Dante, Paradiso, Canto XXIII. Dante vede Maria.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXIII

Il Canto apre la terza e ultima parte della Cantica, occupata dalla descrizione dei tre più alti cieli del Paradiso (Stelle Fisse, Primo Mobile, Empireo) e della candida rosa dei beati, introducendo il lettore alla visione finale di Dio e il cui maggiore impegno poetico è stato annunciato da Dante nel finale del Canto precedente, con l'invocazione alla costellazione dei Gemelli e la richiesta dell'assistenza necessaria ad affrontare il passo forte corrispondente alla descrizione dell'ultimo tratto del viaggio.
L'episodio è infatti dedicato al trionfo di Cristo e di tutti i beati, fra cui spicca la figura di Maria che a Cristo è naturalmente legata dal rapporto madre-figlio, idealmente al centro di tutto il Canto: l'immagine iniziale è quella di Beatrice che attende con ansia l'arrivo dei beati, paragonata all'uccello-madre che aspetta il sorgere del sole per volare in cerca di cibo per i suoi piccoli (e già altre volte la donna è stata descritta in atteggiamenti materni), mentre alla fine i beati che si protendono verso Maria che ascende all'Empireo sono descritti come il fantolin che tende le braccia alla madre dopo che questa lo ha allattato; la stessa Vergine è presentata da Beatrice come la rosa in che 'l verbo divino / carne si fece, mentre l'arcangelo Gabriele si riferirà a Maria come il ventre / che fu albergo del nostro disiro, sottolineando il legame viscerale che la lega a Gesù e che fa di lei la più nobile fra le anime del Paradiso.
Queste similitudini hanno un carattere semplice e dimesso, in deciso contrasto con l'atmosfera solenne che attraversa l'episodio e che ruota ovviamente intorno all'alto trionfo di Cristo: tale trionfo è da intendersi in senso «classico», ovvero come la vittoria del Salvatore che ha strappato all'Inferno e alla dannazione i beati che ora gli fanno da corteo e che può esibire come un trofeo, sui quali diffonde la sua luce talmente intensa da offuscarne l'aspetto agli occhi mortali di Dante (in seguito Cristo dovrà sollevarsi per permettere al poeta di vedere il meraviglioso giardino rappresentato dalle anime); tuttavia Cristo è anche mostrato nella sua umanità, dapprima con lo sguardo di Dante che ne scorge per un istante la figura attraverso la luce e in seguito con la comparsa di Maria che di Gesù è stata madre e nel cui ventre si è appunto incarnato il Verbo, consentendo la salvezza di tutta l'umanità.
Il trionfo di Cristo è dunque seguito da quello della Vergine, incoronata dall'arcangelo Gabriele che la circonda come un alone luminoso e intona per lei un dolcissimo inno, così come più avanti i beati canteranno il Regina celi che adesso Dante può nuovamente ascoltare (allo stesso modo in cui può tornare a vedere il sorriso di Beatrice, dopo la visione della figura umana di Cristo e dopo il silenzio che aveva contraddistinto i due Canti precedenti). Nella descrizione di Maria e delle altre anime Dante ricorre alla metafora liturgica della rosa mystica, frequente nelle litanie per indicare appunto la Vergine, mentre al linguaggio mistico e scritturale appartengono gli altri termini con cui il poeta descrive lo spettacolo dei beati: l'VIII Cielo è definito il bel giardino / che sotto i raggi di Cristo s'infiora, mentre gli Apostoli sono i gigli il cui buon odore ha messo l'umanità sulla retta via; i beati sono paragonati poco oltre ai fiori di un prato illuminato dai raggi del sole che filtrano tra le nubi, mentre la Vergine è ancora detta il bel fior che Dante sempre invoca mattina e sera.
