Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca
INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.
Cherubini - Raffaello
RIASSUNTO DEL CANTO XXX
Il Canto apre la descrizione dell'Empireo che occuperà gli ultimi quattro canti del poema, insieme alla presentazione diretta dei cori angelici e della candida rosa dei beati che farà da preludio alla visione di Dio come conclusione del viaggio ultraterreno: c'è quindi ancora una volta un innalzamento dello stile e del linguaggio, già all'inizio del Canto con la complessa similitudine astronomica delle stelle che pian piano svaniscono alla luce del mattino, paragonate alla graduale scomparsa dei cerchi luminosi, e in seguito con l'appassionata lode alla bellezza di Beatrice che, a detta di Dante, è talmente sovrumana da poter essere goduta pienamente soltanto da Dio.
È qualcosa di più della consueta ammissione da parte del poeta della sua inadeguatezza a descrivere lo splendore della visione celeste, in quanto Beatrice perde quel poco di umano che finora aveva conservato per riacquistare tutta la sua essenza ultraterrena, anche in ragione del suo significato allegorico di grazia santificante: è lei infatti a preparare Dante all'ascesa al X Cielo, in cui gli verranno mostrati non solo i cori angelici ma anche i beati con il corpo mortale che, in realtà, riavranno materialmente solo il Giorno del Giudizio (al poeta è dunque concesso un altissimo e unico privilegio) e di lì a poco, all'inizio del Canto XXXI, il posto di Beatrice come guida sarà rilevato da san Bernardo che accompagnerà Dante alla visione finale della mente divina.
Anche l'ingresso nell'Empireo ha qualcosa di solenne e introduce a una nuova più alta rappresentazione, lontanissima dalle rozze descrizioni paradisiache degli scrittori precedenti benché fatta di immagini molto semplici, per cui poco oltre il poeta invocherà nuovamente l'assistenza dell'ispirazione divina in una sorta di proemio al finale di Cantica: Dante è subito avvolto da una luce intensissima che gli impedisce di vedere qualunque cosa, per poi acquistare una accresciuta capacità visiva che gli consentirà di vedere il trionfo degli angeli e dei beati, sia pure attraverso tappe graduali (è il tema del trasumanar di Dante, già più volte accennato nel corso della Cantica e che nei Canti finali assumerà a tratti i caratteri di una esperienza mistica). È stato osservato che il tema della luce e della visione domina largamente questo Canto, in cui proprio il verbo «vedere» ricorre con insistenza e costituisce un'unica parola-rima ai vv. 95-99 (come in precedenza era accaduto solo col nome di Cristo), in quanto Dante è stato ammesso a una straordinaria visione che ha il compito di riferire, sia pure coi poveri mezzi umani della sua parola poetica, dopo un'esperienza simile a quella di san Paolo che, non a caso, è forse volutamente ricordato nella descrizione del fulgore che avvolge Dante appena entrato nell'Empireo.
Infatti proprio la sensazione visiva è alla base della prima raffigurazione di angeli e beati, con la descrizione del fiume di luce che scorre tra due rive piene di fiori colorati, e delle faville che vanno dal fiume ai fiori e viceversa, immagine degli angeli che fanno la spola fra Dio e i beati (non senza paragoni preziosi: gli angeli sono come rubini incastonati nell'oro, e più avanti sono detti topazi, mentre l'immagine dei fiori, consueta nella rappresentazione del Paradiso, sarà ripresa poco dopo nella similitudine del colle fiorito che si specchia nell'acqua sottostante, immagine a sua volta della rosa celeste dei beati). Beatrice avverte Dante che ciò che vede non è l'immagine reale dello stato delle anime nell'Empireo, ma si tratta di umbriferi prefazi (anticipazioni velate della verità) a causa della incapacità della sua vista di sostenere lo sguardo delle vere essenze, per cui il poeta è invitato a bere ancora di quell'acqua che può estinguere la sua sete di conoscenza: il successivo paragone col bambino che corre al latte della madre sottolinea, nella sua semplicità, il fatto che tale spettacolo è il vero nutrimento dell'anima, con una similitudine che altre volte ricorre nel Paradiso (cfr. XXIII, 121-126, e più avanti alla fine di questo Canto) e dimostra come Dante sia davvero distante dalle consuete rappresentazioni del terzo regno, la cui iconografia tradizionale è quasi del tutto abbandonata a vantaggio di immagini finemente astratte e lontane da ogni raffigurazione materiale.
