, gli Achivi,
lui con le spade colpendo,
 col duplice taglio dell’asta,
lungi lo spinsero; ed egli dove’, pur fremendo, ritrarsi.
E a sé chiamò, levando altissimo grido, i Troiani:
«Troiani, Lici, e voi, valenti a pugnare dappresso,
Dàrdani, state saldi: piú a lungo gli Achei non potranno
reggere all’urto mio,
 per quanto si stringano a torre:
sotto la lancia mia dovranno piegar, se alla zuffa
me sospingeva d’Era lo sposo, che il primo è dei Numi».

Questo dicendo, eccitò la furia, il valore d’ognuno.
Deífobo, figliuolo di Priamo, con piglio superbo
movea tra i primi, e innanzi reggeva librato lo scudo,
lieve sui pie’, che i passi movea dello scudo al riparo.
Lui Merióne tolse di mira con l’asta lucente,
e lo colpi nello scudo librato, di pelle di toro;
né lo fallí; ma neppure pote’ traversarlo: la punta
della zagaglia lunga si ruppe assai prima. E lontano
dal corpo suo lo scudo Deífobo tenne, temendo
di Merióne guerriero la lancia; e lontano l’eroe
si ritirò, fra le schiere dei suoi: ché gran cruccio lo ardeva
della vittoria perduta, dell’asta che franta gli s’era;
ed alle tende e alle navi d’Acaia si volse, per tôrre
una sua lunga lancia, che avea nella tenda lasciata.
E combattevano gli altri, né mai tregua aveva il frastuono.
Teucro Telamonio per primo ivi uccise un campione,
Imbrio, di Mentore figlio, signore di molti cavalli.
Pria che giungessero i figli d’Acaia, abitava il Pedèo,
e una figlia spuria di Priamo, Medesicasta
era sua moglie; e quando poi giunser dei Danai le navi,
tornò di nuovo a Ilio, distinto fra tutti i Troiani,
e abitava con Priamo, che caro lo avea come un figlio.
Lui con la lunga lancia colpi Teucro sotto l’orecchio,
poi trasse il ferro; e quello, giù cadde che un frassino parve,
che sulla vetta d’un monte, visibile a tutti da lungi,
reclina al suol, recise dal bronzo, le tenere frondi:
cosí piombò, su lui rimbombarono l’armi di bronzo.
E Teucro si lanciò, che l’armi bramava predargli:
Ettore contro, mentre movea, gli vibrò la sua lancia;
egli però, che vide, la punta di bronzo, per poco
giunse a schivare; e trafisse la cuspide Anfínomo, figlio
d’Attorïóne Cteàto, che a pugna moveva, nel seno:
cadde con un rimbombo, su lui rintronarono l’armi.
Ettore súbito allora si lanciò, per trarre l’elmetto
bene adattato alle tempie, dal capo ad Anfínomo prode;
ma mentre ei si lanciava, su lui l’asta lucida Aiace
vibrò; ma non raggiunse le carni;
 ché tutte nascoste
erano d’orrido bronzo: l’umbone colpí dello scudo,
l’urtò con la sua furia gagliarda; e da entrambi i caduti
Ettore indietro cede’, li trassero lungi gli Achivi.
Stichïo, dunque, e il divino Menèsteo, principi entrambi,
d’Atenïesi, portarono Anfímaco in mezzo agli Achivi.
Imbrio portato fu dagli Aiaci bramosi di pugne.
Simili a due leoni, che quando han rapito una capra
ai denti aspri dei cani, la portano via fra le macchie,
tra le mascelle stretta la tengon, sospesa dal suolo:
sospeso alto cosí tenendolo entrambi gli Aiaci,
l’armi predavano; e il capo spiccato dal tenero collo,
il figlio d’Oïlèo, d’Anfímaco a far le vendette,
lo roteò, lo scagliò fra le turbe, che parve una palla.
D’Ettore innanzi ai pie’ ruzzolò nella polvere. E allora,
tutto di fiero sdegno s’empie’ di Posídone il cuore,
pel suo nipote, ch’era caduto nell’orrida mischia;
e i passi volse verso le tende e le navi d’Acaia,
cuore facendo ai Dànai, nel lutto spingendo i Troiani.

Idomenèo s’imbatte’ per primo nel Nume. Lasciato
da poco aveva un suo compagno, che giunto ferito
gli era da un colpo di punta nel pòplite, or or dalla zuffa.
L’avean gli amici addotto, l’aveva affidato l’eroe
ai medici: ora, verso la tenda moveva, ché brama
lo ardeva ancor di pugne. E il Nume che scuote la terra,
gli disse, e avea la voce del figlio d’Andrèmo, Toante,
l’eroe che nell’eccelsa Calídone, e in tutta Pleurona
sugli Ètoli regnava, godeva d’onori divini:
«Idomenèo, che i Cretesi consigli, ove son le minacce
che contro Troia, un tempo, lanciavano i figli d’Acaia?»
Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Sopra nessuno, adesso, Toante, ricade la colpa,
per quanto io so: ché bene sappiamo combattere tutti,
né alcuno è da codardo timore frenato, né lungi
sta per pigrizia dalla funesta battaglia; ma questo
deve piacere certo che avvenga al possente Croníde,
che senza gloria, lungi soccombano d’Argo gli Achivi.
Ma via, giacché, Toante, tu ognor con intrepida fronte
bene eccitare sai, se svogliati li vedi, anche gli altri,
non ti stancare adesso, ma scuoti uno a uno i compagni».
E a lui cosí rispose il Nume che scuote la terra:
«Idomenèo, non possa tornare di Troia alla patria,
ma qui possa restare, ludibrio dei cani, quell’uomo
che voglia in questo giorno, ritroso mostrarsi alla zuffa.
Su, dunque, impugna l’armi, vien qui, ché vogliamo all’assalto
muovere insieme, 
se rechi vantaggio questo essere in due:
vale la forza unita di gente, sia pure dappoco;
e noi, pure coi forti sappiamo affrontare la zuffa».
Disse; e di nuovo il Dio si avviò fra il travaglio di morte.
E Idomenèo, poiché fu giunto alla solida tenda,
cinse alle membra l’armi sue belle, impugnò due zagaglie,
e mosse, che pareva la folgore, quando il Croníde,
strettala in pugno, la squassa dai picchi fulgenti d’Olimpo,
segno del Nume ai mortali: ben lunge ne brillano i raggi.
Cosí fulgeva il bronzo sul petto all’eroe che correva.
Merióne incontro gli giunse, il suo prode scudiero,
presso alla tenda ancora: veniva a cercare la lancia.
Idomenèo gagliardo, cosí la parola gli volse:
«O Merïone, figlio veloce di Mòlo, diletto
fra tutti, a che qui vieni, lasciando la guerra e la zuffa?
Ferito sei tu forse, ti ambascia la punta d’un dardo,
oppur qualche messaggio sei giunto a recarmi? Ma io
restar qui nella tenda non voglio, anzi correre a lotta».
E a lui queste parole Meríone saggio rivolse.
«Idomenèo, dei Cretesi dall’arme di bronzo signore,
vengo, se mai nella tenda ti fosse rimasta una lancia:
io prender la vorrei: ché quella che or ora impugnavo,
quando lo scudo colpii del superbo Deífobo, ruppi».
Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Lancie, se tu ne vuoi, non una ne trovi, ma venti,
dentro la tenda mia, poggiate ai lucenti sostegni:
lancie troiane sono, predate agli uccisi: ché io
non soglio no, mi pare, combatter lontano ai nemici:
lancie però qui sono, qui scudi coperti di borchie,
elmi e corazze sono che spandono vivo fulgore».
E a lui queste parole rispose Merióne saggio:
«Ho molte spoglie anch’io di Teucri, vicino alla nave,
dentro la tenda mia; ma troppo mi sono lontane:
ché neppure io, ti dico, dimentico son del valore,
ma nella zuffa, dove si provano gli uomini, saldo
io sto fra i primi, quando si leva la furia di guerra.
Potrò sfuggire, quando combatto, a qualcun degli Achivi;
ma tu con gli occhi tuoi, mi credo, hai dovuto vedermi».
E Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Il tuo valore, qual sia, lo so bene: perché lo rammenti?
Se ci adunassimo, quanti piú prodi siam qui, presso i legni,
in un agguato, dove piú brilla il valor della gente —
ché qui si scorge bene qual uomo sia prode, qual vile,
ch’or d’un colore, or d’un altro il viso del vile si tinge,
né in seno il cuor gli regge cosí ch’egli fermo rimanga,
ma si rannicchia, ed ora su l’uno dei piedi si poggia,
ora sull’altro, e il cuore gli batte nel seno a gran colpi,
ché si figura già la morte, e gli stridono i denti;
ma non si muta il colore del prode, né troppo ei si turba,
poi che il suo posto occupò nell’agguato dei forti, ed augurio
fa di mischiarsi prima che sia nella lotta funesta — :
neppure qui potrebbe veruno la forza e il coraggio
tuo biasimare: ché pure se fossi trafitto o colpito,
non sulla nuca il colpo cadrebbe, non già su la schiena,
anzi sul petto tuo dovrebbe incontrarti, nel ventre.
mentre ti scagli dove s’accostano primi i più forti.
Ma non restiamo, come se fossimo sciocchi, a far ciance,
ché contro noi non arda taluno di sdegno superbo:
entra, su via, nella tenda, e scegli una lancia ben salda ».
Si disse. E pari a Marte feroce, balzò Merióne
entro la tenda, e prese un’asta di bronzo, e su l’orme
d’Idomenèo si mise: ché molto anelava alla pugna.
Come si lancia Marte, che gli uomini stermina, a zuffa,
e lui segue Terrore, l’intrepido e forte suo figlio,
che nei guerrieri infonde, per quanto sian prodi, sgomento:
muovono a campo entrambi da Tracia, a pugnar tra gli Efíri
oppure in mezzo ai Flegi magnanimi: ascolto ad entrambi
dare non sanno; e a questi concedono o a quelli la gloria:
tali Merióne ed Idomenèo, condottieri di genti,
tutti recinti di bronzo fulgente, movevano a lotta.
E Merióne, primo così favellava al compagno:
« Da qual parte ti vuoi, Deucalíde, cacciar ne la zuffa?
Forse alla destra di tutto l’esercito, oppure nel mezzo,
o non piuttosto a manca? ché qui, più che altrove, mi credo,
sopra i chiomati Achei svantaggiosa s’aggrava la guerra».
Idomenèo, signore di Creta, cosí gli rispose:
« Altri guerrieri prodi difendon le navi nel mezzo:
gli Aiaci prodi, e Teucro, che supera tutti gli Achivi
nel saettare, ed è pure valente a pugnar fronte a fronte.
Per quanto Ettore sia gagliardo fra tutti, per quanto
impetuoso, il figlio di Priamo, sapranno frenarlo:
arduo per lui sarà, per quanto assetato di zuffe,
vincer la loro furia guerriera e le indomite mani,
e dar fuoco alle navi. A men che il Croníde egli stesso
gittar sopra le navi non voglia una fiaccola accesa;
ma di Telamone il figlio, da niuno degli uomini, vinto
esser potrà, che sia mortale, che cibi frumento,
ch’essere franto possa dal bronzo o da immani macigni.
Lottando a corpo a corpo, neppur cederebbe ad Achille
sterminatore di genti: non c’è chi nel cozzo l’uguagli.
Dunque, a sinistra noi due restiamo: ben presto vedremo
se trionfare qualcuno faremo, o se avremo trionfo».
Detto cosi, Merióne, che Marte feroce sembrava,
mosse, finché pervenne nel punto del campo ch’ei disse.
Veduto Idomenèo, che pareva una furia di fiamma,
e lo scudiere seco, nell’armi lucenti, i nemici,
l’uno eccitando l’altro, su lui s’avventarono tutti;
da per tutto la pugna s’accese d’intorno alle navi.
Come allorché sotto vènti fischianti si scaglian procelle,
nei dí che son le vie coperte di polvere fitta,
e quelli alzan gran nebbia di polvere, insieme spirando:
surse cosí confusa la zuffa; e brama
avean di sterminare l’un l’altro, col bronzo affilato;
e per le lunghe lancie protese a ferire, la pugna
sterminatrice appariva tutta irta; e abbagliava gli sguardi
lo scintillare del bronzo dagli alti cimieri fulgenti,
dalle corazze di fresco brunite, dai lucidi scudi
che s’avanzavano a masse: chi avesse gioito a tal vista,
chi non si fosse turbato, intrepido stato sarebbe.
Ma con opposto disegno, di Crono i due figli possenti
ivano intanto apprestando corrucci e ambasce agli eroi.

