Omero, Iliade. Libro XIV. Giove ingannato. Poseidone aiuta gli achei.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

ifigenia
Ifigenia sacrificata dai greci prima della partenza per Troia. Di G.B. Tiepolo

L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”, detta kata polin. Le varie edizioni kata poleis non erano probabilmente molto discordanti tra di loro. Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine. L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini. Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò. Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio (diorthosis) volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi, formule varianti che entravano anche tutte insieme. Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto. Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana. Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C. L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente. Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo. L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti. L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto. L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future. Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane. Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari.

Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti: Iliade e l’Odissea. Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlando di un uomo sinistro, cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi che analizzeremo in seguito.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene sì, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del suo figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende intorno Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le teomachie e le aristie che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama sottile, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.


RIASSUNTO XIV LIBRO

Nestore, udito il fracasso de’ combattenti, esce dalla sua tenda e s’avvia per consultarsi con Agamennone sul pericolo de’ Greci. Agamennone è nuovamente di parere che si tenti la fuga. Ulisse si oppone. Diomede consiglia ai duci di mostrarsi, benchè feriti, ai guerrieri e sostenerne il coraggio. Nettuno inanimisce i Greci. Frattanto Giunone, ottenuto il cinto di Venere, presentasi a Giove sull’Ida, e invocata l’assistenza del dio Sonno giunge ad addormentare il marito. Durante il sonno di Giove, Nettuno soccorre i Greci, i quali fanno orrenda strage dei Troiani. Ettore è ferito con un sasso da Aiace Telamonio. L’eroe è portato semivivo verso di Troia.

zeus 3
Statua di Zeus rinvenuta a Nicomedia in Bitinia


TESTO LIBRO XIV

De’ combattenti udì l’alto fracasso
Nestore in quella che una colma tazza
Accostava alle labbra; e d’Esculapio
Rivolto al figlio: Oh, che mai fia, diss’egli,
Divino Macaon? Presso alle navi 5
Dell’usato maggiori odo le grida
De’ giovani guerrieri. Alla vedetta
Vado a saperne la cagion. Tu siedi
Intanto, e bevi il rubicondo vino,
Mentre i caldi lavacri t’apparecchia 10
La mia bionda Ecaméde, onde del sangue,
Di che vai sozzo, dilavar la gruma.
   Del suo figliuol si tolse in questo dire
Il brocchier che giacea dentro la tenda,
Il fulgido brocchier di Trasiméde 15
Che il paterno portava. Indi una salda
Asta d’acuta cuspide impugnata
Fuor della tenda si sofferma, e vede
Miserando spettacolo: cacciati
In fuga i Greci, e alle lor spalle i Teucri 20
Inseguenti e furenti, e la muraglia
Degli Achei rovesciata. Come quando
Il vasto mar s’imbruna, e presentendo
De’ rauchi venti il turbine vicino,
Tace l’onda atterrita, e in nessuna 25
Parte si volve, finchè d’alto scenda
La procella di Giove; in due pensieri
Così del veglio il cor pendea diviso,
Se fra i rapidi carri de’ fuggenti
Dánai si getti, o se alla volta ei corra 30
Del duce Atride Agamennón. Lo meglio
Questo gli parve, e s’avvïò. Seguía
La mutua strage intanto, e intorno al petto
De’ combattenti risonava il ferro
Dalle lance spezzato e dalle spade. 35
   Fuor delle navi gli si fêro incontro
I re feriti Ulisse e Dïomede
E Agamennón. Di questi a fior di lido
Stavan lungi dall’armi le carene.
L’altre, che prime lo toccâr, dedotte 40
Più dentro alla pianura, eran le navi
A cui dintorno fu costrutto il muro;
Perocchè il lido, benchè largo, tutte
Non potea contenerle, e acervate
Stavan le schiere. Statuiti adunque 45
L’uno appo l’altro, come scala, i legni
Tutto empieano del lido il lungo seno
Quanto del mare ne chiudean le gole.
Scossi al trambusto, che s’udía, que’ duci,
E di saper lo stato impazïenti 50
Della battaglia, ne venían conserti,
Alle lance appoggiati, e gravi il petto
D’alta tristezza. Terror loro accrebbe
Del veglio la comparsa, e Agamennóne
Elevando la voce: O degli Achei 55
Inclita luce, Nestore Nelíde,
Perchè lasci la pugna, e qui ne vieni?
Temo, ohimè! che d’Ettór non si compisca
La minacciata nel troian consesso
Fiera parola di non far ritorno 60
Nella città, se pria spenti noi tutti,
Tutte in faville non mettea le navi.
Ecco il detto adempirsi. Eterni Dei!
Dunque in ira son io, come ad Achille,
A tutto il campo acheo, sì che non voglia 65
Più pugnar dell’armata alla difesa?
   Ahi! pur troppo l’evento è manifesto,
Nestor rispose, nè disfare il fatto
Lo stesso tonator Giove potrebbe.
Il muro, che de’ legni e di noi stessi 70
Riparo invitto speravam, quel muro
Cadde, il nemico ne combatte intorno
Con ostinato ardire e senza posa:
Nè, come che tu l’occhio attento volga,
Più ti sapresti da qual parte il danno 75
Degli Achivi è maggior, tanto son essi
Alla rinfusa uccisi, e tanti i gridi
Di che l’aria risuona. Or noi qui tosto,
Se verun più ne resta util consiglio,
Consultiamo il da farsi. Entrar nel forte 80
Della mischia non io però v’esorto,
Chè mal combatte il battaglier ferito.
Saggio vegliardo, replicò l’Atride,
Poichè fino alle tende hanno i nemici
Spinta la pugna, e più non giova il vallo 85
Nè della fossa nè dell’alto muro,
A cui tanto sudammo, e invïolato
Schermo il tenemmo delle navi e nostro,
Chiaro ne par che al prepossente Giove
Caro è il nostro perir su questa riva 90
Lungi d’Argo, infamati. Il vidi un tempo
Proteggere gli Achei; lui veggo adesso
I Troiani onorar quanto gli stessi
Beati Eterni, e incatenar le nostre
Forze e l’ardir. Mia voce adunque udite. 95
Le navi, che ne stanno in secco al primo
Lembo del lido, si sospingan tutte
Nel vasto mare, e tutte sieno in alto
Sull’áncora fermate insin che fitta
Giunga la notte, dal cui velo ascosi100
Varar potremo il resto, ove pur sia
Che ne dian tregua dalla pugna i Teucri.