Ciò è evidente anche nella successiva rappresentazione della rosa dei beati, ovvero questa sorta di anfiteatro luminoso sulle cui gradinate siedono nei loro seggi i beati e che si presenta come un lago di luce, di forma circolare e dimensioni smisurate: l'intensità della luce e l'eccezionale ampiezza della rosa mystica è il dato che colpisce soprattutto Dante, il quale però ci informa che, nonostante le distanze siano enormi, la sua vista riesce comunque a cogliere ogni minimo particolare (l'Empireo è fuori dallo spazio e dal tempo, quindi non è un luogo fisico soggetto alle normali leggi naturali, come già era emerso nella descrizione del Primo Mobile). Il paragone del concilio dei beati con una rosa non è una novità assoluta nella letteratura mistica del Due-Trecento, ma Dante ha il merito di fornirne una descrizione al tempo stesso alta e solenne, cioè come la corte in cui domina l'Imperatore del Cielo e trionfano gli angeli, Maria, i beati con le loro bianche stole, ma anche di estrema semplicità, attraverso le immagini dei fiori, del clivo che si riflette nel laghetto ai piedi della montagna, della rosa stessa che profuma, sì, ma di lode a Dio (non una senzazione olfattiva, quindi, ma esclusivamente immateriale).
In questo è la novità del poema dantesco e lo stacco netto rispetto a tutta la letteratura religiosa precedente, che a buon diritto il poeta rivendica a sé come merito in grado di assicurargli la fama nei secoli: in tal senso va letto il piccolo proemio, che prelude proprio alla descrizione della rosa, affidata poi alle parole di Beatrice che la presenta solennemente come la Gerusalemme celeste, la città di Dio in cui tutte le anime salve saranno cittadine dopo l'esilio terreno (nel Canto seguente Dante la paragonerà polemicamente alla sua Firenze, vista quasi come una Babilonia infernale), anche se il numero degli eletti è ormai assai ridotto per l'avvicinarsi della fine dei tempi e per l'esiguità di mortali degni di raggiungere la beatitudine.
È proprio questa considerazione sulla corruzione del mondo terreno e, probabilmente, l'accenno al prossimo intervento divino che porta Beatrice a indicare a Dante il seggio dell'alto Arrigo, l'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo destinato a fallire nel tentativo di ricondurre l'Italia sotto l'autorità imperiale ma che otterrà la beatitudine qui profetizzata in toni solenni: a molti commentatori è parso strano che Beatrice passi in modo brusco dalla grandiosa descrizione della rosa dei beati alla dura invettiva contro gli uomini accecati dalla loro avarizia, simili a bambini affamati che cacciano via la balia (torna anche qui l'immagine prima usata del nutrimento e del latte materno), ma essa è in realtà una sorta di corollario all'esaltazione della beatitudine celeste a contrasto con la miseria terrena, che viene pertanto condannata nella sua piccolezza proprio come è magnificata la grandezza divina.
