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Dante, Paradiso, Canto XIX. La giustizia divina e la salvezza

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XIX

Il Canto affronta il delicato e complesso problema della giustizia divina e della salvezza, formando una sorta di «dittico» con il Canto XX che ne costituisce un corollario con gli esempi di Traiano e Rifeo, i due pagani che a dispetto di ogni previsione sono fra gli spiriti giusti in Paradiso: è Dante stesso a manifestare il suo dubbio all'aquila, senza tuttavia esprimerlo a parole ma lasciando che siano i beati a leggere nella sua mente e a sfamare il lungo «digiuno» che da anni lo tormenta (in maniera dunque opposta a quanto avvenuto con l'avo Cacciaguida, quando Beatrice aveva esortato il poeta a domandare per consentire allo spirito di esaudire il suo desiderio).
All'inizio l'aquila parla con una sola voce benché sia formata da migliaia di spiriti, il che suscita la viva sorpresa di Dante e lo induce a gloriarsi del fatto di essere il primo a descrivere in versi una tale meraviglia (è il motivo del primus ego... tante volte invocato dall'autore nella III Cantica), quindi l'uccello simbolo dell'Impero dichiara di essere formato dalle anime di quei beati che, in Terra, sono stati giusti e pii e hanno quindi ben governato e amministrato con giustizia. Si è molto discusso se gli spiriti giusti del VI Cielo siano stati tutti sovrani e governanti in vita, anche se fra essi sono inclusi i re biblici Davide e Ezechia, gli imperatori Costantino e Traiano e il re normanno Guglielmo il Buono, per cui questa sembra l'interpretazione più ovvia; ciò è confermato in parte anche dalla rassegna dei cattivi principi cristiani che l'aquila fa alla fine di questo Canto e che sembra un contrappunto all'elenco degli spiriti che formano l'occhio dell'aquila nel Canto successivo, dunque l'influsso alla giustizia che promana da questo Cielo deve soprattutto illuminare re e sovrani e indurli a operare ispirandosi alla giustizia divina, che giudicherà ognuno dopo la morte assegnando premi e castighi in modo imperscrutabile.
Proprio questo è il dubbio che angustia Dante e che l'aquila deve risolvere, vale a dire il modo in cui la giustizia di Dio opera in casi controversi come quello degli uomini vissuti in modo virtuoso ma senza conoscere il messaggio cristiano, come i pagani vissuti prima di Cristo o coloro che nascono in paesi ai confini della Terra, o ancora i bimbi morti senza battesimo e destinati a finire nel Limbo. Si tratta di una questione assai delicata e tale da suscitare profondi dubbi sulla correttezza del giudizio divino, per cui Dante paragona il suo desiderio di sapere a un digiuno che lo ha tormentato per anni senza trovare un cibo in grado di sfamarlo, ovvero una spiegazione adeguata: l'aquila risponde con un discorso retoricamente complesso e simile a una dimostrazione scolastica, nella prima parte del quale sostiene l'imperfezione e la limitatezza della ragione umana al cospetto di quella divina e nella seconda dichiara semplicemente che la giustizia di Dio è imperscrutabile, quindi l'intelletto umano non può pretendere di penetrarne i segreti ma deve accettare le verità di fede così come sono dichiarate dalla Scrittura.
Non è dunque una vera spiegazione, ma piuttosto un severo ammonimento agli uomini a non essere superbi come Lucifero, che volle ribellarsi al suo Creatore per diventare uguale a Lui, perciò a non pretendere di vedere con la propria vista limitata quelle verità che distano mille miglia: il giudizio divino è come il fondale del mare, che l'occhio umano può vedere vicino alla costa ma che è invisibile al largo, per cui ogni tentativo di comprendere razionalmente le sentenze di Dio in materia di salvezza è destinato a fallire e, anzi, può portare a false e errate convinzioni (il lume di conoscenza che non viene direttamente da Dio è tenèbra / od ombra de la carne o suo veleno, quindi Dante ammonisce sul rischio di cadere nell'eresia mettendo in discussione le verità di fede della Scrittura).
L'aquila ribadisce ulteriormente quanto dichiarato da Dante in più di un passo del poema, a cominciare da Purg., III, 34-45 quando il pagano Virgilio affermava che è matto chi spera di comprendere con la ragione umana i misteri della fede cristiana, lamentando il triste destino suo e degli altri grandi filosofi antichi destinati a non veder mai appagato il proprio desiderio di conoscere Dio; anche qui l'aquila afferma che chi nasce in India, in Etiopia o in altre regioni poste ai confini del mondo non può saper nulla del messaggio evangelico e nonostante una vita virtuosa non può salvarsi, benché questo possa sembrare ingiusto secondo il criterio, di per sé insufficiente, della ragione umana.
Il discorso dell'aquila preannuncia quello, altrettanto delicato e importante, sulla predestinazione del Canto successivo, in cui verrà ribadito che solo Dio nella sua immensa saggezza sa chi è destinato alla salvezza e chi alla perdizione, per cui tanti che credono di salvarsi per la loro condotta che in apparenza è devota potrebbero essere meno meritevoli di altri che non hanno ricevuto il battesimo: la cosa è già stata affermata da san Tommaso d'Aquino in XIII, 112 ss., mettendo in guardia dal pronunciare giudizi precipitosi sulla salvezza, e si collega alla polemica di Dante contro l'arma della scomunica usata dalla Chiesa contro i suoi nemici politici, che non può certo sostituirsi al giudizio divino circa il destino ultraterreno dei singoli (come dimostrato dalla salvezza clamorosa e inattesa di Manfredi di Svevia, in Purgatorio a dispetto della sua condizione di contumace, e come sarà ulteriormente ribadito dalla presenza in Paradiso di Traiano e Rifeo che verrà annunciata in maniera altrettanto sorprendente nel Canto successivo).

