Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

Dante, Paradiso, Canto XX. Re David e l'arca dell'alleanza

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XX

Il Canto completa il «dittico» iniziato col XIX e dedicato al complesso problema della salvezza, attraverso l'esempio clamoroso di Rifeo e Traiano che ne costuituisce quasi un corollario e sottolinea per l'ennesima volta l'imperscrutabiltà del giudizio divino, che agisce in base a logiche non sempre razionalmente comprensibili alla mente umana: se nel Canto precedente l'aquila ha affrontato la questione della mancata salvezza degli uomini virtuosi privi di fede, come i pagani vissuti prima di Cristo e relegati nel Limbo senza alcuna colpa, qui presenta due esempi opposti di pagani cui è stato possibile salvarsi attraverso la concessione della grazia per i loro meriti speciali.
L'episodio si apre con la descrizione dello sfavillio delle luci dell'aquila, paragonate alle stelle in cielo dopo il tramonto del sole che si riflette in esse, proprio come Dio si riverbera nei beati che formano l'aquila mentre intonano un canto ineffabile per la labile memoria del poeta; poi l'aquila riprende a parlare, emettendo un mormorio che esce dal collo e si trasforma in voce umana, reso attraverso la complessa similitudine del corso d'acqua che scende a valle e del suono della cetra o della zampogna che sale verso l'alto, paragone che sarà ripreso alla fine con l'immagine del citarista che accompagna le note del cantore (nel Canto precedente Dante aveva sottolineato il carattere singolare della voce dell'aquila, pur essendo composta da migliaia di spiriti). Proprio questi spiriti vengono ora presentati dall'uccello sacro, limitatamente ai sei beati che formano l'occhio e che, a suo dire, sono li sommi di tutti gli spiriti giusti, il che ha fatto pensare che i beati di questo Cielo siano in prevalenza principi che hanno ben governato: ciò si accorda con il senso della scritta formata dall'aquila nel Canto XVIII che esortava coloro che giudicano la Terra ad amare la giustizia, nonché con la rassegna dei cattivi principi cristiani del XIX di cui questo elenco rappresenta un rovesciamento positivo; del resto cinque dei sei beati che l'aquila nomina (ad eccezione del solo Rifeo) sono stati buoni sovrani sulla Terra, a cominciare da David ricordato come cantor de lo Spirito Santo, cioè autore di Salmi che trasportò anche l'Arca Santa di città in città, come già ricordato nell'esempio di umiltà scolpito nella I Cornice del Purgatorio (Purg., X, 55-69).
In quel passo David era accostato a Traiano, protagonista del celebre episodio della vedova che chiedeva giustizia per il figlio ucciso, e così in questo Canto al re biblico segue proprio l'imperatore romano, che insieme a Rifeo costituisce l'esempio inatteso di salvezza possibile anche ai pagani: l'aquila sottolinea il fatto che Traiano sperimentò sia la vita all'Inferno che in Paradiso, per cui adesso sa quanto costa il non avere fede in Dio, e anche la presenza di Rifeo è in seguito rivelata come fatto del tutto imprevedibile, al punto che nessuno in Terra potrebbe credere alla sua beatitudine in Cielo, come del resto testimoniato dallo stupore di Dante. Tra gli altri esempi di giusti sovrani è sorprendente anche quello di Costantino, reo agli occhi di Dante di aver compiuto la famigerata donazione che ha distrutto il mondo, provocando tante nefaste conseguenze per la corruzione della Chiesa al di là della retta intenzione dell'imperatore, che infatti è comunque salvo (cfr. Inf., XIX, 115-117). Gli altri due beati sono Ezechia, il re biblico che differì di quindici anni la propria morte grazie alle preghiere e al pianto (per quanto l'identificazione di questo personaggio, non nominato da Dante, sia piuttosto problematica) e Guglielmo II d'Altavilla, re di Sicilia e di Puglia che rappresenta un esempio assai più degno di sovrano rispetto a Carlo II d'Angiò e Federico II d'Aragona, che ora governano a Napoli e a Palermo (l'aquila riprende la rampogna contro i malvagi sovrani che chiudeva il Canto precedente).
Naturalmente è la presenza di Rifeo e Traiano a porre i maggiori problemi, suscitando tra l'altro il vivo stupore di Dante che non può trattenere un'esclamazione (Che cose son queste?), specie pensando a quanto detto dall'aquila nel Canto XIX e cioè che nessuno è salito in Cielo senza aver creduto in Cristo venuto o venturo. La salvezza clamorosa dei due pagani dimostra l'impossibilità per l'uomo di comprendere fino in fondo il giudizio divino, come del resto affermato già nel Canto precedente, e sottolinea la necessità di essere cauti nell'emettere giudizi precipitosi in materia di salvezza, come l'aquila affermerà nel finale col discorso sulla predestinazione, col dire che neppure i beati sanno quali e quanti saranno gli eletti il Giorno del Giudizio (è lo stesso monito di san Tommaso d'Aquino in XIII, 130 ss.).
La salvezza dei due pagani viene spiegata dall'aquila con argomenti teologici, che almeno nel caso di Traiano si rifanno strettamente a testi assai diffusi al tempo di Dante: Gregorio Magno, colpito dalla pietà dell'imperatore riguardo all'aneddoto della vedova, aveva pregato intensamente per lui e ottenuto di farlo resuscitare per breve tempo, così da permettergli di credere in Cristo venuto e guadagnare in tal modo la salvezza (Dante leggeva tale spiegazione nella Summa theol. di san Tommaso, dove la cosa era narrata in modo pressoché identico alle parole dell'aquila).
Più problematica la salvezza di Rifeo, oscuro personaggio dell'Eneide di cui nulla poteva far pensare alla conversione e per il quale Dante si è forse rifatto a commenti o chiose medievali altrimenti ignote: il compagno di Enea sarebbe stato illuminato dalla grazia in virtù della sua eccezionale giustizia, quindi avrebbe creduto nella prossima Redenzione e avrebbe ricevuto le virtù teologali direttamente infuse, ben mille anni prima che il battesimo fosse istituito come sacramento; il suo esempio sarebbe dunque analogo a quello di Stazio, con la differenza che il poeta latino entrò a contatto con la predicazione dei primi Cristiani e, dopo la conversione, ebbe paura di manifestare la nuova religone e ostentò a lungo il paganesimo, cosa che gli costò una lunga permanenza fra gli accidiosi della IV Cornice.
In entrambi i casi, tanto per Rifeo quanto per Traiano, un vero e proprio battesimo non ci fu e questo avvalora la tesi secondo cui per la salvezza è sufficiente il possesso della fede, come in parte già detto nel Canto XIX riguardo all'uomo nato in terre lontane (muore non battezzato e senza fede) e poi con l'affermazione per cui A questo regno / non salì mai chi non credette in Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. L'aquila aveva del resto ribadito che tanti Cristiani solo in apparenza devoti saranno meno vicini a Dio, il Giorno del Giudizio, degli Etiopi e dei Persiani che non hanno mai conosciuto il Vangelo, e per i quali non si può in fondo escludere a priori una possibile salvezza in virtù dei loro meriti come avvenne per Rifeo e Traiano, quindi in ultima analisi è impossibile per l'uomo (e per la Chiesa) conoscere con certezza il destino ultraterreno di ciascun fedele.
È questo il senso del monito finale dell'aquila riguardo la predestinazione, argomento assai spinoso della dottrina cristiana e che qui viene risolto dicendo che nessuno, a parte Dio, sa con certezza il numero di eletti predestinati alla salvezza il Giorno del Giudizio: tale mancata conoscenza non è per i beati motivo di amarezza ma è anzi parte della loro beatitudine, in quanto ciò è conforme alla volontà divina e la loro volontà non può che annullarsi in essa (stesso discorso di Piccarda Donati, III, 70-87, e di Giustiniano, VI, 118-126). Mentre l'aquila parla sono proprio le luci delle anime di Rifeo e Traiano a lampeggiare e sottolineare così le importanti parole relative alla salvezza, simili a due occhi che sbattano simultaneamente: Dante riprende il paragone iniziale della cetra descrivendo lo scintillio delle anime come una sorta di accompagnamento al discorso dell'aquila, come quando il citaredo accompagna con la musica il canto rendendolo più piacevole, e sarà il caso di ricordare che lo stesso David è descritto nel testo biblico come esperto suonatore di cetra e autore di Salmi, fatto non casuale visto che il re d'Israele è posto proprio al centro dell'occhio dell'aquila come sua pupilla.

