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Dante, Paradiso, Canto XXII. San Benedetto e l'ascesa alle stelle fisse.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXII

Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, la prima delle quali corrisponde all'incontro con san Benedetto e alla critica della corruzione dei Benedettini, la seconda all'ascesa al Cielo delle Stelle Fisse e alla raffigurazione del cammino compiuto, nell'attesa dell'arrivo di una nuova schiera di beati e del trionfo di Cristo che sarà al centro del Canto successivo. L'episodio si apre con la spiegazione di Beatrice circa il grido dei beati che ha chiuso il Canto XXI, simile a un tuono che ha atterrito Dante, il quale si rivolge alla sua guida come farebbe un bambino con la madre (immagine che tante volte ricorre nel poema, come si è visto e si vedrà in seguito): la donna preannuncia la prossima punizione divina, che Dante già conoscerebbe se avesse potuto comprendere il grido, mentre ciò gli è stato precluso per la stessa ragione per cui nel Canto precedente lei non gli ha sorriso e cioè per la sua incapacità di mortale a sostenerne il fulgore.
La profezia preannuncia quella che sarà nelle parole di san Benedetto, il protagonista della prima parte del Canto e che sarà autore di una dura invettiva contro la degenerazione del proprio Ordine, almeno in parte simile a quelle contro Francescani e Domenicani dei Canti XI e XII: la differenza è che qui la rampogna è messa in bocca allo stesso fondatore dell'Ordine, che si presenta a Dante in prima persona senza ricorrere a un panegirico affidato a suoi seguaci, come nel caso di san Francesco e san Domenico (assai minore, naturalmente, è lo spazio riservato al fondatore del monachesimo occidentale).
Dopo la consueta esitazione di Dante che teme di parlare per non risultare fastidioso e le rassicurazioni del beato, che risponde ai suoi interrogativi per non rallentare la sua ascesa verso la visione di Dio, è san Benedetto a presentarsi senza fare direttamente il proprio nome e dichiarando di essere colui che convertì i pagani di Montecassino, costruendo sulla montagna il monastero che sarebbe diventato il cuore del movimento benedettino. La biografia del santo è praticamente concentrata in quest'unico episodio, particolamente indicativo del duplice aspetto del monachesimo da lui fondato e cioè della commistione di preghiera e azione: Benedetto non è rimasto chiuso nel convento a meditare, benché sia incluso fra gli spiriti contemplanti come gli altri che indica a Dante (tra cui spiccano Macario e Romualdo, e del primo si hanno notizie assai incerte), ma si è prodigato per diffondere la parola di Cristo nel mondo, dando esempio di quella Regola dell'ora et labora che è emblematica della vita dei Benedettini. Da qui alla critica contro la corruzione diffusasi nel Due-Trecento fra i monaci di quell'Ordine il passo è obbligato, anche se prima di iniziare la sua rampogna il santo deve rispondere alla prematura richiesta di Dante che vorrebbe vederlo col suo reale aspetto, ciò che sarà possibile solo nell'Empireo; si è molto discusso sul significato di tale insolita richiesta, specie in quanto rivolta a un'anima con cui Dante non aveva rapporti diretti (perché non all'amico Carlo Martello o all'avo Cacciaguida, ad esempio?), anche se probabilmente ciò è dovuto al fatto che Benedetto è l'ultimo beato incontrato da Dante prima dell'ascesa all'VIII Cielo, allorché si entrerà nella parte finale della Cantica destinata a chiudersi con la visione di Dio.
Giova notare che la Regola di san Benedetto è utilizzata in alcuni corsi di management; questo mostra quanto essa sia ancora attuale ed efficace.