D’Ettore e dei Troiani volea la vittoria il Cronide,
per dar gloria ad Achille dai piedi veloci: né spenti
tutti però volea sotto i muri di Troia gli Achivi:
Teti onorare soltanto voleva, e l’intrepido figlio:
Posidone eccitava gli Achei, ché fra lor s’era spinto,
nascostamente emerso dal mare spumoso: gran cruccio
gli era, vederli fiaccati cosí dai Troiani, grande ira
l’ardeva contro Giove. Entrambi d’ un sangue e d'un padre
eran; ma prima Giove nato era, e sapeva più cose;
per questo, a viso aperto non dava soccorso agli Achivi;
ma, forma d’uomo assunta, di furto eccitava le schiere.
Della feroce contesa, cosi, della guerra implacata
l’attorta fune tesa tenevan sugli uni e sugli altri,
che non si frange né scioglie, che a tanti fiaccò le ginocchia.
Quivi, sebbene già mezzo canuto, eccitando gli Achivi,
Idomenèo, sui Troiani piombando, li volse alla fuga
:
ch’egli Otrïóne uccise, venuto da Càbeso ad Ilio:
venuto era, all’annunzio di guerra, da poco; e chiedeva
la più bella fra tutte le figlie di Priamo, Cassandra;
né prometteva doni, ma compiere grande una gesta:
scacciare a forza lungi da Troia i figliuoli d’Acaia.
Il vecchio Priamo diede consenso, e promise la figlia;
ed ei, nella promessa fidente del re, combatteva.
Idomenèo lo tolse di mira con l’asta fulgente,
e lo colpi, che avanzava superbo. L’usbergo di rame
non gli bastò, ch’ei portava: lo colse nel mezzo del ventre:
piombò, diede un rimbombo. Vantandosi, l’altro proruppe:
« Otrionèo, fra quanti son gli uomini tutti io ti esalto,
se veramente tutte saprai mantener le promesse
che a Priamo re facesti, quand’ei ti promise la figlia.
Farti potremmo anche noi, mantenere anche noi la promessa
di dare a te la figlia più bella del figlio d’Atrèo,

dartela sposa, qui condurtela d’Argo, se d’Ilio
la popolosa città coi Dànai espugnare vorrai.

Vieni con me, ché sopra le navi facciamo l’intesa
per queste nozze: noi non siam paraninfi da poco!».
Detto cosi, per un piede lo trasse traverso alla pugna
Idomenèo. Su lui giunse Asio a vendetta:
 pedone
dinanzi ai suoi cavalli sbuffanti, che dietro reggeva
sempre l’auriga scudiero. Nel cuore agognava colpire
Idomenèo; ma questi prevenne il suo colpo, e la strozza
gli perforò sotto il mento, passando fuor fuori la punta.
E cadde, come cade un pioppo, una quercia, o un eccelso
pino, che i legnaioli recidono in vetta d’ un monte
con le affilate scuri, per farne legname da navi:
cosi giacque disteso dinanzi ai cavalli ed al carro,
cadde, rugliando cosi, brancicando la polvere e il sangue.
E si turbò la mente, che prima avea chiara, all’auriga,
né gli bastò l’ardire di volgere indietro i cavalli,
per isfuggire ai nemici. Antiloco vago di zuffe
a mezzo lo colpi con la lancia: l’usbergo di rame
non gli bastò, ch’ei portava: lo colse nel mezzo del ventre;
ed ei dal carro bello piombò con un rantolo al suolo;
e Antiloco, figliuolo di Nèstore, intrepido cuore,
condusse fra i guerrieri d’Acaia i cavalli di Troia.
E per la morte d’Asio crucciato Deifobo allora,
si fece presso ad Idomenèo, lo colpi con la lancia.
Quegli schivò, ché vibrare la vide, la lancia di bronzo,
e si nascose dietro Io scudo rotondo librato,
ch’egli portava, di pelle di bovi e di lucido bronzo,
girato al tornio, e dentro fermato con doppio bracciale:
tutto si rannicchiò dietro a questo; e la lancia di bronzo
volò, sfiorò lo scudo, che die’ secco strepito all’urto.
Ma non invano l’asta parti dalla mano possente:
ché Ipsènore
, pastore di genti, figliuolo d’ Ippàso,
colpí sotto il diaframma, nel fegato, e a terra lo stese.
E ne menò, con grande urlo, Deifobo vanto feroce:
«Vedi, che privo d’onore non va neppure Asio: io vi dico
che, pur se scende all’Ade, custode implacato alle porte,
ei va con lieto cuore, ché tale un compagno gli diedi».
Cosí disse; e quel vanto rempieva di cruccio gli Argivi.
E fu, su tutti gli altri, sdegnato d’Antiloco il cuore.
Pure, benché turbato, non pose il compagno in oblio;
ma gli girava attorno, tendeva lo scudo a schermirlo.
E due cari compagni si fecero presso al caduto:
Mecísto, figlio d’Ècio, Alàstore stirpe di Numi;
e lo recâr, che profondo gemeva, alle rapide navi.
Né punto Idomenèo placava la furia; e irrompeva
sempre, bramoso d’avvolger di tènebre alcun dei Troiani,