david 1
Il DAVID di Donatello

Note
-
Il v. 6 allude alla credenza erronea in base alla quale le stelle brillerebbero della luce riflessa del Sole, colui che tutto 'l mondo alluma.
- Il termine flailli al v. 14 ha questa sola occorrenza nel poema e ha dato filo da torcere agli interpreti: si tratta prob. di un hapax legomenon  in senso assoluto e potrebbe essere un francesismo da flavel («flauto») con allusione al canto dei beati, oppure una forma derivata dal fr. ant. flael  da flacellum, «fiaccola», riferita allo splendore lucente degli spiriti. Allo stato attuale è impossibile propendere per una delle due ipotesi, escludendo un errore nei codici.
- Ai vv. 31-33 l'aquila invita Dante a guardare attentamente il suo occhio, la parte... che vede e pate il sole / ne l'aguglie mortali, poiché si riteneva che questo uccello avesse la capacità di sostenere a lungo la vista dell'astro (cfr. Par., I, 48), opinione che risale ad Aristotele (De animalibus) e Brunetto Latini (Trésor). L'aquila parla di un solo occhio perché essa, come il simbolo araldico, ha il capo di profilo.
- I vv. 40-42 alludono al fatto che il canto di David poteva sembrare merito solo dello Spirito Santo di cui era pervaso, ma ora che è in Paradiso la beatitudine gli dimostra che ebbe anche merito lui in quanto agì con la propria volontà (consiglio). Alcuni mss. leggono affetto e gli interpreti attribuiscono suo consiglio allo Spirito Santo, ma è ipotesi assai dubbia. L'espressione ora conosce (v. 40) si ripete per sei volte, per ognuno degli spiriti indicati dall'aquila, sempre all'inizio delle due terzine dedicate a ciascuno (vv. 40, 46, 52, 58, 64, 70).
- I vv. 43-48 indicano Traiano, beato grazie all'episodio della vedovella già ricordato in Purg., X, 73-93). Il v. 48 allude al fatto che Traiano rimase nel Limbo fino a quando fu resuscitato grazie alle preghiere di san Gregorio Magno.
- Il personaggio citato allusivamente ai vv. 49-54 è comunemente interpretato come Ezechia, il re biblico figlio di Acaz che pregò Dio con molto pianto per allontanare la morte che gli era stata annunciata da Isaia, ottenendo di vivere altri quindici anni. La Bibbia lo indica come re giusto (IV Reg., XX, 3) e questo giustifica la sua presenza qui, ma non è chiaro cosa intenda Dante per vera penitenza, dal momento che Ezechia nel testo sacro si limita alle preghiere: a meno che il poeta non intendesse l'abbondante pianto come segno di pentimento, il che pare l'ipotesi meno inverosimile.
- Ai vv. 55-60 si parla di Costantino, che trasferì la capitale da Roma a Bisanzio in seguito alla famosa donazione, dal che nacquero (al di là delle sue intenzioni) gravi conseguenze: con le leggi e meco  indica che l'imperatore portò in Oriente il simbolo dell'Impero e la legislazione, poiché Roma era governata dal pontefice, ma forse l'espressione è solo un'endiadi che indica il potere imperiale in genere.
- La terzina ai vv. 76-78 è di dubbia interpretazione, ma forse conviene intendere l'espressione l'imago de la 'mprenta / dell'etterno piacere come riferita all'aquila, che sarebbe l'immagine dell'impronta divina.
- Il termine quiditate (v. 92; alcuni mss. leggono quidditate) è proprio della Scolastica (quidditas) e indica l'essenza della cosa.
- I vv. 94-99 traducono e ampliano il testo evangelico, Matth., XI, 12: Regnum caelorum vim patitur et violenti rapiunt illud («Il Regno dei Cieli sopporta la violenza e i violenti se ne impadroniscono»).
- I vv. 98-99 contengono un chiasmo, vince... vinta... vinta... vince.
- Il v. 105 indica che Rifeo credette in Cristo venturo (nei piedi passuri) e Traiano in Cristo venuto (nei piedi passi); piedi è sineddoche a indicare il Messia, inchiodato alla croce, mentre passuri e passi  sono due forti latinismi da patior, «provare passione», «soffrire il martirio», nel senso di «piedi che avrebbero sofferto» e di «piedi che avevano sofferto».
- La spiegazione ai vv. 106-114 della salvezza di Traiano riprende quasi alla lettera quella offerta da san Tommaso in Summa Theol., Suppl., q. LXXI: de facto Traiani hoc modo potest probabiliter aestimari, quod precibus beati Gregorii ad vitam fuerit revocatus et ita gratiam consecutus sit («circa il fatto di Traiano, probabilmente si può giudicare in tal modo: che grazie alle preghiere del beato Gregorio sia stato riportato alla vita, e in tal modo abbia ottenuto la grazia»).
- Al v. 116 morte seconda indica il momento in cui Traiano, dopo essere resuscitato, morì una seconda volta (nulla a che vedere con «dannazione» o «annichilimento totale», come in Inf., I, 111).
- I vv. 127-129 alludono alle tre virtù teologali, le tre donne che Dante ha visto alla ruota destra del carro trionfale nella processione mistica di Purg., XXIX, 121-129; XXXI, 130 ss.). Intende dire che fede, speranza e carità furono infuse in Rifeo direttamente da Dio, senza l'atto liturgico del battesimo.
- Al v. 132 la prima cagion è Dio.
- Al v. 143 seguitar  vuol dire semplicemente «accompagnare», non seguire o accordare come alcuni intendono.


TESTO DEL CANTO XX

Quando colui che tutto ‘l mondo alluma 
de l’emisperio nostro sì discende, 
che ‘l giorno d’ogne parte si consuma,                          3

lo ciel, che sol di lui prima s’accende, 
subitamente si rifà parvente 
per molte luci, in che una risplende;                               6

e questo atto del ciel mi venne a mente, 
come ‘l segno del mondo e de’ suoi duci 
nel benedetto rostro fu tacente;                                        9

però che tutte quelle vive luci, 
vie più lucendo, cominciaron canti 
da mia memoria labili e caduci.                                     12

O dolce amor che di riso t’ammanti, 
quanto parevi ardente in que’ flailli, 
ch’avieno spirto sol di pensier santi!                             15

Poscia che i cari e lucidi lapilli 
ond’io vidi ingemmato il sesto lume 
puoser silenzio a li angelici squilli,                                18

udir mi parve un mormorar di fiume 
che scende chiaro giù di pietra in pietra, 
mostrando l’ubertà del suo cacume.                             21

E come suono al collo de la cetra 
prende sua forma, e sì com’al pertugio 
de la sampogna vento che penètra,                              24

così, rimosso d’aspettare indugio, 
quel mormorar de l’aguglia salissi 
su per lo collo, come fosse bugio.                                 27

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi 
per lo suo becco in forma di parole, 
quali aspettava il core ov’io le scrissi.                           30

«La parte in me che vede e pate il sole 
ne l’aguglie mortali», incominciommi, 
«or fisamente riguardar si vole,                                      33

perché d’i fuochi ond’io figura fommi, 
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla, 
e’ di tutti lor gradi son li sommi.                                      36

Colui che luce in mezzo per pupilla, 
fu il cantor de lo Spirito Santo, 
che l’arca traslatò di villa in villa:                                     39

ora conosce il merto del suo canto, 
in quanto effetto fu del suo consiglio, 
per lo remunerar ch’è altrettanto.                                   42

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, 
colui che più al becco mi s’accosta, 
la vedovella consolò del figlio:                                        45

ora conosce quanto caro costa 
non seguir Cristo, per l’esperienza 
di questa dolce vita e de l’opposta.                               48

E quel che segue in la circunferenza 
di che ragiono, per l’arco superno, 
morte indugiò per vera penitenza:                                  51

ora conosce che ‘l giudicio etterno 
non si trasmuta, quando degno preco 
fa crastino là giù de l’odierno.                                         54

L’altro che segue, con le leggi e meco, 
sotto buona intenzion che fé mal frutto, 
per cedere al pastor si fece greco:                                 57

ora conosce come il mal dedutto 
dal suo bene operar non li è nocivo, 
avvegna che sia ‘l mondo indi distrutto.                        60