Il santo ne trae spunto per spiegare che la scala d'oro del VII Cielo termina proprio nell'Empireo dove ogni desiderio si compie, mentre i Benedettini del presente non la salgono più per raggiungere Dio ma sono presi da ben altri appetiti, inseguendo le ricchezze materiali e sfruttando ogni occasione per guadagni illeciti. La critica di Benedetto è molto dura e usa termini espliciti per condannare l'avidità dei suoi seguaci, affermando che i monasteri sono diventati spelonche, che le tonache fratesche sono sacchi pieni di farina andata a male (entrambe le immagini sono di derivazione biblica), che i frati si impossessano delle decime per soddisfare i piaceri della carne e favorire i loro parenti, quando non anche le loro (o i loro) amanti. L'invettiva prosegue e completa quella di Pier Damiani contro il lusso dei prelati e anticipa quella ben più dura di san Pietro del Canto XXVII, chiamando in causa proprio il primo papa che costruì la Chiesa sull'ideale di povertà come Francesco d'Assisi, mentre oggi la bramosia di oro e argento ha corrotto la vita ecclesiastica; il preannuncio di un imprecisato futuro castigo fa il paio con il grido dei beati che chiudeva il Canto XXI, corredato questo di immagini bibliche (i prodigi del Giordano e del Mar Rosso, quando la natura venne alterata per volontà divina) e dando un carattere di sacralità alle parole del beato, che infatti viene subito circondato dagli altri spiriti insieme ai quali sale rapido lungo la scala verso l'alto, imitato da Dante che viene spinto a seguirli dal cenno sollecito di Beatrice e si muove veloce vincendo la propria materialità.
L'ascesa al Cielo delle Stelle Fisse avviene quindi in modo cosciente per il poeta, diversamente da quanto è accaduto negli altri Cieli, e prelude a un innalzamento della materia allorché si entra nella parte più alta del Paradiso, dove si affronteranno delicati temi dottrinali e ci si preparerà alla visione di Dio: questo passaggio è sottolineato prima dall'invocazione alla costellazione dei Gemelli, cui Dante riconosce il merito di aver acquisito la predisposizione all'ingegno letterario (secondo la consueta credenza negli influssi astrali) e da cui invoca l'assistenza per affrontare il passo forte che sarà da intendere non come la morte fisica, bensì come l'ultima e più impegnativa parte della Cantica, poi dalla riflessione sul cammino compiuto che avviene tramite il grandioso spettacolo dei sette pianeti che Dante vede sotto di sé, descritti come parte di un meraviglioso scenario.
Al centro del sistema solare sta la Terra, vista come un minuscolo globo insignificante e derisa nella sua piccolezza, specie perché invasa da quelle brame materiali che Benedetto ha biasimato poco prima: essa è l'aiuola che ci fa tanto feroci, dalla quale Dante è ora lontanissimo e preso nella descrizione del sistema tolemaico in cui ogni astro è parte di un ingranaggio perfetto e che gli si mostra qui in tutti i suoi minimi particolari. Il Canto si chiude con un'atmosfera di attesa che sarà sottolineata all'inizio del seguente dall'atteggiamento di Beatrice, che attenderà ansiosa l'arrivo dei nuovi beati e di Cristo: gli ultimi undici Canti del Paradiso, esattamente un terzo del totale, saranno dedicati all'incontro con le anime dei santi fondatori della Chiesa che lo sottoporranno all'esame sul possesso delle virtù teologali, prima dell'ascesa ai Cieli successivi dove verrano mostrati i cori angelici e la candida rosa dei beati, operazioni preliminari allo spettacolo della visione di Dio che chiuderà con una sorta di crescendo il poema cui, secondo Dante, avevano posto mano sia il Cielo sia la Terra.