Del resto il parallelo tra l'altezza del Paradiso e la bassezza della terra, l'aiuola che ci fa tanto feroci, è una costante nei Canti finali del Paradiso e dunque non stupisce che le ultime parole pronunciate da Beatrice nel poema contengano un duro monito alla cupidigia degli uomini, che li porta alla perdizione e si oppone al ristabilimento della giustizia voluto dalla Provvidenza nel mondo: protagonista di tale ristabilimento doveva essere proprio Arrigo VII (probabilmente il «DXV» profetizzato in Purg., XXXIII), che fallì per ragioni che Dante riconduce sostanzialmente alla politica temporalistica e ambigua di papa Clemente V, colui che porterà la Curia papale ad Avignone e la cui dannazione è già stata duramente preconizzata da Niccolò III Orsini in Inf., XIX, 79-87. La nuova dura profezia di Beatrice, che ricorda come Clemente V finirà nella stessa buca della III Bolgia dell'VIII Cerchio in cui è già confitto quel d'Alagna, ovvero l'altro «nemico» di Dante, Bonifacio VIII, suona come un monito minaccioso a tutti coloro che, in passato come nel presente, si oppongono ai disegni divini di riportare la giustizia nel mondo, e forse preannunciano quella prossima palingenesi della società più volte evocata nel poema e affidata a un non meglio precisato personaggio destinato a compiere l'opera lasciata a metà da Arrigo VII: questa, del resto, sarà l'ultima vera invettiva del poema e dopo di essa ci sarà posto solo per il graduale avvicinarsi di Dante alla visione finale di Dio, alla quale come detto sarà accompagnato da san Bernardo, un mistico che fu cultore di Maria e dell'ascesi spirituale, come a voler dire che fissare lo sguardo nella mente di Dio porterà Dante a distoglierlo dalla Terra e dalle sue bassezze, agli antipodi dell'Universo (e non si scordi che la distanza Terra-Cielo era alla base anche della similitudine iniziale, che gettava uno sguardo complessivo all'architettura grandiosa del cosmo).
Il paradiso dantesco
NOTE
- La similitudine iniziale (vv. 1-9) indica che quando sulla Terra (ci, avv. per «qui») in un qualunque punto è l'alba, a circa seimila miglia di distanza a oriente ferve l'ora sesta, cioè il mezzogiorno, momento in cui il mondo proietta il suo cono d'ombra quasi sul piano dell'orizzonte (china già l'ombra quasi al letto piano); all'alba le stelle iniziano a perdere luminosità, sino a scomparire gradualmente. Dante pensava che la circonferenza della Terra fosse di circa 20.000 miglia e calcolava la velocità del Sole in 850 miglia all'ora, per cui l'astro percorreva in sette ore (la distanza di tempo dal primo apparire dell'aurora al mezzogiorno) circa 5950 miglia.
- Al v. 4 il mezzo del cielo è l'atmosfera posta tra l'osservatore e il cielo stellato.
La chiarissima ancella / del sol (vv. 7-8) è l'Aurora.
- Il triunfo che lude (v. 10) sono i cori angelici, che ruotano festanti intorno a Dio.
- Al v. 18 vice è lat. per «ufficio», «compito».
- Al v. 25 il viso che più trema è la vista debole sopraffatta dal sole.
- Al v. 30 preciso è lat. per «tagliato», «impedito» (Dante intende dire che la descrizione di Beatrice non gli è mai stata impedita da nulla, tranne che in questa occasione).
- Al v. 36 tuba («tromba») è metafora a indicare la voce poetica di Dante.
- Il maggior corpo (v. 39) è il Primo Mobile, mentre il ciel ch'è pura luce è l'Empireo.
- Al v. 42 dolzore è provenzalismo per «dolcezza».
- Ai vv. 43-45 l'una e l'altra milizia / di paradiso sono gli angeli e i beati, questi ultimi mostrati a Dante col corpo mortale di cui si rivestiranno il Giorno del Giudizio (a l'ultima giustizia).
- Al v. 46 discetti è lat. per «disperda», «disgreghi».
- I vv. 49-51 sembrano un riferimento al racconto di san Paolo negli Atti degl Apostoli (XXII, 6-11), quando racconta la folgorazione sulla via di Damasco: subito de caelo circumfulsit me lux copiosa... cum non viderem prae claritate luminis illius («d'improvviso una gran luce scesa dal Cielo mi avvolse, e non vedi più nulla per lo splendore di quel lume»).
- Al v. 53 salute vuol dire «saluto», ma anche, ambiguamente, «salvezza», «beatitudine».