Non è biasmo fuggir di notte ancora
Il proprio danno, ed è pur sempre il meglio
Scampar fuggendo, che restar captivo. 105
   Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose:
Atride, e quale ti fuggì dal labbro
Rovinosa parola? Imperadore
Fossi oh! tu di vigliacchi, e non di noi,
Di noi che Giove dalla verde etade 110
Infino alla canuta agli ardui fatti
Della guerra incitò, finchè ciascuno
Vi perisca onorato. E così dunque
Puoi tu de’ Teucri abbandonar l’altera
Città che tanti già ne costa affanni? 115
Per dio! nol dire, dagli Achei non s’oda
Questo sermone, della bocca indegno
D’uom di senno e scettrato, e, qual tu sei,
Di tante schiere capitano. Io primo
Il tuo parer condanno. Arde la pugna, 120
E tu comandi che nel mar lanciate
Sien le navi? Ciò fôra un far più certo
De’ Troiani il vantaggio, e più sicuro
Il nostro eccidio: perocchè gli Achivi
In quell’opra assaliti, anzi che fermi 125
Sostener l’inimico, al mar terranno
Rivolto il viso, a’ Teucri il tergo: e allora
Vedrai funesto, o duce, il tuo consiglio.
   Rispose Agamennón: La tua pungente
Rampogna, Ulisse, mi ferì nel core. 130
Ma mia mente non è che lor malgrado
Traggan le navi in mar gli Achivi; e s’ora
Altri sa darne più pensato avviso,
Sia giovine, sia veglio, io l’avrò caro.
   Chi darallo n’è presso (il bellicoso 135
Tidíde ripigliò), nè fia mestieri
Cercarlo a lungo, se ascoltar vorrete,
Nè, perchè d’anni inferïor vi sono,
Con disdegno spregiarmi. Anch’io mi vanto
Figlio d’illustre genitor, del prode 140
Tidéo, di Cadmo nel terren sepolto.
Portéo tre figli generò dell’alta
Calidone abitanti e di Pleurone,
Agrio, Mela ed Enéo, tutti d’egregio
Valor, ma tutti li vincea di molto 145
Il cavaliero Enéo padre al mio padre.
Ivi egli visse; ma da’ numi astretto
A gir vagando il padre mio, sua stanza
Pose in Argo, e d’Adrasto a moglie tolse
Una figlia; e signor di ricchi alberghi 150
E di campi frugiferi per molte
File di piante ombrosi, e di fecondo
Copioso gregge, a tutti ancor gli Argivi
Ei sovrastava nel vibrar dell’asta.
Conte vi sono queste cose, io penso, 155
Tutte vere; e sapendomi voi quindi
Nato di sangue generoso, a vile
Non terrete il mio retto e franco avviso.
Orsù, crudel necessità ne spinge.
Al campo adunque, tuttochè feriti; 160
E perchè piaga a piaga non s’aggiunga,
Fuor di tiro si resti, ma propinqui
Sì, che possiamo gl’indolenti almeno
Incitar coll’aspetto e colla voce.
   Piacque il consiglio, e s’avvïâr precorsi 165
Dal re supremo Agamennón. Li vide
Nettuno, e tolte di guerrier canuto
Le sembianze, e per man preso l’Atride,
Fe’ dal labbro volar queste parole:
   Atride, or sì che degli Achei la strage 170
E la fuga gioir fa la crudele
Alma d’Achille, poichè tutto l’ira
Gli tolse il senno. Oh possa egli in mal punto
Perire, e d’onta ricoprirlo un Dio!
Ma tutti a te non sono irati i numi, 175
E de’ Teucri vedrai di nuovo i duci
Empir di polve il piano, e dalle tende
E dalle navi alla città fuggirsi.
   Disse, e corse, e gridò quanto di nove
O dieci mila combattenti alzarse 180
Potría, nell’atto d’azzuffarsi, il grido:
Tanto fu l’urlo che dal vasto petto
L’Enosigéo mandò. Risurse in seno
Degli Achei la fortezza a quella voce,
E il desío di pugnar senza riposo. 185
   Su le vette d’Olimpo in aureo trono
Sedea Giuno, e di là visto il divino
Suo cognato e fratel che in gran faccenda
Per la pugna scorrea, gioinne in core.
Sovra il giogo maggior scôrse ella poscia 190
Dell’irrigua di fonti Ida seduto
L’abborrito consorte; e in suo pensiero
L’augusta Diva a ruminar si mise
D’ingannarlo una via. Calarsi all’Ida
In tutto il vezzo della sua persona, 195
Infiammarlo d’amor, trarlo rapito
Di sua beltà nelle sue braccia, e dolce
Nelle palpebre e nell’accorta mente
Insinuargli il sonno, ecco il partito
Che le parve il miglior. Tosto al regale 200
Suo talamo s’avvía, che a lei l’amato
Figlio Vulcano fabbricato avea
Con salde porte, e un tal serrame arcano
Che aperto non l’avrebbe iddio veruno.
Entrovvi: e chiusa la lucente soglia, 205
Con ambrosio licor tutto si terse
Pria l’amabile corpo, e d’oleosa
Essenza l’irrigò, divina essenza
Fragrante sì che negli eterni alberghi
Del Tonante agitata e cielo e terra 210
D’almo profumo rïempía. Ciò fatto,
Le belle chiome al pettine commise,
E di sua mano intorno all’immortale
Augusto capo le compose in vaghi
Ondeggianti trecce. Indi il divino 215
Peplo s’indusse, che Minerva avea
Con grand’arte intessuto, e con aurate
fulgide fibbie assicurollo al petto.