traiano
La colonna Traiana


L'aquila prende poi spunto dal suo discorso sulla giustizia divina per rivolgere un'aspra invettiva contro i cattivi principi cristiani, che nonostante abbiano avuto il lume della fede hanno commesso innumerevoli malefatte: come detto, la rassegna di questi sovrani preannuncia per contrasto quella degli spiriti giusti che formano l'occhio dell'aquila e che verranno citati nel Canto XX, e costituisce uno degli alti momenti del poema in cui Dante rivolge la sua denuncia contro le ingiustizie del mondo, che derivano principalmente dal mancato rispetto delle leggi e dalla cattiva amministrazione pubblica di coloro che sono chiamati a questo compito. I sovrani nominati dall'aquila e le cui malefatte sono scritte nel libro della giustizia divina sono i bersagli preferiti della polemica dantesca, da Alberto I d'Asburgo già colpito in Purg., VI, 97 ss. in cui era accusato di non scendere in Italia a riaffermare l'autorità dell'Impero, a Filippo il Bello che qui è accusato addirittura di coniare moneta falsa e di arrecare grave danno alla Francia, col preannuncio della sua morte avvenuta in circostanze degradanti (Dante lo fa morire per il colpo ricevuto da un cinghiale, ignorando o modificando la realtà dei fatti).
Tra gli altri sovrani biasimati da Dante vi è anche Carlo II d'Angiò, già duramente criticato in Purg., XX, 79-81 e qui definito in modo sprezzante Ciotto di Ierusalemme, con riferimento sia al fatto che era zoppo sia al titolo, puramente onorifico, di re di Gerusalemme (le sue buone azioni saranno segnate nel libro di Dio con una 'I', che corrisponde alla cifra romana di uno, mentre le malefatte con una 'M', che corrisponde a mille, e le due lettere sono l'iniziale e la finale del lat. Ierusalem). L'aquila rimprovera poi Federico II d'Aragona, re di Sicilia dopo la pace di Caltabellotta del 1303, nonché lo zio e il fratello rispettivamente re di Maiorca e di Sicilia, le cui cattive azioni disonorano le loro corone, mentre belle parole sono riservate a Caroberto, figlio di Carlo Martello che dovrà ben governare l'Ungheria, destino non certo riservato alla Navarra né a Cipro, che presto finiranno sotto il malgoverno della casa di Francia. Gli altri sovrani nominati sono figure di cui Dante probabilmente aveva scarse notizie, per cui le accuse non sono sempre corrispondenti alla realtà (ciò vale sia per Dionigi re di Portogallo sia per Acone re di Norvegia, il cui regno fu effettivamente celebrato dai cronisti dell'epoca), ma ciò nulla toglie al valore morale di questa rampogna dell'aquila che individua nella cattiva condotta dei reggitori terreni le ragioni profonde delle ingiustizie e dei soprusi nel mondo, che contrastano fortemente con il richiamo alla giustizia divina rivolto dalla scritta del Canto precedente, non a caso tratto dal Libro della Sapienza attribuito al saggio re biblico Salomone. Questi cattivi esempi saranno poi ribaltati nella rassegna degli spiriti giusti del Canto seguente, in cui spiccheranno soprattutto le figure di Traiano (imperatore romano celebrato per la sua clemenza e la giustizia, salvo a dispetto del suo paganesimo) e di Rifeo, preparando il terreno alla polemica contro la corruzione ecclesiastica che occuperà i Canti successivi, sino al durissimo attacco di san Pietro del Canto XXVII che sarà in un certo senso il controcanto alle rampogne dell'aquila in campo laico, dal momento che per Dante malgoverno e ingiustizia riguardavano tanto i sovrani temporali quanto le gerarchie della Chiesa.
Il problema della salvezza dei pagani: la posizione di Luigi Pulci
Nel Canto XIX del Paradiso Dante riafferma uno dei fondamenti della religione cristiana, ovvero l'impossibilità di pervenire alla salvezza per coloro che non hanno conosciuto la parola di Dio, nonostante una vita virtuosa e priva di peccato (tale destino accomunava sia i pagani vissuti prima di Cristo, sia i popoli che abitavano le terre poste agli estremi confini della Terra, che ovviamente nulla potevano sapere del messaggio evangelico): la questione era delicata sul piano dottrinale ed esponeva la fede cristiana a possibili critiche e fraintendimenti, cosa che spinse Dante a dedicare al problema della salvezza e della predestinazione un'ampia trattazione al centro della III Cantica, anche se le discussioni in materia sarebbero riesplose nel Quattrocento dando luogo a opinioni originali e preparando il terreno alle successive polemiche riformistiche. Uno degli scrittori destinati ad affrontare l'argomento e a prendere le distanze dalla posizione ufficiale della Chiesa fu Luigi Pulci (1432-1484), autore alla fine del XV sec. del poema epico Morgante in cui lo spinoso problema della salvezza dei non-cristiani è toccato in un celebre episodio del Cantare XXV (ottave 227-239): protagonisti della discussione sono il paladino cristiano Rinaldo e il diavolo-teologo Astarotte, che si è impossessato del cavallo del guerriero per portarlo rapidamente a Roncisvalle dove Orlando sta per cadere vittima di un'imboscata dei Saraceni; giunti alle Colonne d'Ercole, presso lo stretto di Gibilterra che allora era considerato l'estremo confine del mondo conosciuto (il poema è del 1483), Astarotte spiega a Rinaldo che è vana l'opinione secondo cui non è possibile navigare oltre quel confine, poiché anche l'emisfero australe è abitato e lo stesso Ercole arrossirebbe di vergogna per aver posto le colonne come limite estremo della conoscenza umana (è dunque totalmente ribaltata la prospettiva abbracciata da Dante nell'episodio di Ulisse, Inf., XXVI, secondo la quale l'emifero australe è spopolato e il viaggio dell'eroe omerico in quei luoghi è presentato come folle e sacrilego). Astarotte spiega inoltre che quelle genti che abitano l'altro emisfero, chiamate «Antipodi», adorano divinità pagane come il Sole, Giove, Marte, e alla domanda di Rinaldo se essi si possano salvare nonostante il loro paganesimo, il demone risponde che il paladino ragiona come uom grosso e spiega che Dio sarebbe stato di parte se avesse disposto il sacrificio di Cristo solo per gli Europei, escludendo dalla salvezza coloro che senza alcuna colpa vivono in altre regioni del mondo. La crocifissione di Gesù ha dunque redento tutta l'umanità, indipendentemente dalla religione osservata, e dunque è sufficiente che la fede sia certa per ottenere la salvezza, il che vale per i contemporanei che vivono agli Antipodi e anche per gli antichi Romani che adoravano gli dei pagani e, nonostante tutto, si comportarono rettamente: Astarotte conclude dicendo che la giustizia divina concede premi e castighi leggendo la sincerità della fede nel cuore, mentre certi cristiani ottusi e sciocchi si rifiutano di capire la verità e tengono la porta chiusa al bene, ma saranno duramente puniti dal giudizio divino che non ammetterà un simile comportamento. Ciò è dimostrato dalla salvezza concessa ai patriarchi biblici tratti da Gesù fuori dal Limbo, mentre è fin troppo evidente che Dio non ha creato invano le terre poste nell'emisfero meridionale, come sarebbe se quei popoli fossero destinati a non salvarsi solo per non aver udito il messaggio evangelico. La posizione di Pulci, totalmente antitetica rispetto a quella di Dante e della Chiesa stessa nel Quattrocento, suscitò polemiche e accuse anche in ambiente umanistico e spiega il fatto che lo scrittore morì in odore di eresia venendo sepolto in terra sconsacrata: le sue idee in materia di salvezza, in ogni caso, rappresentano un punto di vista razionalistico e «moderno» che preannuncia le discussioni suscitate nel XVI sec. dalla Riforma protestante, nonché i dubbi e le incertezze circa le popolazioni amerinde che dopo il 1492 sarebbero entrate a contatto con i colonizzatori europei, di cui peraltro Pulci nulla poteva sapere essendo morto ben prima della scoperta del nuovo continente. L'autore del Morgante esprime una cultura e un modo di pensare che è ormai lontanissimo da quello di Dante in cui è maturata un'opera come la Commedia, facendoci capire che il poeta del Trecento non aveva ancora varcato quella linea rappresentata dalla conquista della modernità e dell'antropocentrismo che sarebbe avvenuta nell'Umanesimo, il che rende la posizione di Pulci (comunque la si voglia pensare riguardo questioni delicate come quelle della salvezza in ambito religioso) molto più vicina al nostro modo di pensare e alla nostra mentalità moderna. D'altra parte la posiuzione di Dante discorda dalla sua stessa teoria; infatti mette in paradiso un personaggio come Traiano.

