Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
IL GIUDIZIO DI PARIDE DI PETER PAUL RUBENS. ( Da questo episodio nasce tutta la storia narrata da Omero)
L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta già nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”. Le varie edizioni non erano probabilmente molto discordanti tra di loro.
Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine.
L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini.
Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò.
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi.
Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.
Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C.
L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.
Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti.
L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto.
L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future.
Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane.
Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari. Nel racconto Omero da buon greco parteggia palesemente per i greci; basti notare che quando il grande eroe troiano Ettore entra in battaglia, spesso, o scappa o è aiutato da Apollo.
Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti. . Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlava di un uomo cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende riguardanti Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le tematiche che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
In realtà non sono proprio grandi eroi; le loro vicende sono spesso stimolate, incoraggiate o scoraggiate dall'intervento degli dei dell'Olimpo. Questi si presentano spesso sotto false sembianze, infondono forza e coraggio entrando nei corpi del proprio campione, atterriscono l'avversario con immagini spaventose, deviano le lance o le saette che colpisconi il proprio protetto.
Devo infine ricordare che l'Iliade è un vorticoso turbinio di miti che illudono, affascinano e appassionano (in alcuni casi ci rendono emotivamente partecipi alle vocende), ma la storia e la filologia ci insegnano che in molti miti può quasi sempre esservi un'ombra di verità; si pernsi a esempio ai miti di Medea, Edipo, Ulisse .... .
Patroclo e Briseide. Affresco pompeiano
RIASSUNTO XXI LIBRO
Achille incalzando i Troiani, parte ne spinge nella città e parte nello Scamandro. Fa prigioni dodici giovani per sagrificarli all'ombra di Patroclo. Morte di Licaone e di Asteropeo. Lotta dell’eroe collo Scamandro. Nel punto di esser sopraffatto dal fiume è salvato per opera di Giunone, la quale fa disseccare da Vulcano col fuoco le correnti dell'acqua. Pugna degli Dei fra loro. Agenore assale Achille ed è salvato da Apollo. Il Nume, presa la figura di Agenore, delude l’eroe, che tenendogli dietro si disvia dal combattimento. Frattanto i Troiani si salvano nella città.
Paolo Farinati, Minerva che uccide il vizio, 1590 circa
TESTO LIBRO XXI
Ma divenuti i Teucri alle bell’onde
Del vorticoso Xanto, ameno fiume
Generato da Giove, ivi il Pelíde
Intercise i fuggenti; e parte al muro
Per lo piano ne incalza ove testeso 5
Davan le spalle al furibondo Ettorre
Scompigliati gli Achei (per l’orme istesse
Or dispersi si versano i Troiani,
E a tardarne il fuggir densa una nebbia
Giuno intorno spandea), parte negli alti 10
Gorghi si getta dell’argenteo fiume
Con tumulto. La rotta onda rimbomba,
Ne gemono le ripe, e quei mettendo
Cupi ululati, nuotano dispersi
Qual cacciate dall’impeto del fuoco 15
Alzan repente le locuste il volo
Sul margo del ruscello: arde veloce
L’inopinata fiamma, e quelle in fretta
Spaventate si gettano nel rio: 20
Tal dinanzi al Pelíde la sonante
Corsía di Xanto rïempíasi tutta
Di guerrieri e cavalli alla rinfusa.
Su la sponda del fiume allor poggiata
Alle miríci la pelíaca antenna, 25
Strinse l’eroe la spada, e dentro il flutto
Come demón lanciossi, rivolgendo
Opre orrende nel cor. Menava a cerchio
Il terribile acciar; s’udía lugúbre
Dei trafitti il lamento, e tinta in rosso 30
L’onda correa. Qual fugge innanzi al vasto
Delfin la torma del minuto pesce,
Che di tranquillo porto si ripara
Nei recessi atterrito, ed ei n’ingoia
Quanti ne giunge: paurosi i Teucri 35
Così ne’ greti s’ascondean del fiume.
Poichè stanca d’ucciderli il Pelíde
Sentì la destra, dodici ne prese
Vivi e di scelta gioventù, che il fio
Dovean pagargli dell’estinto amico. 40
Stupidi per terror come cervetti
Fuor degli antri ei li tira, e co’ politi
Cuoi di che strette avean le gonne, a tutti
Dietro annoda le mani, e a’ suoi compagni
Onde trarli alle navi li commette. 45
Vago ei poscia di stragi in mezzo all’acque
Diessi di nuovo impetuoso, e il figlio
Del dardánide Príamo Licaone
Gli occorse in quella che fuggía dal fiume.
Ne’ paterni poderi un’altra volta, 50
Venutovi notturno, egli l’avea
Sorpreso e seco a viva forza addutto
Mentre inaccorto con tagliente accetta
I nuovi rami recidendo stava
Di selvatico fico, onde foggiarne 55
Di bel carro il contorno: all’improvvista
Gli fu sopra in quell’opra il divo Achille,
Che trattolo alle navi in Lenno il cesse
Per prezzo al figlio di Giasone Eunéo.
Ospite poi d’Eunéo con molti doni 60
Ne fe’ riscatto l’imbrio Eezióne,
Che in Arisba il mandò. Di là fuggito
Nascostamente, alle paterne case
Avea fatto ritorno, e già la luce
Undecima splendea, che con gli amici 65
Si ricreava di servaggio uscito;
Quando di nuovo il dodicesmo giorno
Un Dio nemico tra le mani il pose
Del terribile Achille, onde invïarlo
Suo malgrado alle porte atre di Pluto. 70
Riguardollo il Pelíde; e siccom’era
Nudo la fronte (chè celata e scudo
E lancia e tutto avea gittato oppresso
Dalla fatica nel fuggir dal fiume,
E vacillava di stanchezza il piede), 75
Lo riconobbe, e irato in suo cor disse:
Quale agli occhi mi vien strano portento?
Che sì che i Teucri dal mio ferro ancisi
Tornan dall’ombre di Cocito al giorno!
Come vivo costui? come, venduto 80
Già tempo in Lenno, del frapposto mare
Potè l’onda passar che a tutti è freno?
Or ben, dell’asta mia gusti la punta.
Vedrem s’ei torna di là pure, ovvero
Se l’alma terra che ritien costretti 85
Anche i più forti, riterrà costui.
Queste cose ei discorre in suo segreto
Senza far passo. Sbigottito intanto
Licaon s’avvicina desïoso
D’abbracciargli i ginocchi, e al nero artiglio 90
Della Parca involarsi. Alza il Pelíde
La lunga lancia per ferir; ma quello
Gli si fa sotto a tutto corso, e chino
Atterrasi al suo piè. Divincolando
L’asta sul capo gli trapassa, e in terra 95
Sitibonda di sangue si conficca.