o di cadere egli stesso, schermendo agli Achei la rovina.
Àlcato innanzi gli venne, diletto figliuol d’Esuèto
eroe, stirpe di Numi. D’Anchise era genero: sposa
egli Ippodàmia aveva, la figlia maggiore. Fra tutte,
sinch’ella visse in casa, diletta era al padre e alla madre,
ché tutte quante aveva compagne d’età, superava
per senno, per bellezza, destrezza nell’opere; e sposa
l’ebbe, per questo, l’uomo che primo fra tutti era in Ilio.
D’Idomenèo l’abbatté Posídone allor sotto l’asta,
che gl’irretí le membra, di fàscino gli occhi gli avvolse,
sí, che né volgersi a fuga potea, né schermirsi dai colpi;

bensí, come colonna, come albero ch’alto frondeggia,
fermo egli stava. E a mezzo del petto gl’immerse la lancia
Idomenèo guerriero, la bronzea tunica franse
che sopra il seno a lui, dinanzi, schermiva la morte.
Strepito secco allor diede, squarciata dintorno alla punta,
diede cadendo un rimbombo. La lancia era infitta nel cuore,
guizzar facevi il cuore coi palpiti il calcio dell’asta:
qui Marte crudo, infine, lasciò che vanisse la furia.

idomedeo
Il ritorno di Idomedeo opera di Gamelin

E Idomenèo levò, con grande urlo, un vanto feroce:
«Dëífobo, dobbiamo pensar che sia giusto compenso
uccider tre per uno? ché questo era pure il tuo vanto.
Vieni dinanzi a me fronte a fronte, anche tu, sciagurato,
si che tu sappia quale sono io, che di Giove discendo,
che prima generò Minosse a regnare su Creta:
questi ebbe un figlio scevro di biasimo, Deucalïone,
Deucalïone me generò, che regnassi sul fitto
popol di Creta. E qui m’addusser le rapide navi
per la sciagura tua, di tuo padre, di tutti i Troiani».
Cosí disse. E fra due rimase Dëífobo incerto:
o s’ei, trattosi indietro, cercasse qualcun dei Troiani
per suo compagno, oppure tentasse la prova da solo.
Questo, pensando, il meglio gli parve: cercare d’Enea.
Ed ecco, lo trovò che stava fra l’ ultime schiere:
ch’ei sempre contro Priamo divino era pieno di cruccio,
ché lo stimava poco, 
sebbene era prode fra i prodi.
Presso gli stette, e queste veloci parole gli disse:
«Enea, tu che i Troiani conosci, ora si, che vendetta
del tuo cognato devi tu fare,
 se pure n’hai lutto!
Seguimi, d’Àlcato, su, facciamo vendetta, se pure
nella tua casa ei t’ha nutrito, quando eri ancor tanto.
Idomenèo, valente maestro di lancia, or l’ha spento».
Disse; e con queste parole furore gl’infuse nel seno.
E verso Idomenèo s’avventò, desïoso di pugna.

E Idomenèo non già sgomentò, come fosse un dappoco:
anzi, restò come fiero gagliardo cinghiale sui monti,
quando una turba aspetta che avanza con alto frastuono,
in solitario luogo: si vede tutta irta la schiena,
tutti di fuoco gli occhi lampeggiano, e arròta le zanne,
ché da sé lungi agogna respingere gli uomini e i cani.
Idomenèo, maestro di lancia, cosí stava saldo,
e attendeva l’assalto d’Enea, che accorreva a riscossa.
Ma die’ voce ai compagni, Dëípiro, Ascàlafo e Afàre,
E Merióne e Antíloco, 
entrambi maestri di guerra.
Li vide, e li eccitò con queste veloci parole:
« Correte, amici, a me recate soccorso. Son solo,
e assai pavento Enea,
 che avanza con passo veloce,
che su me piomba, ed è maestro a uccidere in guerra,
e il fior di giovinezza ha inoltre, la massima forza:
poiché, se avessi gli anni ch’egli ha, per aggiunta al mio cuore,
avremmo o egli o io ben presto la grande vittoria ».
Cosí diceva. E a lui, con un animo solo, i compagni
corsero tutti vicini, poggiati a le spalle gli scudi.
Dall’altra parte, Enea die’ pure una voce ai compagni,
ch’egli Dëífobo scorse, con Paride e Agènore divo
ch’erano duci, al pari di lui, dei Troiani; e a lor dietro
tutte le genti, come, seguendo il montone, le greggi
vanno al pascolo a bere: s’allegra il pastore a vederle.
Similemente il cuore nel seno d’Enea s’allegrava,
quando a sé dietro vide la turba cosí delle genti.
E a corpo a corpo quelli pugnavano ad Àlcato attorno
con le lor lunghe lancie
: rombava terribile il bronzo
sovra i lor petti, mentre cosí si colpivan l’un l’altro.
Due guerrieri che prodi fra i prodi quivi erano. Enea
e Idomenèo di Creta,
 entrambi in valor pari a Marte,
l’ uno dell’altro nel seno bramavano immergere il bronzo.
Enea contro il nemico per primo lanciò la zagaglia;
ma quei, ché innanzi spingeva lo sguardo, evitò il suo colpo;
ed oscillando, la terra percosse la lancia d’ Enea,
ché vano il colpo usci, lanciato dal pugno gagliardo.
E Idomenèo colpi nel mezzo del ventre Enomào:
franse l’usbergo nel cavo, s’immerse nei visceri il ferro.
Quegli piombò, brancicò, nella polvere, il suol con le palme.
Idomenèo la lunga sua lancia strappò dal caduto,
ma non potè’, però, spogliarlo dell’armi sue belle,
dagli omeri rapirle, perché lo incalzavano i dardi,
né agili più avea le giunture dei piedi, a lanciarsi
dietro la sua zagaglia, né a schermo dei colpi nemici:
a corpo a corpo, bene sapeva schivare la morte;
ma se fuggire dovesse, non più gli bastavano i piedi.
Ora, mentre ei passo passo cedeva, Dëífobo l’asta
lucida contro lui scagliò:
 ché avea l’odio nel cuore;
ma lo sbagliò, colpi con la lancia d’Euríalo il figlio,
Ascàlafo; la lancia s’infisse nell’omero saldo:
egli piombò, brancicò, nella polvere, il suol con le palme.
E non sapeva Marte dall’urlo terribile, ancora,
ch’era caduto il caro figliuolo nell’aspro cimento;
ma sulla vetta somma d’Olimpo, fra nuvole d’oro,
sedea, qui dal volere di Giove costretto, ove anch’essi
erano gli altri Numi, costretti lontan dalla guerra.
A corpo a corpo, intanto, quei prodi, ad Ascàlafo intorno
lottavano. Ghermí Dëífobo l’elmo al caduto;
ma Merióne, pari nell’ ímpeto a Marte, balzando,
al braccio lo colpí con la lancia. Piombò dalla mano
l’alta celata a terra, mandando un rimbombo; e di nuovo
die’ Merióne un balzo, che parve rapace sparviere,
e gli strappò dal sommo del braccio la lancia massiccia,
e fra la turba, di nuovo, tornò dei compagni. E Polìte
trasse il fratello suo Deìfobo fuor dalla zuffa,

sotto la vita un braccio passandogli, sin che fu giunto
ai pronti suoi cavalli, che lungi dal cozzo di guerra
stavano con l’auriga, col carro dai varî colori.
Questi lo addussero afflitto, che cupo gemeva, alla rocca;
e giù sgorgava il sangue dal braccio ferito di fresco.
E combattevano gli altri, né mai tregua avevano gli urli.
Enea sopra Afarèo balzò, di Calètore figlio,
che vide contro sé, nella gola gl’immerse la lancia:
dall’una parte cadde reclina la testa, e lo scudo
cadde, con l’elmo; e la morte s’effuse, e la vita gli strusse.
Antìloco spiò Toòne, mentr’ei si volgeva,
e si lanciò, lo ferì, tutta quanta recise la vena
che per la schiena in alto, via via, corre sino alla nuca.
Ei tutta la recise. Piombò ne la polvere quello,
cadde supino, entrambe le mani tendendo ai compagni.

deifobo
Achille uccide Ettore con Atena nelle vesti di Deifobo. Dipinto di Rubens.