Note
- Al v. 2 frui  è infinito sostantivato che significa «godimento» (dal lat. frui, «godere»).
- Ai vv. 13-15 l'aquila afferma che gli spiriti che la compongono sono stati sulla Terra giusti e pii, hanno cioè dimostrato le due virtù (giustizia e pietà) attribuite a Traiano nell'episodio di Purg. X 73 ss., il che avvalora l'ipotesi che essi siano soprattutto re e principi.
- I vv. 28-30 alludono al fatto che la giustizia divina si rispecchia nella gerarchia angelica dei Troni , il che non esclude che i beati possano conoscerla pienamente.
- La similitudine ai vv. 34-36 si riferisce all'uso da parte del falconiere di mettere in testa al falcone un cappuccio di pelle per tenerlo quieto, che gli veniva tolto una volta giunti al luogo della caccia (Federico II nel trattato De arte venandi cum avibus  si vantava di aver introdotto lui in Europa quest'uso originario dell'Oriente). Non è da escludere che anche l'aquila muova la testa e sbatta le ali, dal momento che poco dopo volerà intorno a Dante.
- Sesto (v. 40) è termine arcaico per «compasso»; Dante allude a Dio che traccia i confini dell'Universo, come in Prov., VIII, 27-29.
- Al v. 46 il primo superbo  è Lucifero.
- I vv. 64-66 vogliono dire che solo la conoscenza che viene direttamente da Dio è perfetta, mentre quella umana è suscettibile di errore e imperfezione, potendo portare addirittura a convinzioni eretiche.
- L'espressione a la riva / de l'Indo (vv. 70-71) indica genericamente un luogo lontano e posto agli estremi confini del mondo, abitato dunque da popoli che non hanno conosciuto il messaggio evangelico; analogamente più avanti (v. 109) si parlerà dell'Etiope.
- Al v. 82 meco s'assottiglia  vuol dire «fa sottili ragionamenti intorno a me», cioè alla giustizia divina (chi parla è l'aquila).
- Il segno / che fé i Romani al mondo reverendi (vv. 101-102) è l'aquila, simbolo e insegna dell'Impero romano.
- Ai vv. 104, 106, 108 la parola Cristo  rima con se stessa, come in XII71-75 e XIV 104-108.
- I vv. 109-111 vogliono dire che chi non ha conosciuto la fede ma si è ben comportato sarà più meritevole dei Cristiani ipocriti, che si riempiono la bocca del Vangelo ma non otterranno la salvezza: ciò non implica, ovviamente, che i primi saranno salvi.
- Al v. 112 li Perse  indica genericamente gli infedeli.
- Le dodici terzine che iniziano al v. 115 si possono raggruppare in tre gruppi di quattro e cominciano rispettivamente conle parole Lì si vedrà, Vedrassi, E, formando l'acrostico LVE («lue») che si può intendere come sinonimo di «peste» (riferito al cattivo esempio offerto dai principi corrotti). L'esempio è analogo all'acrostico VOM («uomo») di Purg., XII, 25-63, anche se in questo caso l'artificio è meno elaborato (gli esempi proseguono anche nei versi successivi e non tutti sono racchiusi nella misura di una terzina come nell'esempio del Purgatorio). Alcuni studiosi negano la volontarietà della cosa da parte di Dante, il che è forse possibile in questo caso ma assai meno nel passo della II Cantica citato.
- I vv. 115-117 alludono all'invasione della Boemia da parte dell'imperatore Alberto I, avvenuta nel 1304 e che provocò la distruzione di quel regno: Dante ritiene che i singoli regni siano indipendenti, nonostante la subordinazione all'autorità imperiale, quindi condanna l'atto di Alberto così come la ribellione dei singoli Stati all'Impero.
- I vv. 118-120 si riferiscono a Filippo il Bello di Francia, accusato di coniare falsa moneta per sopperire alle spese della guerra contro le Fiandre, per cui il sovrano avrebbe messo in circolazione monete d'oro con un valore intrinseco inferiore a quello nominale (la cosa tuttavia non ha conferme dirette). Quanto alla profezia della sua morte, Dante la attribuisce al colpo di un cinghiale, ma in realtà il re cadde da cavallo durante una battuta di caccia perché un porco selvatico si mise tra le zampe della sua cavalcatura; il poeta forse ignorava i fatti, oppure ha deformato la realtà storica in modo analogo alla morte di Corso Donati (Purg., XXIV, 82-87).
- Il re d'Inghilterra citato ai vv. 121-123 è prob. Edoardo I, che condusse guerra alla Scozia fino alla sua morte (avvenuta nel 1307), benché il sovrano sia elogiato in Purg., VII, 132: la questione è aperta, poiché è improbabile che Dante si riferisca a Edoardo II (l'aquila nomina sovrani vivi al momento della visione) e dunque si deve pensare che il poeta avesse notizie imprecise circa quei regni lontani.
- Ai vv. 124-126 sono nominati Ferdinando IV di Castiglia (1286-1312) e Venceslao II di Boemia, accusati di vivere in modo vizioso (per il re boemo cfr. Purg., VII, 101-102).
- Ai vv. 127-129 si allude a Carlo II d'Angiò, definito spregiativamente Ciotto di Ierusalemme  in quanto zoppo e fregiato del titolo puramente onorifico di re di Gerusalemme: l'aquila intende dire che nel libro della giustizia divina le sue buone azioni saranno segnate con una 'I' (uno in cifra romana, quindi pochissime) e le sue malefatte con una 'M' (mille, cioè moltissime), che sono anche la prima e l'ultima lettera di Ierusalem.
- L'isola del foco (v. 131) è la Sicilia, detta così per la presenza dell'Etna, dove morì Anchise secondo il racconto dell'Eneide: il sovrano cui si allude è Federico II d'Aragona, riconosciuto re di Trinacria nel 1303 con la pace di Caltabellotta. I vv. 133-135 vogliono dire che nel libro di Dio le sue malefatte saranno indicate con caratteri abbreviati, sia perché sono moltissime, sia per significare la sua dappocaggine.
- Il barba («zio», voce settentrionale) e il fratel di Federico II (vv. 136-138) sono Giacomo re di Maiorca e Giacomo II re di Sicilia, che disonorano la loro casata (l'egregia nazione) e le due corone di Maiorca e d'Aragona.
- Ai vv. 139-141 sono indicati re Dionigi di Portogallo (1261-1325) e Acone V di Norvegia (1299-1319), che furono in realtà buoni sovrani e per i quali Dante doveva avere scarse notizie; quel di Rascia è Stefano Uroš II di Serbia (la Rascia corrispondeva alla nazione serba di oggi), che sostituì la moneta veneziana, diffusa in tutti i Balcani, con la propria, con un'operazione fraudolenta che è testimoniata da alcuni documenti.
- I vv. 142-144 profetizzano il buon governo sull'Ungheria di Caroberto (1301-1342) figlio di Carlo Martello, prob. in base più a un auspicio che ad una constatazione; destino diverso ebbe la Navarra, che dopo la morte di Giovanna I (moglie di Filippo il Bello) nel 1305 passò alla casa di Francia, come l'isola di Cipro sottoposta ad Arrigo II di Lusignano che la governò dal 1285 al 1324.