Supplichevole allor coll’una mano
Le ginocchia gli stringe il meschinello,
Coll’altra gli rattien l’asta confitta,
Nè l’abbandona, e tuttavia pregando, 100
""Deh ferma, ei grida: umilemente io tocco
Le tue ginocchia, Achille: ah mi rispetta;
Miserere di me: pensa che sacro
Tuo supplice son io, pensa, o divino
Germe di Giove, che nudrito fui 105
Del tuo pane quel dì che nel paterno
Poder tua preda mi facesti, e tratto
Lungi dal padre e dagli amici in Lenno,
Di cento buoi ti valsi il prezzo, ed ora
Tre volte tanti io ti varrò redento. 110
È questa a me la dodicesma aurora
Che dopo molti affanni in Ilio giunsi,
Ed ecco che crudel fato mi mette
In tuo poter: ciò chiaro assai mi mostra
Che in odio a Giove io sono.
Ahi! che a ben corta 115
Vita la madre a partorir mi venne,
La madre Laotóe d’Alte figliuola,
Di quell’Alte che vecchio ai bellicosi
Lelegi impera, e tien suo seggio al fiume
Satnïoente nell’eccelsa Pédaso. 120
Di questo ebbe la figlia il re troiano
Fra le molte sue spose, e due nascemmo
Di lei, serbati a insanguinarti il ferro.
E l’un tra i fanti della prima fronte
Già domasti coll’asta, il generoso 125
Mio fratel Polidoro, ed or me pure
Ria sorte attende; chè non io già spero,
Poichè nemico mi vi spinse un Dio,
Le tue mani sfuggir. E nondimeno
Nuovo un prego ti porgo, e tu del core 130
La via gli schiudi. Non volermi, Achille,
Trucidar: d’uno stesso alvo io non nacqui
Con Ettor che t’ha morto il caro amico."".
Così pregava umíl di Prìamo il figlio;
Ma dispietata la risposta intese. 135
""Non parlar, stolto, di riscatto, e taci.
Pria che Patróclo il dì fatal compiesse,
Erami dolce il perdonar de’ Teucri
Alla vita, e di vivi assai ne presi,
Ed assai ne vendetti: ora di quanti 140
Fia che ne mandi alle mie mani Iddio,
Nessun da morte scamperà, nessuno
De’ Teucri, e meno del tuo padre i figli.
Muori dunque tu pur. Perchè sì piangi?
Morì Patróclo che miglior ben era. 145
E me bello qual vedi e valoroso
E di gran padre nato e di una Diva,
Me pur la morte a ogni istante aspetta,
E di lancia o di strale un qualcheduno
Anche ad Achille rapirà la vita. "". 150
Sentì mancarsi le ginocchia e il core
A quel dir l’infelice, e abbandonata
L’asta, accosciossi coll’aperte braccia.
Strinse Achille la spada, e alla giuntura
Lo percosse del collo. Addentro tutto 155
Gli si nascose l’affilato acciaro,
E boccon egli cadde in sul terreno
Steso in lago di sangue. Allor d’un piede
Presolo Achille, lo gittò nell’onda,
E con acerbo insulto, ""Or qui ti giaci, 160
Disse, tra’ pesci che di tua ferita
Il negro sangue lambiran securi.
Nè te la madre sul funereo letto
Piangerà, ma del mar nell’ampio seno
Ti trarrà lo Scamandro impetuoso, 165
E là qualcuno del guizzante armento
Ti salterà dintorno, e sotto l’atre
Crespe dell’onda l’adipose polpe
Di Licaon si roderà. Possiate
Così tutti perir finchè del sacro 170
Ilio sia nostra la città, voi sempre
Fuggendo, e io sempre colle stragi al tergo.
Nè gioveranvi i vortici di questo
Argenteo fiume a cui di molti tori
Fate sovente sacrificio, e vivi 175
Gettar solete i corridor nell’onda.
Nè per questo sarà che non vi tocchi
Di rio fato perir, finchè la morte
Di Patroclo sia sconta e in un la strage
Che, me lontano, degli Achei faceste."". 180
Dagl’imi gorghi udì Xanto d’Achille
Le superbe parole, e d’alto sdegno
Fremendo, divisava in suo pensiero
Come alla furia dell’eroe por modo,
E de’ Teucri impedir l’ultimo danno. 185
Intanto il figlio di Peléo brandita
A nuove stragi la gran lancia, assalse
Asteropéo, figliuol di Pelegone,
Di Pelegon cui l’Assio ampio-corrente
Generò Dio commisto a Peribéa, 190
D’Acessameno la maggior fanciulla.
A costui si fe’ sopra il grande Achille,
E quei del fiume uscendo ad incontrarlo
Con due lance ne venne. Animo e forza
Gli avea messo nel cor lo Xanto irato 195
Pe’ tanti in mezzo alle sue limpid’onde
Giovani prodi dal Pelíde uccisi
Spietatamente. Avvicinati entrambi,
Disse Achille primiero: ""Chi se’ tu
Ch’osi farmiti incontro, e di che gente? 200
Chi m’attenta è figliuol d’un infelice."".
E a lui di Pelegon l’inclita prole:
""Magnanimo Pelíde, a che mi chiedi
Del mio lignaggio? Dai remoti campi
Della Peonia qua ne venni (è questo 205
Già l’undecimo sole), e alla battaglia
Guido i Peonii dalle lunghe picche.
Del nostro sangue è autor l’Assio di larga
Bellissima corrente, e genitore
Del bellicoso Pelegon. Di questo 210
Io nacqui, e basta. Or mano all’armi, o prode."".
All’altere minacce alto solleva
Il divo Achille la pelíaca trave.
Fassi avanti del par con due gran teli
L’ambidestro campione Asteropéo. 215
Coglie col primo l’inimico scudo,
Ma nol giunge a forar, chè l’aurea squama
Lo vieta, opra d’un Dio: sfiora coll’altro
Il destro braccio dell’eroe, di nero
Sangue lo sprizza, e dopo lui si figge 220
Di maggior piaga desïoso in terra.
Fe’ secondo volar contro il nemico
La sua lancia il Pelíde, intento tutto
A trapassargli il cor, ma colse in fallo:
Colse la ripa, e mezzo infitto in quella 225
Il gran fusto restò. Dal fianco allora
Trasse Achille la spada, e furibondo
Assalse Asteropéo che invan dall’alta
Sponda si studia di sferrar d’Achille
Il frassino: tre volte egli lo scosse 230
Colla robusta mano, e lui tre volte
La forza abbandonò. Mentre s’accinge
Ad incurvarlo colla quarta prova
E spezzarlo, d’Achille il folgorante
Brando il prevenne arrecator di morte. 235
Lo percosse nell’epa all’ombelico;
N’andâr per terra gl’intestini; in negra
Caligine ravvolti ei chiuse i lumi,
E spirò. L’uccisor gli calca il petto,
Lo dispoglia dell’armi, e sì l’insulta:240
""Statti così, meschino, e benchè nato
D’un fiume, impara che il cozzar co’ figli
Del saturnio signor t’è dura impresa.