La descrizione di Maria è impreziosita da altri paragoni non meno delicati, quali viva stella, bel zaffiro, rendendo manifesto il culto mariano presente in Dante e che avrà il suo punto più alto nell'invocazione che aprirà il Canto XXXIII, mentre è da ricordare che proprio su sollecitazione della Vergine aveva avuto inizio il viaggio dantesco nell'Oltretomba, grazie al suo intervento su santa Lucia e Beatrice, scesa nel Limbo per invocare l'assistenza di Virgilio.
L'altro tema al centro del Canto è poi l'excessus mentis di Dante, il suo trasumanar in seguito alla visione di Cristo che gli consente di tornare a vedere il sorriso di Beatrice e ascoltare il canto dei beati: si tratta di un elemento tipico della letteratura mistica, qui descritto dal poeta con la similitudine (anch'essa tratta dall'ambito naturalistico) del fulmine che si dilata fino a erompere fuori dalla nube che lo contiene, per poi cadere a terra contrariamente alla sua natura. L'innalzamento di Dante a una condizione che va al di là dell'umano si accompagna con l'impossibilità di darne conto coi mezzi della parola poetica, che è l'altro elemento ricorrente nella descrizione del Paradiso e che diverrà via via più frequente negli ultimi Canti: già all'inizio Dante deve rinunciare a descrivere l'ardore nello sguardo di Beatrice, mentre in seguito alla visione della figura umana di Cristo che lo ha come abbagliato egli tenterà inutilmente di riportare alla mente l'immagine intravista, ormai cancellata dai suoi ricordi in quanto troppo elevata per le sua capacità mortali.
Lo stesso sorriso di Beatrice che il poeta torna ad ammirare dopo la «pausa» dei Canti XXI-XXII va al di là di ogni capacità poetica, tanto che descriverlo sarebbe impossibile persino con l'aiuto di tutti i poeti ispirati dalle Muse, per cui è inevitabile che il sacrato poema salti alcune parti che la parola umana non è in grado di rappresentare; è la poetica dell'inesprimibile che era già stata esposta nel proemio della Cantica e che viene qui ribadita, con l'aggiunta che il tema affrontato è ponderoso e tale da far tremare l'omero mortal che si sottopone ad esso, mentre con orgoglio Dante riafferma il carattere assolutamente innovativo della poesia del Paradiso con l'immagine dell'ardita prora che fende un mare mai percorso prima, metafora già usata in II, 1-18.
La stessa difficoltà si riscontra nella descrizione del canto con cui l'arcangelo Gabriele inneggia a Maria, rispetto al quale anche la più dolce melodia terrena sembrerebbe nube che squarciata tona (è la consueta similitudine per contrasto, espediente che sarà spesso usato negli ultimi Canti del Paradiso per raffigurare ciò che trascende del tutto la natura umana), mentre i beati del trionfo di Cristo sono paragonati, nel finale del Canto, a delle arche ricchissime, cioè a forzieri contenenti immense ricchezze che si contrappongono a quelle materiali lasciate sulla Terra, durante il loro esilio a Babilonia. Le anime sono definite buone bobolce, «contadine» che hanno coltivato il bene e che ora raccolgono i frutti del loro lavoro con la beatitudine, che si ricollega all'immagine iniziale con cui Beatrice le ha presentate come le schiere del trionfo di Cristo, frutto delle influenze celesti che esse hanno subìto in Terra e che hanno rivolto a bene operare (anche la metafora della vita terrena come esilio babilonese è ovviamente di derivazione biblica e assai frequente nella letteratura mistica).
L'episodio si chiude con l'apparizione di san Pietro, l'anima che primeggia fra tutti i beati presenti dopo Maria in quanto ha riportato la vittoria sui beni mondani, e in quanto colui cui Cristo ha affidato la costruzione della Chiesa attraverso la consegna simbolica delle chiavi: Pietro sarà il protagonista del Canto seguente in cui sottoporrà Dante al primo esame sul possesso della fede, mentre al centro del Canto XXVII sarà ancora la sua durissima invettiva contro i papi corrotti che preluderà all'ascesa di Dante e Beatrice al Primo Mobile, chiudendo l'ampia parentesi dedicata al Cielo delle Stelle Fisse.