benedetto 4
SAN BENEDETTO DI ANDREA MANTEGNA

NOTE

- La vendetta  preannunciata da Beatrice ai vv. 14-15 e che Dante vedrà prima di morire è stata interpretata come la morte di Bonifacio VIII o di Clemente V, anche se più probabilmente si tratta di una profezia indeterminata come altre nel poema (inclusa quella successiva di san Benedetto circa la corruzione del proprio Ordine).
- Il vb. redui  (v. 21) deriva da ridure, dal lat. riducere e significa «ricondurre».
- Al v. 28 luculenta  vuol dire «luminosa», come in Par., IX, 37.
- L'alto fine  (v. 35) è la conclusione del viaggio dantesco, la visione di Dio.
- La gente ingannata e mal disposta  sono i pagani, che adoravano Apollo in un tempio sulla montagna presso Cassino; Benedetto distrusse il tempio e costruì una chiesetta dedicata alla Vergine, dove poi sorse il monastero (la fonte è Gregorio Magno, Dial., II, 2 ss.).
- Il caldo / che fa nascere i fiori e i frutti santi  (vv. 47-48) è l'ardore di carità; in XVIII, 28-30 Cacciaguida descrive il Paradiso come un albero che riceve vita dall'alto e che fruttifica sempre senza perdere mai le foglie.
- Ai vv. 50-51 Benedetto allude ai monaci del suo Ordine che rimasero fedeli alla Regola e non si allontanarono dal chiostro, giacché la stabilitas era il voto principale del Benedettini (molti vagavano di convento in convento e si mescolavano alla vita mondana, talvolta divenendo apostati).
- L'ultima spera  (v. 62) è l'Empireo; ai vv. 65-67 il santo spiega che il X Cielo è il solo a non ruotare (in quella sola / è ogne parte là ove sempr'era), in quanto non si estende nello spazio fisico (non è in loco) e non ha i poli (non s'impola) come gli altri cieli rotanti. Il vb. «impolarsi» è neologismo dantesco.
- I vv. 70-72 alludono al sogno di Giacobbe di Gen., XXVIII, 12, dove è descritta una scala che si estende sino al Cielo e lungo la quale salgono e scendono gli angeli.
- Le spelonche del v. 77 alludono a Matth., XXI, 13: domus mea domus orationis vocabitur; vos autem fecistis illam speluncam latronum («la mia casa sarà detta casa della preghiera, mentre voi l'avete trasformata in una spelonca di ladroni»), dove si narra l'episodio di Gesù che caccia i mercanti dal Tempio.
- Al v. 77 le cocolle  sono le tonache dei frati (cfr. IX, 78).
- Al v. 79 si tolle  vuol dire probabilmente «si erge», nel senso si levarsi contro la volontà di Dio, quindi la più grave usura non offende Dio tanto quanto l'avidità dei monaci che si impadroniscono per avidità delle decime (il frutto  dei monasteri). L'altro più brutto (v. 83) è un'allusione alle concubine dei monaci corrotti.
- I vv. 85-87 intendono dire che la carne degli uomini è così debole, che sulla Terra ogni buon inizio non dura (basta) molto tempo; l'espressione dal nascer de la quercia al far la ghianda  non è chiarissima, ma forse è un modo di dire equivalente al nostro «dalla sera alla mattina».
- I vv. 94-96 alludono ai passi biblici in cui il Mar Rosso si aprì per consentire il passaggio di Mosè e del popolo ebraico (Exod., XIV, 21-29) e il fiume Giordano arrestò il suo corso superiore per restare in secca e permettere il passaggio di Giosuè (Ios., III, 14-17; Ps., CXIII, 3, dove si dice che il fiume si volse all'indietro). Dante vuol dire che tali prodigi furono più sorprendenti del futuro intervento divino per punire i monaci corrotti.
- Ai vv. 106-107 divoto / triunfo  indica la beatitudine celeste.
- I vv. 109-111 indicano che Dante salì all'VIII Cielo con movimento rapidissimo, più veloce del mettere il dito nel fuoco e ritrarlo: tratto e messo è un esempio di hysteron proteron, ovvero una figura retorica in cui due azioni susseguenti sono invertite. Il segno / che segue il Tauro  è la costellazione dei Gemelli, al cui cospetto Dante si ritrova una volta nel Cielo delle Stelle Fisse.
- Dante era nato tra maggio e giugno del 1265, sotto il segno zodiacale dei Gemelli, e tale costellazione emanava un influsso (così almeno si credeva nel Medioevo) che inclinava all'ingegno poetico e letterario: cfr. Inf., XV, 55-56, quando Brunetto Latini aveva parlato della stella di Dante che lo avrebbe condotto a glorioso porto.
- Il passo forte (v. 123) per il quale Dante invoca l'assistenza della costellazione dei Gemelli non è la morte terrena, bensì l'ultima parte del Paradiso e la visione divina che il poeta dovrà descrivere; qui c'è una sorta di piccolo proemio che introduce ai Canti finali della Cantica.
- Al v. 127 t'inlei  («entri in lei») è neologismo dantesco, come s'inluia (IX, 73).
- Al v. 132 etera tondo  indica l'VIII Cielo, dall'acc. lat., aethera (cfr. le forme Flegetonta, orizzonta, ecc.).
- La figlia di Latona  (v. 139) è la Luna, luminosa e priva delle macchie oggetto dei dubbi di Dante (cfr. II, 49 ss.).
- Gli altri pianeti sono indicati con varie perifrasi: il Sole è il figlio di Iperione (v. 142), la cui luce Dante è in grado di fissare; Mercurio e Venere sono indicati attraverso i nomi di Maia e Dione, le rispettive madri secondo il mito; Saturno e Marte sono detti rispettivamente padre e figlio di Giove, il cui aspetto è temperato fra la freddezza del primo e il calore acceso del secondo (cfr. Conv., II, 13).
- L'aiuola  (v. 151) è la Terra emersa, detta così per la sua piccolezza e perché contesa dagli uomini con ferocia: l'immagine deriva forse da Boezio, Cons. Phil., II, pr. 7 (ma anche Dante in Mon., III, 15 parla di areola ista mortalium).
- Il v. 153 è stato variamente interpretato, ma forse indica solamente che Dante vide la Terra emersa nella sua interezza.