Poscia i bei fianchi d’un cintiglio a molte
Frange ricinse, e ai ben forati orecchi 220
I gemmati sospese e rilucenti
Suoi ciondoli a tre gocce. Una leggiadra
E chiara come sole intatta benda
Dopo questo la Diva delle Dive
Si ravvolse alla fronte. Al piè gentile225
Alfin legossi i bei coturni, e tutte
Abbigliate le membra uscì pomposa,
Ed in disparte Venere chiamata,
Così le disse: Mi sarai tu, cara,
D’una grazia cortese? o meco irata, 230
Perch’io gli Achivi, e tu li Teucri aiti,
Negarmela vorrai? - Parla, rispose
L’alma figlia di Giove: il tuo desire
Manifestami intero, o veneranda
Saturnia Giuno. Mi comanda il core 235
Di far tutto (se il posso, e se pur lice)
Il tuo voler, qual sia. - Dammi, riprese
La scaltra Giuno, l’amoroso incanto
Che tutti al dolce tuo poter suggetta
I mortali e gli Dei. Dell’alma terra 240
Ai fini estremi a visitar men vado
L’antica Teti e l’Oceán de’ numi
Generator, che présami da Rea,
Quando sotto la terra e le profonde
Voragini del mar di Giove il tuono 245
Precipitò Saturno, mi nudriro
Ne’ lor soggiorni, e m’educâr con molta
Cura e affetto. A questi io vado, e solo
Per ricomporne una difficil lite
Ond’ei da molto a gravi sdegni in preda 250
E di letto e d’amor stansi divisi.
Se con parole ad acchetarli arrivo
E a rannodarne i cuori, io mi son certa
Che sempre avranmi e veneranda e cara.
   E l’amica del riso Citeréa, 255
Non lice, replicò, nè dêssi a quella
Che del tonante Iddio dorme sul petto,
Far di quanto ella vuol niego veruno.
   Disse; e dal seno il ben trapunto e vago
Cinto si sciolse, in che raccolte e chiuse 260
Erano tutte le lusinghe. V’era
D’amor la voluttà, v’era il desire
E degli amanti il favellío segreto,
Quel dolce favellío ch’anco de’ saggi
Ruba la mente. In man gliel pose, e disse: 265
Prendi questo mio cinto in che si chiude
Ogni dolcezza, prendilo, e nel seno
Lo ti nascondi, e tornerai, lo spero,
Tutte ottenute del tuo cor le brame.
   L’alma Giuno sorrise, e di contento 270
Lampeggiando i grand’occhi in quel sorriso,
Lo si ripose in seno. Alle paterne
Stanze Ciprigna incamminossi: e Giuno
Frettolosa lasciò l’olimpie cime,
E la Pïeria sorvolando e i lieti 275
Emazii campi, le nevose vette
Varcò de’ tracii monti, e non toccava
Col piè santo la terra. Indi dell’Ato
Superate le rupi, all’estuoso
Ponto discese, e nella sacra Lenno, 280
Di Toante città, rattenne il volo.
Ivi al fratello della Morte, al Sonno
N’andò, lo strinse per la mano, e disse:
   Sonno, re de’ mortali e degli Dei,
S’unqua mi festi d’un desío contenta, 285
Or n’è d’uopo, e saprotti eterno grado.
Tosto ch’io l’abbia fra mie braccia avvinto,
M’addormenta di Giove, amico Dio,
Le fulgide pupille: ed io d’un seggio
D’auro incorrotto ti farò bel dono, 290
Che lavoro sarà maraviglioso
Del mio figlio Vulcan, col suo sgabello
Su cui si posi a mensa il tuo bel piede.
   Saturnia Giuno, veneranda Dea,
Rispose il Sonno, agevolmente io posso 295
Ogni altro iddio sopir, ben anche i flutti
Del gran fiume Oceán di tutte cose
Generatore; ma il Saturnio Giove
Nè il toccherò nè il sopirò, se tanto
Non comanda egli stesso. I tuoi medesmi 300
Cenni di questo m’assennâr quel giorno
Ch’Ercole il suo gran figlio, Ilio distrutto,
Navigava da Troia. Io su la mente
Dolce mi sparsi dell’Egíoco Giove,
E l’assopii. Tu intanto in tuo segreto 305
Macchinando al suo figlio una ruina,
Di fieri venti sollevasti in mare
Una negra procella, e lui svïando
Dal suo cammin, spingesti a Coo, da tutti
I suoi cari lontano. Arse di sdegno 310
Destatosi il Tonante, e per l’Olimpo
Scompigliando i Celesti, in cerca andava
Di me fra tutti, e avría dal ciel travolto
Me meschino nel mar, se l’alma Notte,
De’ numi domatrice e de’ mortali, 315
Non mi campava fuggitivo. Ei poscia
Per lo rispetto della bruna Diva
Placossi. E salvo da quel rischio appena
Vuoi che con esso a perigliarmi io torni?
Di periglio che parli? e di che temi? 320
Gli rispose Giunon; forse t’avvisi
Che al par del figlio, per cui sdegno il prese,
Giove i Teucri protegga? Or via, mi segui,
Ch’io la minore delle Grazie in moglie
Ti darò, la vezzosa Pasitéa, 325
Di cui so che sei vago e sempre amante.
   Giuralo per la sacra onda di Stige,
Tutto in gran giubilío ripiglia il Sonno;
E l’alma terra d’una man, coll’altra
Tocca del mar la superficie, e quanti 330
Stansi intorno a Saturno inferni Dei
Testimoni ne sian, che mia consorte
Delle Grazie farai la più fanciulla,
La gentil Pasitéa cui sempre adoro.
   Disse; e conforme a quel desir giurava 335
La bianca Diva, e i sotterranei numi
Tutti invocava che Titani han nome.
Fatto il gran sacramento, abbandonaro
D’Imbro e di Lenno le cittadi, e cinti
Di densa nebbia divorâr la via. 340
D’Ida altrice di belve e di ruscelli
Giunti alla falda, uscîr della marina
Alla punta Lettéa. Preser leggieri
Del monte la salita, e della selva
Sotto i lor passi si scotea la cima. 345
Ivi il Sonno arrestossi, e per celarsi
Di Giove agli occhi un alto abete ascese,
Che sovrana innalzava al ciel la cima.
Quivi s’ascose tra le spesse fronde
In sembianza d’arguto augel montano 350
Che noi Cimindi, e noman Calci i numi.