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Rubens: Minerva e le Muse

Note
- I vv. 1-3 che descrivono l'uccello in attesa dell'alba su un ramo scoperto saranno ripresi da Poliziano (Stanze per la giostra, I, 60: La notte che le cose ci nasconde / tornava ombrata di stellato ammanto, / e l'usignuol sotto l'amate fronde / cantando ripetea l'antico pianto...).
- La plaga sotto la quale il Sole sembra più lento (vv. 11-12) è probabilmente la zona meridiana, cioè il mezzogiorno (il punto più alto della volta celeste); Beatrice guarda lì perché attende l'arrivo di Cristo e dei beati.
- Al v. 16 quando è sostantivo e significa «tempo», «momento».
- I vv. 20-21 con ogni probabilità indicano che i beati rappresentano il frutto delle influenze celesti, che essi hanno subìto in Terra e trasformato in buone opere; altri intendono che i beati ora si raccolgono nell'VIII Cielo dopo essere stati sparsi negli altri Cieli, oppure riferiscono frutto a Dante che raccoglie il risultato della sua ascesa in Paradiso.
- La similitudine dei vv. 25-27 allude a Trivia, la Luna identificata dagli antichi con Diana, che nelle notti di plenilunio sereno risplende tra le ninfe etterne, le stelle, come Cristo illumina col suo splendore i beati.
- Al v. 30 le viste superne sono le stelle, che al tempo di Dante si credeva erroneamente che fossero illuminate dal Sole (cfr. XX, 6).
- Al v. 32 la lucente sustanza  è la figura umana di Cristo, che Dante intravede attraverso la sua luce.
- Al v. 43 dape, «vivande», è latinismo e ha quest'unica occorrenza nel poema.
- L'immagine della mente di Dante che si dilata  fino a uscire da se stessa (vv. 40-45) è tipica degli scrittori mistici che descrivono l'excessus mentis, ovvero l'esperienza mistica del rapimento in estasi: cfr. ad es. Gregorio Magno (Dial., II, 35) che a proposito di san Benedetto dice non coelum et terra contracta est, sed videntis animus dilatatus, quia Deo raptus videre sine difficultate potuit («non furono la terra e il cielo a restringersi, ma fu l'animo di colui che vede a dilatarsi; rapito da Dio, poté vedere senza difficoltà»).
- La visione oblita del v. 50 è quella della figura umana di Cristo, che Dante tenta invano di ricordare.
- Il  libro che 'l preterito rassegna (v. 54) è quello della memoria.
- Al v. 56 Polimnia è la Musa della poesia lirica, il cui nome in greco vuol dire «dai molti inni»; al v. 57 pingue è plur. femminile, riferito a lingue. L'immagine dell'ispirazione poetica come latte che deve nutrire i poeti è già stata usata in Purg. XXII 101-102 (quel Greco / che le Muse lattar più ch'altri mai, riferito ad Omero).
- Al v. 67 pareggio  vale «lungo e difficile tratto di mare»; alcuni mss. leggono pileggio.
- Ai vv. 73-75 la rosa è Maria, mentre i gigli sono gli Apostoli.
- Al v. 79 mei, «trapassi», è latinismo (meare, già usato in XIII55).
- Il v. 93 vuol dire che la luce di Maria vince col suo splendore quella degli altri beati in Cielo, così come sulla Terra vinse con la sua virtù tutte le altre creature.
- Al v. 107 dia  vuol dire «divina», nel senso di «splendente» (cfr. ZIV, 34).
- La spera supprema (v. 108) è l'Empireo, dove Maria sale per seguire Cristo; invece il real manto (v. 112) è il Primo Mobile, che circonda tutti gli altri Cieli.
- Al v. 132 bobolce  è latinismo (da bubulcus, «bifolco») e indica le anime dei beati come lavoratrici abili a coltivare il bene sulla Terra; altri l'hanno interpretato come «terre da arare», ipotesi meno probabile ma che non cambia il senso generale.
- L'antico e... novo concilio (v. 138) sono le schiere dei beati del Vecchio e Nuovo Testamento. Il v. 139 allude ovviamente a san Pietro.


TESTO DEL CANTO XXIII

Come l’augello, intra l’amate fronde, 
posato al nido de’ suoi dolci nati 
la notte che le cose ci nasconde,                                    3

che, per veder li aspetti disiati 
e per trovar lo cibo onde li pasca, 
in che gravi labor li sono aggrati,                                     6

previene il tempo in su aperta frasca, 
e con ardente affetto il sole aspetta, 
fiso guardando pur che l’alba nasca;                             9

così la donna mia stava eretta 
e attenta, rivolta inver’ la plaga 
sotto la quale il sol mostra men fretta:                          12

sì che, veggendola io sospesa e vaga, 
fecimi qual è quei che disiando 
altro vorria, e sperando s’appaga.                                 15

Ma poco fu tra uno e altro quando, 
del mio attender, dico, e del vedere 
lo ciel venir più e più rischiarando;                                18

e Beatrice disse: «Ecco le schiere 
del triunfo di Cristo e tutto ‘l frutto 
ricolto del girar di queste spere!».                                  21

Pariemi che ‘l suo viso ardesse tutto, 
e li occhi avea di letizia sì pieni, 
che passarmen convien sanza costrutto.                     24

Quale ne’ plenilunii sereni 
Trivia ride tra le ninfe etterne 
che dipingon lo ciel per tutti i seni,                                 27

vid’i’ sopra migliaia di lucerne 
un sol che tutte quante l’accendea, 
come fa ‘l nostro le viste superne;                                 30

e per la viva luce trasparea 
la lucente sustanza tanto chiara 
nel viso mio, che non la sostenea.                                33

Oh Beatrice, dolce guida e cara! 
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza 
è virtù da cui nulla si ripara.                                             36

Quivi è la sapienza e la possanza 
ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terra, 
onde fu già sì lunga disianza».                                       39

Come foco di nube si diserra 
per dilatarsi sì che non vi cape, 
e fuor di sua natura in giù s’atterra,                               42

la mente mia così, tra quelle dape 
fatta più grande, di sé stessa uscìo, 
e che si fesse rimembrar non sape.                             45

«Apri li occhi e riguarda qual son io; 
tu hai vedute cose, che possente 
se’ fatto a sostener lo riso mio».                                    48

Io era come quei che si risente 
di visione oblita e che s’ingegna 
indarno di ridurlasi a la mente,                                       51

quand’io udi’ questa proferta, degna 
di tanto grato, che mai non si stingue 
del libro che ‘l preterito rassegna.                                  54