Tu dell’Assio che larghe ha le correnti
Ti lodavi rampollo, ed io di Giove 245
Sangue mi vanto, e generommi il prode
Eácide Peléo che i numerosi
Mirmidóni corregge, e discendea
Eaco da Giove. Or quanto è questo Dio
Maggior de’ fiumi che nel vasto grembo 250
Devolvonsi del mar, tanto sua stirpe
La stirpe avanza che da lor procede.
Eccoti innanzi un alto fiume, il Xanto;
Di’ che ti porga, se lo puote, aita.
Ma che puot’egli contra Giove a cui 255
Nè il regale Achelóo nè la gran possa
Del profondo Oceáno si pareggia?
E l’Oceán che a tutti e fiumi e mari
E fonti e laghi è genitor, pur egli
Della folgore trema, e dell’orrendo 260
Fragor che mette del gran Giove il tuono."".
Sì dicendo, divelse dalla ripa
La ferrea lancia, e su la sabbia steso
L’esamine lasciò. Bruna il bagnava
La corrente, e famelici dintorno265
Affollavansi i pesci a divorarlo.
Visto il forte lor duce Asteropéo
Cader domato dal Pelíde, in fuga
Spaventati si volsero i Peonii
Lungo il rapido fiume, flagellando 270
Prontamente i corsier. Gl’insegue Achille
E Tersíloco uccide e Trasio e Mneso,
Enio, Midone, Astípilo, Ofeleste,
E più n’avría trafitti il valoroso,
Se irato il fiume dai profondi gorghi 275
Non levava in mortal forma la fronte
Con questo grido: ""Achille, tu di forza
Ogni altro vinci, è ver, ma il vinci insieme
Di fatti indegni, e troppo insuperbisci
Del favor degli Dei che sempre hai teco .280
Se ti concesse di Saturno il figlio
Di tutti i Troi la morte, dal mio letto
Cacciali, e in campo almen fa tue prodezze.
Di cadaveri e d’armi ingombra è tutta
La mia bella corrente, ed impedita 285
Da tante salme aprirsi al mar la via
Più non puote; e tu segui a farle intoppo
Di nuova strage. Orsù, desisti, o fiero
Prence, e ti basti il mio stupor. "".- ""Scamandro
Figlio di Giove, gli rispose Achille, 290
Sia che vuoi; ma non io degli spergiuri
Teucri l’eccidio cesserò, se pria
Dentr’Ilio non li chiudo, e corpo a corpo
Non mi cimento con Ettór. Qui deve
Restar privo di vita o esso o io."" 295
Sì dicendo, coll’impeto d’un nume
Avventossi ai Troiani. Allor si volse
Xanto ad Apollo: ""Saettante iddio,
Giove fatto t’avea l’alto comando
Di dar soccorso ai Teucri insin che giunga 300
La sera, e il volto della terra adombri.
E tu del padre non adempi il cenno?"".
Mentr’egli sì dicea, l’audace Achille
Si scagliò dalla ripa in mezzo al fiume.
Il fiume allor si rabbuffò, gonfiossi, 305
Intorbidossi, e furïando sciolse
A tutte l’onde il freno: urtò la stipa
De’ cadaveri opposti, e li respinse,
Mugghiando come tauro, alla pianura,
Servati i vivi ed occultati in seno 310
A’ suoi vasti recessi. Orrenda intorno
Al Pelíde ruggía la torbid’onda,
E gli urtava lo scudo impetuosa,
Sì ch’ei fermarsi non potea su i piedi.
A un eccelso e grand’olmo alfin s’apprese 315
Colle robuste mani, ma divelta
Dalle radici ruinò la pianta,
Seco trasse la ripa, e coi prostrati
Folti rami la fiera onda rattenne,
E le sponde congiunse come ponte. 320
Fuor balza allor l’eroe dalla vorago,
E, messe l’ali al piè, nel campo vola
Sbigottito. Nè il Dio perciò si resta,
Ma colmo e negro rinforzando il flutto
Vie più gonfio l’insegue, onde di Marte 325
Rintuzzargli le furie, e de’ Troiani
L’eccidio allontanar. Diè un salto Achille
Quanto è il tratto d’un’asta, e il suo corso
Somigliava il volar di cacciatrice
Aquila fosca che i volanti tutti 330
Di forza vince e di prestezza. Il bronzo
Dell’usbergo gli squilla orribilmente
Sul vasto petto; con obliqua fuga
Scappar dal fiume ei tenta, e il fiume a tergo
Con più spesse e sonanti onde l’incalza. 335
Come quando per l’orto e pe’ filari
Di liete piante il fontanier deduce
Da limpida sorgente un ruscelletto,
E, la marra alla man, sgombra gl’intoppi
Alla rapida linfa che correndo 340
I lapilli rimescola, e si volve
Giù per la china gorgogliando, e avanza
Pur chi la guida: così sempre insegue
L’alto flutto il Pelíde, e lo raggiunge
Benchè presto di piè: chè non resiste 345
Mortal virtude all’immortal. Quantunque
Volte la fronte gli converse il forte,
Mirando se giurati a porlo in fuga
Tutti fosser gli Dei, tante il sovrano
Fiotto del fiume gli avvolgea le spalle. 350
Conturbato nell’alma egli non cessa
D’espedirsi e saltar verso la riva,
Ma con rapide ruote il fiero fiume
Sottentrato gli snerva le ginocchia,
E di costa aggirandolo, gli ruba 355
Di sotto ai piedi la fuggente arena.
Levò lo sguardo al cielo il generoso,
Ed urlò: ""Giove padre, adunque nullo
De’ numi aita l’infelice Achille
Contro quest’onda! Ah ch’io la fugga, e poi 360
Contento patirò qualsia sventura.
Ma nullo ha colpa de’ Celesti meco
Quanto la madre mia che di menzogne
Mi lattò, profetando che di Troia
Sotto le mura perirei trafitto 365
Dagli strali d’Apollo! Oh foss’io morto
Sotto i colpi d’Ettorre, il più gagliardo
Che qui si crebbe! Avría rapito un forte
D’un altro forte almen l’armi e la vita.
Or vuole il Fato che sommerso io pera 370
D’oscura morte, ohimè! come fanciullo
Di mandre guardïan cui ne’ piovosi
Tempi il torrente, nel guardarlo, affoga."".