E Antìloco balzò, per tòrgli dagli omeri l’armi,
guardando tutto in giro: ché standogli attorno i Troiani,
chi qua, chi là, lo scudo fulgente colpìano; ma sotto
non riuscivan del bronzo le tenere membra a ferire;
però che il Dio che scuote la terra, di Nèstore al figlio
stava dappresso, e i colpi schermiva,
 sebbene eran fitti.
Pur, dai nemici franco non era egli: s’aggirava
fra loro; e la sua lancia non stava ozïosa: vibrava
sempre, rotava; ed egli volgea nella mente i suoi piani,
chi saettasse da lungi, con chi s’azzuffasse da presso.
Ma non sfuggì, mentre egli tirava cosí tra la folla,
d’Asio al figliuolo. Adamante: ché presso a lui fattosi, a mezzo
lo scudo gli colpí. Ma vana la cuspide rese,
gl’invidiò quella vita Posídone azzurro nel crine:
mezza confitta restò nel palvese d’Antíloco l’asta,
come un palo mezzo arso: al suolo piombò l’altra mezza.
Ed egli ripiegò fra i compagni, a schivare la morte.
Ma dietro lui Merióne 
movendo, mentr’egli cedeva,
tra l’ombilico e il pube gl’immerse la lancia, ove Marte
piú dolorose rende le piaghe ai dogliosi mortali.
Quivi la punta gl’immerse: guizzava seguendo la lancia,
quello; e pareva un bue che, su per i monti, i bifolchi
contro sua voglia, a forza trascinano, avvinto di funi.
Si contorceva Adamante, colpito cosí; ma per poco:
sinché, fatto a lui presso, l’eroe Merióne, la lancia
fuor dalle carni gli trasse: gli corse allor buio sugli occhi.
Ed Èleno da presso colpí sulla tempia Dipíro,
con una spada grande di Troia, e l’elmetto gli franse.
Cadde, sbalzato a terra, l’elmetto; e fra i piedi agli Achivi
che combattevano, corse rotondo; e qualcun lo raccolse;
e sopra gli occhi a quello profonda si stese una notte.
Menelao, l’Atríde guerriero, fu preso dal cruccio,
e minaccioso mosse contro Èleno, il principe eroe,
squassando l’asta acuta: tese Èleno il braccio dell’arco;
e ambi a un punto stesso, si fecero innanzi a colpire,
l’uno con l’asta, l’altro dal nervo scagliando una freccia.
Il Priamide colpí Menelao con la freccia nel petto,
nel cavo dell’usbergo; ma indietro balzò la saetta.

Come in un’aia larga, dal piatto del gran ventilabro,
le negre fave e i ceci lontano rimbalzano, spinti
dalla fischiante brezza, dal colpo del ventilatore:
cosí dalla corazza del prode guerrier Menelao
volò, con gran rimbalzo, lontana l’amara saetta.
Ed egli, il prode figlio d’Atrèo, Menelao battagliero,
colpì la man che l’arco lucente stringeva; e nell’arco
si conficcò, trafiggendo la mano, la punta di bronzo.
L’altro, a schivar la morte, tra i suoi si fuggì, penzoloni
la man tenendo; e l’asta traea nella mano confitta.
E dalla mano, l’asta di frassino Agenore svèlta,
con una striscia di lana ritorta fasciò la ferita,
con una fionda che a lui soleva recar lo scudiero.
contro Menelao glorioso si fece Pisandro;
ma lo guidava la Parca maligna alla soglia di morte,
ché nella pugna fosse fiaccato da te, Menelao.
Quando, l’uno su l’altro scagliandosi, furono presso,
sbagliò l’Atríde il colpo, ché l’asta si torse da un lato.
Pisandro, su lo scudo colpì Menelao glorïoso;
ma non potè fuor fuori passare la lancia; e battendo
sopra l’ampio palvese, si franse il puntale dell’asta.
Pure, quei s’allegrò, sperando di già la vittoria;
ma, fuor tratta la spada trapunta d’argento, l’Atríde
balzò sopra Pisandro. Pisandro, di sotto lo scudo
strinse una scure bella, di rame, in un manico infitta
lungo, di liscio ulivo: l’un l’altro colpirono a un tempo.
Questi colpì la cresta dell’elmo crinito, su alto,
proprio sotto il cimiero: l’Atríde, sul viso il nemico
alla radice del naso colpì:
 scricchiolarono l’ossa,
gli occhi dinanzi ai piedi gli caddero al suol sanguinando,
e giù piombò reclino. Calcandogli un piede sul petto,
l’armi l’Atride gli tolse, parlò con parole di vanto:
«Lasciar dovrete almeno le navi dei Dànai, Troiani
tracotanti, 
che mai satolli non siete di guerre,
né d’altre colpe immuni pur siete, né d’altre vergogne:
quelle con cui m’avete macchiato, tristissimi cani,
senza temere l’ira tremenda di Giove ospitale,
che un dì la vostra eccelsa città deve abbattere certo:
voi che la sposa mia legittima, e tanti miei beni,
empî, poi ch’ella bene v’accolse, m’avete rapiti;
ed ora, sopra i legni veloci, volete per giunta
gittare il fuoco infesto, per fare sterminio d’Achivi!
Pur, vi dovrete un giorno, per quanto rissosi, frenare.

Dicono, o Giove padre, che tu tutti gli uomini e i Numi
vinci di senno; eppure, da te tutto questo proviene:
di quanta grazia ancora sei prodigo a questi Troiani
tracotanti
, pieni mai sempre di voglie malvage,
che sazi mai non sono di stragi, di guerre crudeli.
Sazie le genti potrai d’ogni cosa veder: dell’amore,
del sonno, delle dolci canzoni, del ballo elegante,
cose che pili della guerra si bramano, a farcene sazi;
ma sazi mai non sono di guerre, i Troiani superbi».
E, cosí detto, l’armi strappò dalle membra cruente,
ed ai compagni le die’ Menelao
 senza macchia: egli stesso
quindi alla pugna tornò, fra i suoi, nelle file primiere.
Contro qui gli balzò del sire Pilèmeno il figlio,
Arpalïóne, che il padre seguí per combattere ad Ilio,
né più fece alla patria ritorno. Costui da vicino
con la sua lancia, a mezzo lo scudo colpí dell’Atríde;
ma non potè fuor fuori la punta di bronzo passarlo;
ond’ei si ritirò fra i compagni, a schivare la morte,
guardando tutti in giro, ché alcun non l’avesse a ferire.
Ma in quella gli scagliò Meríone una lancia di bronzo,
e nella clune destra lo colse: passò la saetta
fuor fuori, sotto l’osso del pube, forò la vescica.
A terra qui piombò, tra le mani dei cari compagni,
fuori spirando l’alma; e a terra giaceva disteso
come un lombrico; e il sangue scorreva, bagnava la terra.
Presero allora i prodi guerrieri Paflàgoni il corpo,
lo posero sul carro, lo addussero, pieni di doglia,
ad Ilio sacra: il padre moveva con loro e piangeva,
ma prezzo alcun non v’era da rendergli il morto figliuolo.
E per la morte sua, grande ira arse a Paride il cuore,
ch’egli era ospite suo fra la gente paflàgona. E pieno
per lui di cruccio, un dardo scagliò dalla punta di bronzo.
Era nel campo un certo Euchènore, figlio del vate
Pòlide: ricco egli era, valente, e abitava in Corinto.
Era venuto a Ilio sapendo il suo fato funesto,
ché glie l’aveva spesso predetto il valente suo padre:
o per doglioso morbo soccombere sotto il suo tetto,
o presso ai legni Achèi, per man dei Troiani fiaccato:
egli l’amaro spregio insieme evitò degli Achivi,
e l’odïoso morbo, ché i crucci non volle patirne.
Alla mascella, sotto l’orecchio fu còlto; e lo spirto
presto volò dalle membra, lo avvolse la tènebra orrenda.
Cosí pugnavan questi, sembravano fuoco che avvampi;
ma nulla Ettore, a Giove diletto, sapeva, ma nulla
udito avea, che a manca del campo, cosí sterminati
erano i suoi, che presto poteano soccombere vinti,