Se mo sonasser tutte quelle lingue 
che Polimnia con le suore fero 
del latte lor dolcissimo più pingue,                                57

per aiutarmi, al millesmo del vero 
non si verria, cantando il santo riso 
e quanto il santo aspetto facea mero;                           60

e così, figurando il paradiso, 
convien saltar lo sacrato poema, 
come chi trova suo cammin riciso.                                63

Ma chi pensasse il ponderoso tema 
e l’omero mortal che se ne carca, 
nol biasmerebbe se sott’esso trema:                           66

non è pareggio da picciola barca 
quel che fendendo va l’ardita prora, 
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.                     69

«Perché la faccia mia sì t’innamora, 
che tu non ti rivolgi al bel giardino 
che sotto i raggi di Cristo s’infiora?                               72

Quivi è la rosa in che ‘l verbo divino 
carne si fece; quivi son li gigli 
al cui odor si prese il buon cammino».                         75

Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli 
tutto era pronto, ancora mi rendei 
a la battaglia de’ debili cigli.                                            78

Come a raggio di sol che puro mei 
per fratta nube, già prato di fiori 
vider, coverti d’ombra, li occhi miei;                               81

vid’io così più turbe di splendori, 
folgorate di sù da raggi ardenti, 
sanza veder principio di folgóri.                                      84

O benigna vertù che sì li ‘mprenti, 
sù t’essaltasti, per largirmi loco 
a li occhi lì che non t’eran possenti.                               87

Il nome del bel fior ch’io sempre invoco 
e mane e sera, tutto mi ristrinse 
l’animo ad avvisar lo maggior foco;                               90

e come ambo le luci mi dipinse 
il quale e il quanto de la viva stella 
che là sù vince come qua giù vinse,                              93

per entro il cielo scese una facella, 
formata in cerchio a guisa di corona, 
e cinsela e girossi intorno ad ella.                                 96

Qualunque melodia più dolce suona 
qua giù e più a sé l’anima tira, 
parrebbe nube che squarciata tona,                              99

comparata al sonar di quella lira 
onde si coronava il bel zaffiro 
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.                            102

«Io sono amore angelico, che giro 
l’alta letizia che spira del ventre 
che fu albergo del nostro disiro;                                    105

e girerommi, donna del ciel, mentre 
che seguirai tuo figlio, e farai dia 
più la spera suprema perché lì entre».                        108

Così la circulata melodia 
si sigillava, e tutti li altri lumi 
facean sonare il nome di Maria.                                     111

Lo real manto di tutti i volumi 
del mondo, che più ferve e più s’avviva 
ne l’alito di Dio e nei costumi,                                        114

avea sopra di noi l’interna riva 
tanto distante, che la sua parvenza, 
là dov’io era, ancor non appariva:                                  117

però non ebber li occhi miei potenza 
di seguitar la coronata fiamma 
che si levò appresso sua semenza.                            120

E come fantolin che ‘nver’ la mamma 
tende le braccia, poi che ‘l latte prese, 
per l’animo che ‘nfin di fuor s’infiamma;                     123

ciascun di quei candori in sù si stese 
con la sua cima, sì che l’alto affetto 
ch’elli avieno a Maria mi fu palese.                               126

Indi rimaser lì nel mio cospetto, 
Regina celi’ cantando sì dolce, 
che mai da me non si partì ‘l diletto.                             129

Oh quanta è l’ubertà che si soffolce 
in quelle arche ricchissime che fuoro 
a seminar qua giù buone bobolce!                              132

Quivi si vive e gode del tesoro 
che s’acquistò piangendo ne lo essilio 
di Babillòn, ove si lasciò l’oro.                                       135

Quivi triunfa, sotto l’alto Filio 
di Dio e di Maria, di sua vittoria, 
e con l’antico e col novo concilio, 

colui che tien le chiavi di tal gloria.                               139

apostoli
Cimabue: gli apostoli

PARAFRASI CANTO XXIII

Come l'uccello che, dopo aver riposato nel nido coi suoi piccoli, durante la notte che ci cela le cose sta fra le foglie amate e, per vedere l'aspetto dei piccoli e trovare il cibo con cui sfamarli (cosa per cui non esita ad affrontare gravi fatiche), attende il sorgere del sole su un ramo scoperto con fervida attesa, guardando fisso il cielo finché spunta l'alba;

così la mia donna (Beatrice) stava dritta e attenta, rivolta verso la parte del Cielo (quella meridiana) sotto cui il Sole sembra muoversi più lentamente:

a tal punto che, vedendola io così piena di attesa, divenni come colui che desidera qualcosa ma, nell'attesa, si accontenta solamente di sperare.