E quel che vedi ne l’arco declivo, 
Guiglielmo fu, cui quella terra plora 
che piagne Carlo e Federigo vivo:                                  63

ora conosce come s’innamora 
lo ciel del giusto rege, e al sembiante 
del suo fulgore il fa vedere ancora.                                66

Chi crederebbe giù nel mondo errante, 
che Rifeo Troiano in questo tondo 
fosse la quinta de le luci sante?                                     69

Ora conosce assai di quel che ‘l mondo 
veder non può de la divina grazia, 
ben che sua vista non discerna il fondo».                    72

Quale allodetta che ‘n aere si spazia 
prima cantando, e poi tace contenta 
de l’ultima dolcezza che la sazia,                                    75

tal mi sembiò l’imago de la ‘mprenta 
de l’etterno piacere, al cui disio 
ciascuna cosa qual ell’è diventa.                                   78

E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio 
lì quasi vetro a lo color ch’el veste, 
tempo aspettar tacendo non patio,                                 81

ma de la bocca, «Che cose son queste?», 
mi pinse con la forza del suo peso: 
per ch’io di coruscar vidi gran feste.                               84

Poi appresso, con l’occhio più acceso, 
lo benedetto segno mi rispuose 
per non tenermi in ammirar sospeso:                           87

«Io veggio che tu credi queste cose 
perch’io le dico, ma non vedi come; 
sì che, se son credute, sono ascose.                            90

Fai come quei che la cosa per nome 
apprende ben, ma la sua quiditate 
veder non può se altri non la prome.                              93

Regnum celorum vïolenza pate 
da caldo amore e da viva speranza, 
che vince la divina volontate:                                            96

non a guisa che l’omo a l’om sobranza, 
ma vince lei perché vuole esser vinta, 
e, vinta, vince con sua beninanza.                                  99

La prima vita del ciglio e la quinta 
ti fa maravigliar, perché ne vedi 
la region de li angeli dipinta.                                          102

D’i corpi suoi non uscir, come credi, 
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede 
quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.                         105

Ché l’una de lo ‘nferno, u’ non si riede 
già mai a buon voler, tornò a l’ossa; 
e ciò di viva spene fu mercede:                                      108

di viva spene, che mise la possa 
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla, 
sì che potesse sua voglia esser mossa.                     111

L’anima gloriosa onde si parla, 
tornata ne la carne, in che fu poco, 
credette in lui che potea aiutarla;                                  114

e credendo s’accese in tanto foco 
di vero amor, ch’a la morte seconda 
fu degna di venire a questo gioco.                                117

L’altra, per grazia che da sì profonda 
fontana stilla, che mai creatura 
non pinse l’occhio infino a la prima onda,                  120

tutto suo amor là giù pose a drittura: 
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse 
l’occhio a la nostra redenzion futura;                            123

ond’ei credette in quella, e non sofferse 
da indi il puzzo più del paganesmo; 
e riprendiene le genti perverse.                                     126

Quelle tre donne li fur per battesmo 
che tu vedesti da la destra rota, 
dinanzi al battezzar più d’un millesmo.                        129

O predestinazion, quanto remota 
è la radice tua da quelli aspetti 
che la prima cagion non veggion tota!                         132

E voi, mortali, tenetevi stretti 
a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, 
non conosciamo ancor tutti li eletti;                              135

ed ènne dolce così fatto scemo, 
perché il ben nostro in questo ben s’affina, 
che quel che vole Iddio, e noi volemo».                       138

Così da quella imagine divina, 
per farmi chiara la mia corta vista, 
data mi fu soave medicina.                                             141

E come a buon cantor buon citarista 
fa seguitar lo guizzo de la corda, 
in che più di piacer lo canto acquista,                          144

sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda 
ch’io vidi le due luci benedette, 
pur come batter d’occhi si concorda, 

con le parole mover le fiammette.                                 148

PARAFRASI CANTO XX

Quando colui che illumina tutto il mondo (il sole) tramonta dal nostro emisfero, così che il giorno scompare in ogni parte, il cielo, che prima è acceso di luce, diventa subito di nuovo lucente per molte stelle, nelle quali si riflette quella del sole;

e questa cosa mi venne in mente non appena il simbolo del mondo e dei suoi condottieri (l'aquila) tacque nel becco benedetto;

infatti, tutte quelle luci splendenti, diventando più luminose, iniziarono dei canti destinati a scomparire dalla mia memoria.

O dolce amore che ti illumini del tuo sorriso, come sembravi ardente in quei dolci suoni (o in quelle fiaccole) che erano pervasi solo da uno spirito di pensieri santi!

Dopo che le preziose e scintillanti gemme di cui io vidi costellato il VI Cielo cessarono quegli squilli angelici, mi sembrò di sentire il mormorio di un fiume che scende a valle terso, di pietra in pietra, mostrando l'abbondanza d'acqua della sua cima.

E come il suono si forma sul manico della cetra, e come si sente il soffio d'aria che entra nel foro della zampogna, così, ponendo fine a ogni indugio, quel mormorio dell'aquila salì su per il suo collo, come se questo fosse forato.

Qui si tramutò in voce e di qui uscì attraverso il becco in forma di parole distinte, che il mio cuore, dove io le annotai, attendeva.

Iniziò a dire: «La parte di me che nelle aquile mortali vede e sopporta il sole (l'occhio), ora dovrà essere da te fissata con attenzione, perché di tutte le anime di cui sono composta quelle che brillano nel mio occhio sono i più degne di tutti i beati.

Colui che splende in mezzo come la pupilla fu il cantore dello Spirito Santo (re David), che trasportò l'Arca Santa di città in città:

ora conosce il merito del suo canto, poiché fu effetto della sua volontà, grazie alla beatitudine che è ad esso commisurata.

Dei cinque beati che formano il cerchio che mi fa da ciglio, colui che è più vicino al mio becco consolò la vedovella facendo giustizia del figlio (Traiano):

ora sa quanto costa caro non seguire Cristo, poiché ha sperimentato sia la vita in Paradiso sia quella all'Inferno.

E il beato che lo segue nel cerchio di cui parlo, nella parte alta, ritardò la propria morte con una vera penitenza (re Ezechia):

ora sa che il giudizio eterno non viene mutato, quando la preghiera di un'anima degna, sulla Terra, rimanda quello che è già stato pronunciato.

L'altro che vien dopo, in base a una buona intenzione che poi diede cattivi frutti, per lasciare Roma al papa trasferì il governo imperiale a Costantinopoli (Costantino):

ora vede che il male scaturito dalle sue buone azioni non gli ha nuociuto, benché il mondo ne sia stato guastato.

E colui che vedi nell'arco discendente fu re Guglielmo il Buono, che è rimpianto da quelle terre (Napoli e la Sicilia) che ora sono governate dai vivi Carlo II d'Angiò e Federico II d'Aragona:

ora sa che il Cielo apprezza un re giusto, e lo dimostra tuttora con lo splendore del suo aspetto.

Chi, nel mondo errante, potrebbe credere che il troiano Rifeo fosse la quinta delle luci sante in questo cerchio?

Ora sa molto più di quello che gli uomini conoscono della grazia divina, anche se il suo sguardo non può arrivarvi in profondità».

Come l'allodola che prima vola nell'aria cantando e poi tace, compiacendosi dell'ultima dolcezza del canto che le dà soddisfazione, così mi sembrò l'immagine dell'impronta divina (l'aquila), per il cui desiderio ogni cosa diventa com'è.

E anche se io, dubitando, ero come un vetro che assume il colore di ciò che ricopre, non sopportai di aspettare tacendo, e la forza del dubbio che provavo mi fece uscire dalla bocca l'esclamazione: «Che cos'è tutto questo?»; allora io vidi i beati scintillare per la gioia di rispondermi.

Subito dopo, con l'occhio ancora più splendente, il benedetto segno (l'aquila) mi rispose per non tenermi sulle spine nel mio stupore:

«Io vedo che tu credi queste cose perché te le dico, ma non ne capisci la ragione; in tal mondo, anche se credute, sono oscure.

Tu fai come quello che comprende la cosa dal nome che la indica, ma non ne intende la sostanza se qualcun altro non gliela spiega.

