Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
IL GIUDIZIO DI PARIDE DI PETER PAUL RUBENS. ( Da questo episodio nasce tutta la storia narrata da Omero)
L'Iliade (in greco antico: Iliás) è un poema epico in esametri dattilici, tradizionalmente attribuito a Omero. Ambientato ai tempi della guerra di Troia, città da cui prende il nome, narra gli eventi accaduti nei cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno di guerra, in cui l'ira di Achille è l'argomento portante. Opera antica e complessa, è un caposaldo della letteratura greca e occidentale. Tradizionalmente datata al 750 a.C. circa, Cicerone afferma nel suo De oratore che Pisistrato ne avesse disposto la sistemazione in forma scritta nel VI secolo a.C., ma si tratta di questione discussa dalla critica. In epoca ellenistica fu codificata da filologi alessandrini guidati da Zenodoto nella prima edizione critica, comprendente 15.696 versi divisi in 24 libri (ciascuno corrispondente a un rotolo, che ne dettava la lunghezza). Ai tempi il testo era infatti estremamente oscillante, visto che la precedente tradizione orale aveva originato numerose varianti. Ciascun libro è contraddistinto da una lettera maiuscola dell'alfabeto greco e riporta in testa un sommario del contenuto.
L'opera venne composta probabilmente nella regione della Ionia Asiatica. La sua composizione seguì un percorso di formazione, attraverso i secoli e i vari cambiamenti politici e socio-culturali, che comprese principalmente tre fasi:
- fase orale, nella quale vari racconti mitici o concernenti racconti eroici incominciarono a circolare in simposi e feste pubbliche durante il Medioevo ellenico (1200-800 a.C.), rielaborando racconti riguardanti il periodo miceneo;
- fase aurale nella quale i poemi incominciarono ad assumere organicità grazie all'opera di cantori e rapsodi, senza però conoscere una stesura scritta (età arcaica e classica);
- fase scritta, nella quale i poemi sono stati trascritti. Secondo alcuni storici questa fase risale al VI secolo a.C. durante la tirannide di Pisistrato ad Atene.
La prima testimonianza sicura del poema è di Pisistrato (561-527 a.C.). Dice infatti Cicerone nel suo De Oratore: “primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur, ut nunc habemus” ("Si dice che Pisistrato per primo avesse ordinato i libri di Omero"). Il primo punto fermo è quindi che nella Grande Biblioteca di Atene di Pisistrato erano contenuti i libri di Omero, ordinati.
L'oralità non consentì di stabilire delle edizioni canoniche. L'Iliade pisistratea non fu un caso unico: sul modello di Atene ogni città (di sicuro Creta, Cipro, Argo e Massalia, oggi Marsiglia) probabilmente aveva un'edizione “locale”. Le varie edizioni non erano probabilmente molto discordanti tra di loro.
Si hanno notizie riguardo edizioni precedenti all'ellenismo, dette polystikoiai, “con molti versi”; avevano sezioni rapsodiche in più rispetto alla versione pisistratea; varie fonti ne parlano ma non se ne conosce l'origine.
L'Iliade e l'Odissea erano la base dell'insegnamento elementare: i piccoli greci si avvicinavano alla lettura attraverso i poemi di Omero; molto probabilmente i maestri semplificarono i poemi affinché fossero di più facile comprensione per i bambini.
Si conosce anche l'esistenza di edizioni kata andra (personali): personaggi illustri si facevano fare edizioni proprie. Un esempio molto famoso è quello di Aristotele, che si fece creare un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (versioni prealessandrine). Si è arrivati, in seguito, a una sorta di testo base attico, una vulgata attica.
Teagene di Reggio, VI secolo a.C., fu il primo critico e divulgatore dell'Iliade, che fra l'altro pubblicò.
Gli antichi grammatici alessandrini tra il III e il II secolo a.C. concentrarono il loro lavoro di filologia del testo su Omero, sia perché il materiale era ancora molto confuso, sia perché era universalmente riconosciuto padre della letteratura greca. Molto importante fu un'emendatio volta a eliminare le varie interpolazioni e a ripulire il poema dai vari versi formulari suppletivi.
Si arrivò dunque a un testo definitivo. Un contributo fondamentale fu quello di tre grandi filologi, vissuti tra la metà del terzo secolo e la metà del secondo: Zenodoto di Efeso, che elaborò la numerazione alfabetica dei libri e operò una ionizzazione (sostituì gli eolismi con termici ionici), Aristofane di Bisanzio, di cui non ci resta nulla, ma che sappiamo fu un gran commentatore, inserì la prosodia (l'alternarsi di sillabe lunghe e brevi), i segni critici (come la crux, l'obelos) e gli spiriti; Aristarco di Samotracia, che operò una forte e oggi considerata sconveniente atticizzazione - convinto che Omero fosse di Atene - e si occupò di scegliere una lezione per ogni vocabolo “dubbio”, curandosi però di mettere un obelos con le altre lezioni scartate. Non è ancora chiaro se si basò sull'istinto o comparò vari testi.
Il testo dell'Iliade giunto all'età contemporanea è piuttosto diverso da quello con le lezioni di Aristarco. Su 874 punti in cui egli scelse una particolare lezione, solo 84 tornano nei nostri testi; per quanto riguarda le parti considerate dubbie dai commentatori antichi, la vulgata alessandrina è quindi uguale alla nostra solo per il 10%. Si può anche ritenere che tale testo non fosse definitivo, ed è possibile che nella stessa biblioteca di Alessandria d'Egitto, dove gli studiosi erano famosi per i loro litigi, ci fossero più versioni dell'Iliade.
Un'invenzione molto importante della biblioteca di Alessandria furono gli scolia, ricchi repertori di osservazioni al testo, note, lezioni, commenti. Dunque i primi studi sul testo furono effettuati tra il III e il II secolo a.C. dagli studiosi alessandrini; poi tra il I secolo e il II secolo d. C. quattro scoliasti redassero gli scolia dell'Iliade, poi compendiati da uno scoliasta successivo nell'opera “Commento dei 4”. L'Iliade di Omero tuttavia non riuscì a influenzare tutte le zone dove era diffusa: anche in età ellenistica giravano più versioni, probabilmente derivanti dalla vulgata ateniese di Pisistrato del V secolo, che proveniva da varie tradizioni orali e rapsodiche.
Intorno alla metà del II secolo, dopo il lavoro di Alessandria, giravano il testo alessandrino e residui di altre versioni. Di certo gli Ellenisti stabilirono il numero e la suddivisione dei versi. Dal 150 a.C. sparirono le altre versioni testuali e si impose un unico testo dell'Iliade; tutti i papiri ritrovati da quella data in poi corrispondono ai nostri manoscritti medievali: la vulgata medievale è la sintesi di tutto.
Nel medioevo occidentale non era diffusa la conoscenza del greco, nemmeno tra personaggi come Dante o Petrarca; uno dei pochi che lo conosceva era Boccaccio, che lo imparò a Napoli da Leonzio Pilato. L'Iliade era conosciuta in occidente grazie alla Ilias tradotta in latino di età neroniana.
Prima del lavoro dei grammatici alessandrini, il materiale di Omero era molto fluido, ma anche dopo di esso altri fattori continuarono a modificare l'Iliade, e per arrivare alla koinè omerica bisognerà aspettare il 150 a.C.
L'Iliade fu molto più copiata e studiata dell'Odissea. Nel 1170 Eustazio di Salonicco contribuì alla sua diffusione in modo significativo. Nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi; un grandissimo numero di profughi migrarono da oriente verso occidente, portando con sé una gran mole di manoscritti. Questo accadde fortunatamente in concomitanza con lo sviluppo dell'Umanesimo, tra i punti principali del quale c'era lo studio dei testi antichi.
Nel 1920 si ammise che era impossibile fare uno stemma codicum per Omero perché, già in quel periodo, escludendo i frammenti papiracei, c'erano ben 188 manoscritti, e anche perché non si riesce a risalire a un archetipo di Omero. Spesso i nostri archetipi risalgono al IX secolo, quando, a Costantinopoli, il patriarca Fozio si preoccupò che tutti i testi scritti in alfabeto greco maiuscolo fossero traslitterati in minuscolo; quelli che non furono traslitterati, andarono perduti. Per Omero tuttavia non esiste un solo archetipo: le traslitterazioni avvennero in più luoghi contemporaneamente.
Il più antico manoscritto capostipite completo dell'Iliade è il Marcianus 454 A, presente a Venezia; risalente al X secolo, fu ricevuto dal cardinal Bessarione dall'oriente, da Giovanni Aurispa. I primi manoscritti dell'Odissea sono invece dell'XI secolo.
L'editio princeps dell'Iliade è stata stampata nel 1488 a Firenze da Demetrio Calcondila. Le prime edizioni veneziane, dette aldine dallo stampatore Aldo Manuzio, furono ristampate ben 3 volte, nel 1504, 1517, 1512, indice questo senza dubbio del gran successo sul pubblico dei poemi omerici.
L'eroicità è riconosciuta come accento fondamentale del poema, e per Omero "eroico" è tutto ciò che va oltre la norma, nel bene e nel male e per qualunque aspetto. Queste grandezze non sono guardate con occhio stupito, perché il poeta è inserito nel mondo che descrive, e l'eroico è dunque sentito come normalità. L'intera guerra è descritta come un seguito di duelli individuali, raccontati spesso secondo fasi ricorrenti.