Ma trascorse poco tempo fra i due momenti, intendo dire dell'attesa e del vedere il Cielo che si rischiarava sempre di più;

e Beatrice disse: «Ecco le schiere dei beati del trionfo di Cristo, e tutto il frutto prodotto dalle influenze di queste sfere celesti!»

Mi sembrava che il suo viso fosse ardente di carità, e aveva gli occhi così pieni di gioia che sono costretto a passare oltre senza poterli descrivere.

Come nelle notti di plenilunio sereno la Luna splende fra le stelle, che illuminano il cielo in tutte le sue zone, così io vidi un sole (Cristo) che illuminava migliaia di altre luci, come fa il nostro Sole con le stelle;

e attraverso quella vivida luce traspariva la sostanza lucente (la figura umana di Cristo), così splendente alla mia vista che io non potevo sostenerne lo sguardo.

Oh, Beatrice, dolce e cara guida! Lei mi disse: «Colui che ti sovrasta è una virtù superiore a qualunque altra.

Qui è la sapienza e la potenza (Cristo) che aprì le strade fra Cielo e Terra (con la Resurrezione), cosa che fu lungamente desiderata».

Come un fulmine erompe dalla nube perché si dilata, al punto che la nube non lo può contenere, e cade a terra contro la sua natura, così la mia mente, divenuta più grande fra quelle vivande (le bellezze celesti), uscì da se stessa e non è in grado ora di ricordare cosa fece in quel momento.

«Apri gli occhi e guarda il mio aspetto; tu hai osservato cose tanto grandi (l'immagine di Cristo) che ti hanno reso abbastanza forte da sostenere la vista del mio sorriso».

Io ero come colui che si scuote dopo una visione che ha dimenticato e che tenta invano di riportarla alla mente, quando io ascoltai questa proposta, degna di tanta gratitudine che non potrà mai essere cancellata dal libro della mia memoria.

Se ora per aiutarmi risuonassero tutte quelle voci che Polimnia e le sue sorelle (le Muse) resero più ricche con la loro ispirazione, non potrei esprimere che un millesimo della verità, descrivendo il santo sorriso e quanto esso facesse risplendere il santo aspetto di Beatrice;

e così, raffigurando il Paradiso, è inevitabile che il poema sacro salti delle cose, come chi trova il suo cammino interrotto.

Ma chi considerasse il tema gravoso (la poesia del Paradiso) e le spalle mortali che se ne fanno carico, non le biasimerebbe se tremano sotto di esso:

il tratto di mare che l'ardita prua (della mia nave poetica) sta percorrendo non è adatto a una piccola imbarcazione, né a un timoniere che risparmi le sue forze.

«Perché il mio viso ti innamora al punto che tu non rivolgi lo sguardo al bel giardino (la schiera dei beati) che fiorisce sotto i raggi di Cristo?

Qui c'è la rosa (Maria) in cui il Verbo Divino si incarnò; qui ci sono i gigli (gli Apostoli) grazie al cui profumo (la predicazione) l'umanità intraprese il retto cammino».

Così disse Beatrice; e io, che ero pronto a eseguire i suoi comandi, affrontai di nuovo la battaglia della mia debole vista.

Come i miei occhi, protetti dall'ombra, hanno già visto un prato fiorito illuminato dai raggi del sole che filtravano attraverso le nubi, così io vidi più schiere di luci (di beati), illuminate dall'alto dai raggi ardenti di Cristo, senza vedere l'origine del chiarore.

O benevola virtù di Cristo che così imprimi la tua luce su quelle anime, ti elevasti in alto per consentire ai miei occhi di vedere, lì dove non ne avevano la forza.

Il nome del bel fiore (Maria) che io invoco sempre mattino e sera spinse il mio animo ad osservare la luce più intensa (quella della Vergine);

e non appena apparve a entrambi i miei occhi la quantità e la qualità di quella stella luminosa, che lassù vince (le altre luci) come quaggiù vinse (le altre creature in virtù), dall'alto scese una fiammella a forma di cerchio (l'arcangelo Gabriele), simile a una corona, che cinse Maria e iniziò a girarle attorno.

Qualunque melodia terrena che suoni più dolcemente e che attiri a sé l'animo umano, sembrerebbe una nube squarciata da un tuono al confronto del suono di quella cetra (il canto di Gabriele) di cui era circondato il meraviglioso zaffiro (Maria) di cui il Cielo più luminoso (l'Empireo) si ingemma.

«Io sono l'amore di un angelo, che giro attorno all'alta gioia che spira dal ventre che ospitò il nostro alto desiderio (Cristo);

e continuerò a girare, regina del Cielo, finché seguirai tuo Figlio e renderai più splendente la sfera suprema (l'Empireo) per entrarvi dentro».

Così si concludeva il canto dell'angelo che girava in tondo, e tutte le luci degli altri beati facevano risuonare il nome di Maria.