TESTO DEL CANTO XXII

Oppresso di stupore, a la mia guida 
mi volsi, come parvol che ricorre 
sempre colà dove più si confida;                                     3

e quella, come madre che soccorre 
sùbito al figlio palido e anelo 
con la sua voce, che ‘l suol ben disporre,                      6

mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo? 
e non sai tu che ‘l cielo è tutto santo, 
e ciò che ci si fa vien da buon zelo?                                9

Come t’avrebbe trasmutato il canto, 
e io ridendo, mo pensar lo puoi, 
poscia che ‘l grido t’ha mosso cotanto;                        12

nel qual, se ‘nteso avessi i prieghi suoi, 
già ti sarebbe nota la vendetta 
che tu vedrai innanzi che tu muoi.                                  15

La spada di qua sù non taglia in fretta 
né tardo, ma’ ch’al parer di colui 
che disiando o temendo l’aspetta.                                18

Ma rivolgiti omai inverso altrui; 
ch’assai illustri spiriti vedrai, 
se com’io dico l’aspetto redui».                                      21

Come a lei piacque, li occhi ritornai, 
e vidi cento sperule che ‘nsieme 
più s’abbellivan con mutui rai.                                        24

Io stava come quei che ‘n sé repreme 
la punta del disio, e non s’attenta 
di domandar, sì del troppo si teme;                               27

e la maggiore e la più luculenta 
di quelle margherite innanzi fessi, 
per far di sé la mia voglia contenta.                               30

Poi dentro a lei udi’ : «Se tu vedessi 
com’io la carità che tra noi arde, 
li tuoi concetti sarebbero espressi.                               33

Ma perché tu, aspettando, non tarde 
a l’alto fine, io ti farò risposta 
pur al pensier, da che sì ti riguarde.                              36

Quel monte a cui Cassino è ne la costa 
fu frequentato già in su la cima 
da la gente ingannata e mal disposta;                          39

e quel son io che sù vi portai prima 
lo nome di colui che ‘n terra addusse 
la verità che tanto ci soblima;                                          42

e tanta grazia sopra me relusse, 
ch’io ritrassi le ville circunstanti 
da l’empio cólto che ‘l mondo sedusse.                       45

Questi altri fuochi tutti contemplanti 
uomini fuoro, accesi di quel caldo 
che fa nascere i fiori e ‘ frutti santi.                                 48

Qui è Maccario, qui è Romoaldo, 
qui son li frati miei che dentro ai chiostri 
fermar li piedi e tennero il cor saldo».                           51

E io a lui: «L’affetto che dimostri 
meco parlando, e la buona sembianza 
ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,                        54

così m’ha dilatata mia fidanza, 
come ‘l sol fa la rosa quando aperta 
tanto divien quant’ell’ha di possanza.                           57

Però ti priego, e tu, padre, m’accerta 
s’io posso prender tanta grazia, ch’io 
ti veggia con imagine scoverta».                                    60

Ond’elli: «Frate, il tuo alto disio 
s’adempierà in su l’ultima spera, 
ove s’adempion tutti li altri e ‘l mio.                                63

Ivi è perfetta, matura e intera 
ciascuna disianza; in quella sola 
è ogne parte là ove sempr’era,                                       66

perché non è in loco e non s’impola; 
e nostra scala infino ad essa varca, 
onde così dal viso ti s’invola.                                           69

Infin là sù la vide il patriarca 
Iacobbe porger la superna parte, 
quando li apparve d’angeli sì carca.                              72

Ma, per salirla, mo nessun diparte 
da terra i piedi, e la regola mia 
rimasa è per danno de le carte.                                      75

Le mura che solieno esser badia 
fatte sono spelonche, e le cocolle 
sacca son piene di farina ria.                                          78

Ma grave usura tanto non si tolle 
contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto 
che fa il cor de’ monaci sì folle;                                       81

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto 
è de la gente che per Dio dimanda; 
non di parenti né d’altro più brutto.                                 84

La carne d’i mortali è tanto blanda, 
che giù non basta buon cominciamento 
dal nascer de la quercia al far la ghianda.                    87

Pier cominciò sanz’oro e sanz’argento, 
e io con orazione e con digiuno, 
e Francesco umilmente il suo convento;                      90

e se guardi ’l principio di ciascuno, 
poscia riguardi là dov’è trascorso, 
tu vederai del bianco fatto bruno.                                    93

Veramente Iordan vòlto retrorso 
più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse, 
mirabile a veder che qui ’l soccorso».                           96

Così mi disse, e indi si raccolse 
al suo collegio, e ’l collegio si strinse; 
poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.                            99

La dolce donna dietro a lor mi pinse 
con un sol cenno su per quella scala, 
sì sua virtù la mia natura vinse;                                     102

né mai qua giù dove si monta e cala 
naturalmente, fu sì ratto moto 
ch’agguagliar si potesse a la mia ala.                         105

S’io torni mai, lettore, a quel divoto 
triunfo per lo quale io piango spesso 
le mie peccata e ‘l petto mi percuoto,                           108

tu non avresti in tanto tratto e messo 
nel foco il dito, in quant’io vidi ‘l segno 
che segue il Tauro e fui dentro da esso.                      111

O gloriose stelle, o lume pregno 
di gran virtù, dal quale io riconosco 
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,                            114

con voi nasceva e s’ascondeva vosco 
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita, 
quand’io senti’ di prima l’aere tosco;                           117

e poi, quando mi fu grazia largita 
d’entrar ne l’alta rota che vi gira, 
la vostra region mi fu sortita.                                          120