L'opera non tratta, come si presumerebbe dal titolo, dell'intera guerra di Ilio (Troia), ma di un singolo episodio di questa guerra, l'ira di Achille, che si svolge in un periodo di 51 giorni. Aristotele lodò Omero nella Poetica, per aver saputo scegliere, nel ricco materiale mitico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema, e affermò, inoltre, che la poesia non è storia, ma una fecondissima verità teoretica e di fatto.
L'ira è un motivo centrale nel poema. L'ira di Achille è determinata dalla sottrazione della schiava Briseide. L'ira gli fa riconquistare l'onore perduto; la parte del bottino razziato in battaglia veniva infatti assegnata al guerriero in proporzione al suo valore e al suo ruolo di combattente. Al tema dell'ira è legato quello della gloria che l'eroe conquista combattendo con valore e che gli permette di perpetuare la propria immagine alle generazioni future.
Gli dei sono antropomorfi, cioè hanno sembianze fisiche e sentimenti umani: si amano e si odiano, tramano inganni; mostrano desiderio, vanità, invidia. Al di sopra di loro sta il Fato ineluttabile (in greco, móira), cioè il Destino. Gli dei intervengono direttamente nelle vicende umane.
Altri motivi presenti sono: il senso del dovere, la vergogna del giudizio negativo e la necessità di proteggere i propri cari. Nel racconto Omero da buon greco parteggia palesemente per i greci; basti notare che quando il grande eroe troiano Ettore entra in battaglia, spesso, o scappa o è aiutato da Apollo.
Il “miracolo greco”, come è stato definito, si compì parallelamente al bisogno sentito unanimemente dal popolo greco di confrontarsi con le vicine civiltà allora insediate nel Mediterraneo, e fu agevolato nel momento in cui i greci iniziarono a organizzarsi in società via via più complesse e articolate. Tuttavia, questa crescita culturale avvenne anche grazie al grandissimo patrimonio culturale che era stato lasciato dagli Egiziani e gli Assiro-babilonesi, nelle ricerche scientifiche ma soprattutto in campi quali la matematica e l’astronomia. Altresì va sottolineato come la civiltà greca ebbe lo slancio in più che pose la loro civiltà a un livello decisamente più rilevante rispetto alle due sopraccitate e che oggi ci permette di considerare unanimemente la Grecia come la culla della civiltà occidentale. Quindi risalire agli albori della filosofia greca significa ricercare in quegli scritti successivi alla prima fase prettamente esoterica, in cui si inizia a delineare quello che poi diventerà la base per gli interrogativi e le discussioni che si possono definire prettamente filosofici. Riferirci quindi a quelle matrici culturali primordiali che porteranno a interrogarsi sui grandi interrogativi. In questo quadro va inserito Omero poeta per eccellenza e creatore senza alcun dubbio dei due più grandi poemi epici mai scritti. . Che Omero sia il creatore dei poemi in questione secondo il punto di vista dei Greci non è problematico, ma fuori della Grecia la cosiddetta “questione omerica” durante l’arco della storia ha creato molti problemi, molti dei quali tutt’oggi irrisolti. Chi fu veramente l’autore di quelle due opere è un problema aperto. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare l’Iliade e l’Odissea come i testi in cui era racchiusa tutta la cultura e tutte le sue tradizioni. I primi (e i maggiori) interrogativi sono nati dalla biografia stessa di Omero: non abbiamo nessun dato certo sulla sua figura, ma solo interpretazioni (e spesso mistiche). Ad esempio, alcuni lo ritengono figlio di Orfeo, il mistico poeta della Tracia che rendeva mansuete le belve con il suo canto; chi scriveva un’intera biografia basandosi esclusivamente sull’etimologia del suo nome (Homeros in greco significa “ostaggio” ma anche “non vedente”) e quindi parlava di un uomo cieco, che vagava di città in città narrando le storie che le muse gli sussurravano nelle orecchie. Diciamo, tutto sommato, che le fonti più attendibili ci suggeriscono che Omero sia nato nella Ionia, regione dell’Asia minore che si affaccia sul mar Egeo. Sul tempo della nascita le notizie sono alquanto discordanti. In ogni modo, tutte le contraddizioni non riuscirono neanche minimamente a scalfire la convinzione che Omero sia esistito veramente e al contrario contribuiscono a rendere la sua figura ancora più affascinante e rafforzano il concetto del poeta “ per eccellenza” tanto cara ai Greci. A lui, oltre ai celeberrimi poemi dell’Iliade e dell’Odissea, sono stati attribuiti alcuni Inni, la Batracomiomachia (la “battaglia delle rane”, poemetto che vide come illustre traduttore italiano Giacomo Leopardi) e il poema Margite. Produzione tanto vasta da suscitare i primi dubbi già nei grammatici dell’età Alessandrina. Furono sempre questi i primi ad alzare critiche a Omero. Tra questi Xenone e Ellanico lanciarono la teoria secondo la quale appartieneaOmero solo l’Iliade (movimento separatista), mentre l’Odissea sarebbe stata scritta da un’altra persona. Il più grande filologo dell’epoca, Aristarco di Samotracia, sostenne al contrario che entrambi i poemi appartengono a Omero e che le sostanziali differenze di argomento sarebbero dovute al fatto che l’Iliade era l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia (movimento unitario). Infatti tutti questi dubbi nascono principalmente dalle profonde differenze tematiche all’interno dei due poemi.
L’ILIADE E L’IDEALE DELL’ARETE’
L’Iliade si presenta come un poema complesso, ricco di valori, ma soprattutto come specchio vivente di una società, quella micenea, immersa nel medioevo ellenico e di cui si conosce ben poco. In questo sfondo, si muovono i personaggi legati alla tradizione eroico-guerriera tanto amata dalla Grecia e che l’accompagnerà dagli albori fino al tardo ellenismo. Ebbene, l’Iliade rappresenta una sorta di libro aperto su un mondo, e in quanto tale va letta immedesimandosi profondamente nell’animo dei personaggi, sentire sulla propria pelle l’ira di Achille che infiniti dolori inflisse agli Achei, piangere insieme a Priamo il destino del figlio Ettore. Il termine Iliade e collegato con il nome del mitico fondatore della città, Ilio. Perciò letteralmente significa “ le vicende riguardanti Ilio”. Il poema non narra comunque tutta l’aspra guerra tra Achei e Troiani ma solo gli ultimi 51 giorni, quelli che intercorrono tra la pestilenza nel campo Acheo e i Funerali di Ettore. Il filo conduttore di tutta l’opera è l’ira di Achille. Su di questa si intrecciano le tematiche che si fondono nella atmosfera eroica dei valori aristocratici. Il mito ci narra come la causa occasionale della guerra di Troia sia stata una donna: Paride chiamato da Zeus a decidere chi fosse più bella tra Atena, Era e Afrodite assegna la vittoria a quest’ultima che gli promette in cambio l’amore della donna più bella del mondo. Era, indignata, diventa acerrima nemica di Ilio e dei suoi abitanti; presto si allea con lei anche Atena. Dietro una trama semplice, quindi, si nasconde uno dei poemi più importanti della storia occidentale. Nell’Iliade si vive l’ideale dell’ areté che si potrebbe tradurre con il termine virtù. Bisogna prestare attenzione a non considerarlo come la virtù cristiana, concetto del tutto sconosciuto ai greci. La definizione che meglio si adatta all’areté greca è quella dataci da Machiavelli: ideale virile cavalleresco, intessuto di gagliardia corporale e intellettuale, di spirito agonistico- bellicoso, di alto è orgoglioso sentire di se e soprattutto di esasperata voglia di onore. Areté ha la stessa radice di àristos, superlativo di agathòs che generalmente significa buono e vale in Omero come aggettivo sinonimo di nobile, prode e valente. Ed è proprio questa vena di forza, coraggio che fa da trama, da filo conduttore in tutta l’Iliade. Anche nella tregua tra l’una e l’altra battaglia, Omero ci presenta sfide incontri a duello, corse, lotte, che ci fanno capire come nell’aristocrazia greca del tempo i valori su cui si valutava un uomo erano proprio questi: la forza il coraggio e l’onore. Ma lo spirito agonistico assume in Omero un significato più profondo della semplice gloria scaturita da una vittoria: esso investe il significato stesso dell’esistenza. Appartenere alla classe degli àristoi implicava un continuo allenamento per essere accettato nell’elite, l’eroe o si supera o decade. Aidos è la parola con cui si indica a un tempo la stima di se e allo stesso la vergogna per ciò che offende il senso dell’onore. Chi disprezza l’aidos provoca la nemesis la giusta riprovazione da parte degli altri e in parte la vendetta divina. Appartenere agli aristoi quindi è una continua ricerca di riuscire tra gli ottimi. Tutto questo è riassunto mirabilmente nel versetto presente nel VI e XI libro dell’Iliade:
«Sempre da prode operar e a tutti di valor star sopra».