Il Regno dei Cieli sopporta la violenza che viene da caldo amore di carità e da viva speranza, che vince la volontà divina:

non come un uomo che ne sopraffà un altro, ma la vince perché essa vuol essere vinta, e, una volta vinta, vince con la sua bontà.

La prima e la quinta anima che formano il ciglio (Traiano e Rifeo) ti fanno meravigliare, perché vedi che dimorano nella regione degli angeli (in Paradiso).

Non uscirono, come tu credi, dai loro corpi pagani, ma Cristiani, Rifeo con fede nel futuro martirio di Cristo e Traiano in quello già avvenuto.

Infatti il primo (Traiano) resuscitò dall'Inferno, da dove non si torna mai a una volontà buona, e ciò fu il premio di una viva speranza:

di una viva speranza, che nelle preghiere rivolte a Dio mise la forza per farlo resuscitare, così che la volontà di lui fosse convertita a miglior desiderio (quello di credere in Cristo).

L'anima gloriosa di cui parlo, tornata nella carne (una volta risorta), in cui rimase poco, credette in Colui (Cristo) che poteva aiutarla;

e, credendo, si accese in un tale ardore di autentica carità, che dopo esser morto per la seconda volta fu degno di salire a questa beatitudine.

L'altro (Rifeo), in virtù della grazia divina che sgorga da una fonte così profonda che mai una creatura (uomo o angelo) poté penetrare lo sguardo fino alla sorgente, pose tutto il suo amore nella giustizia: per cui, moltiplicando la grazia, Dio gli aprì gli occhi alla nostra futura Redenzione;

dunque egli credette in essa e da quel momento non sopportò più il puzzo del paganesimo, criticandone anzi i perversi adepti.

Quelle tre donne (le tre virtù teologali) che tu hai visto alla ruota destra del carro di Beatrice, diedero a lui il battesimo più di mille anni prima che questo sacramento fosse istituito.

O predestinazione, quanto la tua origine è distante da quegli sguardi (dei mortali) che non possono certo vedere Dio nella sua interezza!

E voi, uomini, siate prudenti nel giudicare; infatti noi, che vediamo Dio, non conosciamo ancora il numero esatto degli eletti;
e questa nostra mancata conoscenza è tanto dolce, per noi, in quanto la nostra gioia si affina in Paradiso sempre di più e vogliamo solo quanto è voluto da Dio».

Così quella immagine divina (l'aquila), per rischiarare la mia vista imperfetta, mi somministrò una dolce medicina.

E come un bravo citaredo accompagna col suono delle corde il bravo cantore, ciò che accresce la piacevolezza del canto, così, mentre l'aquila parlava, mi ricordo di aver visto le due luci benedette (Traiano e Rifeo) che lampeggiavano insieme, come il batter degli occhi avviene simultaneamente.

david 3
Il DAVID di Michelangelo


LA DONAZIONE DI COSTANTINO
Dante ribadisce a più riprese nella Commedia le conseguenze nefaste della cosiddetta «donazione di Costantino», ovvero la presunta cessione da parte del primo imperatore cristiano di un territorio nel Lazio a papa Silvestro I per governarlo politicamente, base delle successive pretese temporali della Chiesa a scapito dell'autorità imperiale: in Inf., XIX, 115-117 il poeta biasima Costantino per aver alimentato la corruzione ecclesiastica e la simonia con quella dote concessa al primo ricco patre, mentre in Purg., XXXII, 124 ss. l'allegoria delle vicende del carro (simbolo della Chiesa) mostra l'aquila imperiale che compie la donazione lasciando su di esso delle piume, che trasformano in seguito il carro in un orribile mostro (una voce dal cielo biasima l'accaduto e poco dopo Dante ricorda che la piuma fu forse offerta / con intenzion sana e benigna). In Par., VI, 1-3 Giustiniano sembra accusare il suo precedessore di aver portato l'aquila imperiale contr'al corso del ciel, trasferendo la capitale da Roma a Bisanzio per cedere il Lazio al papa e compiendo quasi un percorso contro natura, il che non ha comunque precluso la salvezza all'imperatore che è incluso dal poeta fra gli spiriti giusti che formano proprio l'aquila nel VI Cielo di Giove (XX, 55-60, dove si dice che Costantino per cedere al pastor si fece greco e si ricorda che il suo bene operar ha comunque causato gravi danni alla Chiesa e al mondo, che è addirittura distrutto). La posizione estremamente critica di Dante si spiega alla luce della corruzione che nel Trecento pervadeva la Chiesa di Roma in tutte le sue gerarchie ed era causa di gravi malversazioni e ingiustizie, non ultimo l'esilio patito dal poeta, per non parlare della condanna a morte e della confisca di tutti i suoi beni, in cui aveva avuto parte non piccola Bonifacio VIII, papa simoniaco incluso tra i futuri dannati dell'VIII Cerchio: non stupisce dunque che la cosiddetta donazione venisse aspramente condannata, per quanto essa fosse attestata da un documento che risaliva in realtà all'VIII-IX sec. ed era dunque il falso forse più clamoroso della storia della filologia medievale e moderna. Il merito di aver svelato questa mistificazione, di cui peraltro c'erano già sospetti nei secoli precedenti, va all'umanista piacentino Lorenzo Valla (1407-1457), che nell'opuscolo De falso credita et ementita Costantini donatione («Sulla donazione falsamente ed erroneamente attribuita a Costantino») dimostrò, con strumenti filologici, che il documento non poteva risalire all'età di Costantino ma era probabilmente stato redatto nella Curia papale all'epoca di Pipino il Breve, forse dalla cancelleria di papa Stefano II che strinse col re dei Franchi padre di Carlo Magno una duratura alleanza. Il falso serviva a corroborare, da un lato, l'autorità del sovrano carolingio che veniva così riconosciuto quale legittimo erede dell'Impero romano, dall'altro valeva a sancire il potere temporale che il pontefice aveva di fatto acquisito nel Lazio e nell'Esarcato di Ravenna, derivante "dalla decisione ufficiale del primo imperatore romano convertitosi al Cristianesimo". Che poi tale supposta cessione avesse realmente alimentato la corruzione che dilagava nella Chiesa del XIII-XIV sec. e fosse causa dei contrasti tra Papato e Impero è vero solo in parte e deriva da un'eccessiva semplificazione di cui Dante non è solo a dare prova nel suo tempo: certo è curioso che la cattiva fama di Costantino per più di sei secoli derivasse da un documento falso redatto più di trecento anni dopo la sua morte, e che solo alle soglie dell'età moderna si sia ristabilita la verità facendo, almeno su questo, giustizia a un imperatore che non fu certo un santo e si macchiò di altre gravi colpe, non ultima quella di aver usato la religione come strumento di affermazione politica. Curioso è anche che Dante lo collochi in Paradiso nonostante una colpa che in realtà non ebbe mai, mentre avrebbe dovuto valutare diversamente le malefatte che realmente questo controverso imperatore compì durante la sua vita.