TESTO DEL CANTO XIX

Parea dinanzi a me con l’ali aperte 
la bella image che nel dolce frui 
liete facevan l’anime conserte;                                         3

parea ciascuna rubinetto in cui 
raggio di sole ardesse sì acceso, 
che ne’ miei occhi rifrangesse lui.                                   6

E quel che mi convien ritrar testeso, 
non portò voce mai, né scrisse incostro, 
né fu per fantasia già mai compreso;                             9

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro, 
e sonar ne la voce e «io» e «mio», 
quand’era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.                      12

E cominciò: «Per esser giusto e pio 
son io qui essaltato a quella gloria 
che non si lascia vincere a disio;                                   15

e in terra lasciai la mia memoria 
sì fatta, che le genti lì malvage 
commendan lei, ma non seguon la storia».                18

Così un sol calor di molte brage 
si fa sentir, come di molti amori 
usciva solo un suon di quella image.                            21

Ond’io appresso: «O perpetui fiori 
de l’etterna letizia, che pur uno 
parer mi fate tutti vostri odori,                                          24

solvetemi, spirando, il gran digiuno 
che lungamente m’ha tenuto in fame, 
non trovandoli in terra cibo alcuno.                                27

Ben so io che, se ‘n cielo altro reame 
la divina giustizia fa suo specchio, 
che ‘l vostro non l’apprende con velame.                     30

Sapete come attento io m’apparecchio 
ad ascoltar; sapete qual è quello 
dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».                     33