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: come può l’eroe riconoscere il proprio stato nell’areté non conoscendo il concetto di coscienza (introdotto dal cristianesimo)? Lo deve cercare nell’onore: godere tra i pari, essere giudicato da coloro che possono giudicare. Il dramma dell’eroe greco omerico sta quando esso non vede riconosciuto il proprio onore: l’ira di Achille. Dunque l’unico modo per far conoscere a tutti il proprio onore è la morte eroica a cui segue un grande onore ed è l’unica forma di immortalità. Va sottolineato che i greci non credono nell’immortalità dell’anima: l’Ade è la disperazione senza fine, dove del corpo e dello spirito resta sola una pallida copia. Achille preferirebbe vivere da mendicante che regnare sopra il regno dei morti. La vita sebbene così breve e così travagliata rappresenta per l’uomo il massimo dell’onore. La persona grande è colui che si farà ricordare per le gesta eroiche della sua vita.
In realtà non sono proprio grandi eroi; le loro vicende sono spesso stimolate, incoraggiate o scoraggiate dall'intervento degli dei dell'Olimpo. Questi si presentano spesso sotto false sembianze, infondono forza e coraggio entrando nei corpi del proprio campione, atterriscono l'avversario con immagini spaventose, deviano le lance o le saette che colpisconi il proprio protetto.
Devo infine ricordare che l'Iliade è un vorticoso turbinio di miti che illudono, affascinano e appassionano (in alcuni casi ci rendono emotivamente partecipi alle vocende), ma la storia e la filologia ci insegnano che in molti miti può quasi sempre esservi un'ombra di verità; si pernsi a esempio ai miti di Medea, Edipo, Ulisse .... .
Patroclo e Briseide. Affresco pompeiano
RIASSUNTO LIBRO XXIV
Achille prosegue a fare strazio del corpo di Ettore. Parole dei Numi. Teti è mandata da Giove perchè imponga all'eroe di accettare la restituzione del cadavere. Iride, spedita da Giove medesimo, scende in Troia e comanda a Priamo che si rechi alle navi de' Greci e riscatti da Achille coi doni il corpo del figlio. Priamo, non curando delle rimostranze della moglie, si accinge alla partenza. Mercurio, presa la figura di un giovanetto, gli si fa incontro fuori di Troia, e salito sul suo carro gli è di scorta fino all'alloggiamento d’Achille. Priamo è al cospetto dell'eroe. Loro colloquio. Il corpo di Ettore è consegnato al padre. Ritorno di Priamo. Lamenti di Andromaca, di Ecuba e di Elena. Funerali di Ettore.
Dopo tante battaglie e scontri, gli ultimi tre canti riguardano la morte di Ettore, le esequie di Patroclo e la restituzionee a Priamo del corpo del figlio. Per me sono i canti più belli; traspare l'attitudime dei poeti greci alla tragedia e all'estrinsecazione dei sentimenti e delle emozioni. Anche le divinità sono portate a un livello di maggiore "divinità".
Priamo prega Achille per il corpo di Ettore. Frammento del VI secolo a.C.
TESTO LIBRO XXIV
Finiti i ludi, s’avviâr le sciolte
Turbe alle navi per diverse vie,
E preso il cibo, a placido riposo
S’abbandonâr. Ma memore il Pelíde
Dell’amato compagno, in nuovo pianto 5
Scioglieasi, nè serrar poteagli il sonno,
Di tutte cure domator, le ciglia.
Di qua, di là si rivolgea membrando
Il valor di Patróclo, e la grand’alma,
E le comuni imprese, e i tollerati 10
Guerrieri affanni insieme, e i perigliosi
Trascorsi flutti. E in queste ricordanze
Dirottamente lagrimava, e ora
Giacea su i fianchi, or prono, ora supino;
Poi di repente in piè balzato errava 15
Mesto sul lido. E quando i campi e l’onde
Illumina l’Aurora, egli di nuovo,
Aggiogati i corsier, di retro al cocchio
Ettore avvince, e trattolo tre volte
Di Pátroclo dintorno al monumento, 20
A riposar si torna entro la tenda,
Boccon lasciando nella polve steso
L’esangue corpo. Ma del morto eroe
Impietosito Apollo ogni bruttura
Ne tien rimossa, e tutto coll’aurata 25
Egida il copre, perchè nulla offesa
Lo strascinato corpo ne riceva.
Visto del divo Ettór lo strazio indegno,
Pietà ne venne ai fortunati Eterni,
E il vegliante Argicida a involarlo 30
Incitando venían. Questo di tutti
Era il vivo desío, ma non di Giuno,
Nè di Nettunno, nè dell’aspra vergine
Dall’azzurre pupille. Alto riposta
Nella mente sedea di queste Dive 35
Di Paride l’ingiuria, e la sprezzata
Lor beltade quel dì che a lui venute
Nel suo tugurio, ei preferì lor quella
Che di funesto amor contento il fece.
Quindi l’odio immortal delle superbe 40
Contro le sacre ilíache mura, e Príamo
E tutta insieme la dardania gente.
Ma il duodecimo sole apparso al mondo,
Febo agli Eterni così prese a dire:
""Numi crudeli, che vi fece Ettorre? 45
Forse che su gli altari a voi non arse
E di mugghianti e di lanosi armenti
Vittime elette ei sempre? E or che fiera
Morte lo spense, che furor s’è questo
Di non renderne il corpo alla consorte, 50
Alla madre, al figliuolo, al genitore,
Al popol tutto, acciò che tosto ei s’abbia
L’onor del rogo e della tomba? E tante
Onte a qual fine? Per servir d’Achille
Alle furie; d’Achille a cui nel seno 55
Nè amor del giusto nè pietà s’alberga,
Ma cuor selvaggio di lïon che spinto
Dall’ardir, dalla forza e dalla fame
Il gregge assalta a procacciarsi il cibo.
Tale il Pelíde gittò via dal petto 60
Ogni senso pietoso, e quel pudore
Che l’uom castiga co’ rimorsi e il giova.
Perde taluno ancor più cari oggetti,
Il fratello o il figlio. E nondimeno,
Finito il pianto, al suo dolor dà tregua; 65
Chè nell’uom pose il Fato alma soffrente.
Ma non sazio costui della già spenta
Vita d’Ettorre, al carro il lega, e morto
Pur dintorno alla tomba lo strascina
Dell’amico. Non è questo per lui 70
Nè utile nè bello: e badi il crudo
Che, quantunque sì prode, egli le nostre
Ire non desti infurïando e tanta
Onta facendo a un’insensibil terra"".
Tacque: e irata Giunon così rispose: 75
""Se d’Ettore e d’Achille a una bilancia
L’onor dee porsi, e così piace ai numi,
S’adémpia, o re dell’arco, il tuo discorso.
Ma di padre mortale Ettore è figlio,
E mortal poppa l’allattò. Divino 80
Germe è il Pelíde, e io nudría la Diva
Sua madre, io stessa l’educava, e sposa
La concessi a Peléo diletto ai numi.
Voi tutti a quelle nozze, o Dei, scendeste,
E tu medesmo, o disleal compagno 85
De’ malvagi, toccasti allor la cetra,
E misto agli altri banchettasti allegro"".
""Contro gli Dei non adirarti, o Giuno,
L’interruppe il Tonante. Eguale onore
Dar non vuolsi, no certo, ai due guerrieri; 90
Ma carissimo ai numi era pur anco
Tra i Teucri tutti Ettorre, e a Giove in prima.
Ostie elette mai sempre gli m’offerse,
Nè l’are mie per esso ebber difetto
Mai di convivii, nè di pingui odori, 95
Nè di tazze libate, onor che solo
Ai Celesti è sortito. Ma si ponga
Ogni pensiero d’involar l’offeso
Cadavere; e sottrarlo ora di furto
Al fiero Achille non si può, chè Teti 100
Notte e dì gli è dintorno e tutto osserva.
Pur se alcuno di voi Teti a me chiami,
Io tale un motto le farò discreto,
Che tutti accetterà di Príamo i doni
Placato Achille, e renderagli il figlio"". 105
Disse, e Iri col piè che le tempeste
Nel corso adegua, si spiccò. Fra Samo
E l’aspra Imbro calò sovra le brune
Onde del mare, e il mar sotto le piante
Della Diva muggía. Quindi s’immerse 110
Come ghianda di piombo che a bovino
Corno fidata a disertar giù scende
I crudivori pesci; e in cavo speco
Teti trovò che dalle sue sorelle
Circondata piagnea la già vicina 115
Morte del figlio che ne’ frigii campi
Perir lungi dovea dal patrio lido.
Le parve innanzi all’improvviso, e disse:
""Sorgi, o Teti: il gran padre a sè ti chiama"".
""E che vuole da me l’Onnipotente? 120
Teti rispose. Afflitta, come sono,
Di mischiarmi arrossisco agl’Immortali.
Pur vadasi e s’adémpia il suo volere"".
Ciò detto, si coprì l’augusta Diva
D’un atro vel di che null’altro il nero 125
Color lugúbre eguaglia, e in via si mise.
Iva innanzi la presta Iri, e sonora
Intorno a lor s’apría l’onda marina.
Sul lido emerse al ciel volaro: e Giove
Trovâr seduto tra gli accolti Eterni. 130
Qui Teti accanto al sommo Iddio s’assise
(Cesso a lei da Minerva il proprio seggio):
Un aureo nappo in man Giuno le pose
Con dolci accenti di conforto; ed ella
Vôtollo, e il rese grazïosa. Allora 135
Il gran padre dicea queste parole:
""Teti, malgrado il tuo dolor (ch’io tutto
Ben conosco e so quanto il cor t’aggrava),
Tu salisti all’Olimpo, e io dirotti
La cagion del chiamarti. È questo il nono 140
Giorno che in cielo si destò tra i numi
Pel morto Ettór gran lite e per Achille.