RE DAVID

Davide, o David (in ebraico David ben Yishay; Betlemme, 1040 a.C. ca – Gerusalemme, 970 a.C. ca), figlio di Iesse, è stato il secondo re d'Israele durante la prima metà del X secolo a.C. Le sue vicende risalenti all'epoca ebraica, sono raccontate nel primo e nel secondo libro di Samuele, nel primo libro dei Re e nel primo libro delle Cronache. Valoroso guerriero, musicista e poeta, accreditato dalla tradizione quale autore di molti salmi, Davide viene descritto nella Bibbia come un personaggio dal carattere complesso, capace al contempo di grandi crudeltà e generosità, dotato di spregiudicatezza politica e umana ma al tempo stesso in grado di riconoscere i propri limiti ed errori. La vita di Davide è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e islam. Nell'ebraismo, Davide, della tribù di Giuda, è il re di Israele e da lui discenderà il Messia. Nel cristianesimo, da Davide discende Giuseppe, padre putativo di Gesù. Nell'islam, Davide è considerato un profeta.
Dio revocò la sua predilezione per Saul, re di Israele, a causa del suo rifiuto di sterminare gli Amaleciti e tutto ciò che apparteneva loro. Egli mandò quindi il profeta Samuele a Betlemme a cercare un nuovo re di Israele tra i figli di Iesse. Quest'ultimo fece passare sette dei suoi figli davanti a Samuele ma nessuno di loro era il prescelto. Allora Samuele gli chiese se ne avesse altri e Iesse rispose che il più giovane, Davide, fulvo di capelli e di bell'aspetto, era al pascolo con le pecore. Quando gli fu portato davanti, Dio disse a Samuele: «Alzati, ungilo, perché è lui». Intanto, dopo essere stato ripudiato da Dio, uno spirito cattivo era entrato in Saul, tormentandolo. Uno dei suoi servi gli suggerì di far venire un citarista, Davide, che con il suono della sua cetra avrebbe lenito le sue sofferenze. Saul si affezionò a Davide, facendolo diventare suo scudiero. Ogni volta che lo spirito cattivo veniva da Saul, Davide suonava la cetra, lo calmava e lo spirito maligno si allontanava.
L'episodio biblico più famoso riguardante Davide, secondo quanto riportato nel Primo libro di Samuele, è quello dello scontro con Golia, il gigante filisteo che terrorizzava e insolentiva gli ebrei, sfidandoli a duello. Gli ebrei, accampati nella valle del Terebinto e guidati dal loro re, Saul, erano in guerra con i filistei, i quali annoveravano tra le loro file uno spaventoso gigante (alto sei cubiti e un palmo) dal nome Golia, armato con una corazza dal peso di 5.000 sicli. Per quaranta giorni, Golia sfidò l'esercito di Israele, nell'attesa che quest'ultimo scegliesse chi tra loro doveva affrontarlo: il vincitore avrebbe permesso al suo popolo di sottomettere quello del perdente.
A Davide fu chiesto dal padre di recarsi dai fratelli che si trovavano nell'accampamento, per portare del cibo e informarsi delle loro condizioni. Mentre si trovava nell'accampamento, Davide ascoltò l'ennesima sfida di Golia e si offrì, davanti a Saul, di affrontarlo, raccontando che era stato in grado di uccidere orsi e leoni per difendere il suo gregge. Saul lo vestì con la sua stessa armatura ma Davide, fatti pochi passi, se la tolse non riuscendo a muoversi, e si diresse verso il campo di battaglia con la sua frombola e con cinque pietre lisce che aveva raccolto da un torrente. Golia, vedendo che si trattava di un ragazzo, lo derise. Ma Davide, presa una delle pietre che aveva con sé, la scagliò con la frombola, colpendo il gigante in piena fronte e facendolo crollare a terra morto. Davide si precipitò verso di lui e lo decapitò, utilizzando la spada dello stesso Golia. I filistei si diedero alla fuga ma vennero inseguiti e decimati dagli israeliti. La vittoria rese Davide famoso presso gli ebrei e gli valse l'amicizia di Gionata, figlio del re Saul. Successivamente Davide avrebbe sposato la figlia del re, Mikal.
Il Secondo libro di Samuele, seguendo una diversa tradizione, "situa a Gob (Guibbetôn?) la vittoria riportata su Golia da un prode di Davide, chiamato Elcanan" e, gli esegeti dell'interconfessionale Bibbia TOB 12, ritengono quindi "che si sia voluto identificare con Golia di Gat, vittima di Elcanan, un filisteo anonimo abbattuto da Davide in un combattimento singolo. Oppure si è attribuito a Davide, amplificandola, la prodezza compiuta da Elcanan". Saul, sempre più irritato per la crescente fama di Davide, decise di dargli in sposa la figlia Mikal a patto che uccidesse cento filistei: così facendo pensava che egli sarebbe andato incontro a morte sicura. Ma Davide superò la prova e prese in sposa Mikal. Dopo un'altra grande vittoria di Davide contro i filistei, Saul decise di ucciderlo: Mikal lo aiutò a fuggire, facendolo calare da una finestra e mettendo un idolo nel letto per fare finta che egli, malato, stesse riposando. Mentre era in fuga, Saul diede Mikal in sposa a Pati, figlio di Lais. Nel frattempo Davide ebbe altre due mogli: Abigail e Ainoam. Successivamente, mentre a sud Davide regnava sulla Giudea e a nord Is-Bàal, fratello di Mikal e figlio di Saul, regnava sulle tribù di Israele, Davide chiese che Mikal tornasse da lui, in segno di alleanza tra i due regni: Is-Bàal acconsentì. Qualche tempo dopo che era tornata, Mikal lo criticò perché lui aveva ballato parzialmente nudo durante una processione religiosa, mentre portava l'Arca dell'Alleanza a Gerusalemme appena conquistata. Mikal morì senza aver avuto figli con Davide.
La crescente fama di Davide irritò talmente Saul che Davide dovette fuggire. Davide andò da Samuele a Rama, gli raccontò di come Saul aveva cercato di farlo morire. Saul cercò più volte di riportare indietro Davide ma senza successo. Quest'ultimo strinse un patto di amicizia con Gionata, il quale si dimostrò incredulo nel sapere che suo padre Saul voleva ucciderlo ma dovette ricredersi; secondo un'altra versione invece, fu lo stesso Gionata ad avvisare Davide del pericolo. Infatti, il primo giorno di Luna nuova, Davide avrebbe dovuto sedere a tavola con Saul, ma non si presentò e neanche l'indomani. Saul si adirò e questo fu il segno che convinse Gionata circa i timori che gli aveva manifestato Davide.
Quest'ultimo andò quindi a Nob e si fece dare del pane consacrato dal sommo sacerdote Achimelech e la spada che era stata di Golia. Achimelech era destinato a pagare con la vita questo gesto, e come sommo sacerdote gli successe il figlio Abiatar. Mentre Davide si trovava a Mizpa in compagnia della sua famiglia, Saul venne a sapere che egli era stato a Nob. Successivamente, Davide liberò Keila, sconfiggendo i filistei e insediandosi nella città. Venuto a sapere che Saul lo cercava, si rifugiò nel deserto di Maon. Anche qui Saul gli diede la caccia ma, quando stava per accerchiarlo, dovette rinunciarvi e andare via perché i filistei avevano invaso il paese. Davide si rifugiò nel deserto. Saul, ancora una volta, andò alla sua ricerca e si addentrò in una caverna dove Davide era nascosto. Quando il re uscì fuori David gli fece capire che se avesse voluto lo avrebbe potuto uccidere, Saul gli fu riconoscente e gli chiese di non sterminare la sua stirpe una volta che fosse diventato re di Israele. Davide si nascondeva sulla collina e Saul vi si recò con tremila uomini per dargli la caccia. Mentre erano accampati e dormivano, Davide, di soppiatto, entrò nell'accamoamento di Saul, prese la lancia che era conficcata nel terreno e la brocca, entrambe vicino al capo di Saul, e si allontanò. Da lontano Davide gridò verso Saul, dicendo che non gli voleva alcun male visto che gli era andato vicino mentre dormiva portando via la lancia e la brocca. Per non essere più perseguitato da Saul, Davide si stabilì presso i filistei; il re di Gath gli diede la città di Ziklag, dove si insediò insieme alle sue due mogli Ainoam e Abigail.
Qualche tempo dopo, Davide e i suoi uomini si aggiunsero ad Achis e ai filistei che avanzavano per affrontare gli israeliti, ma gli altri principi lo rimandarono indietro, perché non lo consideravano uno di loro. Tornato a Ziklag, la trovò sottosopra, devastata dagli Amaleciti, che avevano razziato tutto e portato via donne e bambini, tra cui anche le due mogli di Davide. David prese con sé i suoi 600 uomini e recuperò il bottino riportando indietro donne e bambini.