Quasi falcone ch’esce del cappello, 
move la testa e con l’ali si plaude, 
voglia mostrando e faccendosi bello,                           36

vid’io farsi quel segno, che di laude 
de la divina grazia era contesto, 
con canti quai si sa chi là sù gaude.                             39

Poi cominciò: «Colui che volse il sesto 
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso 
distinse tanto occulto e manifesto,                                42

non poté suo valor sì fare impresso 
in tutto l’universo, che ‘l suo verbo 
non rimanesse in infinito eccesso.                               45

E ciò fa certo che ‘l primo superbo, 
che fu la somma d’ogne creatura, 
per non aspettar lume, cadde acerbo;                          48

e quinci appar ch’ogne minor natura 
è corto recettacolo a quel bene 
che non ha fine e sé con sé misura.                             51

Dunque vostra veduta, che convene 
esser alcun de’ raggi de la mente 
di che tutte le cose son ripiene,                                      54

non pò da sua natura esser possente 
tanto, che suo principio discerna 
molto di là da quel che l’è parvente.                              57

Però ne la giustizia sempiterna 
la vista che riceve il vostro mondo, 
com’occhio per lo mare, entro s’interna;                      60

che, ben che da la proda veggia il fondo, 
in pelago nol vede; e nondimeno 
èli, ma cela lui l’esser profondo.                                    63

Lume non è, se non vien dal sereno 
che non si turba mai; anzi è tenebra 
od ombra de la carne o suo veleno.                              66

Assai t’è mo aperta la latebra 
che t’ascondeva la giustizia viva, 
di che facei question cotanto crebra;                             69

ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva 
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni 
di Cristo né chi legga né chi scriva;                               72

e tutti suoi voleri e atti buoni 
sono, quanto ragione umana vede, 
sanza peccato in vita o in sermoni.                                75

Muore non battezzato e sanza fede: 
ov’è questa giustizia che ‘l condanna? 
ov’è la colpa sua, se ei non crede?"                              78

Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, 
per giudicar di lungi mille miglia 
con la veduta corta d’una spanna?                                81

Certo a colui che meco s’assottiglia, 
se la Scrittura sovra voi non fosse, 
da dubitar sarebbe a maraviglia.                                    84

Oh terreni animali! oh menti grosse! 
La prima volontà, ch’è da sé buona, 
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.               87

Cotanto è giusto quanto a lei consuona: 
nullo creato bene a sé la tira, 
ma essa, radiando, lui cagiona».                                   90

Quale sovresso il nido si rigira 
poi c’ha pasciuti la cicogna i figli, 
e come quel ch’è pasto la rimira;                                   93

cotal si fece, e sì levai i cigli, 
la benedetta imagine, che l’ali 
movea sospinte da tanti consigli.                                   96

Roteando cantava, e dicea: «Quali 
son le mie note a te, che non le ‘ntendi, 
tal è il giudicio etterno a voi mortali».                             99

Poi si quetaro quei lucenti incendi 
de lo Spirito Santo ancor nel segno 
che fé i Romani al mondo reverendi,                           102

esso ricominciò: «A questo regno 
non salì mai chi non credette ‘n Cristo, 
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.                  105

Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!", 
che saranno in giudicio assai men prope 
a lui, che tal che non conosce Cristo;                          108

e tai Cristian dannerà l’Etiòpe, 
quando si partiranno i due collegi, 
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.                              111

Che poran dir li Perse a’ vostri regi, 
come vedranno quel volume aperto 
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?                          114

Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto, 
quella che tosto moverà la penna, 
per che ‘l regno di Praga fia diserto.                             117

Lì si vedrà il duol che sovra Senna 
induce, falseggiando la moneta, 
quel che morrà di colpo di cotenna.                             120

Lì si vedrà la superbia ch’asseta, 
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle, 
sì che non può soffrir dentro a sua meta.                    123

Vedrassi la lussuria e ‘l viver molle 
di quel di Spagna e di quel di Boemme, 
che mai valor non conobbe né volle.                            126

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme 
segnata con un i la sua bontate, 
quando ‘l contrario segnerà un emme.                       129

Vedrassi l’avarizia e la viltate 
di quei che guarda l’isola del foco, 
ove Anchise finì la lunga etate;                                      132

e a dare ad intender quanto è poco, 
la sua scrittura fian lettere mozze, 
che noteranno molto in parvo loco.                               135

E parranno a ciascun l’opere sozze 
del barba e del fratel, che tanto egregia 
nazione e due corone han fatte bozze.                         138

E quel di Portogallo e di Norvegia 
lì si conosceranno, e quel di Rascia 
che male ha visto il conio di Vinegia.                           141

Oh beata Ungheria, se non si lascia 
più malmenare! e beata Navarra, 
se s’armasse del monte che la fascia!                       144

E creder de’ ciascun che già, per arra 
di questo, Niccosia e Famagosta 
per la lor bestia si lamenti e garra, 

che dal fianco de l’altre non si scosta».                      148

PARAFRASI


La bella immagine (l'aquila) che era formata dalle anime liete nella dolce visione di Dio, appariva davanti a me con le ali spiegate;

ognuna delle anime sembrava un rubino colpito da un raggio di sole, talmente splendente da rifletterne la luce nei miei occhi.

E ciò che ora devo descrivere non fu mai pronunciato a voce, né scritto con l'inchiostro, né mai concepito dalla fantasia umana;

infatti io vidi e udii anche il becco dell'aquila che parlava e diceva con la sua voce «io» e «mio», volendo in realtà dire «noi» e «nostro».

E iniziò: «Per essere stato in vita giusto e devoto, io sono qui innalzato a quella gloria che non viene vinta da alcun desiderio mortale;

e sulla Terra lasciai un tale ricordo, che persino gli uomini malvagi lo lodano, anche se poi non lo seguono».