Voleano i più che l’Argicida il corpo
N’involasse di furto. Io non v’assento
E per l’onor d’Achille, e pel rispetto 145
E per l’amor ch’io t’aggio e aver ti voglio
Eternamente. Frettolosa adunque
Scendi, o Diva, sul campo, e al figlio porta
I miei precetti. Digli che adirati
Son con esso gli Dei, ch’io stesso il sono 150
Sovra tutti, da che sì furibondo
Agli strazii ei rattien l’ettórea salma,
E per riscatto non la rende ancora.
Ma renderalla, se il mio cenno ei teme.
A Príamo intanto io spedirò di Giuno 155
La messaggiera, ond’egli immantinente
Ito alle navi degli Achei, co’ doni
Plachi il Pelíde, e il figlio suo redima"".
Obbedïente a quel parlar la Diva
Mosse i candidi piedi, e dall’Olimpo 160
Scese d’un salto al padiglion d’Achille.
Il trovò sospiroso; affaccendati
A lui dintorno i suoi diletti amici
Apprestavan la mensa, ucciso un grande
E lanoso arïéte. Entrò, s’assise 165
Dolce al suo fianco la divina madre,
Accarezzollo colla destra, e disse:
""E fino a quando, o figlio, in pianti e lutti
Ti struggerai, immemore del cibo,
E deserto nel letto? Eppur di cara 170
Donna l’amplesso il cor consola: il tempo,
Ch’a me vivrai, gli è breve, e vïolenta
Già t’incalza la Parca. Or via, m’ascolta,
Ch’io di Giove a te vengo ambasciatrice.
I numi, ed esso primamente, sono 175
Teco irati, perchè nel tuo furore
Ostinato ritieni appo le navi
D’Ettore il corpo, e al genitor nol rendi.
Rendilo, e il prezzo del riscatto accetta"".
E ben, rispose sospirando Achille,180
""Venga chi lo redima e via sel porti,
Se tal di Giove è l’assoluto impero"".
Mentre in questo parlar stassi col figlio
La genitrice Dea dentro la tenda,
Giove alla sacra Troia Iri spedía. 185
Su, t’affretta, veloce Iri, e dal cielo
Vola in Ilio, e a Prïamo comanda
Che alle navi si tragga e seco apporti
A riscatto del figlio eletti doni,
Onde si plachi del Pelíde il core. 190
Ma solo ei vada, nè verun lo scorti
De’ Teucri, eccetto un attempato araldo
Che d’un plaustro mular segga al governo,
Su cui la salma dal Pelíde uccisa
Alla cittade trasportar. Nè tema 195
Di morte il cor gli turbi o d’altro danno.
Gli darem l’Argicida a condottiero,
Che fin d’Achille al padiglion lo guidi.
L’eroe vedrallo al suo cospetto, e lungi
Dal porlo a morte, terrà gli altri a freno, 200
Ch’ei non è stolto nè villan nè iniquo,
E benigno farassi a chi lo prega.
Ratta, come del turbine le penne,
Partì la Diva messaggiera, e a Príamo
Giunta, il trovò tra pianti e grida. I figli 205
Dintorno al padre doloroso accolti
Inondavan di lagrime le vesti.
Stavasi in mezzo il venerando veglio
Tutto chiuso nel manto, e insozzato
Il capo e il collo dell’immonda polve 210
Di che bruttato di sua mano ei s’era
Sul terren voltolandosi. La turba
Delle misere figlie e delle nuore
Empiea la reggia d’ululati, e quale
Ricordava il fratel, quale il marito, 215
Chè valorosi e molti eran caduti
Sotto le lance degli Achei. Comparve
Improvvisa davanti al re canuto
La ministra di Giove, e a lui che tutto
Al vederla tremò, dicea sommesso:220
"" Príamo, fa core, nè timor ti prenda.
Nunzia di mali non vengh’io, ma tutta
Del tuo meglio bramosa. A te mi manda
L’Olimpio Giove che lontano ancora
Su te veglia pietoso. Ei ti comanda 225
Di redimere il figlio, e recar molti
Doni ad Achille per placarlo. A lui
Vanne adunque, ma solo, e che nessuno
T’accompagni de’ Troi, salvo un araldo
D’età provetta, reggitor del plaustro 230
Che il corpo trasportar del figlio ucciso
Ti dee qua dentro: nè temer di morte
O d’altra offesa. Condottiero avrai
L’Argicida che te fino al cospetto
D’Achille scorterà. Lungi l’eroe 235
Dal trucidarti, terrà gli altri a freno.
Ei non è stolto nè villan nè iniquo,
E benigno farassi a chi lo prega"".
Disse, e sparve. Riscosso il re dolente,
Senza punto indugiarsi, ai figli impone 240
D’apprestargli il mular plaustro veloce,
E di legar su quello una grand’arca.
Indi salito a un’eccelsa stanza
Odorosa di cedro, ov’egli in serbo
Tenea di molti prezïosi arredi, 245
Chiamò dentro la moglie Ecuba, e disse:
""Infelice, m’ascolta: la celeste
Messaggiera recommi or or di Giove
Un comando. Egli vuol che degli Achei
M’incammini alle navi, ed al Pelíde 250
Il prezzo io porti del diletto figlio.
Che ne senti? A quel campo, a quelle tende
Certo mi spinge fortemente il core"".
Ululò la consorte, e gli rispose:
""Misera! ahi dove ti fuggì quel senno 255
Che alle tue genti e alle straniere un giorno
Glorïoso ti fea? Solo alle navi
Inimiche avvïarti? esporti solo
Alla presenza di colui che tanti
Figli t’uccise? oh cuor di ferro! e quale, 260
S’ei ti scopre, se cadi in suo potere,
Qual mai pietade o riverenza speri
Da quell’alma crudele e senza fede?
Deh piangiamlo qui soli. Era destino
Dalle Parche filato all’infelice, 265
Quand’io meschina il partorii; che lungi
Dai genitori satollar dovesse
D’un barbaro i mastini. Oh potess’io
Stretto tenerne fra le mani il core,
E strazïarlo, divorarlo! Allora 270
Del mio figlio saría sconta l’offesa,
Ch’ei da codardo non morì, ma in campo
Per la patria pugnando, e fermo il piede,
Senza smarrirsi o declinar la fronte"".
""Cessa, il vecchio riprese: il mio partire 275
È risoluto; non mi far ritegno,
Non volermi tu stessa esser funesta
Auguratrice: il distornarmi è vano.
Se mi desse un mortal questo comando,
O aruspice o indovino o sacerdote, 280
Lo terremmo menzogna, e spregeremmo:
Ma vidi io stesso, io stesso udii la Diva.
Dunque si vada, e obbediam. Se il Fato
Vuol che fra’ Greci io pera, io pure il voglio.
Morrò trafitto, ma stringendo il figlio, 285
E tutto il dolce esaurirò del pianto"".
Aprì, ciò detto, i bei forzieri, e fuora
Dodici ne cavò splendidi pepli,
E altrettante clamidi e tappeti
E tuniche e ammanti, e dieci insieme 290
Aurei talenti, due forbiti tripodi,
Quattro lebéti, e finalmente un nappo
Bellissimo, dai Traci avuto in dono
Quando andovvi orator; raro presente:
E nondimen di questo pure il veglio 295
Si fe’ privo: cotanto al cor gli preme
Il riscatto del figlio. Uscito ei quindi,
Tutto discaccia de’ Troiani il vulgo
Ai portici raccolto, e acerbo grida:
""Via, perversi, di qua: forse vi manca 300
Domestico dolor, chè qui venite
Ad aggravarmi il mio? forse n’è poco
L’alto affanno in che Giove mi sommerse
Il più forte togliendomi de’ figli?
Ma voi medesmi vel saprete in breve, 305
Voi che senza difesa, or ch’egli è morto,
Sotto le spade degli Achei cadrete.
Ma deh! pria che veder Troia distrutta,
Deh ch’io discenda alla magion di Pluto"".
Così grida il tapino, e con lo scettro 310
Fuor ne mette la turba che sommessa
Si dileguava. Irrequïeto poscia
I suoi figli bravando li rampogna,
Eleno e Pari e Antifono e Pammone
E l’illustre Agatone e il prode in guerra 315
Buon Polite e Dëífobo e Agávo,
Di divina sembianza giovinetto,
Ed Ippotóo. Si volge a questi nove
Con acerbi rabbuffi il doloroso,
""E, Studiatevi, grida: a che vi state,320
Nequitosi infingardi? oh foste tutti
Spenti in vece d’Ettorre! Oh me infelice!
Re dell’eccelsa Troia io generai
Fortissimi figliuoli, e nullo in vita
Ne rimase. Caduto è il dëiforme 325
Mio Méstore; caduto è il bellicoso
Tróilo di cocchi agitatore; e ora
Ettore cadde, quell’Ettór che un Dio
Fra’ mortali parea; no, d’un mortale
Figlio ei non parve, ma d’un Dio. La guerra 330
Mi tolse i buoni, e mi lasciò cotesti
Vituperii; sì voi, prodi soltanto
Alle danze, agl’inganni, alle rapine.
Su, che si tarda? Apparecchiate il carro,
Ponetevi que’ doni, e vi spedite, 335
Onde senza più starmi io m’incammini"".