Intanto la fine di Saul era vicina, gli israeliti furono decimati, anche i figli di Saul. Quest'ultimo, secondo il Primo libro di Samuele, piuttosto che perdere la vita per mano dei filistei, preferì morire gettandosi sulla sua stessa spada e rimanendone trafitto; secondo un'altra tradizione fu invece ucciso da un Amalecita.
Saul e Gionata rimasero uccisi durante la battaglia di Ghilboa contro i filistei e Davide ne fu molto addolorato. Salì quindi a Ebron dove fu unto re di Giudea; intanto, a nord, il figlio di Saul, Is-Bàal, era diventato re delle tribù d'Israele. Ne conseguì una guerra civile tra Is-Baal e Davide, conclusasi con l'uccisione di Is-Baal per mano di due disertori, Baanah e Rekab, capitani del suo stesso esercito, i quali, sperando in un premio, portarono la sua testa a Davide: ma quest'ultimo, addolorato da tale visione, li fece giustiziare. Con la fine della dinastia di Saul, tutti gli anziani di Israele si recarono a Ebron e Davide fu unto re d'Israele e di Giudea. Aveva trent'anni quando cominciò il suo quarantennale regno: dapprima a Ebron regnò sulla Giudea per sette anni e sei mesi, in seguito a Gerusalemme regnò su tutta Israele e la Giudea per trentatré anni.
Sconfisse i Gebusei, che abitavano Gerusalemme, e la nominò capitale del suo regno, mentre Hiram, re di Tiro, vi spedì messaggeri, alberi di cedro, falegnami e muratori per costruire la casa di Davide. Davide portò l'Arca dell'Alleanza a Gerusalemme con l'intento di costruire un tempio. Ma Dio, per bocca del profeta Natan, gli proibì di farlo, dicendo che il tempio sarebbe stato costruito da generazioni future. Fece però un patto con Davide, promettendogli che egli avrebbe stabilito la casa di Davide in eterno: "... e il tuo trono sarà reso stabile per sempre." Per tutto il suo regno, l'Arca rimase nella tenda innalzata da Davide: da lì sarebbe stata spostata solo dopo la costruzione del Tempio di Salomone.
Una sera, mentre passeggiava sulla terrazza regia, Davide vide una donna bellissima che faceva il bagno: si trattava di Betsabea, figlia di Eliam e moglie del suo ufficiale Uria l'Ittita. La fece portare nel suo palazzo e la mise incinta.. Intanto l'esercito di Davide, guidato da Joab e tra le cui file figurava anche Uria l'Ittita, era impegnato nell'assedio della città ammonita di Rabbah. Davide richiamò Uria l'Ittita a Gerusalemme, chiedendogli informazioni sull'andamento della guerra e poi gli ordinò di andare a casa: anche se non esplicitamente dichiarato nei testi biblici, l'intento era quello di far sì che Uria trascorresse la notte con la moglie così da poter mascherare la paternità del bambino che sarebbe nato. Ma Uria disubbidì e dormì fuori dalla porta del re perché non riteneva giusto godere degli agi di casa mentre gli altri soldati erano impegnati al fronte. Davide allora lo fece mangiare e ubriacare, sempre con la stessa speranza: ma neanche la notte successiva Uria andò a casa sua. L'indomani, Davide scrisse una lettera nella quale chiedeva a Joab che Uria venisse messo in prima linea e lasciato da solo perché andasse incontro a morte sicura: diede quindi la lettera allo stesso Uria perché la recapitasse a Joab. Uria cadde sotto i colpi degli ammoniti e Betsabea divenne moglie di Davide.
Il profeta Natan lo rimproverò, dicendogli che Dio l'avrebbe punito con la sua stessa colpa, prendendogli tutte le mogli per darle ad altri in pieno giorno. Davide si pentì e allora Natan gli disse che questo non sarebbe più successo ma che il bambino che era stato concepito sarebbe morto. Il bambino nacque ma si ammalò subito. Per sette giorni Davide digiunò, sperando, invano, nella sua salvezza: il settimo giorno il bambino morì. Allora Davide si unse, si cambiò e mangiò: a chi gli chiedeva come mai lo faceva proprio ora che il bambino era morto egli disse che non aveva più senso digiunare tanto il piccolo non sarebbe più ritornato. Davide e Betsabea ebbero un secondo figlio, Salomone, futuro re d'Israele. Il pentimento di Davide per la morte di Uria, dopo che il profeta Natan gli ebbe rimproverato la sua colpa, sarebbe all'origine del Miserere, uno dei più famosi Salmi.
Assalonne era il terzo figlio di Davide, nato a Ebron da Maaca, figlia di Talmai, re di Ghesur. Il primogenito di Davide, Amnon, nato da Ainoam, aveva usato violenza a Tamar, sorella di Assalonne: quest'ultimo, dopo due anni passati a covare vendetta, fece uccidere Amnon dai servi durante un banchetto. Fuggì quindi dal nonno materno, Talmai, a Ghesur, dove rimase tre anni, prima di riconciliarsi con Davide e tornare a Gerusalemme. Quattro anni dopo, Assalonne chiese al padre il permesso di andare ad Ebron, ma una volta arrivato lì si proclamò re. Davide allora decise di fuggire da Gerusalemme con il suo popolo, con i Cretei, con i Peletei e con Ittài, che aveva seicento uomini al suo seguito venuti da Gat, rifugiandosi oltre il fiume Giordano. Assalonne entrò in Gerusalemme con al suo fianco Achitofel, che prima era stato consigliere di Davide. Achitofel consigliò Assalonne di dare subito la caccia a Davide, approfittando del fatto che era ancora allo sbando. Ma Cusài l'Archita, spedito da Davide a Gerusalemme perché si infiltrasse nella corte di Assalonne, riuscì a sovvertire il consiglio di Achitofel, convincendo Assalonne che era meglio organizzare un grande esercito che Assalonne stesso avrebbe guidato in prima persona per affrontare Davide. Grazie a Cusài, Davide ebbe il tempo di riorganizzarsi: sconsigliato di prendere parte direttamente alla battaglia, raccomandò di trattare con riguardo Assalonne.
Nella foresta di Efraim si scatenò una feroce battaglia nella quale l'esercito di Assalonne venne sterminato. Quest'ultimo, cavalcando un mulo, rimase sospeso in aria, con la testa impigliata tra i rami di un terebinto: Joab, uno dei tre capi nominati da Davide per la battaglia, conficcò tre lance nel cuore di Assalonne, che venne poi finito da dieci scudieri. Quando Davide venne a sapere della morte di Assalonne provò grande dolore: «Figlio mio! Assalonne figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!». Davide venne riconfermato re e tornò a Gerusalemme.
È dell'ultimo periodo della vita di Davide l'episodio del censimento degli Israeliti da lui disposto; tale censimento gli fu ordinato da Dio, o secondo un'altra tradizione fu indotto da Satana, e provocherà poi la collera del Signore, il quale proporrà a Davide di scegliere una punizione tra sette anni di carestia, tre mesi di fuga davanti al nemico oppure tre giorni di peste; quest'ultima sarà la scelta di Davide e per essa moriranno settantamila persone. Conseguenza di tale censimento sarà l'acquisto da parte di Davide, come richiesta di perdono al Signore, dell'area su cui suo figlio Salomone costruirà il Tempio di Gerusalemme. Quando Davide divenne vecchio, suo figlio, Adonia, si proclamò re. Betsabea e il profeta Natan, temendo per la loro vita e per quella di Salomone, andarono da Davide e ottennero da lui che Salomone, figlio di Betsabea, sedesse sul trono d'Israele. Fu così che i piani di Adonia fallirono e Salomone divenne re. È a Salomone che Davide parlò poco prima di morire: gli promise che la loro stirpe avrebbe ereditato per sempre il trono di Israele; gli chiese di uccidere i suoi vecchi nemici, Joab, capo del suo stesso esercito, reo di aver ucciso Abner e Amasà, e Simèi, che lo maledisse ma a cui aveva fatto la promessa di non ucciderlo, personalmente, con la propria spada; gli raccomandò di essere buono con i figli di Barzillai il Galaadita, che lo avevano aiutato mentre fuggiva davanti ad Assalonne. Davide morì e fu sepolto nella città di Davide, dopo aver regnato per quarant'anni su Israele, succeduto da Salomone. La sua tomba si troverebbe tuttora subito fuori della cinta muraria della Città Vecchia di Gerusalemme, nel luogo comunemente chiamato Monte Sion, vicino alla Porta di Giaffa.