tanto l’Iddio che cinge la terra, che scuote la terra
spingea gli Argivi, e a loro soccorso pugnava egli stesso;
ma stando, ove dapprima varcato ebbe il muro e la porta,
frangea le fitte schiere dei Dànai
, la siepe di scudi.
dov’eran, tratte in secco, lunghesse le spume del mare,
presso le navi d’Aiace, le navi di Protesilào;
e il muro sopra, qui più basso che altrove; e la mischia
più furïosa qui avvampava di fanti e cavalli.
Quivi i Beoti, quivi gli Ionî dai càmici lunghi,
i Locri, quei di Ftia, gli Epèi fulgidissimi; e a stento
Ettore lungi tenevan dai legni
; e tentavano invano
da sé scacciarne l’urto: parea quel divino una fiamma.
C’erano Atenïesi, quanti eran migliori: lor duce
era Menestio, figlio di Pètio: l’avevan seguito
Fida, con Stichio, ed il prode Biante. Guidavan gli Epèi
Dracio, Anfióne, Megéte, Filide. Alle genti di Ftia
erano duci Podarce, maestro di guerra, e Medone.
Era Medone figlio bastardo al divino Oilèo,
era fratello d’Aiace: lontan dalla terra materna
egli abitava in Filàce: ché ucciso Eriòpide aveva,
ch’era fratello della consorte d’Oilèo, sua matrigna.
Or questi, armato in guerra, guidando i magnanimi Ftii,
a schermo delle navi, pugnavano insiem coi Beoti.
Aiace, il pie’ veloce figliuolo d’Oilèo, d’un sol passo
non si staccava più dal figliuol di Telàmone
 invitto;
ma, come nella dura maggese due fulvidi bovi
traggono il solido aratro, concordi nell’animo; e a essi
sgorga, d’intorno al ceppo dei corni, in gran copia il sudore:
l’uno dall’altro il giogo lucente soltanto divide,
mentre pel solco vanno, via via, sino al fine del campo:
così stavan piantati quei due, l’uno a fianco dell’altro.
Qui di Telàmone il figlio seguivano molti compagni,
molti e valenti, che a lui reggevano il grande palvese,
quando sudore e stanchezza fiaccavano a lui le ginocchia;
ma non seguivano i Locri il prode figliuol d’Oilèo,
ché non reggeva a essi il cuore a pugnare dappresso,
ché non avevano elmi di bronzo chiomati di crini,
neppure aveano lancie di frassino o scudi rotondi,
bensì con archi soli, con frombole attorte di lana,
eran venuti a Troia: da lungi pugnavano; e spesso
coi loro tiri fitti rompevan le schiere troiane.
Cosí dunque gli Aiaci, coperti dell’armi lucenti,
lottavan coi Troiani, con Ettore armato di bronzo;
quelli, nascosti dietro, lanciavano frecce
; e i Troiani,
messi a scompiglio dai dardi, poneano il valore in oblio.
E con gran lutto qui, lontan dalle navi e le tende
già già fuggiano ad Ilio battuta dal vento i Troiani,
quando Polidamante si fe’ presso a Ettore, e disse:
«Ettore, a te non riesce seguire i consigli degli altri.
Perché ti diede un Nume che in guerra su tutti emergessi,
perciò, pur nei consigli sapere ne vuoi più degli altri.
Eppur, tutte le doti pigliare per te non potrai:
ad altri diede il Nume che in guerra su tutti emergesse,
a un altro il ballo diede, la cétera a un altro e il canto:
il buon consiglio Giove depose a un altro nel seno,
e gran vantaggio da lui ritraggono gli uomini tutti;
ché n’han salvezza molti, ché primo egli stesso ne gode.
Ora io ti dico questo, che a me sembra adesso pel meglio:
poiché di là dal muro son giunti gli arditi Troiani,
stanno in disparte alcuni, nell’armi, e combattono gli altri,
pochi di fronte a molti, dispersi vicino alle navi.
Or tu recedi un po’, qui chiama a raccolta i più prodi:
bene d’ognuno allora potremo ascoltar le proposte,
se sulle navi fitte di banchi si debba piombare,

se pure un Dio ci voglia conceder vittoria, o se illusi
lungi si debba oramai receder dai legni: ch’io temo
che non ci saldin gli Achei del debito ieri contratto:
ché presso ai legni ancora c’è l’uomo mai sazio di guerra,
che non potrà più a lungo tenersi, dico io, dalla pugna»
.
Polidamante cosí parlava, né ad Ettore spiacque.
Balzò súbito a terra, armato com’era, dal carro,
e a lui rivolto, queste veloci parole gli disse:
«Polidamante, tu trattieni qui tutti i più prodi;
ed io vado laggiù, dove arde la zuffa,
 e di nuovo
farò ritorno qui, come abbia impartiti i comandi».
Mosse, ciò detto; e parve montagna coperta di neve,
alto gridando; e volò fra Troiani e alleati. E veloci
tutti correvano quelli, com’ebbero udita la voce
d' Ettore, a Polidamante, di Panto al magnanimo figlio.
E nelle prime file movea quegli intanto, e cercava
se mai trovar potesse Deífobo, ed Èleno
 sire,
Asio, d’Irtaco figlio, e d’Asio il figliuolo Adamante.
Ma niuno d’essi immune trovò da travaglio o da morte:
presso l’ ultime navi d’Acaia giacevano questi,
che avean perduta, sotto le man degli Argivi, la vita,
ed altri erano dentro le mura, colpiti o trafitti.
Ma súbito, a mancina del campo cruento, Alessandro,
d’Elena chioma bella lo sposo divino, rinvenne,
mentre eccitava i compagni, con detti animosi, alla zuffa.
Presso gli stette, e queste gli disse parole d’oltraggio:
«Paride tristo, bello soltanto a veder, donnaiolo,
seduttore, ove sono Dëífobo ed Èleno sire,
Asio, d’ Irtaco figlio, e d’Asio il figliuolo, Adamante?
Otrïonèo, dov’è? Davvero, ch’or Troia superba
crollò da cima a fondo: sicura è per te la rovina».
Ed Alessandro, l’uguale dei Numi, cosí gli rispose:
«Ettore, proprio tu, vuoi dar colpa a chi scevro è da colpa?
Schivato forse avrò la guerra altre volte, non questa;
perché del tutto imbelle non m’ha generato mia madre.
Ora che presso le navi tu a guerra eccitasti i compagni,
noi da quel punto qui coi Dànai ci stiamo azzuffando
senza mai tregua. Sono caduti i compagni che dici:
due solamente d’essi, Dëífobo, ed Èleno sire,
andati sono lungi dal campo, trafitti di lancia
a una mano entrambi, né spenti li volle il Cronide.
Ora, comanda come ti dettano l’animo e il cuore,
ché noi volonterosi verremo con te;
 né l’ardore
ci mancherà, credo io, per quanto ci bastan le forze:
ch’oltre le forze, nessuno, per quanto lo voglia, combatte ».
L’alma piegò del fratello, cosí favellando, l’eroe.
E mossero, ove più ferveva la pugna, d’intorno
a Cebrïóne, all’immune da biasimo Polidamante,
a Polifète, l’uguale dei Superi, a Falce, ad Ortèo,
a Palmi, Ascanio e Mori, che, d’Ippotióne figliuoli,
erano dall’Ascania ferace a dar pèrmuta giunti,
giusto il dí prima. E Giove, qui allora li spinse alla zuffa.
Procella parevan di rapidi venti
che muove, sotto i tuoni del figlio di Giove, nel piano,
e con orrendo frastuono si mescola al mare; e nel mare
che rumoreggia sempre, ribollono innumeri flutti,
curvi, con creste di schiuma, premendosi gli uni sugli altri.
Cosi, gli uni addensati sugli altri e sugli altri, i Troiani,
tutti di bronzo fulgenti, seguivano i loro signori.
Ettore innanzi a essi moveva, di Priamo il figlio,
simile a Marte omicida. Reggeva a sé innanzi lo scudo,
denso di pelli tutto, coperto di bronzo battuto:
tutto lucente l’elmo crollava d’intorno alle tempie;
d’ogni parte, sotto lo scudo avanzando, tentava
se mai sotto l’assalto cedesser le schiere nemiche.
Ma non poteva perciò turbar degli Achivi il coraggio.
E primo, a lunghi passi, Aiace si mosse a sfidarlo:

«O sciagurato, fatti vicino: ché fai vana prova
di sbigottir gli Argivi? Non siamo inesperti di guerra!
Furono sol dalla sferza di Giove fiaccati gli Achivi.
Nutrí speranza in cuore di mettere a sacco le navi?
Ma pronte alla difesa abbiamo le mani anche noi.
Vedrai che molto prima la vostra città popolosa
dovrà per nostra mano cader saccheggiata e distrutta;

e per te stesso, credo sia presso l’istante che a Giove
volger dovrai, fuggendo, preghiera, ed agli altri Celesti,
che sian piú di sparvieri veloci i criniti cavalli
che t’addurranno ad Ilio, coprendo di polvere il piano».
Volò, mentre diceva cosí, dalla destra un uccello,
alta un’aquila a volo. Levarono un grido gli Achivi,
ché l’incorò l’auspicio.
 Rispose di Priamo il figlio:
«Millantatore Aiace, che dici, bifolco? Oh! se figlio
fossi io cosí, davvero, di Giove che l’ègida scuote
eternamente, ed Era m’avesse pur dato alla luce,
e onori avessi quanti ne godono Atena ed Apollo,
come ora questo giorno vedrà degli Argivi il malanno,
di tutti; e anche tu cadrai morto, se il cuore ti basta
che la mia lunga lancia tu attenda! La candida pelle
ti squarcerà: farai sazi gli uccelli ed i cani di Troia,
col grasso tuo, 
con l’ossa, vicino alle navi d’Acaia».
Mosse, cosí dicendo, per primo: seguirono i duci,
con alte grida, urlando seguíano le genti. E gli Achivi
grida levarono anch’essi, 
ché oblio del valor non li còlse,
fermi attendendo i campioni di Troia. E il grido pervenne
d’ambe le parti all’ètra, di Giove alle sèdi raggianti.