Rispettosi al garrir del genitore
Corser quelli e dier fuora incontanente
L’agile plaustro tutto nuovo e bello,
E una grand’arca vi legâr di sopra. 340
Indi un giogo mulin di bosso, ornato
D’un umbilico con anel ben messo,
Dal pïuólo spiccâr: poscia di nove
Cubiti tratta la giogal gombína,
Al capo accomodâr del liscio temo 345
Acconciamente il giogo, e sovrapposto
Alla caviglia del timon l’anello,
Con triplicato giro all’umbilico
L’avvinghiâr quinci e quindi, e fatto un nodo,
Della gombína ripiegâr la punta 350
Nella parte di sotto. Ciò finito,
Giù recâr dalla stanza i destinati
Doni al riscatto dell’ettórea testa,
Immensi doni; e sul pulito plaustro
Gl’imposero, e del plaustro al giogo addussero 355
Senza ritardo due gagliarde mule,
De’ Misii illustre dono al re troiano.
Quindi allestiti presentaro al padre
Del regale suo cocchio i corridori,
Cui Príamo stesso governar solea 360
Ne’ nitidi presepi: e or gli accoppia
Ei medesmo alla biga il mesto veglio
Sotto i portici eccelsi, esso e il suo fido
Araldo, entrambi pensierosi e muti.
Féssi allor la dolente Ecuba incontro 365
Al re marito, nella man tenendo
Di soave licore un aureo nappo,
Onde ai numi libasse anzi il partire.
Stette avanti ai corsieri, e, ""Tien, gli disse,
Liba a Giove, e lo prega che ti voglia 370
Dai nemici tornar salvo al tuo tetto,
Poichè, malgrado il mio dissenso, hai ferma
La tua partenza. Or tu la supplicante
Voce innalza all’idéo Giove nemboso,
Che d’alto guarda la cittade, e chiedi 375
Che messaggier ti mandi alla diritta
Quel fortissimo suo veloce augello
Sovra tutti a lui caro, onde tal vista
Il tuo vïaggio affidi al campo acheo.
Se il Dio ricusa d’invïarti questo 380
Suo propizio messaggio, io ti scongiuro
Di non rischiar tuoi passi a quelle navi,
E di dar bando al fier desío che porti"".
""Facciasi, o donna, il tuo voler, rispose
Il nobile vegliardo: ai numi è buono 385
Alzar le palme e implorar mercede"".
Disse; e all’ancella dispensiera impose
Di versargli una pura onda alle mani;
E l’ancella appressossi, e colla manca
Sostenendo il bacin, versò coll’altra 390
Da tersa idria l’umor. Lavato ei prese
L’offerta coppa, e ritto in piè nel mezzo
Dell’atrio, in atto supplicante alzati
Gli occhi al cielo, libò con questi accenti:
""Giove massimo Iddio, che glorïoso 395
Dall’Ida imperi, fa che grato io giunga
Ad Achille, e pietà di me gl’ispira.
Mandami a dritta il tuo veloce e caro
Re de’ volanti, e ch’io lo vegga: e certo
Per lui del tuo favore, alle nemiche 400
Tende i miei passi volgerò sicuro"".
Esaudì Giove il prego, e il più perfetto
Degli augurii mandò, l’aquila fosca,
Cacciatrice, che detta è ancor la Bruna.
Larghe quanto la porta di sublime 405
Stanza regal spiegava il negro augello
Le sue vaste ali, dirigendo a destra
Sulla cittade il volo. Esilarossi
A tutti il core nel vederla. Il veglio
Montò il bel cocchio frettoloso, e fuora 410
Dei risonanti portici lo spinse.
Traenti il plaustro precedean le mule
Dal saggio Idéo guidate, e lo seguiéno
Della biga i corsier che il re canuto
Per l’ampie strade colla sferza affretta. 415
L’accompagnan piangendo i suoi più cari,
Come se a morte ei gisse. Alfin venuti
Alle porte, lasciârsi. Il re discese
Verso il campo nemico, e lagrimosi
Nella cittade ritornârsi i figli. 420
Mercurio, dipinto di Hendrik Goltzius
Vide Giove dall’alto i due soletti
Pellegrini inoltrarsi alla pianura.
Pietà gli venne dell’antico sire,
E a Mercurio parlò: ""Diletto figlio,
Tu che guida ai mortali esser ti piaci, 425
E pietoso gli ascolti, va veloce,
Ed alle navi achee Príamo conduci
Occulto in guisa che nessuno il vegga
De’ vigilanti Argivi e se n’accorga,
Pria che d’Achille alla presenza ei sia. 430
Mercurio a obbedir tosto s’accinge
I precetti del padre. E prima ai piedi
I bei talari adatta. Ali son queste
D’incorruttibil auro, ond’ei volando
L’immensa terra e il mar ratto trascorre 435
Collo spiro de’ venti. Indi la verga,
Che dona e toglie a suo talento il sonno,
Nella destra si reca, e scioglie il volo.
In un batter di ciglio all’Ellesponto
Giunge e al campo troian. Qui prende il volto 440
Di regal giovinetto a cui fioría
Del primo pelo la venusta guancia,
E, così fatto, il nume s’incammina.
Già Príamo con Idéo d’Ilo la tomba
Avea trascorsa, e qui sostato alquanto, 445
Alla chiara corrente abbeverava
E le mule e i destrier. L’ombra notturna
Sulla terra scendea, quando l’araldo
Del nume s’avvisò che alla lor volta
Già s’appressava, e sbigottito disse: 450
""Bada, o re; qui si vuol tutta prudenza.
Veggo un nemico, e siam perduti. O ratto
Diamci in fuga, o abbracciam le sue ginocchia
Implorando pietà"". - Smarrissi il veglio,
Il terror gli arricciò su le canute 455
Tempie le chiome, il brivido gli corse
Per le tremule membra; e stupidito
S’arrestò. Ma si fece innanzi il nume,
E presolo per mano interrogollo:
"" Dove, o padre, dirigi esti corsieri 460
Così pel buio della dolce notte
Mentre gli altri han riposo? E non paventi
I furibondi Achei, che ti son presso,
Fieri nemici? Se qualcun di loro
Per l’ombra oscura portator ti coglie 465
Di quei tesori, che farai? Garzone
Tu non sei, nè cotesto che ti segue,
Onde far petto a chi t’assalti infesto.
Ma di me non temer, ch’io qui mi sono
In tuo danno non già, ma in tua difesa, 470
Perocchè come padre a me sei caro"".
E Príamo a lui: ""La va, come tu dici,
Mio dolce figlio. Ma propizio ancora
Tien su me la sua mano un qualche iddio,
Che tal mi manda della via compagno 475
Ben augurato, come te, di corpo
Bello e di volto, e di mirando senno,
E di beati genitor germoglio"".
""Gli è ver, ti guarda un Dio, siccome avvisi
(Ripiglia il nume): ma rispondi, e schietto 480
Parlami il vero. In regïon straniera
Porti tu forse, per salvarli, questi
Prezïosi tesori? O forse tutti
Di spavento compresi abbandonate
La città, da che spento è il tuo gran figlio 485
Che a nullo Achivo di valor cedea?"".
""Oh chi se’ tu? riprese intenerito
L’esimio rege, chi se’ tu che parli
Del mio morto figliuol così cortese?
E chi son dunque i tuoi parenti, o caro?"" 490
Allor Mercurio: ""Tu mi tenti, o veglio,
Col tuo dimando. Or ben: nella battaglia
Onoratrice de’ guerrieri io vidi
Con quest’occhi più volte il divo Ettorre,
Massimamente il dì che degli Achei 495
Strage egli fece col fulmineo ferro
Cacciandoli alle navi. Ad ammirarlo
Noi fermi ci stavam; chè irato Achille
Col sommo Atride a noi non consentía
L’entrar dentro alla mischia. Io suo soldato 500
Qua ne venni con esso in una stessa
Nave: di schiatta Mirmidóne io sono;
Polítore m’è padre: a lui son molte
Ricchezze e molta età pari alla tua,
E settimo de’ figli io fui sortito 505
A questa guerra. Esplorator del campo
Or qui ne venni: perocchè dimani
Di buon tempo gli Achivi alla cittade
Daran l’assalto. Di riposo ei sono
Tutti sdegnosi, e contenerne il fiero 510
Desío di pugna più non ponno i duci"".
Udito questo, replicò de’ Teucri
L’augusto sire: ""Se davver soldato
Del Pelíde tu sei, tutto deh fammi
Palese il vero. Il mio figliuol giac’egli 515
Per anco intero nelle tende, o fatto,
Misero! in brani, lo gittò pastura
De’ suoi mastini l’uccisor?"" - No, pronto
L’Argicida rispose."" Ei giace intatto
Tuttavia dalle belve appo la nave 520
Capitana d’Achille entro la tenda
Senza segno d’onor. La dodicesma
Luce rifulse sul giacente, e ancora
Il suo corpo è incorrotto, e il vorace
Morso de’ vermi che gli estinti in guerra 525
Tutti consuma, il figlio tuo rispetta.
Vero gli è ben che dell’amico intorno
Alla tomba, col sorgere dell’alba,
Spietatamente Achille lo strascina;
Nè per ciò giunge a deturparlo, e quando 530
Tu medesmo il vedessi, maraviglia
Ti prenderebbe nel trovarlo tutto
Mondo dal tabo e fresco e rugiadoso,
In ogni parte intégro, e le ferite,
Che molte ei n’ebbe, tutte chiuse. Tanto 535
Gl’iddii beati, a cui diletto egli era,
Dell’estinto tuo figlio ebber pensiero"".