david 4
David con la testa di Golia Caravaggio


L'ARCA DELL'ALLEANZA
L'arca dell'Alleanza, secondo la Bibbia, era una cassa di legno d'acacia con un coperchio d'oro, utilizzata per custodire le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul monte Sinai. Essa costituiva il segno visibile della presenza divina in mezzo al popolo di Israele. L'arca è descritta dettagliatamente nel libro dell'Esodo (25,10-22; 37,1-9): era una cassa di legno di acacia, rivestita d'oro all'interno e all'esterno, a forma di parallelepipedo, con un coperchio d'oro puro (in ebraico kappòret, normalmente tradotto in italiano "propiziatorio").
« 10 Faranno dunque un'arca di legno d'acacia; la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo, la sua larghezza di un cubito e mezzo e la sua altezza di un cubito e mezzo.
11 La rivestirai d'oro puro; la rivestirai così, sia dentro che fuori; le farai al di sopra una ghirlanda d'oro, che giri intorno.
12 Fonderai per essa quattro anelli d'oro, che metterai ai suoi quattro piedi: due anelli da un lato e due anelli dall'altro lato.
13 Farai anche delle stanghe di legno di acacia e le rivestirai d'oro.
14 Farai passare le stanghe negli anelli ai lati dell'arca, perché servono a portarla.
15 Le stanghe rimarranno negli anelli dell'arca e non ne saranno sfilate.
16 Poi metterai nell'arca la testimonianza che ti darò.
17 Farai anche un propiziatorio d'oro puro; la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo e la sua larghezza di un cubito e mezzo.
18 Farai due cherubini d'oro; li farai lavorati al martello, alle due estremità del propiziatorio;
19 Fa' un cherubino per una delle estremità e un cherubino per l'altra; farete in modo che questi cherubini escano dal propiziatorio alle due estremità.
20 I cherubini avranno le ali spiegate in alto, in modo da coprire il propiziatorio con le loro ali; avranno la faccia rivolta l'uno verso l'altro; le facce dei cherubini saranno rivolte verso il propiziatorio.
21 Metterai il propiziatorio in alto, sopra l'arca; e nell'arca metterai la testimonianza che ti darò.
22 Lì io mi incontrerò con te; dal propiziatorio, fra i due cherubini che sono sull'arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i figli d'Israele. » ( Esodo 25,10-22, su laparola.net.)
Le dimensioni dell'arca erano dunque di due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza e altezza, ovvero circa 110×66×66 cm. Ai lati erano fissate, con quattro anelli d'oro, due stanghe di legno dorato, con le quali l'arca veniva sollevata quando la si trasportava. Sul coperchio d'oro dell'arca erano collocate due statue, anch'esse d'oro, di cherubini con le ali spiegate e secondo interpretazioni cabalistiche di molto posteriori alla redazione biblica le due statue raffiguravano gli angeli Metatron e Sandalphon. Di fronte all'arca, Mosè era in grado addirittura di parlare con Dio, che compariva seduto su un trono fra i due cherubini che ornavano il coperchio (cfr. Esodo 25,22). Data la piccola dimensione dell'arca, i cherubini descritti nel Libro dell'Esodo dovevano essere anch'essi molto piccoli. Nel tempio di Salomone, invece, furono collocati due cherubini in legno d'ulivo ricoperto d'oro, alti 10 cubiti, cioè circa 5 metri (1 Re 6, 23-28). Inoltre, alcune leggende vogliono che l'arca, in alcune situazioni, si adornasse di un alone di luce divina e che da essa scaturissero dei lampi e delle folgori, capaci di incenerire chiunque ne fosse colpito, nel caso non avesse rispettato il divieto di avvicinarvisi.
All'interno della cassa sarebbero state conservate le Tavole della Legge (Deuteronomio 10,1-5), un vaso contenente una piccola quantità di manna raccolta da Aronne (Libro dell'Esodo Esodo 16:33-34; cfr. Ebrei 9,4) e la verga fiorita d'Aronne (Libro dei Numeri 17,25). Inoltre in un passo del Talmud (trattato Baba Batra 14a), si discute se all'interno dell'arca vi fossero anche i resti delle prime Tavole, infrante da Mosè. Ci si chiede anche se vi fosse conservato anche il bastone di Mosè e l'olio dell'unzione dei sacerdoti e dei re d'Israele.
All'epoca dell'inaugurazione del Tempio di Salomone, tuttavia, pare che essa non contenesse nient'altro che le Tavole della Legge (1 Re 8,9; 2 Cronache 5,2-10).
Durante la peregrinazione degli Israeliti nel deserto, l'arca rimaneva sempre nel loro accampamento, spostandosi insieme con loro. L'incarico di trasportare l'arca era riservato ai leviti. A chiunque altro era vietato toccarla; quando il re Davide fece trasportare l'arca a Gerusalemme, durante il viaggio un uomo di nome Uzzà la toccò per sostenerla e cadde morto sul posto (2Samuele 6,1-8, Cronache 13,9-10). L'arca veniva trasportata coperta da un telo di pelle di tasso, coperto da un ulteriore telo di stoffa turchino (Numeri 4,6), e quando il popolo si fermava nel deserto, essa veniva collocata al riparo di un'apposita tenda, chiamata "tenda del Signore" o "tenda del convegno", senza che venisse mai esposta al pubblico, se non in casi eccezionali.
Dopo l'entrata del popolo ebraico nella Terra d'Israele, la "tenda del convegno" fu eretta a Silo (Giosuè 18,1) e vi rimase fino al tempo di Samuele. A quel tempo gli Israeliti decisero di portare l'arca in battaglia contro i Filistei perché assicurasse loro la vittoria, ma vennero sconfitti e l'arca fu catturata dai nemici (Samuele 4,1-11), che saccheggiarono anche il Mishkan, il "tabernacolo" in cui l'arca veniva custodita. Scoppiò però una grave pestilenza tra i Filistei a causa della presenza dell'arca tra loro e perciò, dopo sette mesi, decisero di restituirla agli Ebrei (Samuele 5-6). L'arca fu quindi posta nella città di Kiryat Ye'arim (Samuele 7,1) e vi rimase finché il re Davide la fece trasferire nella "città di David", la rocca di Gerusalemme (Samuele 6). Infine, nella seconda metà del X secolo a.C., l'arca trovò la propria collocazione definitiva quando Salomone, figlio e successore di Davide, la fece collocare nel Debir (in latino Sancta Sanctorum) del Tempio di Gerusalemme, da lui fatto costruire (1Re 8,1-9).
Da quel momento l'arca sembra essere custodita nel Tempio di Salomone; ma essendo riposta nel Sancta Sanctorum, inaccessibile ai fedeli e alla maggioranza dei sacerdoti (soltanto un gruppo di Leviti selezionato poteva accedere alla sala dov'era conservata), non ci sono testimonianze oculari. L'unica citazione della sua presenza (o di una sua copia) ci viene dal Secondo Libro delle Cronache, in cui il re Giosia (nell'anno 621 a.C.) invita i leviti a ricollocare l'arca nel Tempio, da dove non è chiaro (2Cronache 35,1-3). Successivamente, all'arrivo dei Babilonesi e la loro conquista di Gerusalemme (inizi del VI secolo a.C.), dell'arca già non vi è più traccia. Nel passo che parla del saccheggio degli arredi sacri del Tempio (Re 25,8-17) vengono elencati in modo minuzioso tutti gli oggetti che furono portati a Babilonia, ma non si fa menzione alcuna dell'arca dell'Alleanza. Secondo il libro di Esdra, Ciro, re dei Persiani, restituì gli arredi sacri (538 a.C.), che evidentemente erano stati custoditi a Babilonia durante l'esilio, ma ancora una volta non viene nominata l'arca (1,7-11).
Scarsissimi, nel Nuovo Testamento cristiano, sono i riferimenti all'arca dell'Alleanza. La lettera agli Ebrei, indirizzata a cristiani di origine ebraica nostalgici del culto del Tempio, fa un rapido accenno alla presenza dell'arca nel "primo santuario" (9,3-5); non è facile capire, però, a quale referente temporale rimandi l'uso del tempo passato per i verbi di questo passaggio. L'Apocalisse di Giovanni, poi, descrive il momento in cui un angelo suona la settima tromba (11,15-19): «Si aprì il tempio di Dio che è in cielo e apparve nel tempio l'arca dell'Alleanza. Vi furono lampi e voci e tuoni e un terremoto e una forte grandinata». L'arca dell'Alleanza, dunque, secondo l'autore dell'Apocalisse, si trova custodita nel Santuario celeste e ricompare solo nel momento in cui si chiude la vicenda storica dell'umanità.