   Con sollecito piede intanto Giuno
Il Gargaro salía. La vide il sommo
Delle tempeste adunatore, e pronta
Al cor gli corse l’amorosa fiamma, 355
Siccome il dì che de’ parenti al guardo
Sottrattisi gustâr commisti insieme
La furtiva d’amor prima dolcezza.
Si fece incontro alla consorte, e disse:
 Giuno, a che vieni dall’Olimpo, e senza 360
Cocchio e destrieri? - E a lui la scaltra: Io vado
Dell’alma terra agli ultimi confini
A visitar de’ numi il genitore
Oceano e Teti, che ne’ loro alberghi
Con grande cura m’educâr fanciulla. 365
Vado a comporne la discordia: ei sono
E di letto e d’amor per ire acerbe
Da gran tempo divisi. Alle radici
D’Ida lasciati ho i miei destrier che ratta
Su la terra e sul mar mi porteranno. 370
Or qui vengo per te, chè meco irarti
Non dovessi tu poi se taciturna
Del vecchio iddio n’andassi alla magione.
   Altra volta v’andrai, Giove rispose:
Or si gioisca in amoroso amplesso; 375
Chè nè per donna nè per Dea giammai
Mi si diffuse in cor fiamma sì viva:
Non quando per la sposa Issïonéa,
Che Piritóo, divin senno, produsse,
Arsi d’amor, non quando alla gentile 380
Figlia d’Acrisio generai Perséo,
Prestantissimo eroe, nè quando Europa
Del divin Radamanto e di Minosse
Padre mi fece. Nè le due di Tebe
Beltà famose Sémele ed Alcmena, 385
D’Ercole questa genitrice, e quella
Di Bacco de’ mortali allegratore;
Nè Cerere la bionda, nè Latona,
Nè tu stessa giammai, siccome adesso,
Mi destasti d’amor tanto disío. 390
   E l’ingannevol Diva: Oh che mai parli,
Importuno! Ascoltar vuoi tu d’amore
Le fantasie qui d’Ida in su le vette
Dove tutto si scorge? E se qualcuno
Degli Dei ne mirasse, e agli altri Eterni 395
Conto lo fêsse, rïentrar nel cielo
Con che fronte ardirei? Ciò fôra indegno.
Pur se vera d’amor brama ti punge,
Al talamo n’andiam, che il tuo diletto
Figlio Vulcan ti fabbricò di salde 400
Porte; e quivi di me fa il tuo volere.
   Nè d’uom mortale nè d’iddio veruno
Lo sguardo ne vedrà, Giove riprese.
Diffonderotti intorno un’aurea nube
Tal che per essa nè del Sol pur anco 405
La vista passerà quantunque acuta.
   Disse, ed in grembo alla consorte il figlio
Di Saturno s’infuse: e l’alma terra
Di sotto germogliò novelle erbette
E il rugiadoso loto e il fior di croco 410
E il giacinto, che in alto li reggea
Soffice e folto. Qui corcârsi, e densa
Li ricopriva una dorata nube
Che lucida piovea dolce rugiada.
   Sul Gargaro così queto dormía 415
Giove in braccio alla Dea, preda d’amore
E del soave Sonno che veloce
Corse alle navi ad avvisarne il nume
Scotitor della Terra; e a lui venuto,
Con presto favellar, T’affretta, ei disse, 420
A soccorrer gli Achivi, o re Nettuno,
E almen per poco vincitor li rendi
Finchè Giove si dorme. Io lo ricinsi
D’un tenero sopor mentre ingannato
Dalla consorte in seno le riposa. 425
   Sparve il Sonno, ciò detto, e de’ mortali
Su l’altere città l’ali distese.
Allor Nettuno d’aitar bramoso
Più che prima gli Achei, diessi nel mezzo
Alle file di fronte, alto gridando: 430
Achivi, lascerem di Priamo al figlio
Noi dunque il vanto di novel trïonfo,
E la gloria d’averne arse le navi?
Ei certo lo si crede, e vampo mena,
Perchè d’Achille neghittosa è l’ira. 435
Ma d’Achille non fia molto il bisogno,
Se noi far opra delle man sapremo,
E alternarci gli aiuti. Or su, concordi
Seguiam tutti il mio detto. I più sicuri
E grandi scudi, che nel campo siéno, 440
Imbracciamo, e copriam de’ più lucenti
Elmi le teste, e le più lunghe picche
Strette in pugno, marciam: io vi precedo,
Nè per forte ch’ei sia l’audace Ettorre,
L’impeto nostro sosterrà. Chïunque 445
È guerrier valoroso, e di leggiero
Scudo si copre, al men valente il ceda,
E allo scudo maggior sottentri ei stesso.
   Obbedîr tutti al cenno. I re medesmi
Tidíde, Ulisse e Agamennón, sprezzate 450
Le lor ferite, in ordinanza a gara
Ponean le schiere, e via dell’armi il cambio
Per le file facean; le forti al forte,
Al peggior le peggiori. E poichè tutti
Di lucido metallo la persona 455
Ebber coverta, s’avvïâr. Nettuno
Li precorrea, nella robusta mano
Sguäinata portandosi una lunga
Orrenda spada che parea di Giove
La folgore, e mettea nel cor paura. 460
Misero quegli che la scontra in guerra!
   Dall’altra parte il troian duce i suoi
Pone ei pure in procinto, e senza indugio
L’illustre Ettorre ed il ceruleo Dio,
L’uno i Greci incorando e l’altro i Teucri, 465
Una fiera attaccâr pugna crudele.
Gonfiasi il mare, e i padiglioni innonda
E gli argivi navigli, e con immenso
Clamor si viene delle schiere al cozzo.
Non così la marina onda rimugge 470
Dal tracio soffio flagellata al lido;
Non così freme il foco alla montagna
Quando va furibondo a divorarsi
L’arida selva; nè d’eccelsa quercia
Rugge sì fiero fra le chiome il vento, 475
Come orrende de’ Teucri e degli Achei
Nell’assalirsi si sentían le grida.
   Contro Aiace, che voltagli la fronte,
Scaglia Ettorre la lancia, e lo colpisce
Ove del brando e dello scudo il doppio 480
Balteo sul petto si distende; e questo
Dal colpo lo salvò. Visto uscir vano
Ettore il telo, di rabbia fremendo
In securo fra’ suoi si ritraea.