A voi divotamente ora sospira 
l’anima mia, per acquistar virtute 
al passo forte che a sé la tira.                                        123

«Tu se’ sì presso a l’ultima salute», 
cominciò Beatrice, «che tu dei 
aver le luci tue chiare e acute;                                        126

e però, prima che tu più t’inlei, 
rimira in giù, e vedi quanto mondo 
sotto li piedi già esser ti fei;                                            129

sì che ‘l tuo cor, quantunque può, giocondo 
s’appresenti a la turba triunfante 
che lieta vien per questo etera tondo».                        132

Col viso ritornai per tutte quante 
le sette spere, e vidi questo globo 
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;                         135

e quel consiglio per migliore approbo 
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa 
chiamar si puote veramente probo.                              138

Vidi la figlia di Latona incensa 
sanza quell’ombra che mi fu cagione 
per che già la credetti rara e densa.                              141

L’aspetto del tuo nato, Iperione, 
quivi sostenni, e vidi com’si move 
circa e vicino a lui Maia e Dione.                                    144

Quindi m’apparve il temperar di Giove 
tra ‘l padre e ‘l figlio: e quindi mi fu chiaro 
il variar che fanno di lor dove;                                         147

e tutti e sette mi si dimostraro 
quanto son grandi e quanto son veloci 
e come sono in distante riparo.                                     150

L’aiuola che ci fa tanto feroci, 
volgendom’io con li etterni Gemelli, 
tutta m’apparve da’ colli a le foci;

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.                             154

PARAFRASI CANTO XXII

Sopraffatto dallo stupore, mi rivolsi alla mia guida (Beatrice) come un bambino che corre da colei (la madre) in cui confida di più;

e Beatrice, come una madre che viene in aiuto del figlio pallido e anelante con la sua voce, che solitamente riesce a consolarlo, mi disse: «Non sai che ti trovi in Cielo e che esso è tutto santo, per cui ciò che si fa qui proviene da un giusto zelo?

Ora sei in grado di capire come ti avrebbero ridotto il canto dei beati e il mio sorriso, dal momento che il grido ti ha turbato così tanto;

e se tu avessi compreso la preghiera contenuta in esso, conosceresti la vendetta divina che vedrai prima di morire.

La spada del Paradiso (la punizione di Dio) non colpisce né troppo presto né troppo tardi, salvo che secondo il parere di colui che l'attende, con desiderio o timore.

Ma ora rivolgi la tua attenzione ad altro, poiché vedrai molti illustri spiriti se, come ti dico, riconduci a essi il tuo sguardo».

Io rivolsi gli occhi eseguendo i suoi comandi e vidi cento sferette che si abbellivano a vicenda con raggi luminosi.

Io ero simile a quello che reprime in sé l'acutezza del desiderio, e non osa domandare per non essere troppo fastidioso;

e la più grande e più luminosa di quelle gemme (dei beati) si fece avanti, per accontentare il mio desiderio di conoscerla.

Poi sentii dire dentro ad essa: «Se tu vedessi come vedo io la carità che arde tra di noi, esprimeresti i tuoi pensieri liberamente.

Ma affinché tu, attendendo, non giunga in ritardo alla fine del tuo viaggio, ti darò la risposta che desideri leggendo nel tuo pensiero, visto che esiti a manifestarla.

Quel monte sulle cui pendici sorge la città di Cassino un tempo fu frequentato sulla vetta dalla gente pagana e infedele;

e io sono colui che per primo portò lassù il nome di Colui (Cristo) che mostrò sulla Terra la verità che ci innalza a tal punto;

e sopra di me risplendette tanta grazia che io liberai i villaggi circostanti dall'empia religione pagana che aveva traviato il mondo.

Questi altri spiriti furono tutti uomini dediti alla contemplazione di Dio, accesi di quell'ardore di carità che fa nascere pensieri celesti e opere buone.

Qui si trovano Macario, Romualdo e i miei confratelli che rimasero dentro i loro chiostri e furono fedeli alla mia Regola».

E io a lui: «L'affetto che dimostri parlando con me e il benevolo aspetto che vedo e osservo nel vostro splendore, ha così tanto allargato la mia fiducia come il sole fa aprire la rosa quando essa si spande per quanto le concede la sua natura.

Dunque ti prego, padre (e tu dimmi se posso ricevere tanta grazia) di mostrarti a me con la tua immagine svelata».

Allora mi rispose: «Fratello, il tuo alto desiderio verrà esaudito nell'ultimo Cielo (Empireo), dove si adempiono tutti i desideri, incluso il mio.

Lassù ogni desiderio è portato a compimento, sviluppato nel bene e integro; in quel solo Cielo ogni punto si trova dove è sempre stato (l'Empireo è immobile), perché non si estende nello spazio fisico e non ha i poli; e la nostra scala giunge sino ad esso, per cui non riesci a seguirla con lo sguardo.