Accorsero veloci al suo lamento,
E appressârsi all’eroe Palla e Nettunno 375
In sembianza mortal: lo confortaro,
Il presero per mano, e della terra
Sì disse il grande scotitor: ""Pelíde,
Non trepidar: qui siamo in tua difesa
Due gran Divi, Minerva ed io Nettunno, 380
Nè Giove il vieta, nè dal Fato è fisso
Che ti conquida un fiume; e tu di questo
Vedrai tra poco abbonacciarsi il flutto.
Un saggio avviso porgeremti intanto,
Se obbedirne vorrai. Dalla battaglia385
Non ti ristar se pria dentro le mura
Dell’alta Troia non rinserri i Teucri
Quanti potranno dalla man fuggirti,
Nè alle navi tornar che spento Ettorre:
Noi ti daremo di sua morte il vanto"", 390
Disparvero, ciò detto, e ai congiurati
Numi tornâr. Riconfortato Achille
Dal celeste comando, in mezzo al campo
Precipitossi. Il campo era già tutto
Una vasta palude in cui disperse 395
De’ trafitti nuotavano le belle
Armature e le salme. Alto al Pelíde
Saltavano i ginocchi, ed ei diretto
La fiumana rompea, che a rattenerlo
Più non bastava: perocchè Minerva 400
Gli avea nel petto una gran forza infuso.
Nè rallentò per questo lo Scamandro
Gl’impeti suoi, ma più che pria sdegnoso
Contro il Pelíde sollevossi in alto
Arricciando le spume, e al Simoenta, 405
Destandolo, gridò queste parole:
""Caro germano, ad affrenar vien meco
La costui furia, o le dardánie torri
Vedrai tosto atterrate, e tolta ai Teucri
Di resister la speme. Or tu deh corri 410
Veloce in mio soccorso, apri le fonti,
Tutti gonfia i tuoi rivi, e con superbe
Onde t’innalza e tronchi aduna e sassi,
E con fracasso ruotali nel petto
Di questo immane guastator che tenta 415
Uguagliarsi agli Dei. Ben io t’affermo
Che nè bellezza gli varrà, nè forza,
Nè quel divin suo scudo che di limo
Giacerà ricoperto in qualche gorgo
Voraginoso. Ed io di negra sabbia 420
Involverò lui stesso, e tale un monte
Di ghiaia immenso e di pattume intorno
Gli verserò, gli ammasserò, che l’ossa
Gli Achei raccorne non potran: cotanta
La belletta sarà che lo nasconda. 425
Fia questo il suo sepolcro, onde non v’abbia
Mestier di fossa nell’esequie sue."".
Disse, ed alto insorgendo e d’atre spume
Ribollendo e di sangue e corpi estinti,
Con tempesta piombò sopra il Pelíde. 430
E già la sollevata onda vermiglia
Occupava l’eroe, quando temendo
Che vorticoso nol rapisca il fiume,
Diè Giuno un alto grido, e a Vulcano
""Sorgi, disse, mio figlio; a te si spetta 435
Pugnar col Xanto: non tardar, risveglia
Le tremende tue fiamme. Io di Ponente
E di Noto a destar dalla marina
Vo le gravi procelle, onde l’incendio
Per lor cresciuto i corpi involva e l’arme 440
De’ Troiani, e le bruci. E tu dello Xanto
Lungo il margo le piante incenerisci,
Fa che avvampi egli stesso; e non lasciarti
Nè per minacce nè per dolci preghi
Svolger dall’opra, nè allentar la forza 445
S’io non ten porga con un grido il segno.
Frena allora gl’incendii e ti ritira."".
Minerva, dettaglio del Trionfo della Virtù di Andrea Mantegna
Ciò detto appena, un vasto foco accese
Vulcano, e lo scagliò. Si sparse quello
Prima pel campo, e i tanti, di che pieno 450
Il Pelíde l’avea, morti combusse.
Si dileguâr le limpid’acque, e tutto
Seccossi il pian, qual suole in un istante
D’autunnale aquilon sciugarsi al soffio
L’orto irrigato di recente, e in core 455
Ne gode il suo cultor. Seccato il campo,
E combusti i cadaveri, si volse
Contro il fiume la vampa. Ardean stridendo
I salci e gli olmi e i tamarigi, ardea
Il loto e l’alga ed il cipero in molta 460
Copia cresciuti su la verde ripa.
Dal caldo spirto di Vulcano afflitti,
E qua e là per le belle onde dispersi
Guizzano i pesci. Il cupo fiume istesso
S’infoca, e in voce dolorosa esclama: 465
""Vulcano, al tuo poter nullo resiste
De’ numi: io cedo alle tue fiamme. Ah cessa
Dalla contesa: immantinente Achille
Scacci pur tutti di cittade i Teucri;
Di soccorsi e di risse a me che cale?"" -470
Così rïarso dalle fiamme ei parla.
Come ferve a gran fuoco ampio lebéte
In cui di verro saginato il pingue
Lombo si frolla; alla sonora vampa
Crescon forza di sotto i crepitanti 475
Virgulti, e l’onda d’ogni parte esulta:
Sì la bella dello Xanto acqua infocata
Bolle, nè puote più fluir consunta
Ed impedita dalla forza infesta
Dell’ignifero Dio. Quindi a Giunone 480
Quell’offeso pregò con questi accenti:
""Perchè prese il tuo figlio, augusta Giuno,
Su l’altre a tormentar la mia corrente?
Reo ti son forse più che gli altri tutti
Protettori de’ Troi? Pur se il comandi, 485
Mi rimarrò, ma si rimanga anch’esso
Questo nemico, e non sarà, lo giuro,
Mai de’ Teucri per me conteso il fato,
No, s’anco tutta per la man dovesse
De’ forti Achivi andar Troia in faville."" 490
La Dea l’intese, e a Vulcan rivolta,
""Férmati, disse, glorïoso figlio:
Dar cotanto martír non si conviene
Per cagion de’ mortali a un Immortale.""
Spense Vulcano della madre al cenno 495
Quell’incendio divino, e ne’ bei rivi
Retrograda tornò l’onda lucente.
Domo lo Xanto, quetârsi i due rivali,
Chè così Giuno comandò, quantunque
Calda di sdegno; ma tra gli altri numi 500
Più tremenda risurse la contesa.
Scissi in due parti s’avanzâr sdegnosi
L’un contro l’altro con fracasso orrendo:
Ne muggì l’ampia terra, e le celesti
Tube squillâr: sull’alte vette assiso 505
Dell’Olimpo n’udì Giove il clamore,
E il cor di gioia gli ridea mirando
La divina tenzone: e già sparisce
Tra gli eterni guerrieri ogn’intervallo.
Truce di scudi forator diè Marte 510
Le mosse, e primo colla lancia assalse
Minerva, e ontoso favellò: ""Proterva
Audacissima Dea, perchè de’ numi
L’ire attizzi così? Non ti ricorda
Quando a ferirmi concitasti il figlio 515
Di Tidéo Dïomede, e dirigendo
Della sua lancia tu medesma il colpo,
Lacerasti il mio corpo? Il tempo è giunto
Che tu mi paghi dell’oltraggio il fio."".