Traduzione di Ettore Romagnoli

AIACE TELAMONIO
Aiace (in greco antico: Áias) è un personaggio della mitologia greca. È uno dei protagonisti dell'Iliade di Omero e del Ciclo epico, cioè quel gruppo di poemi che narrano le vicende della Guerra di Troia e quelle collegate a questo conflitto. Per distinguerlo dal suo omonimo Aiace Oileo, viene chiamato con il patronimico di "Telamonio" od anche "Aiace il Grande".
Nell'Iliade, Aiace viene descritto come il più alto tra gli achei, dotato di una robusta corporatura, secondo solo al cugino Achille quanto a forza negli scontri; è giudicato un autentico pilastro dell'esercito greco. Si racconta che poco prima della nascita dell'eroe, Eracle, grande amico del padre di Aiace, lo aveva trovato a Salamina a banchettare con i suoi amici. All'eroe fu subito offerta tra le mani una coppa aurea di vino e l'amico lo invitò a libare a suo padre Zeus. Eracle, che aveva visto che la madre del piccolo, Peribea, era sul punto di partorire, dopo aver libato tese le braccia al cielo e pregò così il padre: "O Padre, concedi a Telamone uno splendido figlio, con la pelle dura come quella del leone ed equivalente coraggio!".
È stato educato dal centauro Chirone, che era stato istitutore anche del padre Telamone, di Peleo, padre di Achille, e di Achille stesso. Dopo il cugino, Aiace era il più valoroso guerriero dell'esercito guidato da Agamennone, sebbene non fosse dotato della stessa sagacia di Nestore, Idomeneo e, naturalmente, Odisseo. Si poneva alla testa dei suoi soldati, portando un largo scudo di bronzo, ricoperto con sette strati di pelle di bue. Uscì indenne da tutte le battaglie descritte dall'Iliade ed è l'unico tra i protagonisti del poema a non ricorrere mai all'aiuto di uno degli dei schierati al fianco delle parti in lotta. È l'incarnazione stessa delle virtù della costanza negli impegni e della perseveranza.
Nell'Iliade, Aiace compie molte imprese valorose. Nel quarto libro colpisce con la lancia il giovane guerriero troiano Simoesio, uccidendolo. Quindi dimostra il suo coraggio nei duelli contro Ettore. Nel settimo libro, Aiace viene sorteggiato per scontrarsi con Ettore e disputa così un duello che si protrae quasi per un giorno intero. All'inizio sembra riuscire a vincere e riesce a ferire Ettore con la sua lancia e a gettarlo a terra, colpendolo con una grossa pietra, ma poi Ettore si riprende e il combattimento continua finché gli araldi, su ordine di Zeus, stabiliscono che lo scontro è pari: i due uomini si scambiano doni in segno di rispetto.
Il secondo duello tra Aiace ed Ettore si verifica quando il troiano entra violentemente nell'accampamento acheo e affronta i greci in mezzo alle loro navi. Aiace scaglia contro Ettore un grosso sasso, che per poco non lo uccide. Nel XV libro, Apollo cura Ettore e gli restituisce le forze. Così, questi torna all'attacco. Aiace riesce intanto a tenere lontano l'esercito troiano praticamente da solo. Nel libro successivo, Ettore disarma Aiace, sebbene non lo abbia ferito, e questi è costretto a ritirarsi, mentre i troiani incendiano una delle navi. Aiace, però, prima che Ettore gli mozzasse di netto la punta dell'asta, e prima che l'incendio divampasse sulla nave di Protesilao, reagì all'atto di appiccare il fuoco alle sue navi, uccidendo molti guerrieri nemici, tra i quali il signore della Frigia, Forci, alleatosi coi troiani.
A causa del suo litigio con Agamennone, Achille non partecipa a questi scontri. Nel IX libro, Agamennone e gli altri capi achei inviano Aiace, Odisseo e Fenice nella tenda di Achille per convincerlo a tornare in battaglia. Sebbene Aiace faccia del suo meglio, la missione fallisce. Durante l'assalto troiano alle navi greche, l'amico di Achille, Patroclo (che aveva tentato di impersonarlo per dare coraggio ai greci), viene ucciso da Ettore, che cerca di prenderne il cadavere e di darlo in pasto ai cani. Aiace, insieme a Menelao, lotta duramente per impedirglielo e alla fine riporta indietro il corpo con un carro all'accampamento e lo consegna ad Achille, che, furioso di dolore, deciderà di tornare a combattere che porterà a dare una grossa svolta nella guerra.
Aiace Telamonio si preparò a contrattaccare i Troiani, allorché, guidati dalla regina Pentesilea e dalle Amazzoni, avanzarono sul campo di battaglia riempiendo la pianura di cadaveri. Sfiorato da un dardo di Pentesilea, che gli aveva appena scalfito l'elmo, l'eroe rinunciò a scontrarsi con la donna, giudicando una preda facile degna del cugino. Achille, dopo aver ucciso Ettore in duello, per vendicare Patroclo, in seguito cadrà ucciso per mano di Paride: Aiace e Odisseo combattono contro i troiani per strappare loro il corpo dell'eroe caduto. Aiace, roteando la sua immensa ascia, si occupa di tenere lontani i troiani, mentre Odisseo carica Achille sul suo carro e lo porta via.
Durante questa battaglia, Aiace compie sanguinosi prodigi massacrando Glauco, figlio di Ippoloco e sovrano licio, e ferendo Enea e Paride gravemente. Dopo la cerimonia funebre, entrambi gli eroi reclamano il diritto di tenere per sé le armi di Achille come riconoscimento del loro valore: alla fine, dopo alcune discussioni, è Odisseo a spuntarla e Aiace, accecato dal dolore, decide di vendicarsi dei responsabili del verdetto la sera stessa. Al suo risveglio, impazzito a causa di un incantesimo lanciatogli da Atena, si lancia contro un gregge di pecore e le massacra, credendo di uccidere gli Atridi, ovvero Agamennone e Menelao. Rientrato in sé, si vede coperto di sangue e capisce che cosa abbia in realtà fatto: perduto in questo modo l'onore, preferisce suicidarsi piuttosto che continuare a vivere nella vergogna. Si lancia sulla spada che Ettore gli aveva donato alla conclusione del loro duello. Dal terreno intriso del suo sangue spunta un fiore rosso (come era accaduto anche al momento della morte di Giacinto), che porta sulle sue foglie le lettere Ai, che rappresentavano sia le iniziali del suo nome che il dolore del mondo per la sua perdita. Le sue ceneri vennero deposte sul promontorio Reteo, all'ingresso dell'Ellesponto.
Questo racconto della morte di Aiace si trova nella tragedia Aiace, scritta da Sofocle, nelle Nemee di Pindaro e ne Le metamorfosi di Ovidio, e di Foscolo in cui l'eroe incarna l'ideale di ribellione nei confronti del tiranno, mentre Omero, nell'Odissea, si mantiene sul vago, riferendo soltanto che la sua morte avvenne a causa della disputa per le armi di Achille: durante il suo viaggio nell'Ade, Odisseo incontrerà l'ombra di Aiace e lo pregherà di parlargli, ma Aiace, ancora risentito nei suoi confronti, rifiuterà e ritornerà silente nell'Erebo; una seconda ipotesi afferma che, come era successo con Achille, Aiace nell'Ade abbia cambiato la sua natura: da guerriero a uomo semplice, quindi Aiace potrebbe aver perdonato Odisseo, ma, non avendo bevuto il sangue necessario alle ombre dell'Ade per parlare (vedi Tiresia) e perciò non abbia parlato. Ma quello che Aiace e Odisseo non sanno è che le armi di Achille, che ormai Odisseo non possiede più, sono state portate sulla tomba di Aiace mentre parlano nell'Ade.
Aiace era figlio di Telamone, che a sua volta era figlio di Eaco e nipote di Zeus e della sua prima moglie, Peribea. Era anche cugino di Achille, il più forte e famoso degli eroi greci, e fratellastro di Teucro. Sua moglie fu Tecmessa, una concubina frigia. Molti ateniesi illustri, tra i quali Cimone, Milziade, Alcibiade e lo storico Tucidide sostennero di essere discendenti di Aiace. Anche in Italia il culto di Aiace quale mitico avo di varie famiglie era diffuso. Lo studioso Maggiani ha recentemente mostrato come su una tomba etrusca dedicata a Racvi Satlnei a Bologna (V secolo a.C.) vi sia riportata l'espressione 'aivastelmunsl = della stirpe di Aiace Telamonio', insieme a una raffigurazione del suicidio di Aiace, come insegna araldica della famiglia etrusca Satlna.
Nel 2001, l'archeologo Yannos Lolos cominciò degli scavi nelle rovine di un antico palazzo miceneo, sull'isola di Salamina, che si pensa sia potuto essere la reggia di Aiace. Le rovine sono state portate alla luce nei pressi del villaggio di Kanakia di Salamina, a pochi chilometri al largo di Atene. La struttura copre un'area di 750 m² ed è composta da una trentina di stanze. Pare essere stata abbandonata all'incirca all'epoca della Guerra di Troia e il luogo in cui sorge coincide con quello già noto al geografo Strabone, molto più tardo.