Il patriarca Giacobbe la vide estendersi con la parte alta fin lassù, quando gli apparve in sogno piena di angeli.

Ma oggi nessuno stacca i piedi da terra per salirla, e la mia Regola è rimasta a danno della carta su cui è scritta (non è più seguita quasi da nessuno).

Le mura che erano solite essere badia (ospitare monaci santi), ora sono diventate covi di ladroni e le tonache dei frati sono sacchi pieni di farina guasta.

Ma la più grave usura non offende il piacere di Dio tanto quanto quel frutto (le decime) che rende così folle il cuore dei monaci;

infatti, tutto ciò che la Chiesa custodisce appartiene alla gente che chiede l'elemosina in nome di Dio, non ai parenti dei religiosi o ad altra cosa più turpe (le amanti, le concubine).

La carne dei mortali è così incline alla tentazione che, sulla Terra, un buon inizio non dura che dalla nascita della quercia allo spuntare della ghianda (pochissimo tempo).

San Pietro fondò la Chiesa senza alcuna ricchezza e io fondai il mio Ordine con preghiere e digiuni, e Francesco riunì i suoi seguaci con umiltà;

e se tu consideri il principio di ognuno di questi santi e poi osservi come si è evoluta la situazione, vedrai che il bianco è diventato scuro (le cose sono andate di male in peggio).

Tuttavia il Giordano rivolto all'indietro e il Mar Rosso aperto, quando Dio volle così, suscitarono maggiore meraviglia di quanto farà l'intervento divino riguardo queste cose».

Così mi disse, e poi si raccolse insieme agli altri spiriti e si strinsero l'un l'altro; poi salirono in alto come un turbine.

La mia dolce guida (Beatrice) mi spinse dietro di loro lungo la scala, con un solo cenno, e la sua virtù vinse la mia natura mortale;

e qui sulla Terra, dove si sale e scende secondo natura, non ci fu mai un movimento così rapido che si possa paragonare alla mia ascesa verso l'alto.

Se io possa tornare, lettore, a quella beatitudine celeste per la quale io spesso rimpiango i miei peccati e mi percuoto il petto, tu non avresti messo e tirato via il dito dal fuoco in un tempo minore di quello che impiegai io a ritrovarmi nella costellazione (dei Gemelli) che segue quella del Toro.

O stelle gloriose, o luce piena di grande virtù, dalla quale io ammetto di aver ricevuto tutto il mio ingegno, quale che esso sia, con voi sorgeva e tramontava colui (il Sole) che è padre di ogni vita mortale, quando io per la prima volta respirai l'aria di Toscana (nacqui sotto il segno dei Gemelli);

e poi, quando mi venne concessa la grazia di entrare nell'alta sfera celeste con cui voi ruotate (il Cielo delle Stelle Fisse), mi toccò in sorte la vostra regione celeste.

A voi ora si rivolge con sospiri la mia anima, per acquistare la capacità poetica che mi occorre per affrontare l'arduo passaggio che mi attende (la descrizione dell'ultima parte del Paradiso).

Beatrice iniziò: «Tu sei così vicino all'ultima salvezza (Dio), che devi avere i tuoi occhi limpidi e privi di ogni velo mortale;

e perciò, prima di penetrare più a fondo in essa, guarda in basso e considera quanto tratto di Cielo hai già percorso sotto la mia guida;

così che il tuo cuore, per quanto gli riesce, si presenti gioioso alla schiera trionfante delle anime che vengono liete attraverso questo Cielo tondo e diafano».

Con lo sguardo osservai tutti quanti i sette pianeti e vidi questo globo (la Terra) così piccolo che sorrisi del suo aspetto vile;

e approvo il giudizio di chi lo considera poca cosa, e colui che rivolge i suoi pensieri ad altro (al Cielo) si può davvero definire un uomo virtuoso.

Vidi la figlia di Latona (la Luna) luminosa e priva di quelle ombre che attribui falsamente alla maggiore o minore densità.

Lì potei fissare l'aspetto di tuo figlio, o Iperione (del Sole), e vidi come Mercurio e Venere si muovono in cerchio accanto ad esso.

Qui vidi l'aspetto temperato di Giove tra Saturno e Marte, e mi fu chiara la variazione della loro posizione astronomica;

e tutti e sette i pianeti mi si mostrarono nella loro reale dimensione e nella loro velocità, e nella reciproca posizione celeste.

La piccola Terra che ci rende così feroci, mentre ruotavo insieme alla costellazione eterna dei Gemelli, mi apparve nella sua interezza (delle terre emerse); poi rivolsi i miei occhi a quelli, bellissimi, di Beatrice.