Sì dicendo, avventò l’insanguinato 520
Marte il gran telo, e ne ferì l’orrenda
Egida che di Giove anco resiste
Alle saette. Si ritrasse indietro
La Diva, e ratta colla man robusta
Un macigno afferrò, che negro e grande 525
Giacea nel campo dalle prische genti
Posto a confine di poder. Con questo
Colpì l’impetuoso iddio nel collo,
E gli sciolse le membra. Ei cadde, e steso
Ingombrò sette jugeri; le chiome 530
Insozzârsi di polve, e orrendamente
L’armi sul corpo gli tonâr. Sorrise
Pallade, e altera l’insultò: ""Demente!
Che meco ardisci gareggiar, non vedi
Quant’io t’avanzo di valor? Va, sconta 535
Di tua madre le furie, e dal suo sdegno
Maggior castigo, dell’aver tradito
Pe’ Teucri infidi i giusti Achei, t’aspetta."".
Ciò detto, le lucide pupille
Volse altrove. Frattanto al Dio prostrato 540
Venere accorse, per la mano il prese,
E lui che grave sospira, e a fatica
Rïaver può gli spirti, altrove adduce.
L’alma Giuno li vide, e a Minerva,
""Guarda, disse, di Giove invitta figlia, 545
Guarda quella impudente: ella di nuovo
Fuor dell’aspro conflitto via ne mena
Quell’omicida. Ah vola, e su lor piomba."".
Volò Minerva, e gl’inseguì. Di gioia
Il cor balzava, e fattasi lor sopra, 550
Colla terribil mano a Citerea
Tal diè un tocco nel petto che la stese:
Giaceano entrambi riversati, e altera
Su lor Minerva glorïossi, e disse:
""Fosser tutti così questi di Troia 555
Proteggitori a disfidar venuti
I loricati Achei! Fossero tutti
Di fermezza e d’ardir pari a Ciprigna
Di Marte aiutatrice e mia rivale.
E noi, distrutte d’Ilïon le torri, 560
Già poste l’armi da gran tempo avremmo."".
Udì la Diva dalle bianche braccia
Il motteggio, e sorrise. A Febo allora
""Disse il sire del mar: Febo, già sono
Gli altri alle prese; e noi ci stiamo in posa? 565
Ciò del tutto sconviensi; onta saría
Tornar di Giove ai rilucenti alberghi
Senza far d’armi paragon. Comincia
Tu minore d’età; chè non è bello
A me, più saggio e antico, esser primiero. 570
Oh povero di senno e d’intelletto!
Non ricordi più dunque i tanti affanni
Che noi da Giove a esular costretti
Intorno ad Ilio sopportammo insieme,
Noi soli e numi, allor che all’orgoglioso 575
Laomedonte intero un anno a prezzo
Pattuimmo il servir? Duri comandi
Il tiranno ne dava. E io di Troia
L’alta cittade edificai, di belle
Ampie mura la cinsi, e di securi 580
Baluardi; e tu, Febo, alle selvose
Idée pendici pascolavi intanto
Le cornigere mandre. Ma condotta
Dalle grate Ore del servir la fine,
Ne frodò la mercede il re crudele, 585
E minaccioso ne scacciò, giurando
Che te di lacci avvinto e mani e piedi
In isola remota avría venduto,
E mozze inoltre ad ambeduo l’orecchie.
Frementi di rancor per la negata 590
Pattuita mercede, immantinente
Noi ne partimmo. È questo forse il merto
Ch’or le sue genti a favorir ti move,
Anzi che nosco procurar di questi
Fedífraghi Troiani e de’ lor figli 595
E delle mogli la total ruina?"".
"" Possente Enosigéo, rispose Apollo,
Stolto davvero ti parrei se teco
A cagion de’ mortali io combattessi,
Che miseri e quai foglie or freschi sono, 600
Or languidi e appassiti. Usciamo adunque
Del campo, e sia tra lor tutta la briga."".
Ciò detto, altrove s’avvïò, nè volle
Alle mani venir, per lo rispetto
Di quel Nume a lui zio. Ma la sorella 605
Di belve agitatrice aspra Dïana
Con acri motti il rampognò: ""Tu fuggi,
Tu che lunge saetti? e tutta cedi
Senza contrasto al re Nettun la palma?
Vile! a che dunque nelle man quell’arco? 610
Ch’io non t’oda più mai nella paterna
Reggia tra’ numi, come pria, vantarti
Di combattere solo il re Nettunno."".
Non le rispose Apollo; ma sdegnosa
Si rivolse alla Dea di strali amante 615
La veneranda Giuno, e sì la punse
Con acerbo ripiglio: E come ardisci
Starmi a fronte, o proterva? Di possanza
Mal tu puoi meco gareggiar, quantunque
D’arco armata. Gli è ver che fra le donne 620
Ti fe’ Giove un lïone, e qual ti piaccia
Ti concesse ferir. Ma per le selve
Meglio ti fia dar morte a capri e cervi,
Che pugnar co’ più forti. E se provarti
Vuoi pur, ti prova, e al paragone impara 625
Quanto io sono da più"". - Ciò detto, al polso
Colla manca le afferra ambe le mani,
Colla dritta dagli omeri le strappa
Gli aurei strali, e ridendo su l’orecchia
Li sbatte alla rival che d’ogni parte 630
Si divincola; e sparse al suol ne vanno
Le aligere saette. Alfin di sotto
Le si tolse, e fuggì come colomba
Che da grifagno augel per venturoso
Fato scampata ad appiattarsi vola 635
Nel cavo d’una rupe. Ella piangendo
Così fuggía, lasciate ivi le frecce.
Parlò quindi a Latóna il messaggiero
Argicída: ""Latóna, io non vo’ teco
Cimentarmi; il pugnar colle consorti 640
Del nimbifero Giove è dura impresa.
Va dunque; e franca fra gli eterni Dei
D’avermi vinto per valor ti vanta.""
Così dicea Mercurio, e quella intanto
Gli sparsi per la polve archi e quadrelli 645
Raccogliea della figlia, e la seguía,
Chè all’Olimpo salita entro l’eterne
Stanze di Giove avea già messo il piede.
Su i paterni ginocchi lagrimando
La vergine s’assise, e le tremava 650
L’ambrosio manto sul bel corpo. Il padre
La si raccolse al petto, e con un dolce
Sorriso dimandò: ""Chi de’ Celesti
Temerario t’offese, o mia diletta,
Come colta in error?"" - ""La tua consorte, 655
Cinzia rispose, mi percosse, o padre,
Giunon che sparge fra gli Dei le risse."".