IDOMENEO
Idomeneo (in greco antico Idomenèus) è un personaggio della mitologia greca, re di Creta, figlio di Deucalione e nipote di Minosse. Un giorno, Idomeneo risolse una disputa sorta tra Teti e Medea su chi fosse la più bella, decidendo in favore di Teti. Medea, irritata, maledisse lui e la sua stirpe e condannò i Cretesi a non dire mai più la verità. Si spiega così il proverbiale stereotipo secondo cui «I Cretesi sono tutti bugiardi». Benché già avanti negli anni, Idomeneo aspirò alla mano della bella Elena, che amò con passione e per cui soffrì molto quando fu destinata a Menelao. Lo stesso Idomeneo si diceva fosse bellissimo. Le file greche si raccolsero sulla spiaggia d'Aulide, quando alcuni ambasciatori cretesi accorsero per annunciare che il loro re Idomeneo avrebbe guidato cento navi a Troia se Agamennone avesse acconsentito a condividere con lui il supremo comando della spedizione. Il re accettò di buon grado. Idomeneo arruolò Merione, suo nipote, come luogotenente. Partecipò con ottanta navi alla guerra di Troia, come tutti gli altri pretendenti. Nella guerra tra achei e troiani nell'Iliade si distinse in numerose imprese, uccidendo Asio (il giovane re di Arisbe e fratello di Niso), Otrioneo, Alcatoo, Enomao, Erimante e Festo. Seppe difendere le navi greche contro gli assalti portati da Deifobo ed Enea. Inoltre fu tra gli eroi che, nascosti nel cavallo di legno, penetrarono nella città; era tra i giudici che attribuirono le armi di Achille a Odisseo. Secondo alcune tradizioni, Idomeneo venne ucciso da Ettore nella guerra di Troia, ma quasi tutte le versioni raccontano come egli, dopo aver abbandonato il suolo insanguinato della imponente città, partì per la sua terra con la sua nave, ma trovò il suo trono usurpato da Leuco, al quale Idomeneo aveva lasciato la guardia della casa in sua assenza, con cui sua moglie Meda aveva avuto una relazione. Partì nuovamente per l'Italia e si stabilì definitivamente in Calabria (nome antico del Salento, la parte più meridionale della Puglia), dove fondò una nuova città. Una variante afferma che fu costretto a lasciare la patria per una sommossa dei suoi sudditi, avendo egli ordinato il sacrificio di suo figlio Idamante per mantenere fede a un voto fatto mentre ritornava dalla guerra di Troia: i Cretesi interruppero la cerimonia provocando così la fuga del re.