- Alcuni mss. al v. 62 leggono fluvido, lat. per «fluente», mentre nella lezione a testo l'aggettivo indica lo splendore rosseggiante della luce (dal lat. fulvus). Si tenga presente che il volto degli angeli era spesso rappresentato di colore rosso, mentre più avanti (v. 66) essi sono descritti come rubini.
- Al v. 63 primavera significa «fioritura primaverile».
- Al v. 68 miro gurge è lat. per «gorgo mirabile».
- Al v. 78 umbriferi prefazi indicano gli adombramenti della verità che si presentano a Dante, ovvero l'immagine del fiume di luce e dei fiori (prefazio è lat. da praefatio, «anticipazione», «preludio»).
- Al v. 82 fantin sta per «bambino», «lattante» (cfr. fantolin,
XXIII 121; più oltre, al v. 140).
- Il v. 87 vuol dire che scorre affinché vi si diventi migliori (il vb. s'immegli è prob. neologismo dantesco).
- La similitudine dei vv. 91-96 allude a persone che hanno indossato delle maschere (larve) e che poi le gettano, mostrando così il loro vero volto (allo stesso modo Dante ora vede il reale aspetto degli angeli e dei beati).
- Nei vv. 95-99 è ripetuta per tre volte la stessa parola-rima, vidi, cosa che in precedenza è avvenuta solo col nome di Cristo.
- I vv. 103-105 vogliono dire probabilmente che l'ampiezza della rosa dei beati è superiore a quella del Cielo del Sole, non del Sole stesso
- Il v. 121 vuol dire che nell'Empireo la distanza e la vicinanza non tolgono né aggiungono nulla alla visione, poiché in questo Cielo Dio governa in modo immediato (sanza mezzo).
- Al v. 124 il giallo de la rosa sempiterna indica il centro della rosa dei beati, con la metafora degli stami gialli al centro del fiore.
- Al v. 125 redole è lat. per «profuma» (cfr. DVE, I, 16, 4).
- Al v. 126 verna ha il senso di «far primavera», dal lat. ver, veris (primavera).
- Al v. 127 colui che tace e dicer vole è Dante.
- Al v. 129 le bianche stole sono le anime bianche dei beati, forse rivestite dei loro corpi terreni.
- Il v. 135 indica che l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo occuperà il suo seggio nella rosa prima della morte di Dante, dopo la quale egli siederà a sua volta a questo banchetto nuziale (tale metafora per indicare la beatitudine era frequente nel testo biblico).
- Al v. 136 agosta vuol dire «augusta» e allude alla dignità imperiale di Arrigo VII.
- I vv. 142 ss. alludono a Clemente V, che sarà papa (prefetto nel foro divino) all'epoca dell'impero di Arrigo VII; egli ingannerà il sovrano prima promettendogli e poi negandogli il suo appoggio, causando così il suo fallimento. Beatrice profetizza la sua dannazione fra i simoniaci della III Bolgia, dove spingerà più a fondo nella buca papa Bonifacio VIII, destinato a sua volta alla dannazione (questi è indicato velatamente come quel d'Alagna, ovvero colui che era nativo di Anagni, nel Lazio).
Giovanni Di Paolo, Il seggio di Arrigo VII
TESTO DEL CANTO XXX
Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
china già l’ombra quasi al letto piano, 3
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo; 6
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ‘l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella. 9
Non altrimenti il triunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude, 12
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Beatrice
nulla vedere e amor mi costrinse. 15
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice. 18
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda. 21
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo: 24
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema. 27
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso; 30
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista. 33
Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardua sua matera terminando, 36
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: 39
luce intellettual, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore. 42
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia». 45
Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti, 48
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva. 51
«Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo». 54
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch’io compresi
me sormontar di sopr’a mia virtute; 57
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi; 60
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera. 63
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettìen ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive; 66
poi, come inebriate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge;
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori. 69
«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge; 72
ma di quest’acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei. 75
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ‘l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi. 78
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe». 81
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua, 84
come fec’io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli; 87
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda. 90
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non sua in che disparve, 93
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste. 96
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto triunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’io il vidi! 99
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace. 102
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura. 105
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza. 108
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, 111
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno. 114
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie! 117
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ‘l quale di quella allegrezza. 120
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva. 123
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna, 126
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Beatrice, e disse: «Mira
quanto è ‘l convento de le bianche stole! 129
Vedi nostra città quant’ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira. 132
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni, 135
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta. 138
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia. 141
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino. 144
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso». 148
William Blake. Il fiume di luce
PARAFRASI CANTO XXX
Qui sulla Terra, a circa seimila miglia di distanza, arde il mezzogiorno e questo pianeta proietta già il suo cono d'ombra sul piano dell'orizzonte, quando (sul far dell'alba) l'atmosfera tra noi e la profondità del cielo inizia a diventare tale che alcune stelle diventano invisibili;
e man mano che avanza la luminosa ancella del Sole (l'Aurora), ecco che dal cielo svaniscono le stelle, sino alla più luminosa.