L'arca dell'alleanza ha molti tratti in comune con oggetti cultuali egiziani della tarda età del bronzo. La cassa di tipo pedes era trasportata con stanghe (cfr. Es 25,13-15); quella di tipo pega veniva avvolta in un panno scarlatto (cfr. Num 4,6); quella del dio Anubi era ricoperta d'oro dentro e fuori (cfr. Es 25,11; 37,2), veniva utilizzata per custodire oggetti sacri (cfr. Es 25,16; Deut 10,2.5), era trasportata con stanghe attaccate alla base e solidamente attaccata al suo coperchio, detto "trono di misericordia" (corrispondente al "propiziatorio" delle traduzioni bibliche, c'era la statua di una divinità. Nei "troni a palanchino", poi, l'idolo o il re in persona era collocato fra due immagini alate di esseri soprannaturali (cfr. Es 25,17-22).
Secondo David Falk, quindi, l'arca dell'alleanza è caratterizzata da dettagli cultuali e stilistici affini alla casse rituali egiziane del periodo compreso fra il regno del faraone Amenhotep III e la fine della 20-esima dinastia (circa 1400-1100 a.C.).
Il fascino esercitato da questo manufatto ha generato, nel tempo, una molteplicità di ipotesi sul suo destino dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Si ipotizza che il manufatto sia andato perso prima del VI sec. a.C., o per cause accidentali (per esempio un incendio) o durante un saccheggio: Essendo fatta principalmente di un materiale deperibile come il legno, l'arca potrebbe essere andata distrutta in un incendio, e questo fatto potrebbe essere stato tenuto comprensibilmente nascosto dalla classe sacerdotale ebraica. Nei tempi antichi, era comune il divampare di piccoli e grandi incendi, in città realizzate con abbondante uso di legno, paglia e stoffe e con la continua presenza di fiamme libere. Un'altra possibilità è che il manufatto, realizzato con oro, sia stato rubato, distrutto e disperso dalle truppe che nei secoli hanno più volte saccheggiato il Tempio di Gerusalemme. L'arca dell'Alleanza, per esempio, potrebbe essere stata rubata durante il saccheggio del Tempio avvenuto tra il 797 e il 767 a.C. ad opera di Ioas, re di Israele con capitale a Sichem di Samaria (Secondo libro dei Re, 14,11-14). In tal caso, l'arca potrebbe essere stata portata in Samaria, e da lì - dopo la distruzione del regno del Nord da parte degli Assiri - in qualsiasi altra parte del Medio Oriente. Se l'arca non fosse stata già rubata, e se non fosse già stata nascosta in un luogo sicuro, essa sarebbe stata alla mercé delle truppe babilonesi nel 597-588 a.C. quando, su ordine di Nabucodonosor II, esse conquistarono Gerusalemme e saccheggiarono il Tempio. In questo caso, l'arca potrebbe essere stata portata in Babilonia. Come già citato, tuttavia, nell'elenco del materiale saccheggiato dai Babilonesi l'arca non è citata, e perciò si può supporre che al loro arrivo a Gerusalemme essa fosse in realtà già scomparsa. Tra i vari “nascondigli” dell’Arca dell'Alleanza troviamo infine anche Roma. Infatti ci riferisce Santo Brasca, in un suo testo del 1480, che fra gli oggetti sacri recuperati dal Tempio di Gerusalemme da Vespasiano e Tito, c’era anche l’Arca dell’Alleanza, che fu portata a Roma e riposta nella basilica di San Giovanni Laterano, nella quale infatti troviamo ancora oggi, precisamente nella sagrestia della Basilica, un’iscrizione del XIII secolo chiamata “Tabula Magna Lateranensis” che recita, tra l'altro: “Sotto questo altare c’è l’Arca del Patto, la verga di Mosè e la verga di Aronne. Vi è il candelabro d’oro, il turibolo d’oro pieno di incenso e un’urna d’oro piena di manna e dei resti dei pani dell’offerta”. Occorre aggiungere però che il famoso storico dell’epoca Giuseppe Flavio, nella sua opera “Bellum iudaicum", afferma che, saccheggiato il Tempio di Gerusalemme, i Romani portarono con sé a Roma vari oggetti sacri, ma nell'elenco fornito dall’autore, non vi è traccia dell'Arca.
Secondo quest'affermazione riportata dal Talmud (trattato Yoma), si ritiene che l'arca sia ancora situata nel luogo originario del Sancta Sanctorum: già re Salomone, profetizzando la futura distruzione del Tempio, avrebbe fatto costruire un luogo sotterraneo, in cui nascondere l'arca nel caso di attacchi nemici; la tradizione vuole che, in seguito, re Giosia l'avesse effettivamente nascosta in quel luogo per ventidue anni. Ancora nel Talmud si insegna che anche durante gli anni del secondo Tempio l'arca non era all'interno del Sancta Sanctorum, ma sempre in un luogo sotterraneo sul monte del Tempio, da dove comunque non veniva meno la sua funzione di santificazione (si ritiene, infatti, che la Gloria divina si fosse rivelata soltanto durante il periodo del primo Tempio, ma non durante quello del secondo, sebbene fosse comunque presente).
Nel secondo libro dei Maccabei (2,1-8), appartenente al canone biblico cattolico e ortodosso ma escluso dal canone da Ebrei e protestanti, si racconta che alla fine del VII secolo a.C. il profeta Geremia avrebbe sottratto l'arca alla distruzione portandola via da Gerusalemme e nascondendola sul Monte Nebo. Il libro dei Maccabei, tuttavia, riporta fatti avvenuti molti secoli prima della sua redazione; quindi, potrebbe essere stato influenzato da leggende o interpolazioni successive. Questo brano del libro dei Maccabei, e in particolare il riferimento al fatto che l'arca rimarrà segreta «finché Dio non avrà riunito la totalità del suo popolo e si sarà mostrato propizio», evidenzia un profondo legame escatologico tra l'arca e la promessa della salvezza per il popolo ebraico.
Secondo un'antica tradizione contenuta nel testo sacro etiope Kebra Nagast (il Libro della Gloria dei Re), l'arca sarebbe stata donata da re Salomone a Menelik I (seconda metà del X secolo a.C.), il figlio da lui avuto dalla regina di Saba, leggendaria fondatrice della nazione etiope (secondo un'altra versione, Salomone avrebbe donato a Menelik una copia dell'arca, ma questi la scambiò di nascosto con l'originale). Il defunto Imperatore d'Etiopia Hailé Selassié I sosteneva che nel tesoro imperiale della Corona d'Etiopia vi fosse anche l'arca. I chierici etiopi della cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion ad Axum, di rito copto, sostengono di conservare tuttora l'arca. Questa affermazione non può però essere verificata in quanto, essi dicono, l'arca sarebbe un oggetto così sacro che a nessuno può essere permesso di vederla; l'unica persona a cui è concesso questo privilegio è il suo custode, che vive in solitudine nella cappella dove sarebbe riposta l'arca, senza avere contatti col mondo e dedicando alla protezione della reliquia la sua intera vita. Il 19 giugno 2009 il patriarca della Chiesa ortodossa etiopica Abuna Paulos, in una conferenza stampa tenutasi all'Hotel Aldrovandi a Roma (alla quale hanno partecipato anche un figlio del principe Makonnen Hailé Selassié, secondogenito dell'imperatore d'Etiopia Hailé Selassié I, e il duca Amedeo D'Aosta), ha dichiarato tra l'altro che:
«L'Etiopia è il trono dell'arca dell'Alleanza. L'arca dell'Alleanza è stata in Etiopia per tremila anni e adesso è ancora lì e con la volontà di Dio continuerà ad essere lì. È per via del miracolo che è arrivata in Etiopia. L'ho vista con senso di umiltà, non con orgoglio, come quando si va in chiesa. È la prima volta che dico questo in una conferenza stampa. Ripeto: l'arca dell'Alleanza è in Etiopia e nessuno di noi sa per quanto tempo ancora. Solo Dio lo sa. Tutto quello che si trova nell'arca è descritto perfettamente nella Bibbia. Lo stato di conservazione è buono perché non è fatta da mano d'uomo, ma è qualcosa che Dio ha benedetto. Ci sono molti scritti e prove evidenti sulla presenza dell'arca in Etiopia. Non sono qui per dare delle prove che l'arca sia in Etiopia, ma sono qui per dire quello che ho visto, quello che so e che posso testimoniare. Non ho detto che l'arca sarà mostrata al mondo. È un mistero, un oggetto di culto.»

AUDIO

Eugenio Caruso - 25 - 10 - 2021

LOGO


Tratto da

1

www.impresaoggi.com