Gioinne il vecchio, e replicò: ""Per certo
Torna in gran bene agl’Immortali offrire
Ogni debito onor, nè il mio figliuolo ,540
Finchè si visse, degli Dei gli altari
Dimenticò. Quind’essi alla sua morte
Ricordârsi di lui. Ma tu ricevi,
Deh ricevi da me questo bel nappo;
Custodiscilo, e fausti i sommi Dei, 545
Del Pelíde alla tenda m’accompagna"".
""Buon vecchio, replicò con un sorriso
L’Argicida, tu tenti l’inesperta
Mia giovinezza, ma la tenti in vano.
Inscio Achille, non fia che doni io prenda. 550
Temo il mio duce, e più il rubar; nè voglio
Che guaio me n’incolga. Io scorterotti
Così pur senza doni e di buon grado,
E per terra e per mar, come ti piace,
Anche d’Argo alle rive, nè veruno 555
Su te le mani metterà, me duce"".
Così detto, balzò sopra la biga,
E alle man date col flagel le briglie
Ne’ cavalli trasfuse e nelle mule
Una gagliarda lena. Eran già presso 560
Delle navi alle torri e alla fossa,
E davano le scolte opra alle cene.
Tutte Mercurio addormentolle, e tosto,
Levatene le sbarre, aprì le porte,
E di Príamo la biga, e de’ bei doni 565
L’onusto carro v’introdusse. Il passo
Drizzâr quindi d’Achille al padiglione,
Che splendido e sublime i Mirmidóni
Gli avean costrutto di robusto abete.
Irsuto e spesso di campestri giunchi 570
Il culmine s’estolle: ampio di pali
Folto steccato lo circonda, e sola
Una trave la porta n’assicura,
Trave immensa, abetina, che a levarsi
E a riporsi di tre chiedea la forza, 575
E il Pelíde vi bastava ei solo.
L’aperse il nume, e intromesso il vecchio
Co’ recati ad Achille incliti doni,
Scese d’un salto a terra, e così disse:
""O Príamo, io sono il sempiterno iddio 580
Mercurio; il padre mi spedì tua guida,
E qui ti lascio, chè il menarti io stesso
Del Pelíde al cospetto, e tanto innanzi
Favorire un mortale, a un Immortale
Disconviensi. Tu entra, e abbracciando 585
Le sue ginocchia per la madre il prega
E pel padre e pel figlio, onde si plachi"".
Sparve, ciò detto, ed all’olimpie cime
Risalì. Príamo scese, e alla cura
De’ cavalli lasciato e delle mule 590
L’araldo, s’avvïò dritto d’Achille
Alle stanze riposte. Avea di Giove
L’eroe diletto in quel medesmo punto
Dato fine alla cena. I suoi sergenti
In disparte sedean. Soli al guerriero 595
Ministravano in piedi Automedonte
Ed Alcimo, di Marte almo rampollo.
Tolta non era ancor la mensa, e ancora
Sedeavi Achille. Il venerando veglio
Entrò non visto da veruno, e tosto 600
Fattosi innanzi, tra le man si prese
Le ginocchia d’Achille, e singhiozzando
La tremenda baciò destra omicida
Che di tanti suoi figli orbo lo fece.
Come avvien talor se un infelice 605
Reo del sangue d’alcun del patrio suolo
Fugge in altro paese, e a un possente
S’appresentando, i riguardanti ingombra
D’improvviso stupor; tale il Pelíde
Del dëiforme Príamo alla vista 610
Stupì. Stupiro e si guardaro in viso
Gli altri con muta maraviglia, e allora
Il supplice così sciolse la voce:
""Divino Achille, ti rammenta il padre,
Il padre tuo da ria vecchiezza oppresso 615
Qual io mi sono. In questo punto ei forse
Da’ potenti vicini assedïato
Non ha chi lo soccorra, e all’imminente
Periglio il tolga. Nondimeno, udendo
Che tu sei vivo, si conforta, e spera 620
A ogn’istante riveder tornato
Da Troia il figlio suo diletto. E io,
Miserrimo! io che a tanti e valorosi
Figli fui padre, ahi! più nol sono, e parmi
Già di tutti esser privo. Di cinquanta 625
Lieto io vivea de’ Greci alla venuta.
Dieci e nove di questi eran d’un solo
Alvo prodotti; mi veníano gli altri
Da diverse consorti, e i più ne spense
L’orrido Marte. Mi restava Ettorre, 630
L’unico Ettorre, che de’ suoi fratelli
E di Troia e di tutti era il sostegno;
E questo pure per le patrie mura
Combattendo cadéo dianzi al tuo piede.
Per lui supplice io vegno, e infiniti 635
Doni ti reco a riscattarlo, Achille!
Abbi ai numi rispetto, abbi pietade
Di me: ricorda il padre tuo: deh! pensa
Ch’io mi sono più misero, io che soffro
Disventura che mai altro mortale 640
Non soffrì, supplicante alla mia bocca
La man premendo che i miei figli uccise"".
A queste voci intenerito Achille,
Membrando il genitor, proruppe in pianto,
E preso il vecchio per la man, scostollo 645
Dolcemente. Piangea questi il perduto
Ettore ai piè dell’uccisore, e quegli
Or il padre, or l’amico, e risonava
Di gemiti la stanza. Alfin satollo
Di lagrime il Pelíde, e ritornati 650
Tranquilli i sensi, si rizzò dal seggio,
E colla destra sollevò il cadente
Veglio, il bianco suo crin commiserando
Ed il mento canuto. Indi rispose:
""Infelice! per vero alte sventure 655
Il tuo cor tollerò. Come potesti
Venir solo alle navi e al cospetto
Dell’uccisore de’ tuoi forti figli?
Hai tu di ferro il core? Or via, ti siedi,
E diam tregua a un dolor che più non giova. 660
Liberi i numi d’ogni cura al pianto
Condannano il mortal. Stansi di Giove
Sul limitar due dogli, uno del bene,
L’altro del male. A cui d’entrambi ei porga,
Quegli mista col bene ha la sventura. 665
A cui sol porga del funesto vaso,
Quei va carco d’oltraggi, e lui la dura
Calamitade su la terra incalza,
E ramingo lo manda e disprezzato
Dagli uomini e da’ numi. Ebbe Peléo 670
Al nascimento suo molti da Giove
Illustri doni. Ei ricco, egli felice
Sovra tutti i viventi, il regno ottenne
De’ Mirmidóni, e una consorte Diva
Benchè mortale. Ma lui pure il nume 675
D’un disastro gravò. Nell’alta reggia
Prole negògli del suo scettro erede,
Nè gli concesse che di corta vita
Un unico figliuolo, e io son quello;
Io che di lui già vecchio esser non posso 680
Dolce sostegno, e negl’ilíaci campi
Seggo lontano dalla patria, infesto
A’ tuoi figli e a te stesso. E te pur anco
Udimmo un tempo, o vecchio, esser beato
Posseditor di quanta hanno ricchezza 685
Lesbo sede di Mácare, e la Frigia
Ed il lungo Ellesponto. All’opulenza
Di queste terre numerosi figli
La fama t’aggiungea. Ma poichè i numi
In questa guerra ti cacciâr, meschino! 690
Ch’altro vedesti intorno alle tue mura
Che perpetue battaglie e sangue e morti?
Pur datti pace, nè voler ch’eterno
Ti consumi il dolor. Nullo è il profitto
Del piangere il tuo figlio, e pria che in vita 695
Richiamarlo, ti resta altro soffrire"".
""Deh non far ch’io mi segga, almo guerriero,
L’antico sire ripigliò: là dentro
Senza onor di sepolcro il mio diletto
Ettore giace: rendilo al mio sguardo; 700
Rendilo prontamente, e i molti doni
Che ti rechiamo, accetta, e ne fruisci,
E diati il ciel di salvo ritornarti
Al tuo loco natío, poichè pietoso
E la vita mi lasci e i rai del Sole.""705
""Non m’irritar co’ tuoi rifiuti, o veglio,
Bieco Achille riprese. Io stesso avea
Statuito nel cor, che alfin renduto
Ti fosse il figlio, perocchè la diva
Nerëide mia madre a me di Giove 710
Già fe’ chiaro il voler. Nè si nasconde
Al mio vedere, al mio sentir, che un nume
Ti fu scorta alle navi a cui veruno
Mortal non fôra d’inoltrarsi ardito,
Nè le guardie ingannar, nè delle porte 715
Avría le sbarre disserrar potuto
Neppur di tutto il suo vigor nel fiore.
Con querimonie adunque il mio corruccio
Non rinfrescarmi, se non vuoi ti metta,
Benchè supplice mio, fuor della tenda, 720
E del Tonante trasgredisca il cenno"".
Tremonne il vecchio, ed obbedì. Balzossi
Fuor della tenda allor come lïone
Il Pelíde con esso i due scudieri
Automedonte ed Alcimo, cui, dopo 725
Il morto amico, tra’ compagni egli ebbe
In più pregio ed amor. Sciolsero questi
I corsieri e le mule, e intromesso
L’antico araldo l’adagiaro in seggio.