DEIFOBO
Deifobo (in greco antico: Deìphobos) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Priamo e di Ecuba e principe troiano. Durante la guerra di Troia, Deifobo fu con Ettore, Troilo e Antifo uno dei Priamidi che più si misero in evidenza. Gli episodi omerici riguardanti Deifobo si trovano nel libri XII, XIV e XXII dell'Iliade. Secondo Apollodoro, Deifobo è il terzo figlio maschio di Priamo ed Ecuba, dopo Ettore e Paride, ovvero il loro sesto figlio. Sin da fanciullo mostrò un carattere piuttosto rude, ma soprattutto ben predisposto all'arte della guerra. Il carattere di Deifobo viene raccontato da Darete il frigio nell'episodio dei giochi indetti in memoria di Paride. Deifobo vi prese parte insieme ai suoi fratelli e si distinse in numerose gare, ma, quando un misterioso giovane riuscì a sorpassarlo nella gara di cocchi, il troiano, sdegnato, si accordò con i fratelli per uccidere il nuovo arrivato. Mentre venivano appostate numerose guardie alle uscite dello stadio, Deifobo si armò insieme al fratello maggiore Ettore e, con la spada sguainata, si avventò contro il vincitore delle gare, il quale aveva ottenuto come premio ben tre corone. Il giovane, spaventato, si rifugiò sull'altare di Zeus, e allora un pastore, di nome Agelao, svelò a Priamo l'identità dello sconosciuto, Paride, fratello di Deifobo, allevato sul monte Ida a causa di oscure predizioni che lo avevano tormentato sin dalla nascita. Da allora, nonostante alcune opposizioni, il giovane principe troiano venne accolto nella reggia dove si riappacificò con Deifobo e gli altri suoi fratelli.
Deifobo prese parte alla guerra contro gli Achei fin dal primo anno. Quando le navi dei nemici s'appostarono presso la costa della Troade, l'eroe, insieme all'esercito troiano, avanzò contro di loro per impedire lo sbarco. Qui, secondo alcuni autori, riuscì a trafiggere con un giavellotto l'eroe Protesilao. Deifobo si fece notare nuovamente quando tentò di portare aiuto al fratello Troilo, minacciato da Achille. Polissena, loro sorella, sfuggita all'ira dell'eroe greco, aveva dato la notizia della sua uccisione; Deifobo si armò insieme al cugino Enea e ai fratelli Polite ed Ettore giungendo sul luogo dell'assassinio, ma oramai era troppo tardi per vendicare la sua morte. Nel corso della guerra, insieme con il fratello Eleno, Deifobo guidò un gruppo di guerrieri e col titolo di comandante è ricordato specialmente nell'Iliade. Giunse coi suoi uomini fino alle fortificazioni difensive dell'accampamento nemico, che erano state appena costruite, ma qui, avanzando, fu preso di mira da Merione, consigliere di Idomeneo, il quale gli scagliò contro una lancia sperando di colpirlo; tuttavia l'arma non lo ferì, trapassò leggermente lo scudo del troiano, senza riuscire neanche a penetrarlo. Deifobo continuò a combattere valorosamente, ma quando vide soccombere sotto i suoi occhi per mano di Idomeneo il giovane condottiero alleato Asio, che era nel suo stesso squadrone, si coprì con lo scudo e scagliò l'asta al di là delle file nemiche, trafiggendo Ipsenore, un guerriero acheo. Vantandosi della sua impresa, il troiano atterrì con le sue crudeli parole i guerrieri achei, ma Idomeneo, per incoraggiare i suoi uomini, uccise con un giavellotto Alcatoo, cognato di Enea. Idomeneo prese allora a canzonare Deifobo, vantandosi di aver fatto ben tre vittime mentre il troiano aveva ucciso solo Ipsenore; punto sul vivo, Deifobo tentennò per il contrattacco, e andò a chiamare Enea, il quale era fermo nel bel mezzo della battaglia, a causa del rancore che portava contro Priamo, il quale non considerava il suo valore. Spronato da Deifobo, l'eroe dardano entrò in battaglia in compagnia sua e di altri troiani e qui compì una grande strage. La battaglia riprese, e stavolta Deifobo scagliò la lancia in direzione dell'odiato Idomeneo, ma ancora sbagliò, facendo però un'altra vittima eccellente, Ascalafo, figlio di Ares, che colpì trapassandogli la spalla robusta. Il dio della guerra sarebbe intervenuto per vendicare la morte del figlio, ma Zeus lo vietò, dato che il suo comando era che nessuna divinità intervenisse nel campo di battaglia. Deifobo cercò allora di possedere l'elmo della sua vittima, tuttavia Merione gli trapassò con la lancia il suo braccio, e gli impedì di impossessarsene. L'eroe troiano sarebbe sicuramente morto se Polite, suo fratello, non fosse intervenuto afferrando Deifobo per la vita e conducendolo in salvo verso Troia, sebbene Deifobo perdesse molto sangue dalla ferita. Più tardi, Ettore, deciso ad incendiare tutte le navi achee, si domandò dove fosse finito il fratello, ma quando vide che nessuno lo raggiungeva, avanzò contro i Danai da solo.
Quando Achille tornò in battaglia deciso a vendicare la morte del suo amante Patroclo, Ettore, temendo la foga dell'eroe, scappò per evitare uno scontro; dopo aver fatto tre giri di corsa intorno alle mura della sua città, la dea Atena assunse le sembianze di Deifobo e gli andò incontro, e lo incitò a non temere Achille, ma a fermarsi e ad affrontarlo. Ettore, pensando di parlare con suo fratello, ascoltò il consiglio e diede ragione alla dea, poi tornò indietro e parlò con Achille affinché il duello potesse iniziare. Per primo, il troiano scagliò la sua lancia contro Achille. Mancato il bersaglio si rivolse a Deifobo chiedendo di dargli un'altra lancia, ma questi era svanito nel nulla. A quel punto Ettore comprese che gli dei lo avevano ingannato ed abbandonato facendolo perire per mano del figlio di Peleo, come infatti avvenne. Dopo la morte di Ettore, Priamo, suo padre, volle raggiungere Achille nella sua tenda per chiedere la restituzione del cadavere. Camminando nel palazzo reale, il vecchio re scorse gli altri suoi figli oziosi nella reggia e, sdegnato, iniziò a rimproverarli duramente, prendendosela anche con Deifobo, dato che anziché lottare o fare qualcosa per difendere la città, erano tutti intenti al non far nulla, nello sfarzo e in una calda accoglienza.
Secondo alcune tradizioni, il giorno in cui venne per domandargli il corpo del figlio ucciso, Achille chiese a Priamo di dargli in sposa la propria figlia minore, Polissena; il re accettò ma a patto che gli Achei avessero rinunciato alle loro pretese e abbandonato la Troade. Sapendo ciò, Polissena decise di vendicarsi: chiese ad Achille il segreto della sua invulnerabilità, e quando l'eroe, perdutamente innamorato della fanciulla, acconsentì a rispondere, la troiana raggiunse i fratelli Paride e Deifobo per riferire tutto ciò che aveva saputo dal suo futuro marito. Su richiesta di Polissena, Achille si recò nel tempio di Apollo Timbreo a piedi nudi e senza armi per innalzare un sacrificio agli dei, all'inizio del loro matrimonio. Per fingere di conciliare questa unione, Deifobo strinse l'eroe in un abbraccio apparentemente amichevole e proprio allora incitò Paride, nascosto dietro la statua del dio Apollo, a scagliare la sua freccia, che colpì l'eroe al tallone, unico punto vulnerabile, ferendolo a morte. Tra gli spasimi, Achille afferrò un tizzone da un focolare acceso lì vicino, e con quello si abbatté sui Troiani là riuniti, massacrandoli tutti insieme, inclusi i servi e i sacerdoti del tempio. Deifobo e Paride scamparono alla strage lasciando l'eroe nel tempio, che morì alcuni minuti dopo. Questa uccisione a tradimento suscitò lo sdegno di numerosi troiani, soprattutto di Eleno e di Enea, tanto che da allora Deifobo e Paride persero l'appoggio di qualsiasi loro concittadino.
Quando anche Paride venne ucciso (per mano dell'arciere Filottete), Priamo offrì Elena al «più valoroso» dei suoi figli; Deifobo ed Eleno si presentarono al suo cospetto per reclamare la fanciulla, affermando ciascuno la propria superiorità in battaglia. Priamo stesso decise di affidare la donna a Deifobo, non solo perché era il più grande, ma anche perché si era dimostrato più valoroso di tutti gli altri suoi fratelli superstiti. Il matrimonio fu stabilito, ma Elena, secondo la maggior parte dei racconti, diversamente da quanto accaduto con gli altri suoi due mariti, non si era mai innamorata di Deifobo e arrivò a dirgli che piuttosto avrebbe preferito tornare da Menelao. La scelta di Priamo venne criticata dalla maggior parte dei Troiani.
Una notte la figlia di Zeus fu sorpresa da una sentinella mentre cercava di calarsi giù dalle mura della città con una corda. Elena venne quindi trascinata a forza da Deifobo, il quale la sposò ugualmente nonostante andasse contro la sua volontà. Lo sdegno che scoppiò tra i troiani fu così forte che Eleno, disgustato dal comportamento del fratello, abbandonò la sua città rifiutandosi di difenderla anche se fosse caduta per mano dei nemici. La sera stessa in cui il cavallo di Troia fu trascinato in città, Deifobo accompagnò Elena presso l'enorme costruzione di legno, e qui la donna, quasi volesse divertire il compagno, iniziò a gridare i nomi dei guerrieri achei attorno al cavallo, imitando le voci delle loro mogli, per vedere se le forze nemiche si fossero appunto nascoste al suo interno. Menelao ed Odisseo dovettero trattenere a forza i loro compagni per impedire loro di rispondere ai richiami. In piena notte, quando fu dato il segnale nell'esercito acheo, Elena lasciò nel letto Deifobo e si apprestò a nascondere tutte le sue armi, per impedire qualsiasi sua resistenza. Aspettò poi con fiducia l'arrivo di suo marito Menelao, mentre il figlio di Priamo dormiva inconsapevole di ciò che avrebbe fatto sua moglie o tantomeno dell'intervento dei Greci. Durante il saccheggio di Troia, Menelao, insieme ad Odisseo (oppure con Agamennone), raggiunse ansioso la casa di Deifobo e qui trovò Elena che vegliava sul troiano addormentato e ubriaco. Dopo che Menelao ebbe colpito Deifobo con la spada, Elena si gettò tra le sue braccia e fuggì con lui. Altre versioni affermano invece che Deifobo si svegliò all'improvviso, ma venne prontamente ucciso da Menelao (o da Odisseo; o da entrambi; o ancora da Elena, che immerse la spada nella schiena del troiano per dimostrare la fedeltà al primo marito: ma per i più comunque Elena ne festeggiò la morte). Il corpo di Deifobo venne orrendamente fatto a brandelli da Menelao e dalla stessa Elena.
Nell'Eneide di Virgilio, che segue la tradizione che voleva Deifobo ucciso nel sonno, l'eroe appare ad Enea nel corso del suo viaggio nell'Oltretomba: ha mutilazioni a volto e mani. Enea, che durante la notte della caduta di Troia aveva eretto un piccolo cenotafio per Deifobo avendo appreso della sua morte, si rallegra nel rendersi conto che qualcuno ha poi effettivamente provveduto a seppellire l'eroe assicurandogli pertanto l'accesso all'Ade; ma grande è il suo sconcerto nel vedere Deifobo così martoriato. Il principe gli racconta la propria morte, gli rivela il tradimento di Elena che aveva sottratto la sua spada da sotto il cuscino e indicato a Menelao il letto in cui dormiva: era stata lei ad aprire le porte e a chiamare Menelao, a cui si era unito anche Ulisse; tutti e tre hanno fatto strazio del suo corpo.
" Come passammo tra falso giubilo l'ultima
notte, lo sai; e bisogna ricordarlo purtroppo.
Quando il fatale cavallo d'un balzo venne sull'alta
Pergamo, e gravido portò nel ventre guerrieri armati,
lei, simulando una danza, guidava intorno le Frigie
ululanti in tripudio; in mezzo brandiva una grande
fiaccola, e dall'alto della rocca chiamava i Danai.
Allora, sfinito dagli affanni e gravato dal sonno,
mi accolse l'infausto talamo, e disteso mi oppresse
un dolce e profondo riposo simile a placida morte.
Intanto quell'egregia sposa sottrae tutte le armi
dalla casa, e mi toglie di sotto il capo la fida spada;
chiama Menelao nelle stanze, e apre le porte,
certo sperando che questo sarebbe un gran dono all'amante,
e che potesse estinguersi così la fama delle antiche colpe.
Ma perché mi dilungo? Irrompono nel talamo;
si unisce a loro, consigliere di delitti, l'Eolide "

(Virgilio, Eneide, libro VI, traduzione di Luca Canali)

 

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Eugenio Caruso - 15 - 10 - 2021

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