In modo analogo il trionfo (i cori angelici) che ruota sempre festante intorno a quel punto luminoso (Dio) che vinse la mia vista, e che sembra racchiuso da ciò che esso stesso racchiude, poco alla volta svanì alla mia vista: dunque il non vedere più nulla e l'amore mi spinsero a rivolgere i miei occhi di nuovo a Beatrice.
Se tutto ciò che è stato detto finora su di lei fosse racchiuso in un'unica lode, essa sarebbe insufficiente a questo compito.
La bellezza di lei che io vidi si tramutava in qualcosa non solo al di là dell'umano, ma io credo per certo che solo il suo Creatore (Dio) la possa godere pienamente.
Ammetto di essere vinto da questo punto, assai più di quanto potrebbe esserlo un autore di stile medio o sublime da un aspetto problematico del tema affrontato:
infatti, come il sole in una vista debole, così il ricordo del suo dolce sorriso fa venir meno il mio intelletto.
Dal primo giorno in cui vidi il viso di Beatrice in questa vita, fino a questa visione di lei in Paradiso, il mio canto non è stato mai interrotto;
ma ora è inevitabile che io desista dal seguire la sua bellezza, scrivendo i miei versi, come un artista che ha raggiunto il limite estremo delle sue capacità.
Beatrice, bella come io lascio descrivere a una poesia più adeguata dei miei versi, che si sforzano di terminare la descrizione della materia paradisiaca, con l'atteggiamento e la voce di una guida decisa ricominciò: «Noi siamo usciti fuori dal Cielo più esteso (il Primo Mobile) a quello (l'Empireo) che è fatto di pura luce:
una luce intellettuale, piena d'amore; un amore di autentico bene, pieno di gioia; una gioia che supera ogni dolcezza.
Qui tu vedrai entrambe le schiere (angeli e beati) del Paradiso, e una di essi (i beati) con quell'aspetto che vedrai il Giorno del Giudizio (coi corpi terreni)».
Come un lampo improvviso che disperda le facoltà visive, cosicché priva l'occhio della capacità di vedere altri oggetti, così fui avvolto da una luce vivissima, che mi fasciò di un velo tale col suo fulgore che io non vedevo nient'altro.
«L'amore che rende quieto questo Cielo accoglie sempre l'anima che vi entra con questo saluto, per adattare la candela alla sua fiamma (per disporre alla visione divina)».
Queste brevi parole non erano ancora giunte dentro di me, che io compresi che andavo al di là delle mie facoltà naturali;
e acquistai una nuova capacità visiva, tale che non esiste una luce tanto intensa che i miei occhi non riuscissero a sostenerla;
e vidi una luce in forma di fiume, di fulgore rosseggiante, tra due rive ornate di bellissimi fiori primaverili.
Da questo fiume uscivano delle faville splendenti, e si mettevano da ogni parte tra i fiori, simili a rubini incastonati nell'oro;
poi, come se fossero inebriate dal profumo, si risprofondavano nel mirabile gorgo (il fiume di luce); e se una vi entrava, un'altra usciva subito fuori.