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Benedetto incontra Totila di Spinello Aretino

SAN BENEDETTO
San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 circa – Montecassino, 21 marzo 547) è stato un monaco fondatore dell'Ordine di San Benedetto. Viene venerato da tutte le Chiese cristiane che riconoscono il culto dei santi.
«L'uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l'eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina» (Papa Gregorio I, Dialogi, Liber Secundus, 36)
San Benedetto, fratello di santa Scolastica, nacque verso il 480 nella città umbra di Norcia. Il padre Eutropio, figlio di Giustiniano Probo della gens Anicia, era Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de' Reguardati di Norcia. Quando ella morì, secondo la tradizione, i due fratelli furono affidati alla nutrice Cirilla. Alla gens appartenevano anche san Gregorio Magno e Severino Boezio. A 12 anni fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma, come racconta Gregorio Magno nel secondo libro dei Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e volle far parte della vita monastica».
All'età di 17 anni, insieme con la sua nutrice Cirilla, si ritirò nella valle dell'Aniene presso Eufide (l'attuale Affile), dove, secondo la leggenda devozionale, avrebbe compiuto il primo miracolo, riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. Lasciò poi la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco, presso gli antichi resti di una villa neroniana, nella quale le acque del fiume Aniene alimentavano tre laghi (la città sorgeva appunto sotto questi laghi). A Subiaco incontrò Romano, monaco di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all'interno del Monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. Conclusa l'esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni monaci tentarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato, tornò a Subiaco.
Qui rimase per quasi trent'anni, predicando la "Parola del Signore" e accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci e un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo di avvelenamento con un pane avvelenato, Benedetto decise di abbandonare Subiaco per salvare i propri monaci. Si diresse quindi verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours, che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica.
La regola di san Benedetto
Nel monte di Montecassino, Benedetto compose la sua Regola verso il 540. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio, ma anche san Pacomio, san Cesario, e l'Anonimo della Regula Magistri con il quale ebbe stretti rapporti proprio nel periodo della stesura della regola benedettina, egli combinò l'insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell'intenzione di fondare una «scuola del servizio del Signore, in cui speriamo di non ordinare nulla di duro e di rigoroso». La regola, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all'interno di una "corale" celebrazione dell'uffizio, diede nuova e autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l'obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci più o meno "sospetti") e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l'obbedienza all'abate, il "padre amoroso" (il nome deriva proprio dal siriaco abba, "padre") mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora ("prega e lavora").
I monasteri che seguono la regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all'autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco. A Montecassino, Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l'omaggio dei fedeli in pellegrinaggio e di alcune personalità come Totila re degli Ostrogoti, che il monaco ammonì, e l'abate Servando. Benedetto morì il 21 marzo 547 dopo 6 giorni di febbre fortissima e quaranta giorni circa dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica, con la quale ebbe comune sepoltura. Secondo la leggenda devozionale spirò in piedi, sostenuto dai suoi discepoli, dopo aver ricevuto la comunione e con le braccia sollevate in preghiera, mentre li benediceva e li incoraggiava. Tra i numerosi miracoli che avrebbe compiuto san Benedetto durante la sua vita terrena, ricordati nei Dialoghi scritti da papa san Gregorio Magno, sono annoverati anche alcuni miracoli di risurrezione. Le diverse comunità benedettine nonché il calendario della messa tridentina del rito romano ricordano il dies natalis del santo il 21 marzo, mentre il nuovo calendario del 1969 ne celebra ufficialmente la festa l'11 luglio (in realtà tradizionale data del suo Patrocinio), da quando Papa Paolo VI con il breve Pacis nuntius ha proclamato san Benedetto da Norcia patrono d'Europa il 24 ottobre 1964 in onore della consacrazione della Basilica di Montecassino. La Chiesa ortodossa celebra la sua ricorrenza il 14 marzo.