Mentr’ei recede, il gran Telamoníde 485
Ad un sasso, de’ molti che ritegno
Delle navi giacean sparsi pel campo
De’ combattenti al piè, dato di piglio,
L’avventò, lo rotò come paléo,
E sul girone dello scudo al petto 490
L’avversario ferì. Con quel fragore
Che dal foco di Giove fulminata
Giù ruina una quercia, e grave intorno
Del grave zolfo si diffonde il puzzo:
L’arator, che cadersi accanto vede 495
La folgore tremenda, imbianca e trema:
Così stramazza Ettór; l’asta abbandona
La man, ma dietro gli va scudo ed elmo,
E rimbombano l’armi sul caduto.
V’accorsero con alti urli gli Achei, 500
Strascinarlo sperandosi, e di strali
Lo tempestando; ma nessun ferirlo
Potéo, chè ratti gli fêr serra intorno
I più valenti, Enea, Polidamante,
Agénore, e de’ Licii il condottiero505
Sarpedonte con Glauco, e nulla in somma
De’ suoi l’abbandonò, ch’altri gli scudi
Gli anteposero, e lunge altri dall’armi
L’asportâr su le braccia a’ suoi veloci
Destrier che fuori della pugna a lui 510
Tenea pronti col cocchio il fido auriga.
Volâr questi, e portâr l’eroe gemente
Verso l’alta città; ma giunti al guado
Del vorticoso Xanto, ameno fiume
Generato da Giove, ivi dal carro 515
Posârlo a terra, gli spruzzâr di fresca
Onda la fronte, ed ei rinvenne, e aperte
Girò le luci intorno, e sui ginocchi
Suffulto vomitò sangue dal petto.
Ma di nuovo all’indietro in sul terreno 520
Riversossi; e coll’alma ancor dal colpo
Doma oscurârsi all’infelice i lumi.
Gli Achei, veduto uscir dal campo Ettorre,
Si fêr più baldi addosso all’inimico,
E primo Aiace d’Oiléo d’assalto 525
Satnio ferì, che Naïde gentile
Ad Enopo pastor lungo il bel fiume
Satnïoente partorito avea.
Lo colpì coll’acuta asta il veloce
Oilíde nel lombo; ei resupino 530
Si versò nella polve, e intorno a lui
Più che mai fiera si scaldò la zuffa.
   A vendicar l’estinto oltre si spinge
Polidamante, e tale a Protenorre,
Figliuol d’Arëilíco, un colpo libra, 535
Che tutto la gagliarda asta gli passa
L’omero destro. Ei cadde, e il suol sanguigno
Colla palma ghermì. Sovra il caduto
Menò gran vanto il vincitor, gridando:
Dalla man del magnanimo Pantíde 540
Non uscì, parmi, indarno il telo, e certo
Lo raccolse nel corpo un qualche Acheo
Che appoggiato a quell’asta or scende a Pluto.
   Ferì gli Achivi di dolor quel vanto;
Più che tutti ferì l’alma del grande 545
Telamoníde, al cui fianco caduto
Era quel prode. E tosto al borïoso,
Che indietro si traea, la folgorante
Asta scagliò. Polidamante a tempo
Schivò la morte con un salto obliquo; 550
E ricevella (degli Dei tal era
L’aspro decreto) l’antenóreo figlio
Archíloco. Lo colse il fatal ferro
Alla vertebra estrema, ove nel collo
S’innesta il capo, e ne precise il doppio ..555
Tendine. Ei cadde, e del meschin la testa,
Colla bocca davanti e le narici,
Prima a terra n’andò, che la persona.
Alto allora a quel colpo Aiace esclama:
Polidamante, oh! guarda, e dinne il vero, ..560
Non val egli Proténore quest’altro
Ch’io qui posi a giacer? Ned ei mi sembra
Mica de’ vili, nè d’ignobil seme,
Ma d’Anténore un figlio, o suo germano;
Sì n’ha l’impronta della razza in viso. .. 565
   Così parlava infinto, conoscendo
Ben ei l’ucciso. Addolorârsi i Teucri;
Ma del fratello vindice Acamante
A Prómaco beózio, che l’estinto
Traea pe’ piedi, fulminò di lancia ..570
Tale un súbito colpo, che lo stese.
Alto allor grida l’uccisor superbo:
O voi guerrieri da balestra, e forti
Sol di minacce! e voi pur anco, Argivi,
Morderete la polve, e non saremo .. 575
Noi soli al lutto. Dalla mia man domo
Mirate di che sonno or dorme il vostro
Prómaco, e paga del fratello mio
Tosto lo sconto! Perciò preghi ognuno
Di lasciar dopo sè vendicatore .. 580
Di sua morte un fratel nel patrio tetto.
   Destò quel vanto negli Achei lo sdegno:
Sovra ogni altro crucciossi il bellicoso
Peneléo. Si scagliò questi con ira
Contro Acamante che del re l’assalto ..585
Non attese; ed il colpo a lui diretto
Ilïonéo percosse, unica prole
Di Forbante che ricco era di molto
Gregge; e Mercurio, che d’assai l’amava,
Di dovizie fra’ Troi l’avea cresciuto. ..590
Il colse Peneléo sotto le ciglia
Dell’occhio alla radice, e la pupilla
Schizzandone passar l’asta gli fece
Via per l’occhio alla nuca. Ilïonéo
Assiso cadde colle man distese: ..595
Ma stretta Peneléo l’acuta spada,
Gli recise le canne, e il mozzo capo,
Coll’elmo e l’asta ancor nell’occhio infissa,
Gli mandò nella polve. Indi l’alzando
Languente in cima alla picca e cadente .. 600
Come lasso papavero, ai nemici
Lo mostra, e altero esclama: In nome mio
Dite, o Teucri, del chiaro Ilïonéo
Ai genitor, che per la casa innalzino
Il funebre ulular, da che nè pure .. 605
Di Prómaco, figliuol d’Alegenorre,
La consorte potrà del caro aspetto
Del marito gioir quando da Troia
Farem ritorno alle paterne rive.