Poscia dal plaustro i prezïosi doni 730
Del riscatto levâr, ma due pomposi
Manti lasciârvi, e una ben tessuta
Tunica all’uopo di mandar coperto
Il cadavere in Ilio. Indi chiamate
Le ancelle, comandò che tutto fosse 735
E lavato e di balsami perfuso
In disparte dal padre, onde il meschino,
Veduto il figlio, in impeti non rompa
Subitamente di dolore e d’ira,
Sì che la sua destando anche il Pelíde 740
Contro il cenno di Giove nol trafigga.
Lavato adunque dall’ancelle e unto
Di balsami odorati, e di leggiadra
Tunica avvolto, e poi di risplendente
Pallio coperto, il gran Pelíde istesso 745
Alzatolo di peso, in sul ferétro
Collocollo; e composto i suoi compagni
Sul liscio plaustro lo portâr. Dal petto
Trasse allora l’eroe cupo un sospiro,
E il diletto chiamando estinto amico 750
Sclamò: ""Patróclo, non volerti meco
Adirar, se nell’Orco udrai ch’io rendo
Ettore al padre. In suo riscatto ei diemmi
Convenevoli doni, e la migliore
Parte a te sarà sacra, anima cara"". 755
Rïentrò quindi nella tenda, e sopra
Il suo seggio col tergo alla parete
Sedutosi di fronte a Príamo, disse:
""Buon vecchio, il tuo figliuol, siccome hai chiesto,
È in tuo potere, e nel ferétro ei giace. 760
Potrai dell’alba all’apparir vederlo,
E via portarlo. Si rivolga adesso
Alla mensa il pensier, ch’anco l’afflitta
Níobe del cibo ricordossi il giorno
Che dodici figliuoi morti le furo, 765
Sei del leggiadro e sei del forte sesso,
Tutti nel fior di giovinezza. Ai primi
Recò morte Dïana, e ai secondi
Il saettante Apollo, ambo sdegnati
Che Níobe ardisse all’immortal Latona 770
Uguagliarsi d’onor, perchè la Dea
Sol di due parti fu feconda, ed essa
Di ben molti di più. Ma i molti furo
Dai due trafitti. Nove volte il Sole
Stesi li vide nella strage, e nullo 775
Fu che di poca terra li coprisse,
Perchè converso in dure pietre avea
Giove la gente. Alfin lor diero i numi
Nella decima luce sepoltura.
Stanca la madre del suo molto pianto, 780
Non fu schiva di cibo. Or poi fra i sassi
Del Sipilo deserti, ove le stanze
Son delle Ninfe che sul verde margo
Danzano d’Acheléo, cangiata in rupe
Sensibilmente ancor piagne, e in ruscelli 785
Sfoga l’affanno che gli Dei le diero.
E noi pure, o divin vecchio, pensiamo
Al nutrimento. Ritornato poscia
Col figlio a Troia, il piangerai di nuovo,
Chè molto è il pianto che ti resta ancora"". 790
Così detto, levossi frettoloso,
E un’agnella sgozzò di bianco pelo.
La scuoiaro i compagni, e acconciamente
L’apprestâr minuzzandola con molta
Perizia; e infissa negli spiedi, e quindi 795
Ben rosolata la levâr dal foco.
Da nitido canestro Automedonte
Pose il pan su la mensa, e il Pelíde
Spartì le carni. La man porse ognuno
Alle vivande apparecchiate, e spento 800
Del cibarsi il desío, Príamo si pose
Maravigliando a contemplar d’Achille
Le divine sembianze, e quale e quanto
Il portamento. Stupefatto ei pure
Sul dardánide eroe tenea le luci 805
Fisse il Pelíde, e il venerando volto
N’ammirava e il parlar pieno di senno.
Come fur sazii del mirarsi, ruppe
Príamo il tacer: ""Preclaro ospite mio,
Mettimi or tosto a riposar, ch’io possa 810
Gustar di dolce sonno alcuna stilla.
Dal dì che sotto la tua man possente
Il mio figlio spirò, mai non fur chiuse
Queste palpebre, mai; ch’altro non seppi
Da quel punto che piangere, ululare, 815
Voltolarmi per gli atrii nella polve,
Mille ambasce ingoiando. Dopo tanto
Fiero digiuno, or ecco che gustato
Ho qualche cibo alfine e qualche sorso.
Questo udendo, ai compagni ed all’ancelle 820
Pronto il Pelíde comandò di porre
Nel padiglione esterïor due letti
Con distesi tappeti, e porporine
Belle coltrici, e vesti altre vellose
Da ricoprirsi. Obbedïenti al cenno 825
Uscîr le ancelle colle faci in mano,
E tosto i letti apparecchiâr. Di lui
Sollecito il Pelíde, allor gli punse
Di tema il cor, dicendo:"" Ottimo padre,
Dormi qua fuor. Potría de’ prenci achivi, 830
Che qui son per consulte a tutte l’ore,
Recarsi a me talun, siccome è l’uso,
E vederti, e ridirlo al sommo duce
Agamennóne, e farsi impedimento
Al riscatto d’Ettorre. Or mi dichiara 835
Veracemente. A’ suoi funebri onori
Quanti vuoi giorni? Io terrò l’armi in posa
Per altrettanti, e frenerò le schiere"".
""Se ne consenti (Prïamo rispose)
Placide esequie al figlio mio, per certo 840
Mi fai cosa ben grata, o generoso.
Siam rinchiusi, lo sai, dentro le mura;
Sai che n’è lungi il monte, ove la selva
Tagliar pel rogo, e sai quanto de’ Teucri
È lo spavento. Nove giorni al pianto 845
Consacreremo nelle case: al decimo
Arderemo la pira, e imbandirassi
Per la cittade il funeral banchetto.
Gli darem tomba nel seguente, e l’armi
Nell’altro piglierem, se stremo il chiede"".850
"" Buon vecchio, sia così, soggiunse Achille:
Tanto l’armi staran quanto tu brami.
Così dicendo, la sua destra pose
Nella destra di quello, onde sgombrargli
Ogni temenza. Prïamo e l’araldo 855
Nell’atrio coricârsi; entro i recessi
Della tenda il Pelíde; e al suo fianco
La bella figlia di Briséo si giacque.
Tutti dormían sepolti in dolce sonno
I guerrieri e gli Dei, ma non l’amico 860
De’ mortali Mercurio, che venía
Pur divisando in suo pensier la guisa
Di trarre, dalle guardie inosservato,
Fuor del dorico vallo il re troiano.
Stettegli adunque su la fronte, e disse: 865
""Re, così dormi fra’ nemici? e nulla
Ti cal del rischio in che ti trovi, uscito
Dagli artigli d’Achille? A caro prezzo
Redimesti l’amato estinto figlio.
Ma per te che sei vivo, Agamennóne 870
Se qui sapratti, e tutto il campo acheo,
Tre volte tanto chiederanno ai figli
Che rimasti ti sono"". - E più non disse.
Destasi il vecchio sbigottito, e sveglia
L’araldo: aggioga l’Argicida istesso 875
I cavalli e le mule, e presto presto
Spinti i carri, invisibile traversa
Gli accampamenti. Alla corrente giunti
Del genito da Giove ondoso Xanto
Nell’ora che sul mondo il suo vermiglio 880
Velo dispiega di Titon l’amica,
Volò Mercurio al cielo, e i due canuti
Con gemiti e lamenti alla cittade
Celeravan la via. Grave del caro
Cadavere davanti iva il carretto, 885
Nè d’uomo orecchio, nè di donna ancora
Il fragor ne sentía. L’udì primiera
La vergine Cassandra, e su la rocca
Di Pergamo salita, il suo diletto
Padre e l’araldo riconobbe eccelsi 890
Sovra i carri, e la spoglia inanimata
Che sul plaustro giacea. Mise a tal vista
Alti gridi e ululati, e per le vie,
""Troi, Troiane, gridava, eccone Ettorre;
Accorrete, vedetelo, gli è quello 895
Che ritornando dalla pugna empiea
Tutti, un tempo, di gioia i vostri petti"".
Nè verun nè veruna a questo annunzio
Nella cittade si restò, ma tutti
D’intollerando duolo il cuor compresi 900
Si versâr dalle porte, e fersi incontro
Al lugubre convoglio. Ivi primiere
Lacerandosi i crini la diletta
Sposa e l’augusta genitrice al carro
S’avventâr furïose, e sull’amata 905
Pallida fronte abbandonâr le bocche,
Tutta dintorno piangendo la turba.
E le lagrime, i gemiti, le grida
Sul deplorato Ettorre avrían l’intero
Giorno consunto su le meste porte, 910
Se Prïamo dal cocchio all’inondante
Turba rivolto non dicea: ""Sgombrate
Al carro il varco: pascervi di pianto
Su quel corpo potrete entro la reggia"".
S’aprì la folta, passò il carro, e giunse 915
Negl’incliti palagi. Ivi deposto
Il cadavere in regio cataletto,
Il lugubre sovr’esso incominciaro
Inno i cantori de’ lamenti, e al mesto
Canto pietose rispondean le donne: 920
Fra cui plorando Andrómaca, e strignendo
D’Ettore il capo fra le bianche braccia,
Fe’ primiera sonar queste querele:
"" Eccoti spento, o mio consorte, e spento
Sul fior degli anni! e vedova me lasci 925
Nella tua reggia, e orfanello il figlio
Di sventurato amor misero frutto,
Bambino ancora, e senza pur la speme
Che pubertade la sua guancia infiori.