«L'intenso desiderio che adesso ti infiamma e ti spinge, ovvero di sapere cos'è quello che vedi, mi piace tanto più quanto più esso ti riempie;
ma è necessario che tu beva ancora di quest'acqua, prima che una tale sete sia saziata dentro di te»: così mi disse Beatrice, il sole dei miei occhi.
E aggiunse ancora: «Il fiume e i topazi (gli angeli) che entrano ed escono, e la bellezza dei fiori sono anticipazioni adombrate della loro reale essenza.
Non che che queste cose siano di per sé imperfette, ma c'è una mancanza da parte tua, poiché non hai ancora la vista pronta a osservare tali spettacoli».
Un bambino, svegliatosi molto più tardi del solito, non corre improvvisamente verso il latte quanto feci io, per fare ancora dei miei occhi specchi migliori, chinandomi verso quel fiume che scorre affinché vi si renda migliori;
e non appena l'orlo delle mie palpebre ebbe bevuto di quella visione, così mi sembrò che il lungo fiume fosse diventato tondo.
Poi, come persone che hanno indossato delle maschere e si spogliano delle sembianze artefatte, apparendo diverse da come erano prima, così i fiori e le faville si trasformarono ai miei occhi in immagini più festose, cosicché io vidi apertamente entrambe le corti del Cielo (angeli e beati).
O splendore di Dio, grazie al quale io vidi l'alto trionfo del regno verace, concedimi la virtù necessaria a riferire la mia visione!
assù nell'Empireo c'è una luce che rende visibile il Creatore a quella creatura che trova la sua pace solo nel vedere Lui.
Tale luce si distende in una figura circolare (la rosa celeste), a tal punto che la sua circonferenza sarebbe assai più larga di quella del Cielo del Sole.
Tutto ciò che si vede di essa si forma da un raggio che si riflette sulla superficie concava del Primo Mobile, che trae da esso il suo moto e la sua virtù.
E come un colle si specchia nell'acqua alle sue pendici, come per vedersi adornato quando ha le erbe verdi e i fiori rigogliosi, così, stando tutt'intorno a quella luce, vidi specchiarsi in più di mille gradinate che le anime beate che hanno fatto ritorno lassù.
E se il gradino più basso raccoglie in sé una luce tanto grande, quanto dev'essere ampia questa rosa nei suoi petali più esterni!
La mia vista non si smarriva a causa dell'ampiezza e dell'altezza della rosa, ma percepiva interamente la quantità e la qualità di quella allegria.
La vicinanza e la distanza, lì nell'Empireo, non aggiunge né toglie nulla: infatti, dove Dio governa direttamente, le leggi naturali non hanno alcun valore.
Beatrice, mentre io tacevo pur volendo parlare, mi condusse al centro della rosa eterna, che digrada verso il basso e si estende ed emana un profumo di lode al sole che fa sempre primavera (Dio), e mi disse: «Osserva quanto è esteso il concilio delle stole bianche (dei beati)!
Vedi quanto è grande la nostra città; vedi i nostri seggi talmente occupati, che ben pochi di essi sono rimasti liberi.
E in quel gran seggio su cui tieni fisso il tuo sguardo per la corona che vi è deposta sopra, prima che tu ascenda al Paradiso siederà l'anima dell'alto Arrigo VII, che sarà imperatore sulla Terra e verrà a raddrizzare l'Italia prima che essa sia pronta ad accoglierlo.
La cieca avarizia che vi seduce vi ha resi simili al bambino che muore di fame, e tuttavia manda via la nutrice.
E allora sarà pontefice nella Curia di Roma un tale (Clemente V) che non andrà con lui per una sola strada e agirà in modo diverso pubblicamente e in segreto.
Ma Dio lo tollererà poco tempo nel santo ufficio; infatti egli sarà spinto giù (nella buca della III Bolgia) dove si trova già Simon mago per i suoi crimini, e spingerà ancora più a fondo il papa di Anagni (Bonifacio VIII)».