Da quando le reliquie erano considerate quasi indispensabili alla comune devozione nel Medioevo, e specialmente ai monaci, era naturale che fossero cercate e "trovate" dappertutto. Ad esempio: un frammento di costola (Benedettine del Calvario di Orléans), un altro frammento di costola (Benedettine del Santo-Sacramento di Parigi), l'estremità superiore del radio sinistro (Grande seminario di Orléans), la parte inferiore del radio destro e la parte inferiore del perone sinistro (entrambi all'abbazia di Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire), un frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Santa Marie di Parigi), l'estremità inferiore del radio sinistro (abbazia di Saint-Wandrille), un frammento di falange dell'alluce sinistro (abbazia Notre Dame de la Garde), un frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Timadeuc a Bréhan), la rotula sinistra (abbazia d'Aiguebelle), un frammento dell'omero sinistro (abbazia della Grande Trappe). Secondo i monaci benedettini di Montecassino, invece, le reliquie autentiche sono sempre restate a Montecassino.
Lo studioso e monaco benedettino Jean Mabillon pubblicò nel 1685 la seguente narratio brevis, ricavata da un manoscritto medievale dell'abbazia di Sant'Emmerano di Ratisbona, che egli giudicò vecchio di novecento anni e perciò contemporaneo alla "traslazione" del corpo del santo (VIII secolo):
«Nel nome di Cristo. C'era in Francia, grazie alla provvidenza di Dio, un Prete dotto che intraprese un viaggio in Italia, per poter scoprire dove fossero le ossa del nostro santo padre Benedetto, che nessuno più venerava. [Montecassino, monastero fondato da san Benedetto su un rilievo roccioso dell'Appennino tra Roma e Napoli, era stato distrutto dai Longobardi nel 580 circa, e rimase disabitato fino al 718, data di insediamento di Petronace di Montecassino ndr]. Alla fine giunse in una campagna abbandonata a circa 70 o 80 miglia da Roma, dove san Benedetto anticamente aveva costruito un monastero nel quale tutti erano uniti da una carità perfetta. A questo punto questo Prete e i suoi compagni erano inquietati dall'insicurezza del luogo, dato che non erano in grado di trovare né le vestigia del monastero, né quelle di un luogo di sepoltura, fino a quando finalmente un guardiano di suini indicò loro esattamente dove il monastero era stato eretto; tuttavia fu del tutto incapace di individuare il sepolcro finché lui e i suoi compagni non si furono santificati con due o tre giorni di digiuno. Allora il loro cuoco ebbe una rivelazione in un sogno, e la questione apparve loro chiara poiché al mattino fu mostrato loro, da colui che era sembrato più infimo di grado, che le parole di san Paolo sono vere: «Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» o di nuovo, come il Signore stesso ha predetto: «Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo».
Allora, ispezionando il luogo con maggiore diligenza, trovarono una lastra di marmo che dovettero tagliare. Finalmente, spezzata la lastra, rinvennero le ossa di san Benedetto e, sotto un'altra lastra, quelle di sua sorella; poiché (come pensiamo) il Dio onnipotente e misericordioso volle che fossero uniti nel sepolcro come lo furono in vita, in amore fraterno e in carità cristiana. Dopo avere raccolto e pulito queste ossa le avvolsero, una a una, in un fine e candido tessuto, per portarle nel loro paese. Non fecero menzione del ritrovamento ai Romani per paura che, se questi avessero saputo la verità, indubbiamente non avrebbero mai tollerato che reliquie così sante fossero sottratte al loro paese senza conflitti o guerre di reliquia, il che Dio ha reso manifesto, affinché gli uomini potessero vedere come grande era il loro bisogno di religione e santità, mediante il seguente miracolo. Avvenne cioè che, dopo un po', il lino che avvolgeva queste ossa fu trovato rosso del sangue del santo, come da ferite aperte di un essere vivente. Dalla qual cosa Gesù Cristo ha inteso mostrare che colui cui appartengono quelle ossa è così glorioso che avrebbe vissuto veramente con Lui nel mondo a venire. Allora furono poste sopra un cavallo che le portò durante tutto quel lungo viaggio così agevolmente che non sembrava ci fosse nessun carico. Inoltre, quando attraversavano foreste o percorrevano strade strette, non c'era albero che ostruisse il cammino o asperità del percorso che impedissero loro di proseguire il viaggio; così che i viaggiatori hanno visto chiaramente come questo potesse avvenire grazie ai meriti di san Benedetto e di sua sorella santa Scolastica, affinché il loro viaggio potesse essere sicuro e felice fino al regno di Francia e al monastero di Fleury. In questo monastero sono seppelliti ora in pace, finché sorgeranno nella gloria nell'Ultimo Giorno; e qui conferiscono benefici su tutti coloro che pregano il Padre tramite Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che vive e regna nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.»
(Mabillon: Vetera Analecta, vol. IV, 1685, pag. 451-453))
Le origini della Medaglia di San Benedetto sono antichissime. Papa Benedetto XIV ne ideò il disegno e col "Breve" del 1742 approvò la medaglia concedendo delle indulgenze a coloro che la portano con fede. Sul diritto della medaglia, san Benedetto tiene nella mano destra una croce elevata verso il cielo e nella sinistra il libro aperto della santa Regola. Sull'altare è posto un calice dal quale esce una serpe per ricordare un episodio accaduto a Benedetto: il santo, con un segno di croce, avrebbe frantumato la coppa contenente il vino avvelenato datogli da monaci attentatori. Sullo stesso lato del libro aperto è raffigurato un corvo: quest'uccello sottrasse al santo un pane avvelenato prima che se ne nutrisse.

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Eugenio Caruso - 10 - 11 - 2021

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www.impresaoggi.com