   Sì disse, e tutti impallidîr di tema, ..610
E col guardo ciascun giva cercando
Di salvarsi una via. Celesti Muse,
Or voi ne dite chi primier le spoglie
Cruente riportò, poi che agli Achivi
Fe’ piegar la vittoria il re Nettuno. ..615
Primiero Aiace Telamónio uccise
De’ forti Misii il duce Irzio Girtíde;
Antíloco spogliò Falce e Merméro:
Da Merïon fu spento Ippozïone
Con Mori: a Protoone e Perifete ..620
Teucro diè morte: Menelao nel ventre
Iperénore colse, e dalla piaga
Tutte ad un tempo uscîr le lacerate
Intestina e la vita. Altri più molti
Ne spense Aiace d’Oiléo; chè nullo ..625
Ratto al paro di lui gli spaventati
Fuggitivi inseguía, quando ne’ petti
Della fuga il terror Giove mettea.

Traduzione di Vincenzo Mionti. I nomi greci sono stati latinizzati, ad es. Zeus diventa Giove

zeus 2
Il tempio di Zeus - Atene


ZEUS
Zeus (in greco antico: Zèus) nella religione greca è il capo di tutti gli Dei, il capo dell'Olimpo, il dio del cielo e del tuono. I suoi simboli sono la folgore, il toro, l'aquila e la quercia. Figlio del titano Crono e di Rea, è il più giovane dei suoi fratelli e sorelle: Estia, Demetra, Era, Ade e Poseidone. Nella maggior parte delle leggende o miti è sposato con Era (protettrice del matrimonio e dei figli), anche se nel santuario dell'oracolo di Dodona come sua consorte si venerava Dione (viene raccontato nell'Iliade che Zeus sia il padre di Afrodite, avuta con Dione). Il frutto dei suoi numerosi amori furono i celeberrimi figli, tra i quali Apollo e Artemide, Hermes, Persefone, Atena, Dioniso, Perseo, Eracle, Elena, Minosse e le Muse. Secondo la tradizione da Era, la moglie legittima, ebbe Ares, Ebe, Efesto e Ilizia. Tali rapporti amorosi venivano consumati da Zeus anche sotto forma di animali (cigno, toro, ecc.), infatti tra i suoi enormi poteri egli aveva anche quello di tramutarsi in qualsiasi cosa volesse. La figura equivalente a Zeus nella mitologia romana era Giove, mentre in quella etrusca era il dio Tinia.
Zeus, che viene spesso poeticamente chiamato con il vocativo Zeu pater (O padre Zeus!), è l'evoluzione di Dieus, il dio del cielo diurno della religione protoindoeuropea chiamato anche Padre Cielo. Il nome del dio deriva dalla radice Diovis (la di in greco) che significa luce, infatti Zeus è il dio della luce. Il dio era conosciuto con questo nome anche in sanscrito (Dyaus ove Dyaus Pita), in lingua messapica (Zis) e in latino (Jupiter, da Iuppiter, che deriva dal vocativo indoeuropeo dyeu-ph2ter) lingue che elaborano la radice dyeu ("splendere" e nelle sue forme derivate "cielo, paradiso, dio"), nonché nella mitologia germanica e norrena (Tiwaz, in alto tedesco antico Ziu, in norreno Týr) unito con il latino deus, divus e Dis (una variazione di dives) che proviene dal simile sostantivo deiwos. Per i Greci e i Romani il dio del cielo era anche il più grande degli dei, mentre nelle culture nordiche questo ruolo era attribuito a Odino: di conseguenza questi popoli non identificavano, per il suo attributo primario di dio del tuono, Zeus/Giove né con Odino né con Tyr, quanto piuttosto con Thor. Zeus è l'unica divinità dell'Olimpo il cui nome abbia un'origine indoeuropea così evidente.
In aggiunta a questa origine indoeuropea, lo Zeus dell'epoca classica prendeva alcuni aspetti iconografici dalle culture del Vicino Oriente, come lo scettro. Gli artisti greci immaginavano Zeus soprattutto in due particolari posizioni: in piedi, mentre con il braccio destro alzato segue ad ampie falcate una folgore che ha appena scagliato, oppure seduto sul suo trono. Zeus era il più importante degli dèi e comandava su tutto l'antico Pantheon Olimpico greco. Fu padre di molti eroi ed eroine e la sua figura è presente nella maggior parte delle leggende che li riguardano. Sebbene lo Zeus "radunatore di nuvole" dei poemi omerici fosse un dio del cielo e del tuono al pari delle equivalenti divinità orientali, rappresentava anche il massimo riferimento culturale del popolo Greco: sotto certi aspetti egli era l'espressione più autentica della religiosità greca e incarnava l'archetipo del divino proprio di quella cultura.
A Creta Zeus era adorato in alcune grotte che si trovano nei pressi di Cnosso, Ida e Palicastro. Le leggende di Minosse ed Epimenide suggeriscono che queste grotte anticamente fossero usate da re e sacerdoti come luogo per fare divinazioni. La suggestiva ambientazione delle Leggi di Platone, che si svolge lungo la strada che conduce i pellegrini verso uno di questi siti, sottolinea la conoscenza del filosofo dell'antica cultura cretese. Nelle rappresentazioni artistiche tipiche dell'isola Zeus compare, invece che come un uomo adulto, con l'aspetto di un giovane dai lunghi capelli e gli inni a lui dedicati cantano del ho megas kouros, ovvero "il grande giovane". Insieme ai Cureti, un gruppo di danzatori armati dediti a rituali estatici, sovrintendeva al duro addestramento atletico e militare, nonché ai segreti riti iniziatici, previsti dalla Paideia cretese.
Creta è menzionata riguardo a Giove anche nei racconti di Esopo: nella favola dell'Asino, Zeus esaudisce la preghiera di un asino, assegnandogli un fabbricante di vasi di Creta al posto dell'ortolano, che grava l'animale di pesi ancora maggiori. Il fabbricante viene infine sostituito con un conciatore di cuoio, che oltre a negare il perdono all'asino, lo priverà della vita. Secondo un'altra favola, Zeus plasmò l'uomo e la donna e poi ordinò a Hermes di portarli sulla Terra e insegnare loro come procurarsi il cibo scavando, contro il volere della donna, che punì la sua colpa con l'inizio del pianto e del dolore. Tanto l'animale quanto l'uomo vengono puniti per avere mosso contro il volere di una divinità, rispettivamente il capo degli dei olimpici e la madre di Ade, che nel secondo racconto rivela al messaggero di Zeus una volontà espressamente discorde.