Enrico VII di Lussemburgo (Dante Arrigo VII)
Enrico VII di Lussemburgo (tedesco Heinrich; in lingua volgare Arrigo; Valenciennes, 1275 – Buonconvento, 24 agosto 1313) è stato conte di Lussemburgo, re di Germania dal 1308, re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1312 alla morte, primo imperatore della Casa di Lussemburgo. Durante il suo breve regno rafforzò la causa imperiale in Italia, divisa dalle lotte partigiane tra le fazioni guelfa e ghibellina, e ispirò i componimenti di lode di Dino Compagni e Dante Alighieri. Tuttavia, la sua morte prematura impedì il compimento dei suoi propositi. La sua discesa in Italia (1311) incontrò l'ostilità di papa Clemente V, Filippo IV di Francia e Roberto d'Angiò, re di Napoli.
Secondo la Histoire généalogique de la maison royale de Dreux (Paris), Luxembourg , Baldovino era figlio del conte di Lussemburgo, di Durbuy, di La Roche e di Arlon, Enrico VI e della moglie, Beatrice d'Avesnes, figlia di Baldovino d'Avesnes (settembre 1219-10 aprile 1295), signore di Beaumont e di Felicita di Coucy, figlia di Tommaso di Coucy Signore di Vervins e della moglie Matilde di Rethel.
Sempre secondo la Histoire généalogique de la maison royale de Dreux (Paris), Luxembourg, Enrico VI di Lussemburgo era figlio del conte di Lussemburgo, di La Roche e di Arlon, Enrico V e della moglie, Margherita di Bar (1220 - 1275), che ancora secondo la Histoire généalogique de la maison royale de Dreux (Paris), Luxembourg, era figlia di Enrico II di Bar conte di Bar e di Filippa di Dreux, discendente (pronipote) dal re Luigi VI di Francia, figlia di Roberto II di Dreux e di Yolanda di Coucy.
Enrico, figlio del conte Enrico VI di Lussemburgo, morto nel 1288 nella battaglia di Worringen, e di Beatrice d'Avesnes, fu educato, per influenza della madre francese, alla corte di Parigi.
Divenne signore di proprietà relativamente piccole in una zona periferica e prevalentemente di lingua francese del Sacro Romano Impero. Era sintomatico della debolezza dell'Impero il fatto che, durante il suo governo come Conte di Lussemburgo, accettò di diventare un vassallo francese, cercando la protezione di Filippo il Bello (1294). Governò in modo efficace, soprattutto nel mantenimento della pace in dispute feudali locali e cercò di attuare una politica indipendente e di espansione del territorio: nel 1292 aveva sposato Margherita di Brabante, dalla quale avrebbe avuto tre figli, ma anche l'inimicizia tra le due case.
Enrico venne coinvolto nella politica del Sacro Romano Impero con l'assassinio di re Alberto I del 1º maggio 1308. Quasi immediatamente, il re Filippo il Bello di Francia cominciò a cercare ostinatamente sostegno per suo fratello, Carlo di Valois, nella elezione a futuro re dei Romani. Convinto di avere l'appoggio del papa francese Clemente V, il suo progetto di portare l'impero nell'orbita della casa reale francese sembrava favorevole e cominciò a diffondere generosamente denaro francese nella speranza di corrompere gli elettori tedeschi. Anche se Carlo di Valois aveva l'appoggio di Enrico II, arcivescovo di Colonia, sostenitore francese, molti non erano desiderosi di vedere una espansione del potere francese e meno di tutti Clemente V. Il principale rivale di Carlo sembrava essere Rodolfo, conte palatino di Baviera. Considerate le sue origini, sebbene fosse un vassallo di Filippo il Bello, Enrico non era vincolato da legami nazionali, e questo era un aspetto della sua idoneità come candidato di compromesso tra gli elettori che erano infelici sia con Carlo che con Rodolfo. Il fratello di Enrico, Baldovino, arcivescovo di Treviri, conquistò un certo numero di elettori, tra cui Enrico di Colonia, in cambio di alcune concessioni sostanziali. Di conseguenza, Enrico abilmente negoziò la sua ascesa alla corona, fu eletto con sei voti a Francoforte il 27 novembre 1308 e successivamente fu incoronato ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309, giorno dell'Epifania.