Come da molte braci promana un unico calore, così dalle molte anime di quell'immagina usciva un unico suono.

Allora io dissi: «O fiori eterni dell'eterna beatitudine, che mi fate sembrare un unico profumi tutti quelli che emanate, interrompete col soffio della vostra voce il grave digiuno che mi ha fatto patire la fame per lungo tempo, non trovando per saziarlo nessun cibo sulla Terra.

Io so bene che la giustizia divina si specchia in Cielo in un'altra gerarchia angelica (i Troni), ma il vostro Cielo la vede senza alcun impedimento.

Voi sapete come io sono pronto ad ascoltare con attenzione; sapete qual è quell'antico dubbio che ha provocato questo mio duraturo digiuno».

Come un falcone, quando si libera dal cappuccio, muove la testa e sbatte le ali, manifestando il desiderio di volare e facendosi bello, così io vidi fare quell'aquila che era formato dalle lodi (i beati) della grazia divina, cantando in modo che solo chi è lassù può capire.

Poi iniziò: «Colui (Dio) che tracciò col compasso i confini dell'Universo e distinse in esso le cose visibili e invisibili, non poté imprimere il suo valore ovunque, senza che il suo Verbo non restasse infinitamente superiore alle capacità umane.

E di ciò è prova il fatto che il primo peccatore di superbia (Lucifero), che fu la più perfetta di ogni creatura, fu precipitato dal Cielo per non aver atteso il lume della grazia divina;

e di qui si capisce che ogni creatura a lui inferiore non può certo contenere in sé quel bene (Dio) che non ha limite ed è la sola misura di se stesso.

Perciò la vostra vista, che non è altro se non uno dei raggi della mente di Dio che è presente in tutte le cose, non può per sua natura essere così forte da vedere il suo principio (Dio), che è ben al di là delle capacità dei suoi sensi.

Per questo la vista sensibile degli esseri umani penetra nella giustizia divina come l'occhio nel mare;

ed esso, anche se da riva vede il fondale, in alto mare non lo vede più; e certo è presente, ma la profondità glielo nasconde.

Non esiste vera luce, per la mente umana, se non viene da quella serenità (Dio) che non è mai offuscata; ogni altra è oscura, o viziata dai sensi, o attratta verso l'errore.

Ora ti è stata dischiusa la tana che ti nascondeva la giustizia divina, che suscitava in te dubbi così frequenti;

infatti tu dicevi: "Un uomo nasce sulle rive dell'Indo (in paesi lontani) e qui nessuno parla o insegna o scrive di Cristo;

pure, tutti i suoi desideri e i suoi gesti sono virtuosi, per quanto la ragione umana può giudicare, senza alcun peccato nelle azioni o nelle parole.

Costui muore senza battesimo e privo della fede: che giustizia è quella che lo condanna? Qual è la sua colpa, se non crede?"

Ora chi sei tu, che vuoi ergerti a giudice e sentenziare a mille miglia di distanza, con la vista che a malapena arriva a una spanna?

Certo colui che fa sottili ragionamenti su di me (sulla giustizia divina) potrebbe dubitare in modo sorprendente, se non ci fosse al di sopra di voi la Sacra Scrittura.

Oh, creature terrene! Oh, menti grossolane! La prima volontà (Dio), che è buona di per sé, non si è mai mossa da se stessa che è il sommo bene.

Tutto ciò che è conforme ad essa è giusto: nessun bene creato la attira a sé, ma è essa, irraggiando la grazia, che lo determina».

Come la cicogna, dopo aver sfamato i suoi piccoli, vola sopra il nido, e come i cicognini, avendo mangiato, la osservano, così fece l'immagine santa (l'aquila) che muoveva le ali spinte da tanti beati, mentre io alzai lo sguardo verso di essa.

Volteggiando cantava, e diceva: «Come tu non intendi il canto che ti rivolgo, così il giudizio divino è inconoscibile a voi mortali».

Dopo che quelle luci sante, piene di Spirito Santo, si fermarono e tornarono a raffigurare il segno (l'aquila) che rese i Romani degni di rispetto al mondo, esso ricominciò: «In questo regno (in Paradiso) non è mai asceso chi non ha creduto in Cristo, prima o dopo la sua crocifissione.

Ma vedi: molti gridano "Cristo, Cristo!", e il Giorno del Giudizio saranno molto meno vicini a Lui di chi non l'ha mai conosciuto;

e questi Cristiani saranno condannati dall'Etiope, quando saranno divise le due schiere (eletti e reprobi), una eternamente ricca e l'altra misera.

Che potranno dire i Persiani ai vostri re, quando vedranno aperto quel libro nel quale si scrivono tutte le malefatte?

Lì si vedrà, tra le opere di Alberto I d'Austria, quella che presto sarà annotata e per cui il regno di Boemia sarà distrutto.

Lì si vedrà il dolore che arreca alla Francia, coniando falsa moneta, colui (Filippo il Bello) che morirà per il colpo di un cinghiale.

Lì si vedrà la superbia che alimenta la sete di potere e che rende folli i re di Scozia e d'Inghilterra (Edoardo I), che non sopportano di stare entro i propri confini (facendosi guerra).

Si vedrà la lussuria e la vita viziosa del re di Spagna (Ferdinando IV) e del re di Boemia (Venceslao II), che non conobbero mai né vollero alcun valore.

Si vedrà, riguardo allo Zoppo di Gerusalemme (Carlo II d'Angiò), che le sue buone azioni saranno segnate con una 'I' e quelle malvagie con una 'M'.

Si vedrà l'avarizia e la viltà di colui (Federico II d'Aragona) che governa l'isola del fuoco (la Sicilia) dove Anchise morì;

e per dimostrare la sua dappocaggine, le sue malefatte saranno annotate con caratteri abbreviati, per scrivere molte cose in poco spazio.