Mentre in cielo seguían queste parole,
Febo entrava nel sacro Ilio a difesa
Dell’alto muro, perocchè temea 660
Nol prendesse in quel dì pria del destino
Degli Achivi il valor. Ma gli altri Eterni
All’Olimpo tornaro, irati i vinti,
Festosi i vincitori, e ognun dintorno
Al procelloso genitor s’assise. 665
Il Pelíde struggea pel campo intanto
I Troiani, e stendea confusamente
Cavalli e cavalier. Come fra densi
Globi di fumo che si volve al cielo
Un gran fuoco, in cui soffia ira divina, 670
Una cittade incende, e a tutti arreca
Travaglio e a molti esizio; a questa immago
Dava Achille ai Troiani angoscia e morte.
Stava sull’alto d’una torre il veglio
Príamo, e visti fuggir senza ritegno, 675
Senza far più difesa, i Troi davanti
Al gigante guerrier, mise uno strido,
E calò dalla torre, onde ai custodi
Degl'ingressi lasciar lungo le mura
Questi avvisi: ""Alle man tenete, o prodi, 680
Spalancate le porte insin che tutti
Nella città sien salvi i fuggitivi
Dal diro Achille sbaragliati. Ahi giunto
Forse è l’ultimo danno! Come dentro
Siensi messe le schiere, e ognun respiri, 685
Riserrate le porte, e saldamente
Sbarratele; ch’io temo non irrompa
Fin qua dentro il furor di questo fiero.
Al comando regal schiusero quelli
Tosto le porte, e ne levâr le sbarre.690
Onde una via s’aperse di salute."".
Fuor delle soglie allor lanciossi Apollo
In soccorso de’ Troi che dritto al muro
Fuggían da tutto il campo arsi di sete,
Sozzi di polve. E impetuoso Achille, 695
Come il porta furor, rabbia, ira e brama
Di sterminarli, gl’inseguía coll’asta;
Ed era questo il punto in che gli Achei
Dell’alta Troia avrían fatto il conquisto,
Se Febo Apollo l’antenóreo figlio 700
Agénore, guerrier d’alta prestanza,
Non eccitava alla battaglia. Il Dio
Gli fe’ coraggio, gli si mise al fianco,
Onde lungi tenergli della Parca
I gravi artigli, ed appoggiato a un faggio, 705
Di caligine tutto si ricinse.
Come Agénore il truce ebbe veduto
Guastator di città, fermossi, e molti
Pensier volgendo, gli ondeggiava il core,
E dicea doloroso in suo segreto: 710
""Misero me! se dietro agli altri io fuggo
Per timor di quel crudo, egli malgrado
La mia rattezza prenderammi, e morte
Non decorosa mi darà. Se mentre
Ei va questi inseguendo, io d’altra parte 715
M’involo, e d’Ilio traversando il piano,
Dell’Ida ai gioghi mi riparo, e quivi
Nei roveti m’appiatto, indi la sera
Lavato al fiume, e rinfrescato a Troia
Mi ritorno... Oh che penso? Egli non puote 720
Non veder la mia fuga, e arriverammi
Precipitoso con più presti piedi.
E allor dall’ugna di costui, che tutti
Vince di forza, chi mi scampa? Or dunque,
Poichè certa è mia morte, a incontrarlo 725
Vadasi in faccia alla cittade. Ei pure
Ha corpo che si fora, e un’alma sola;
E benchè Giove glorïoso il renda,
Mortal cosa lo dice il comun grido."".
Verso Achille, in ciò dir, volta la fronte,730
E desïoso di pugnar l’aspetta.
Come da folto bosco una pantera
Sbucando affronta il cacciator, nè teme
I latrati, nè fugge, e s’anco avvegna
Ch’ei l’impiaghi primier, la generosa 735
Il furor non rallenta, innanzi ch’ella
O gli si stringa addosso, o resti uccisa:
Così ricusa di fuggir l’ardito
D’Anténore figliuol, se col Pelíde
Pria non fa prova di valor. Protese 740
Dunque al petto lo scudo, e nel nemico
Tolta la mira, alto gridò: ""Per certo
De’ magnanimi Teucri, illustre Achille,
Atterrar ti speravi oggi le mura.
Stolto! n’avrai penoso affare ancora, 745
Chè là dentro siam molti e valorosi
Che ai cari padri, alle consorti, ai figli
Difendiam la cittade, e tu, quantunque
Guerrier tremendo, giacerai qui steso."".
Sì dicendo, lanciò con vigoroso 750
Polso la picca, e nello stinco il colse
Sotto il ginocchio. Risonò lo stagno
Dell’intatto stinier, ma il ferro acuto
Senza forarlo rimbalzò respinto
Dalle tempre divine. Impetuoso 755
Scagliossi Achille al feritor, ma ratto
Gl’invidïando quella lode Apollo,
Involò l’avversario alla sua vista
L’avvolgendo di nebbia, e queto queto
Dal certame lo trasse, e via lo spinse. 760
Indi tolta d’Agénore la forma,
Diessi in fuga, e svïò con quest’inganno
Dalla turba il Pelíde che veloce
Dietro gli move e incalzalo, e piegarne
Vêr lo Scamandro studiasi la fuga. 765
Nol precorre il fuggente a tutto corso,
Ma di poco intervallo, e colla speme
Sempre l’alletta d’una pronta presa,
E sempre lo delude. Intanto a torme
Spaventati si versano i Troiani 770
Dentro le porte. In un momento tutta
Di lor fu piena la città, chè nullo
Rimanersene fuori non sostenne,
Nè il compagno aspettar, nè dei campati
Dimandar, nè de’ morti. Ognun che snelle 775
A salvarsi ha le piante, alla rinfusa
Dentro si getta, e dal terror respira.
Traduzione di Vincenzo Monti. Sfortunatamente nella traduzione i nomi greci sono latinizzati.
ATENA o MINERVA
Minerva, scultura romana del II secolo
Minerva (in latino: Minerva, in greco antico: Atena) è la divinità romana della lealtà in lotta, delle virtù eroiche, della guerra giusta (guerra per giuste cause o per difesa), della saggezza, delle strategie, ed è riconosciuta anche protettrice degli artigiani. Le sue origini discendono dagli Etruschi che molto presto la fusero con Atena, suo corrispettivo nella mitologia greca. Minerva era venerata anche dagli antichi italici, come dimostra il santuario arcaico di Lavinium. Come per Atena anche per Minerva l'animale sacro è la civetta, talvolta il gufo. Secondo il mito, era figlia di Giove, nata dalla testa di quest'ultimo.