Perocchè dalla cima Ilio sovverso 930
Ruinerà tra poco or che tu giaci,
Tu che n’eri il custode, e gli servavi
I dolci pargoletti e le pudiche
Spose, che tosto ai legni achei n’andranno
Strascinate in catene, ed io con esse. 935
E tu, povero figlio, o ne verrai
Meco in servaggio di crudel signore
Che ad opre indegne danneratti, o forse
Qualche barbaro Acheo dall’alta torre
Ti scaglierà sdegnoso, vendicando 940
O il padre, o il figlio, o il fratel dall’asta
D’Ettor prostrati; chè per certo molti
Di costoro per lui mordon la terra.
Terribile ai nemici era il tuo padre
Nelle battaglie, e quindi è il duol che tragge 945
Da tutti gli occhi cittadini il pianto.
Ineffabile angoscia, Ettore mio,
Tu partoristi ai genitor; ma nulla
Si pareggia al dolor dell’infelice
Tua consorte. Spirasti, e la mancante 950
Mano dal letto, ohimè! non mi porgesti,
Non mi lasciasti alcun tuo savio avviso,
Ch’or giorno e notte nel fedel pensiero
Dolce mi fóra richiamar piangendo"".
Accompagnâr co’ gemiti le donne 955
D’Andrómaca i lamenti, e li seguiva
Il compianto d’Ecúba in questa voce:
""O de’ miei figli, Ettorre, il più diletto!
Fosti caro agli Dei mentre vivevi,
E il sei, qui morto, ancora. Il crudo Achille 960
Di Samo e d’Imbro e dell’infida Lenno
Su le remote tempestose rive
Quanti a man gli venían, tutti vendeva
Gli altri miei figli; e tu dal suo spietato
Ferro trafitto, e tante volte intorno 965
Strascinato alla tomba dell’amico
Che gli prostrasti (nè per questo in vita
Lo ritornò), tu fresco e rugiadoso
Or mi giaci davanti, e fior somigli
Dai dolci strali della luce ucciso"".970
A questo pianto rinnovossi il lutto,
Ed Elena fe’ terza il suo lamento:
""O a me il più caro de’ cognati, Ettorre,
Poichè il Fato mi trasse a queste rive
Di Paride consorte! oh morta io fossi 975
Pria che venirvi! Venti volte il Sole
Il suo giro compì da che lasciato
Ho il patrio nido, e una maligna o dura
Sola parola sul tuo labbro io mai
Mai non intesi. E se talvolta o suora 980
O fratello o cognata, o la medesma
Veneranda tua madre (chè benigno
A me fu Príamo ognor) mi rampognava,
Tu mansueto, con dolce ripiglio
Gli ammonendo, placavi ogni corruccio. 985
Quind’io te piango e in un la mia sventura,
Chè in tutta Troia io non ho più chi m’ami
O compatisca, a tutti abbominosa"".
Così sclamava lagrimando, e seco
Il popolo gemea. Si volse alfine 990
Príamo alla turba, e favellò: ""Troiani,
Si pensi al rogo. Andate, e dalla selva
Qua recate il bisogno, nè vi prenda
Timor d’insidie. Mi promise Achille,
Nel congedarmi, di non farne offesa 995
Anzi che spunti il dodicesmo Sole"".
Disse; e muli e giovenchi in un momento
Sotto il giogo fur pronti, e dalle porte
Proruppero. Durò ben nove interi
Giorni il trasporto delle tronche selve. 1000
Come rifulse su la terra il raggio
Della decima aurora, lagrimando
Dal feretro levâr del valoroso
Ettore il corpo, e postolo sul rogo,
Il foco vi destâr. Rïapparita 1005
La rosea figlia del mattin, s’accolse
Il popolo dintorno all’alta pira,
E pria con onde di purpureo vino
Tutte estinser le brage. Indi per tutto
Queto il foco, i fratelli e i fidi amici 1010
Pieni il volto di pianto e sospirosi
Raccolsero le bianche ossa, e composte
In urna d’oro le coprîr d’un molle
Cremisino. Ciò fatto, in cava buca
Le posero, e di spesse e grandi pietre 1015
Un lastrico vi féro, e prestamente
Il tumulo elevâr. Le scolte intanto
Vigilavan dintorno, onde un ostile
Non irrompesse repentino assalto
Pria che fosse al suo fin l’opra pietosa. 1020
Innalzato il sepolcro dipartîrsi
Tutti in grande frequenza, e nella vasta
Di Prïamo adunati eccelsa reggia
Funebre celebrâr lauto convito.
Questi furo gli estremi onor renduti 1025
A Ettorre, domator di cavalli.
Testo di Vincenzo Monti.
Mi sono permesso di sostituire alcune parole desuete e di accettare solo la d eufonica.
Neottolemo uccide Priamo percuotendolo col cadavere di Astianatte. Anfora attica del VI secolo aC
PRIAMO
Priamo (in greco antico: Príamos; in latino: Priamus) è un personaggio della mitologia greca. Fu il Re di Troia durante la guerra di Troia e morì nella notte della caduta della città.
Priamo si sposò tre volte ed ebbe numerose concubine e schiave. La sua progenie fu numerosissima. Secondo la versione più diffusa il numero totale dei suoi figli arriverebbe al numero tondo di cinquanta mentre altre fonti parlano di cinquanta maschi e cinquanta femmine.
La sua prima moglie fu Arisbe da cui nacque il figlio Esaco: i due erano giovanissimi e a quanto pare Priamo non era ancora re. Priamo in seguito ripudiò Arisbe in favore di Ecuba da cui ebbe Ettore (l'eroe dell'Iliade ed erede al trono), Paride, Deifobo, l'indovino Eleno, Pammone, Polite, Antifo, Hipponoo, il primo Polidoro, Troilo e le figlie Creusa, Laodice, Polissena, Cassandra (gemella di Eleno) ed Iliona.
L'ultima moglie fu Laotoe (da lui sposata senza ripudiare Ecuba), che gli diede i maschi Licaone e il secondo Polidoro che fu il suo ultimogenito.
Tra i figli avuti da schiave o concubine i più noti sono Democoonte, Gorgitione (avuto da Castianira), Cebrione, Mestore e Medesicaste.
Apollodoro scrive che Priamo fu il quinto e ultimogenito avuto dal padre (re Laomedonte) con la moglie Strimo e che fu chiamato con il nome Podarce (il pié veloce).
Durante la sua infanzia, suo padre non mantenne la parola data ad Eracle (riguardo al pagamento di un debito) e da costui fu attaccato, subendo così una guerra dove finì ucciso assieme ad alcuni dei suoi figli.
In seguito a questi fatti Podarce salì al trono della città di Troia.
Eracle inoltre, finita la guerra, premiò il compagno Telamone con Esione (una figlia di Laomedonte e Strimo) alla quale permise di portare con sé un prigioniero (Podarce) per il quale fu però deciso che doveva essere riscattato come schiavo: così lei, come prezzo del riscatto diede il velo che le copriva la testa e il giovane Podarce fu chiamato Priamo vale a dire " il riscattato ".
Diodoro Siculo scrive invece che Priamo si oppose alla guerra con Eracle e che disse al padre di pagare il debito a Eracle.
Omero racconta che prima della guerra di Troia, re Priamo ebbe una rispettabile carriera militare combattendo a fianco del re Migdone di Frigia contro le Amazzoni (quest'ultime divenute sue alleate nel conflitto contro gli Achei) e che fu un esperto guidatore di carri bellici.
Nella guerra di Troia era invece già anziano e non combatté sul campo di battaglia ma la osservò seduto sulle mura delle Porte Scee della città assieme ai suoi fratelli (Lampo, Clizio ed Icetaone) e con altri vecchi saggi del Consiglio.
Priamo era inoltre un uomo buono e giusto e a differenza dei suoi consiglieri si rifiutò di attribuire a Elena la responsabilità dello scoppio della guerra (dandola invece a sé stesso); nell'Iliade si legge che addirittura le chiese di essere presentato ai comandanti greci.
L'unica volta che scese sul campo di battaglia fu per giurare i patti del duello tra il figlio Paride e Menelao; un'altra sua uscita dalle mura fu quando si recò all'accampamento dei nemici greci per chiedere ad Achille la restituzione del corpo del figlio Ettore (ucciso in precedenza da Achille) che riportò indietro su un carro.
Prima della caduta di Troia perse quasi tutti i suoi figli maschi, uno dei quali, Licaone, subì anche il disonore della mancata sepoltura essendo finito nelle acque del fiume Scamandro. La morte di Priamo non è narrata nei poemi omerici, ma in altre opere come l'Eneide di Virgilio o la tragedia Le troiane di Euripide.
Alla caduta della città e quando i greci vi penetrarono, Priamo rivestì la sua vecchia armatura desiderando cercare la morte nella mischia, ma la moglie Ecuba in lacrime lo convinse a rifugiarsi con le donne sull'altare di Zeus Erceo. Così vide la morte del figlio Polite, inseguito da Neottolemo (figlio di Achille) fin sui gradini dell'altare. Il vecchio re vibrò debolmente l'asta contro Neottolemo senza riuscire a colpirlo: Neottolemo lo afferrò e gli conficcò la spada in un fianco uccidendolo, per poi troncare la testa al cadavere
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Eugenio Caruso - 06-12 - 2021