E a tutti saranno evidenti le opere indegne di suo zio (Giacomo di Maiorca) e di suo fratello (Giacomo II di Sicilia), che disonorano una casata tanto nobile e due corone.

E lì si conosceranno i re di Portogallo (Dionigi) e di Norvegia (Acone), e quello di Serbia (Stefano Uroš) che ha visto con suo danno la moneta veneziana.

Oh felice Ungheria, se non si lascia più mal governare! e felice Navarra, se solo usasse come un'arma i monti che la fasciano (i Pirenei, per evitare l'annessione alla Francia)!

E ognuno deve credere, come anticipo di questo, che già l'isola di Cipro si lamenta e duole per la bestia che la governa (Arrigo di Lusignano), che non si discosta molto dagli altri esempi».

manfredi
Manfredi di Svevia



MANFREDI DI SVEVIA
“I? mi volsi ver’ lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso”: cosi` Dante Alighieri, nel III canto del Purgatorio, descrive il suo incontro con Manfredi di Svevia (1232-1266). Come tanti altri personaggi medievali resi celebri dalla letteratura del tempo, Manfredi fu un vero gigante nel panorama storico italiano del XIII secolo. D’altra parte, vista la sua famiglia, non avrebbe potuto essere altrimenti. Era infatti figlio dell’imperatore Federico II e di Bianca Lancia, la donna piu` amata in assoluto dallo “stupor mundi”. Il padre fu probabilmente il piu` grande sovrano nella storia del Sacro romano impero, mentre la madre proveniva da una delle piu` importanti famiglie aristocratiche del tempo. Dal lato paterno Manfredi apparteneva quindi alla gloriosa dinastia sveva degli Hohenstaufen, che era salita al potere con il suo celebre bisnonno Federico Barbarossa e aveva poi acquisito anche il Regno di Sicilia con Enrico VI (padre di Federico II). Dal lato materno, invece, Manfredi apparteneva a una importantissima casata aristocratica piemontese che aveva acquisito grandi feudi in Sicilia dopo essersi trasferita nel Meridione al seguito di Federico II. Secondo Dante, Manfredi di Svevia fu un sovrano valoroso. Per ben tre papi una spina nel fianco. Per decenni Federico II era stato in guerra con il papato e con i suoi sostenitori. Ormai da tempo i Comuni dell’Italia Centro-settentrionale si erano resi autonomi dal controllo del Sacro romano impero, mentre i vari pontefici avevano gradualmente iniziato a crearsi un proprio Stato nell’Italia Centrale. Federico II, essendo sia imperatore di Germania sia re di Sicilia, aveva cercato di riportare sotto il suo controllo la penisola combattendo duramente sia contro il papa sia contro i Comuni. Alla sua morte l’Italia era ancora dilaniata dalla lotta tra guelfi (sostenitori del papa) e ghibellini (dalla parte dell’imperatore). E fu proprio in questa tremenda contesa che si trovo` a essere catapultato il giovane Manfredi. Benche´ fosse il figlio prediletto dello “stupor mundi”, non era destinato a ereditare i domini paterni: questi sarebbero dovuti andare al suo fratellastro Corrado IV, che era figlio legittimo. Manfredi, sebbene avesse delle chiare mire sul Regno di Sicilia (il padre lo aveva nominato luogotenente dell’isola), decise di rimanere fedele al fratellastro e quindi assunse il controllo dell’Italia Meridionale in suo nome (Corrado era impegnato in Germania, per farsi riconoscere imperatore). Fu in questa delicata fase iniziale che Manfredi si scontro` per la prima volta con il papa Innocenzo IV: il pontefice, infatti, voleva a tutti i costi separare la corona imperiale da quella del Regno di Sicilia. Il fatto che i due Stati fossero nelle mani della stessa persona aveva causato grosse preoccupazioni ai pontefici fin dai tempi di Enrico VI: lo Stato della Chiesa, che si stava sviluppando come tale proprio in quegli anni, era infatti geograficamente collocato tra i territori imperiali in Italia Settentrionale e il Regno di Sicilia nel Meridione. Per rompere questo accerchiamento, Innocenzo IV arrivo`, alla morte di Federico II, a fomentare ribellioni in diverse aree del regno svevo. Sperava cosi` di poterlo annettere ai domini della Chiesa, approfittando del caos seguito alla morte dell’imperatore. Inizialmente le azioni del papa ebbero successo, perche´ Corrado era lontano e perche´ l’aristocrazia del regno era generalmente insofferente al potere centrale degli Svevi. Formalmente l’Italia Meridionale era un “feudo” della Chiesa e quindi le pretese pontificie avevano anche un certo fondamento legittimo. Manfredi, pero`, riusci` a tenere duro fino all’arrivo di Corrado IV nel 1251: sedo` gran parte delle rivolte e poi, insieme al fratellastro, completo` la “pacificazione” riconquistando anche la citta` di Napoli (1253). L’Italia Meridionale era finalmente, e stabilmente, di nuovo sotto il controllo svevo. E poco importa se l’idillio tra i due fratelli era finito. Corrado cominciava infatti ad aprire gli occhi sulle reali ambizioni di Manfredi. Gli manco` tuttavia il tempo di neutralizzarle: mori` improvvisamente di malaria nel 1254, e con la sua uscita di scena risparmio` perlomeno al regno una sanguinosa guerra civile. Manfredi colse al volo l’occasione per mettere le mani sul Regno di Sicilia, e Innocenzo IV colse al volo l’occasione per scomunicarlo, definirlo usurpatore e fargli guerra: il pontefice infatti recluto` un grosso esercito ed invase la parte settentrionale del Regno di Sicilia. Inizialmente Manfredi fu costretto a scendere a patti, data la debolezza militare, e lascio` che la Campania venisse occupata dalle truppe papali. si trattava di un compromesso di facciata, necessario