Il termine Minerva fu probabilmente importato dagli Etruschi che la chiamavano Menrva. I Romani ne confusero il nome straniero con il loro lemma mens (mente) visto che la dea governava non solo la guerra, ma anche le attività intellettuali. Minerva è la figlia di Giove e di Meti. Viene considerata la divinità vergine della guerra giusta, della saggezza, dell'ingegno, delle arti utili (architettura, ingegneria, scienza, matematica, geometria, artigianato e tessitura), nonché inventrice del telaio e del carro, e di svariate altre cose. I suoi simboli sono la civetta, l'ulivo, l'egida e l'armatura con scudo e lancia. A differenza della corrispettiva dea greca Atena, alquanto "maschile" e combattiva, Minerva assunse nella cultura romana funzioni di dea della sapienza, delle arti e della protezione dello Stato.
Minerva, protettrice dei Greci e quindi nemica dei Troiani, quasi non viene citata nell'Eneide di Virgilio, dove compare fugacemente solo nell'episodio della punizione di Aiace Oileo e nella scena della distruzione di Troia. Successivamente però il celebre poeta romano Publio Ovidio Nasone la definì divinità dai mille compiti. Minerva, protettrice degli artigiani e dei musicisti, fu adorata in tutto l'impero, nella parte occidentale, di lingua latina, con il nome di Minerva, nella parte orientale, di lingua greca, con il nome di Atena. Un Palladio, cioè un piccolo simulacro della dea era conservato a Roma, come simbolo di inviolabilità della città.
Dionigi di Alicarnasso riporta come l'antica città di Orvinium, nell'epoca in cui era abitata dagli Aborigeni, fosse dominata da un tempio dedicato alla dea. A Roma le erano dedicati diversi templi, di cui resta ancora memoria nella odierna denominazione di piazza della Minerva e nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva nei pressi del Pantheon.
Invece il cosiddetto tempio di Minerva Medica nei pressi della Stazione Termini, in realtà, era probabilmente un edificio privato o un ninfeo.
Il culto di Minerva era tenuto nel tempio di Minerva capta, così detto perché il simulacro della dea era frutto di un bottino di guerra, nel tempio di Minerva nel Foro transitorio e sul Campidoglio dove la dea faceva parte della Triade Capitolina, insieme a Giove e Giunone. Nel 207 a.C. una gilda di poeti e attori venne creata per fare offerte votive nel Tempio di Minerva sull'Aventino. Tra gli altri membri merita una menzione speciale Livio Andronico. Il santuario aventiniano rimase un importante centro culturale per gli artisti per la maggior parte della Repubblica romana.
Era considerata inventrice dei numeri e le era sacro il numero cinque. I Romani ne celebravano la festa dal 19 al 23 marzo nei giorni che prendevano il nome di Quinquatria, i primi cinque successivi alle Idi di marzo, a partire dal diciannovesimo nel Calendario degli Artigiani. Una versione più contenuta, le Minusculae Quinquatria, si teneva dopo le Idi di giugno, il 13 giugno, con l'uso di flautisti, molto usati nelle cerimonie religiose. L'imperatore Domiziano era particolarmente devoto alla dea Minerva.
Veniva solitamente raffigurata con l'aspetto di una giovane vergine guerriera, ritta in piedi con indosso la lunga veste greca (chitone) e sul petto una cotta di maglia o egida decorata dalla testa di Medusa; in testa o in mano ha un elmo crestato; è armata di scudo rotondo e di lancia. Più raramente è raffigurata seduta in trono, da sola o come parte della Triade capitolina. In epoca tarda il culto di Minerva assunse caratteri sincretistici, come per molte altre divinità, per cui la dea fu assimilata a Igea, Vittoria-Bellona (con le ali) e Fortuna (con la cornucopia).
Il calculus Minervae era la pietra di Minerva, cioè il voto decisivo in un organo collegiale che fosse in stallo per parità di voti su una proposta, equamente approvata e avversata dal medesimo numero di componenti (secondo Tito Livio circa cinquecento).
Si tratta della traduzione latina dell'Athenas psephos, il coccio che il presidente deponeva nell'urna per ultimo nella Bulè dei Cinquecento (l'organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che però esercitava anche una funzione giurisdizionale). Tale definizione era data sull'esempio del leggendario voto di Atena in favore di Oreste, ricordato da Eschilo ne Le Eumenidi, decisivo per mandare esente da pena il matricida.
Nell'antica Roma la definizione fu ripresa nel 30 a.C. quando, nei processi criminali, un senatoconsulto riconobbe a Ottaviano il calculus Minervae, il privilegio di aggiungere il suo voto a quello della minoranza, e quindi determinare l'assoluzione, qualora la sentenza fosse stata pronunciata con la maggioranza di un solo voto.
Nel mondo moderno la funzione del Presidente con voto decisivo in caso di parità è garantita in vari ordinamenti, tra i quali il Senato degli Stati Uniti d'America e la Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sudafrica (nella quale il presidente Desmond Tutu espresse un voto decisivo nell'ultima seduta). Ciò si distingue dallo swing vote, che è il voto oscillante di un componente non ideologizzato in un organo collegiale dispari, che tendenzialmente è portato a decidere chi vince: il caso del giudice Sandra O'Connor della Corte suprema degli Stati Uniti è considerato quello più appropriato a rendere il concetto, almeno nei tempi più recenti.
ERA O GIUNONE
Giunone e Argo dipinto di P.P. Rubens
Era nella mitologia greca, corrispondente alla Giunone romana è figlia di Saturno, sorella e moglie di Zeus-Giove e regina degli dei. Secondo un mito argivo fu allevata dalle figlie del fiume Asterione: Eubea, Porsinna, Acrea. Dea del cielo, dell'aria, delle nozze (Giunone Pronuba), dei parti (Giunone Lucina), spesso raffigurata in aspetto matronale ed atteggiamento solenne. A Roma, sul Campidoglio sorgeva il tempio di Giunone Moneta (ammonitrice, consigliatrice) dove aveva sede il pubblico erario. L'epiteto di Moneta derivava ad un oracolo della dea che, secondo la tradizione, aveva avvertito i Romani del sopraggiungere di un terremoto. Secondo Omero fu lei a sedurre il fratello minore Zeus, con l'aiuto di Afrodite e a convincerlo a sposarla. Le nozze ebbero luogo sulla cima più alta del Monte Ida, in Asia Minore. A quel tempo i due vivevano nel palazzo di Oceano e di Teti che li aveva ricevuti dalle mani di Rea e li aveva nascosti.