L'involucro regale di tutte le sostanze del mondo (il Primo Mobile), che più arde d'amore e più prende impulso dallo spirito e dalle leggi divine, aveva sopra di noi la superficie interna così lontana che il suo aspetto ancora non appariva là dove mi trovavo:

perciò i miei occhi non ebbero modo di seguire la fiamma incoronata (Maria con intorno l'arcangelo Gabriele), che si sollevò dietro suo Figlio (Cristo).

E come un bambino tende le braccia verso la mamma, dopo essere stato allattato, per il suo affetto che si manifesta anche nei gesti esteriori, così ognuno di quei beati si protese verso l'alto con la sua cima, così che mi fu chiaro l'alto affetto che essi avevano per Maria.

Poi restarono lì al mio cospetto, cantando 'Regina celi'  con tanta dolcezza che tale piacere non mi lasciò mai.

Oh, quanto è grande la ricchezza che è contenuta in quelle arche (forzieri) ricchissime (le anime dei beati), che furono in Terra buone contadine a seminare il bene!

Qui (in Cielo) si vive e si gode del tesoro che si acquistò piangendo nell'esilio babilonese (sulla Terra), dove si lasciarono le ricchezze materiali.

Qui, sotto l'alto Figlio di Dio e di Maria, celebra il trionfo della propria vittoria sul male, insieme alle anime del Vecchio e del Nuovo Testamento, colui (san Pietro) che tiene le chiavi di questa gloria.

gabriele
Leonardo: l'arcangelo Gabriele.

LE MUSE

Dante nell'arco di tutta la Commedia si rivolge spesso alle muse per riceverne l'appoggio artistico. Le Muse sono divinità della religione greca. Erano le figlie di Zeus e di Mnemosine (la "Memoria") e la loro guida era Apollo. L'importanza delle muse nella religione greca era elevata: esse rappresentavano l'ideale supremo dell'Arte, intesa come verità del "Tutto" ovvero l'«eterna magnificenza del divino».
In questo modo Walter Friedrich Otto ne traccia le caratteristiche:
«Le Muse hanno un posto altissimo, anzi unico, nella gerarchia divina. Son dette figlie di Zeus, nate da Mnemosyne, la Dea della memoria; ma ciò non è tutto, ché ad esse, e ad esse soltanto, è riservato portare, come il padre stesso degli Dei, l'appellativo di olimpiche, appellativo col quale si solevano onorare sì gli Dei in genere, ma - almeno originariamente - nessun Dio in particolare, fatta appunto eccezione per Zeus e le Muse» (Walter Friedrich Otto. Theophania. Genova, Il Melangolo, 1996, pag.48)
Erano dette anche "Eliconie", poiché la loro sede era il monte Elicona, e dato che questo monte si trova in Beozia, regione abitata dagli Aoni (Aonia), venivano anche chiamate "Aonie". A volte erano definite anche Aganippidi a causa dal nome associato alla fonte Ippocrene, che si trova ad oggi in prossimità del monte Elicona, o "Pimplee", da una fonte a esse dedicata sul monte Pimpla, situato in Tessaglia. In Teocrito sono definite "Pieridi", poiché una tradizione collocava la loro nascita nella Pieria, in Macedonia.
L'etimologia del nome trova discordanze negli studiosi, alcuni dei quali preferiscono non pronunciarsi. Se Crisippo fu uno dei primi a proporre un'origine lessicale del nome, la teoria più diffusa propende per la seguente interpretazione: «ninfe dei monti».
Il tratto tipico delle Muse è quello di divinità del canto e delle danze gioconde, e in tale vesti sono spesso rappresentate in poesia mentre mettono in musica e versi storie quali l'origine del mondo, la nascita degli dei e degli uomini, le imprese di Zeus. Nelle rappresentazioni più antiche, legate alla pittura vascolare, appaiono come accompagnate dai vari strumenti.
Solo in secondo momento, oltre alla gioia della danza, del canto e della musica, vennero loro associate tutte le espressioni canore e musicali, comprese quelle tristi e funebri. A partire dall'epoca ellenistica si assiste dunque alla specializzazione di ciascuna musa nei vari generi, in modo che potessero essere invocate singolarmente per esercitare la loro ispirazione e protezione. Nel tempo le attribuzioni non furono mai fisse: a capriccio dei vari poeti si allargarono, includendo, oltre alla poesia, i campi della prosa e delle scienze: Clio dalla poesia epica divenne protettrice della Storia, Urania all'epica astronomica (legata cioè alla descrizione delle origini delle costellazioni) divenne sacra per l'Astronomia, e Talia all'agricoltura. Le Muse si avviarono così a proteggere ogni campo della sapienza umana e, in epoca più tarda, vegliavano sull'educazione fisica e spirituale degli esseri umani assieme ad alcuni dei, in particolare Ermete, Eracle e Atena.
Nell'Inno a Zeus di Pindaro, andato perduto ma ricostruibile per mezzo di una preghiera alle stesse redatta da Elio Aristide, si racconta che in occasione del suo matrimonio Zeus domandò agli altri dèi di esprimere un loro desiderio non ancora esaudito. Questi gli risposero chiedendo di generare delle divinità «capaci di celebrare, attraverso la parola e la musica, le sue grandi imprese e tutto ciò che egli aveva stabilito.»
Secondo Pausania, Zeus generò in Mnemosine tre muse giacendo con lei per nove notti: Melete (la pratica), Mneme (il ricordo) e Aede (il canto), indicate con il nome di Mneiai. Altri autori affermavano che fossero figlie di Urano e Gea, altri ancora vedevano Armonia, figlia di Afrodite quale loro progenitrice e Atene quale loro luogo natio.. Eumelo di Corinto cita altre tre muse, Cefiso, Apollonide e Boristenide, affermando che il loro padre fosse il divino Apollo. Mimnermo fa riferimento a due generazioni di muse, figlie rispettivamente di Urano e Zeus.
Le tradizioni sono discordi anche riguardo al numero delle Muse. Tre muse venivano venerate anche a Sikyon e Delfi, con i nomi di Mese, Nete e Ìpate. Cicerone narra di quattro muse: (Telsinoe, Melete, Aede, Arche), sette (le sette muse erano venerate a Lesbo), otto secondo Cratete di Mallo o infine nove. Il numero di nove finì per prevalere in quanto citato da Omero ed Esiodo. Quest'ultimo le enumera nella sua Teogonia, ma senza specificare di quale arte siano le protettrici:
«le nove figlie dal grande Zeus generate,
Clio e Euterpe e Talia e Melpomene,
Tersicore e Erato e Polimnia e Urania,
e Calliope, che è la più illustre di tutte.»