Zeus Lykaios in Arcadia
L'epiteto Lykaios è morfologicamente connesso alla parola lyke (luminosità), ma a prima vista si può facilmente associare anche a lykos (lupo). Quest'ambiguità semantica si riflette sul singolare culto di Zeus Lykaios, celebrato nelle zone boscose e più remote dell'Arcadia, nel quale il dio assume caratteristiche sia di divinità lucente sia lupina. Il primo aspetto si evidenzia nel fatto che è il signore del monte Licaone (la montagna splendente), che è la cima più alta dell'Arcadia e sulla quale, secondo una leggenda, si trova una recinto sacro sul quale non si sono mai posate ombre. Il secondo invece si rifà al mito di Licaone (l'uomo lupo), il re dell'Arcadia i cui leggendari antichi atti di cannibalismo venivano ricordati per mezzo di bizzarri riti. Secondo Platone una setta si sarebbe riunita sul monte ogni otto anni per celebrare sacrifici in onore di Zeus Lykaios durante i quali si mescolava un singolo pezzo di interiora umane a interiora animali e poi si distribuiva il tutto ai presenti: chi avesse mangiato il pezzo di carne umana si sarebbe trasformato in un lupo e avrebbe potuto recuperare la propria forma umana solo se non ne avesse più mangiata fino alla conclusione del successivo ciclo di otto anni.
Zeus Etneo in Sicilia
Il culto di Zeus Aitnàios (etneo) è riportato nelle odi di Pindaro ed è attestato dalla produzione numismatica locale. Il tempio del dio era ubicato nella città di Áitna (Etna), fondata da Gerone I di Siracusa. Alcuni scoli di Pindaro riportano che Ierone I donò al tempio una statua di Zeus, che potrebbe essere quella rappresentata nel tetradramma di Aitna.
Lo Zeus del sottosuolo
Sebbene l'etimologia del nome indichi che Zeus originariamente era un dio del cielo, in diverse città greche si adorava una versione locale di Zeus che viveva nel mondo sotterraneo. Gli Ateniesi e i Sicelioti (Greci di Sicilia) veneravano Zeus Meilichios (dolce o mellifluo), mentre in altre città vigeva il culto di Zeus Chthonios (della terra), Katachthonios (del sottosuolo) e Plousios (portatore di ricchezza). Queste divinità nelle forme d'arte potevano essere visuale parimenti rappresentate sia come uomo sia come serpente. In loro onore si sacrificavano animali di colore nero che venivano affogati dentro a pozzi, come si faceva per divinità ctonie come Persefone e Demetra o sulla tomba degli eroi. Gli dèi olimpi, invece, ricevevano in olocausto animali di colore bianco che venivano uccisi sopra ad altari. In alcuni casi gli abitanti di queste città non sapevano con certezza se il daimon in onore del quale effettuavano i sacrifici fosse un eroe oppure lo Zeus del sottosuolo. Così il santuario di Lebadea in Beozia potrebbe essere stato dedicato sia all'eroe Trofonio sia a Zeus Trephonius (colui che nutre), a seconda che si scelga di dare retta a Pausania oppure a Strabone. L'eroe Anfiarao era venerato come Zeus Amphiaraus a Oropo, nei pressi di Tebe, e pure a Sparta c'era un santuario di Zeus Agamennone.
Gli oracoli di Zeus
Anche se la maggior parte degli oracoli erano generalmente dedicati ad Apollo, a eroi oppure a dee come Temi, esistevano anche alcuni oracoli dedicati a Zeus.
L'oracolo di Dodona
Il culto di Zeus a Dodona nell'Epiro, località per la quale vi sono prove dello svolgersi di attività cerimoniali a partire dal II millennio a.C., era imperniato su una quercia sacra, memore del culto al dio a Tebe egizia.. All'epoca in cui fu composta l'Odissea (circa il 750 a.C.) l'attività divinatoria era condotta da sacerdoti scalzi chiamati Selloi, che si stendevano a terra e osservavano lo stormire delle foglie e dei rami dell'albero. All'epoca in cui Erodoto scrisse a sua volta di Dodona i sacerdoti erano stati sostituiti da sacerdotesse chiamate Peleiadi (colombe). L'oracolo di Dodona è considerato da Erodoto il più antico della Grecia, precedente anche al tempo in cui i Pelasgi avessero dato un nome agli dei.
L'oracolo di Siwa
L'oracolo di Amon nell'Oasi di Siwa che si trovava nel lato occidentale del deserto egiziano non era situato entro i confini del mondo greco prima dell'epoca di Alessandro Magno, ma fin dall'età arcaica aveva esercitato una forte influenza sulla cultura greca: Erodoto nella sua descrizione della guerra greco-persiana dice che Zeus Amon fu consultato varie volte. Zeus Amon era tenuto in particolare considerazione a Sparta, dove fin dall'epoca della guerra del Peloponneso esisteva un tempio in suo onore. Quando Alessandro Magno si avventurò nel deserto per consultare l'oracolo di Siwa, scoprì l'esistenza di una Sibilla libica.
Altri oracoli di Zeus
Si dice che entrambi gli Zeus ctonii Trofonio e Anfiarao dessero responsi di tipo oracolare nei santuari a loro dedicati.
Zeus e le divinità straniere
Zeus era l'equivalente del dio della mitologia romana Giove e nell'immaginario sincretico classico era associato con varie altre divinità, come l'egizio Amon, e l'etrusco Tinia. Insieme con Dioniso aveva assorbito su di sé il ruolo del principale dio frigio Sabazios dando vita alla divinità conosciuta nel sincretismo dell'antica Roma come Sabazio.