a guadagnare tempo in vista della riscossa. Che non tardo` ad arrivare. Sin dal 1223 Federico II aveva creato a Lucera, in Puglia, una “colonia” di Saraceni che erano stati da lui deportati sul continente dalla Sicilia. Per lungo tempo l’isola era stata abitata da musulmani, che all’inizio del regno dello “stupor mundi” si erano ribellati contro il potere centrale: Federico, dopo aver sedato la ribellione, decise di non sterminarli e di trasferirli in Puglia. L’imperatore, infatti, aveva avuto modo di apprezzare le grandi doti militari di questi infallibili arcieri: per questo si decise a creare la colonia di Lucera, dove i Saraceni avrebbero potuto vivere in pace praticando la loro religione in cambio del servizio militare da prestare al regno. Dopo la morte del loro “protettore”, i Saraceni di Lucera rimasero fedeli a suo figlio Manfredi. I musulmani misero a sua disposizione il loro tesoro e gli fornirono un ingente numero di truppe. Sapevano bene che sarebbero stati sterminati completamente in caso di vittoria del pontefice. Negli ultimi mesi del 1254 Manfredi si reco` dunque a Lucera e, col contributo dei Saraceni, mise insieme un esercito che mando` poco dopo contro le truppe papali. Il 2 dicembre a Foggia i Saraceni di Manfredi ebbero la meglio sui soldati del papa. Innocenzo, sconfitto e malato, mori` cinque giorni dopo. L’uscita di scena dell’acerrimo nemico fu una fortuna per Manfredi: Alessandro IV, il neopapa, era molto meno energico del predecessore. Anche lui scomunico` (di nuovo!) Manfredi, ma non riusci` a indebolirlo. Nel 1256 ormai il Regno di Sicilia era completamente sotto il controllo dello svevo, tanto da permettergli la fondazione di una nuova citta` che in suo onore si sarebbe chiamata Manfredonia. Poi, nel 1257, le truppe papali furono definitivamente sbaragliate e Alessandro IV dovette abbandonare Roma per rifugiarsi a Viterbo, dove sarebbe morto quattro anni dopo. Il 10 agosto 1258 Manfredi venne ufficialmente incoronato a Palermo: era all’apice del suo potere. In qualita` di capo assoluto di tutti i ghibellini italiani, Manfredi sostenne generosamente le citta` alleate dell’Italia Centro-settentrionale, inviando cavalieri e denaro in funzione anti- guelfa. l 4 settembre del 1260, per esempio, i milites mercenari tedeschi mandati in Toscana furono decisivi nell’assicurare a Siena una grande vittoria nella celebre battaglia di Montaperti, contro la guelfa Firenze. Seguendo l’esempio del padre, Manfredi si dimostro` anche un fine diplomatico tessendo alleanze matrimoniali con le altre case regnanti: lui stesso sposo` in seconde nozze la figlia del Despota d’Epiro (che gli porto` in dote alcuni territori in Albania) e diede in moglie la propria figlia Costanza all’ambizioso Pietro III d’Aragona. Ma la “pace” non duro` a lungo, e la fortuna nemmeno. Ancora una volta fu un papa. Nel 1261 fu eletto al soglio pontificio il francese Urbano IV (1195-1264). Ostinato e nemico degli Svevi, lavoro` subito per togliere di mezzo Manfredi e rimpiazzarlo con un monarca fedele al papato. La scelta cadde su Carlo d’Angio`, signore di Provenza e fratello del re di Francia (Luigi IX “il Santo”). Il papato lancio` una vera e propria “crociata” contro Manfredi, che veniva dipinto dalla propaganda guelfa come un sovrano infedele ed eretico. Carlo d’Angio` naturalmente rispose all’invito e nel 1265 giunse in Italia, ansioso di prendersi il regno. Manfredi tento` il tutto per tutto, arrivo` perfino ad appellarsi (invano) alla popolazione di Roma affinche´ lo incoronasse imperatore. Gli Angioini si presentarono ai confini settentrionali del regno con un grosso esercito. Manfredi aveva organizzato un buon sistema difensivo, ma i nobili meridionali lo tradirono: passarono dalla parte di Carlo d’Angio` e permisero ai francesi di attraversare il fiume Garigliano e raggiungere la Campania. Il 26 febbraio 1266 Svevi e Angioini si affrontarono nella battaglia di Benevento. Proprio nel momento cruciale dello scontro, Manfredi si scopri` di nuovo tradito, questa volta dai suoi stessi cavalieri. Si getto` allora contro il nemico, per l’ultima sfida. Il suo corpo fu trovato sul campo, tre giorni dopo la disfatta. L’esercito di Manfredi era simile per composizione e struttura a quello del padre Federico II. Il nucleo centrale era costituito da cavalieri pesanti tedeschi, la maggior parte dei quali aveva seguito Corrado IV durante le sue campagne nel Meridione ed erano poi rimasti al servizio di Manfredi. Nonostante fossero dei combattenti stipendiati, i mercenari tedeschi (milites stipendiarii) si dimostrarono sempre piuttosto fedeli nei confronti del figlio illegittimo di Federico II, e molto efficaci sul campo di battaglia. Ma le truppe piu` leali furono i Saraceni di Lucera: questi sapevano bene che la loro stessa esistenza era legata alla sopravvivenza della dinastia sveva, poiche´ non solo il papato, ma qualunque altra famiglia regnante cristiana si sarebbe presto liberata di loro. Le truppe del regno, composte essenzialmente solo da milites e da pochi fanti delle leve feudali, diedero invece un contributo militare molto scarso a Manfredi, come in precedenza al padre. Ma soprattutto lo tradirono nello scontro finale a Benevento, determinandone la sconfitta. Con la scomparsa degli Svevi, inizia il decadimento del mezzogiorno.

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Eugenio Caruso - 20 - 10 - 2021

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www.impresaoggi.com