(Esiodo, Teogonia, incipit, 76-79)
Loro sono "Spesso" collegate al personaggio mitologico di Pierio, eponimo della Pieria. Pierio e la ninfa Antiope sono presentati come genitori alternativamente delle sette muse o di nove fanciulle che, sconfitte dalle Muse in una gara, vennero trasformate in uccelli. Da Pierio prende il nome la Pieria, regione macedone ai piedi del monte Olimpo in cui Esiodo colloca l'unione tra Zeus e Mnemosyne. Alcuni poeti (di cui possediamo le fonti) collocano nella Pieria anche la dimora delle Muse, mentre Esiodo le pone sul monte Elicona, in Beozia, dove erano particolarmente venerate. Secondo Wilamowitz si tratta di due tradizioni distinte. In quanto Mnemosine era una delle Titanidi le muse sono divinità olimpiche.
Apollo era il loro protettore, quindi venivano invitate alle feste degli dèi e degli eroi perché allietassero i convitati con canti e danze, spesso cantando insieme. Spesso omaggiavano Zeus, loro padre, cantandone le imprese. Le Muse erano considerate anche le depositarie della memoria (Mnemosine era la dea della memoria e secondo altre fonti anche quella del canto e della danza) e del sapere in quanto figlie di Zeus. Il loro culto fu assai diffuso fra i Pitagorici.
Nel canto, inteso come racconto storico musicato, le Muse erano superiori a qualsiasi umano poiché conoscevano alla perfezione non solo il passato e il presente, ma anche il futuro. Il loro canto più antico fu quello rivolto alla vittoria degli dei contro la rivolta dei titani. Allietavano ogni festa con il loro canto, si ricordano di loro nel caso delle nozze di Cadmo e Armonia e Teti e Peleo. e si lamentarono per la perdita del prode Achille per diciassette giorni e diciassette notti.
La loro magnificenza incantò Pireneo, che, dopo aver conquistato la Daulide e parte della Focide, morì al loro inseguimento. Fu Apollo a convincerle ad abbandonare la loro antica dimora, il monte Elicona portandole a Delfi, da tale affinità l'epiteto del dio Musagete. Altre divinità a loro collegate erano Ermes e Dioniso.
Le muse sono "preposte all'Arte in ogni campo" e chiunque osasse sfidarle veniva punito in maniera severa: le sirene furono private delle proprie ali, utilizzate poi dalle stesse Muse per farsene delle corone. Le Pieridi, nove come le muse, le sfidarono al canto, chiedendo in caso di vittoria le fonti sacre alle avversarie dopo la prova delle Pieridi fu Calliope a partecipare per le muse e dopo un lungo canto vinse e le donne vennero tramutate in gazze.
Il cantore Tamiri proveniente da Ecalia, si vantava della sua abilità nel canto e le sfidò a Dorio ponendo la condizione che in caso di sua vittoria avrebbe fatto l'amore con tutte loro, mentre se avesse perso loro avrebbero potuto disporre del suo corpo come meglio credevano. La gara si concluse con la sconfitta di Tamiri, che fu privato della vista, della memoria e dell'abilità del canto. Di differente avviso Euripide che narra di gravi ingiurie alle Muse fatte da Tamiri e per questo punito con la cecità. Le muse erano coloro che avevano insegnato alla sfinge, il mostro generato da Echidna avuto da Tifone, il famoso indovinello che proponeva ai Tebani che passavano per il monte Fichio.
Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, venne accudito dalle muse che gli offrirono in sposa Autonoe, da cui ebbe due figli, Atteone e Macride. Le muse furono benevole con lui, gli insegnarono i principi delle arti mediche, della guarigione e la capacità di fare profezie, in cambio Aristeo badava alle loro greggi che faceva pascolare nella pianura atamanzia di Ftia. Egli si innamorò di Euridice, poi sposa di Orfeo, che era figlio di una delle Muse. Quando il prode Orfeo, figlio di Calliope e del sovrano tracio Eagro, venne fatto a pezzi e gettato in mare, furono le Muse a raccogliere le membra sparse: esse decisero di seppellirlo a Libetra, luogo vicino alle pendici del monte Olimpo. Era figlio di una delle Muse anche Reso, il giovane e bellissimo re di Tracia che andò in difesa di Troia assediata dagli Achei: le fonti non concordano su quale delle nove fosse la madre. Le Muse appaiono in occasione della sfida fatta ad Apollo lanciata dal satiro Marsia che possedeva un flauto magico trovato per caso, con cui poteva suonare melodie al pari dell'abilità della lira della divinità. Sicuro della vittoria volle sfidare il dio e si decise che fossero le Muse i loro giudici. Dopo aver assistito a entrambe le esibizioni le Muse non seppero assegnare la vittoria a nessuno dei contendenti, allora Apollo, per continuare la gara, decise di girare lo strumento, per poi suonarlo mentre si esibiva anche al canto; tale impresa era impossibile a chi deteneva come strumento il flauto e quindi le muse decisero che la vittoria fosse del Dio.
La venerazione per le muse era originaria della Tracia e della Pieria, successivamente si diffuse in Beozia, dove si trova il monte Elicona, luogo a loro consacrato, assieme al Monte Olimpo. Sulle pendici orientali di quest'ultimo, in Pieria appunto, si indicavano presso la città di Dio le località di Libetra e Pimplea come patria delle Muse (e parimenti di Orfeo, che assieme a Dioniso ebbe sempre uno speciale legame con le Muse), luoghi che avevano ricevuto il loro nome tradizionalmente proprio da fonti sorgive. In queste zone i sovrani macedoni, con speciale solennità da Alessandro Magno in poi, celebravano in onore di Zeus e delle Muse le feste Olimpie, che duravano nove giorni.
Molti erano i luoghi sacri alle Muse: la sorgente di Aganippe e la fonte di Ippocrene, creata per loro dal cavallo Pegaso battendo gli zoccoli a terra (da cui il nome), entrambe nel bosco sacro dell'Elicona. Altri luoghi erano il monte Parnaso, la fonte Castalia posta a Delfi e lo stesso Olimpo. Luoghi in cui si espanse il loro culto erano Ascra (Beozia), Sicione e Lesbo, in seguito il loro culto si diffuse in tutto il mondo greco, giunse anche nell'Antica Roma. Benché non fossero oggetto di vera e propria devozione, erano comunque considerate come protettrici delle arti; qui vennero considerate parallelamente alle Camene. I sacrifici a loro dedicati prevedevano l'uso di acqua, latte e miele. Si racconta che i primi a onorare le muse dell'Elicona fossero i gemelli Efialte e Oto. A Trezene venne fondato un santuario da Ardalo, figlio di Efesto, qui svolse la sua attività Pitteo. Il culto delle Muse nell'Elicona fiorì specialmente in epoca ellenistica e romana, con la costruzione di monumenti di vario genere in onore di vari gruppi di Muse, che presero il nome di "musei" e che col tempo si diffusero in tutto il mondo greco-romano. Si conoscono diversi luoghi dove sorgevano altari a loro dedicati come l'Ilisso e fuori all'Accademia. Spesso le Muse erano venerate in combinazione col dio Dioniso, oltre che con Apollo. Il legame col dio del vino appare per la prima volta nel mito di Orcomeno, dove il dio ferito trova rifugio e protezione presso le fonti delle Muse. Esse inoltre, attraverso gli spettacoli e la contemplazione delle bellezze della natura, donavano entusiasmo, proprio come quello al centro dei culti mistici dionisiaci. Per questo compaiono talvalta invocazioni a un Dioniso "Musagete". Tale epiteto, solo successivamente, lo si trova associato anche ad Apollo, quale dio che guida il coro delle Muse e che canta, suona e danza con loro per allietare i banchetti degli dei dell'Olimpo.

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Eugenio Caruso - 13 - 11 - 2021

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