La nascita
Il titano Crono ebbe molti figli da Rea: Estia, Demetra, Era, Ade e Poseidone, ma li divorò tutti appena nati, dal momento che aveva saputo da Gea (mitologia) che il suo destino era di essere spodestato da uno dei suoi figli così come lui stesso aveva spodestato suo padre. Quando però Zeus stava per nascere, Rea chiese a Gea di escogitare un piano per salvarlo, in modo che Crono ricevesse la giusta punizione per ciò che aveva fatto a Urano e ai suoi stessi figli. Rea partorì Zeus a Creta, consegnando al suo posto a Crono una pietra fasciata con dei panni che egli divorò immediatamente. La madre nascose Zeus in una cesta sospesa ad un albero, sorvegliato da una famiglia di pastori ai quali promise in cambio che le loro pecore non sarebbero state attaccate dai lupi. Il mito sarebbe, secondo Cicerone, un'allegoria: Krònos, altro non è che una leggera variante di chrònos, tempo. Quanto poi al nome Saturno deriva dal fatto che questo dio è saturo di anni. La finzione che divorasse i suoi figli sta a simboleggiare che il tempo distrugge i giorni che passano e fa degli anni trascorsi il suo nutrimento senza mai saziarsi. Analogamente si immaginò che il figlio Giove lo incatenasse per evitare che si abbandonasse a movimenti disordinati e per conservarlo avvinto ai moti degli astri. Rea nascose quindi Zeus in una grotta sul Monte Ida a Creta e, a seconda delle varie versioni della leggenda: - fu allevato ed educato da Gea.
- fu allevato da una capra di nome Amaltea, mentre un gruppo di Cureti gridavano, danzavano e battevano le loro lance contro gli scudi perché Crono non sentisse il pianto del bambino.
- fu allevato da una Ninfa di nome Adamantea. Dato che Crono dominava la Terra, i cieli e il mare, lo nascose appendendolo a una fune legata a un albero in modo che, sospeso fra i tre elementi, fosse invisibile al padre.
- fu allevato da una Ninfa di nome Cinosura. In segno di gratitudine Zeus, una volta cresciuto, la trasformò in una stella.
- fu allevato da Melissa, che lo nutrì con latte di capra.

L'ascesa al trono degli dei
Raggiunta l'età adulta, Zeus costrinse Crono a rigettare prima la pietra che l'aveva sostituito, poi i suoi fratelli e sorelle nell'ordine inverso rispetto a quello in cui erano stati ingeriti. Secondo alcune versioni della leggenda Metide diede un emetico a Crono per costringerlo a vomitare i figli, mentre secondo altre ancora Zeus squarciò lo stomaco del padre. A questo punto Zeus liberò dalla loro prigione nel Tartaro anche i fratelli di Crono: gli Ecatonchiri e i Ciclopi. Insieme, Zeus e i suoi fratelli e sorelle, gli Ecatonchiri e i Ciclopi rovesciarono dal trono Crono e gli altri Titani grazie alla terribile battaglia chiamata Titanomachia. I Titani sconfitti furono da allora confinati nell'oscuro regno sotterraneo del Tartaro. Atlante, in quanto capo dei Titani che avevano combattuto contro Zeus, fu condannato a reggere il cielo sulle sue spalle.
Dopo la battaglia contro i Titani Zeus si spartì il mondo con i suoi fratelli maggiori Poseidone e Ade sorteggiando i tre regni: Zeus ebbe in sorte i cieli e l'aria, Poseidone le acque e ad Ade toccò il mondo dei morti. L'antica terra, Gaia, non poté essere concessa ad alcuno, ma venne condivisa da tutti e tre a seconda delle loro capacità. Furibondi perché Zeus aveva confinato nel Tartaro i loro fratelli Titani, i Giganti si ribellarono agli dèi Olimpi e scatenarono a loro volta la Gigantomachia, cominciando a scagliare massi e tizzoni ardenti verso il cielo. Era profetizzò che « [...] i Giganti non sarebbero mai stati sconfitti da un dio, ma soltanto da un mortale che vestiva con pelli di leone, e solo con una certa erba che rendeva invulnerabili.». L'uomo fu identificato con Eracle, e Zeus, vagando in una regione indicatagli da Atena, trovò l'erba magica. Così furono sconfitti anche i Giganti.
Gaia si risentì per il modo in cui Zeus aveva trattato i Titani e i Giganti, dato che erano figli suoi. Così, poco dopo essersi impossessato del trono degli dèi, Zeus dovette affrontare anche il mostro Tifone, figlio di Gaia e del Tartaro. Zeus sconfisse Tifone e lo schiacciò sotto una montagna, secondo una versione sotto l'Etna.
Zeus era sia il fratello sia il marito di Era. Con lei generò Ares, Ebe ed Efesto, anche se alcune leggende narrano che Era diede vita ai suoi figli da sola. Altri miti includono tra la loro discendenza anche Ilizia. Le numerose conquiste che Zeus fece tra le ninfe e le mortali, che diedero inizio alle più importanti dinastie greche, sono proverbiali. La mitografia gli attribuisce relazioni tra le divinità con Demetra, Latona, Dione e Maia, mentre tra le mortali con Semele, Io, Europa e Leda. (Per maggiori dettagli si rimanda ai paragrafi successivi).
Molte leggende dipingono un'Era gelosissima delle conquiste amorose del marito e fiera nemica delle sue amanti e dei figli da loro generati. Una volta a una ninfa di nome Eco venne affidato il compito di distrarre Era dalle attività di Zeus, parlandole in continuazione: quando la dea se ne accorse, con un incantesimo costrinse Eco a ripetere le parole che udiva dagli altri.
La legge divina di Zeus
Sebbene la mitologia greca non presenti precetti e comandamenti che gli dèi consegnano agli uomini, come accade invece nella storia del popolo ebraico con il dio d'Israele, Zeus è re della giustizia e presta sempre attenzione a coloro che non onorano la legge dell'ospitalità, a chi non accoglie i forestieri, e benedice coloro che rispettano la natura e chi difende e onora gli stranieri. I greci credevano che uomini di alto valore avessero interagito con gli dèi tanto da ricevere istruzioni sacre su come comportarsi in vita. Tra questi abbiamo Platone, Esiodo, Omero e molti altri. Essi nei loro dialoghi e poemi affermano il carattere degli dèi e come l'uomo debba seguirli. Inoltre il mito parla di precetti esatti dati da Apollo alla Pizia, le cosiddette Massime Delfiche.

Eugenio Caruso - 24 - 10 - 2021

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