Fratello e sorella salirono sul letto nuziale di nascosto, all'insaputa dei genitori. Secondo un'altra versione le nozze avvennero presso Oceano, al margine occidentale del mondo, ma non in segreto, anzi tutti gli dei offrirono doni, fra essi la Terra che donò l'albero delle mele d'oro poi note come mele delle Esperidi. Era, ammirando la pianta prodigiosa la fece custodire dal serpente nel giardino degli dei e le Esperidi tentarono di rubarla. Gli abitanti dell'isola di Samo sostenevano invece che le nozze avrebbero avuto luogo nella loro isola ed il banchetto sarebbe durato trecento anni. Secondo un'altra versione del mito fu Zeus a voler sedurre Era e per avvicinarla si tramutò in cuculo. Sotto un temporale da lui stesso scatenato il dio si posò sul monte Thronax che poi ebbe il nome di Kokkixo o Kokkigion (Monte Cuculo) sul quale Era stava passeggiando. Tremante ed intirizzito dal freddo il cuculo volò in grembo ad Era che, impietosita, lo riscaldò con le sue vesti. Allora Zeus riprese il suo vero aspetto e cercò di fare di lei la sua amante ma la dea resistette finché non ottenne una concreta proposta di matrimonio. Ancora un altro racconto dice che le nozze avvennero sul monte Citerone, nella Beozia. Zeus vi condusse la sua sposa dall'isola Eubea e la nascose a Macride nutrice di Dioniso. Il monte Citerone ingannò Macride dicendole che proteggeva l'amplesso di Zeus con Leto.
Si diceva che Era riacquistasse la verginità ogni volta che si bagnava nelle acque della sorgente Kanathos, nei pressi di Argo, e che potesse generare figli senza intervento maschile, partorì infatti in questo modo Tifone per ripicca contro Zeus che - da solo - aveva concepito Atena.
Suoi figli erano inoltre Efesto, Ares, Ebe e Ilizia.
Le venivano attribuiti molti epiteti fra i quali Pais (la fanciulla), Chera (la solitaria), Teleia (la compiuta), Gamelia, Zygia, Syzygia, Aerea, Saturnia, Regina, Moneta, Pronuba, Antea (coronata di fiori), Unxia (con riferimento all'unzione rituale della porta degli sposi), Lucina, Sospita (preservatrice), ecc.
Le erano sacri il pavone, animale tipico dell'isola di Samo, e la capra.
A Roma si festeggiavano in suo nome le Feste Caprotine (7 luglio) nelle quali la dea veniva venerata come protettrice della fecondità e le Matronalia (1 marzo) dove si adorava come dea della castità muliebre.
In Grecia la dea era particolarmente venerata nelle città di Argo, Micene e Sparta e nell'isola di Samo, ma il suo culto era giunto anche a Cartagine, in Egitto ed in Siria.
Nella letteratura epica da Omero in poi Era-Giunone svolge un ruolo di grande importanza che prende origine dal mito di Paride. Giunone, Minerva (Atena) e Venere (Afrodite), si erano riunite in un convegno giocoso sul Monte Ida ed incontrando Paride gli avevano chiesto di giudicare quale delle tre fosse la più bella. Prima del giudizio ciascuna fece una promessa al giovane: Giunone ed Atena gli promisero di conquistare e regnare su varie città ma Venere gli promise l'amore della donna più bella del mondo, la spartana Elena, moglie di Menelao. Come è noto Paride scelse Venere e rapì Elena con l'aiuto della dea scatenando la guerra di Troia, Giunone e Minerva - offese dalla scelta - si schierarono dalla parte dei Greci e furono in tutto il ciclo omerico nemiche irriducibili dei Troiani.
In altre versioni Paride viene chiamato a giudizio dalle dee perché la Discordia le ha provocate durante un convito offrendo un pomo delle Esperidi alla più bella delle tre.
E' spesso estremamente ironico il modo in cui Omero descrive il carattere irascibile e bisbetico di Giunone alle prese con Zeus nella difesa oltranzista dei Greci contro i Troiani. Il gran dio, con comportamento assolutamente umano, cerca spesso di evitare discussioni con la moglie-sorella ma di tanto in tanto è costretto ad affrontarla e non esita a far pesare la propria maggiore autorità o a minacciarla con modi a volte brutali.
Nell'Eneide a questi motivi si aggiunge un altra causa di odio verso Enea e la sua gente: Giunone sa che dalla città di Roma che i discendenti di Enea fonderanno verrà la rovina della città di Cartagine, città a lei sacra e particolarmente cara; detesta i Troiani perché discendenti di Dardano, nato da uno dei tanti adulteri di Zeus, quello con la Pleiade Elettra; è stata offesa quando Zeus, invaghitosi del giovinetto troiano Ganimede, lo aveva assunto in cielo assegnandogli la funzione di coppiere degli dei, già svolta da Ebe, figlia di Zeus e della stessa Giunone. Non ultimo motivo di rancore era stata infine la scelta di Paride.
Era nell'Iliade
Canto I:
- Ispira Achille perché convochi i Greci in assemblea e consulti Calcante sulla pestilenza che ha colpito il campo
- Invia Atena a trattenere Achille perché non si scontri con Agamennone
- Vede Zeus parlare con Teti (che intercedeva per Achille) e ne nasce una lite che si placa con un intervento bonario di Efesto
Canto II:
- Invia Atena a fermare i Greci che vorrebbero partire abbandonando l'assedio
- Insieme a Atena provoca uno scontro tra Greci e Troiani che stavano accordandosi per concludere la guerra: Atena fa in modo che Menelao venga leggermente ferito e Agamennone reagisce ordinando l'attacco
Canto V:
- Interviene in aiuto dei Greci
Canto VIII:
- Vorrebbe intervenire per fermare la furia di Ettore ma le è proibito, quindi ispira a Agamennone l'idea di pregare Zeus perché infonda coraggio nei Greci.
- Non sopportando la vista della strage di Greci sta per intervenire ma Zeus la ferma, nuova lite con Zeus.
Canto XIV:
- Seduce Zeus per distrarlo dal seguire la guerra ma è d'accordo con Sonno che fa addormentare il dio mentre Poseidone aiuta i Greci
Canto XVI:
- Si oppone a Zeus che vorrebbe aiutare il figlio Sarpedone
Canto XVIII:
- Dopo la morte di Patroclo, mentre i Troiani attaccano furiosamente i Greci sono in difficolta, per concedere loro riposo Era anticipa il calare della notte
Canto XIX:
- Agamennone racconta il mito di Euristeo che Era fece nascere prima di Eracle per fargli avere la primogenitura e il trono di Argo
- Da la facoltà di parlare a Xanto, cavallo di Achille, perché metta in guardia il padrone sul suo destino
Canto XX:
- Con il consenso di Zeus scende in campo con i Greci insieme a Atena, Poseidone, Ermes e Efesto
Canto XXI:
- Incarica il figlio Efesto di suscitare un grande incendio per fermare i fiumi Scamandro e Simoenta che ostacolano Achille
- Si scontra con Artemide e la sconfigge
Canto XXII:
- Fra gli dei solo Era e Atena sono contrarie alla restituzione del corpo di Ettore da parte di Achille
Eugenio Caruso - 25 - 11 - 2021
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