I sette principi elettori eleggono Enrico imperatore. Codex Balduini Trevirensis, 1340, Archivio di Stato di Coblenza,
Nel luglio 1309, papa Clemente V, dalla sua nuova sede in Avignone, confermò l'elezione di Enrico e inizialmente concordò personalmente di incoronarlo imperatore nella Candelora del 1312, essendo stato il titolo vacante dopo la morte di Federico II. Enrico in cambio, giurò protezione al Papa, e accettò di difendere i diritti della Santa sede, di non attaccare i privilegi delle città dello Stato Pontificio e di andare in crociata, una volta incoronato imperatore. Il 15 agosto 1309, Enrico VII annunciò la sua intenzione di recarsi a Roma, inviò i suoi ambasciatori in Italia per preparare il suo arrivo, e quindi di conseguenza le sue truppe sarebbero state pronte a partire entro il 10 ottobre 1310. Ma Enrico, appena incoronato re, ebbe problemi locali da affrontare prima di poter ottenere la corona imperiale. Gli fu chiesto di intervenire in Boemia da una parte della nobiltà boema e da alcuni ecclesiastici importanti e influenti, infelici del regime di Enrico di Carinzia: fu convinto a sposare suo figlio Giovanni, conte di Lussemburgo, a Elisabetta, la figlia di Venceslao II e così legittimare, a dispetto degli Asburgo, la sua pretesa alla corona boema. Prima di lasciare la Germania, cercò quindi di migliorare le relazioni con gli Asburgo, confermandoli nei loro feudi imperiali (ottobre 1309); in cambio, Leopoldo d'Asburgo accettò di accompagnare Enrico nella sua spedizione italiana e di fornire anche delle truppe.
Enrico riteneva necessario ottenere l'incoronazione imperiale da parte del papa, sia a causa delle umili origini della sua casa, sia a causa delle concessioni che era stato costretto a fare per ottenere la corona tedesca. Egli inoltre considerava le corone d'Italia e di Arles, come un necessario contrappeso alle ambizioni del re di Francia. Per garantire il successo della sua spedizione italiana, Enrico entrò in trattative con Roberto, re di Napoli a metà del 1310, con l'intento di sposare sua figlia, Beatrice, al figlio di Roberto, Carlo, Duca di Calabria: si sperava così di ridurre in Italia le tensioni che contrapponevano gli anti-imperiali Guelfi, che guardavano al Re di Napoli per il governo, e i pro-imperiali ghibellini. I negoziati, però, furono interrotti a causa di eccessive richieste monetarie di Roberto e per l'interferenza del re di Francia, Filippo, che non gradiva una tale alleanza.
Mentre questi negoziati erano in corso, Enrico iniziò la sua discesa nel nord Italia nel mese di ottobre 1310, mentre suo figlio maggiore Giovanni rimaneva a Praga come vicario imperiale. Nel corso della traversata delle Alpi e della pianura lombarda, nobili e prelati di entrambe le fazioni guelfe e ghibelline si affrettarono a salutarlo, mentre Dante diffuse una lettera pregna di ottimismo indirizzata ai governanti e al popolo di Firenze.
Decenni di guerra e di lotte avevano visto in Italia la nascita di decine di città-stato indipendenti, ognuna nominalmente guelfa o ghibellina, sostenuta dalla nobiltà urbana a sostegno di un sovrano potente (come Milano), o dalle emergenti classi mercantili incorporate in uno stato repubblicano (come Firenze). All'inizio non dimostrò alcun favoritismo per nessuna delle parti, sperando che la sua magnanimità sarebbe stata ricambiata da entrambe le fazioni; tuttavia, insistette sul fatto che i governanti attuali di tutta le città-stato italiane avevano usurpato i loro poteri, che le città dovevano tornare sotto il controllo immediato dell'Impero, e che gli esuli dovevano essere richiamati. Infine costrinse le città a rispettare le sue richieste. Anche se Enrico ricompensò la loro sottomissione con titoli e feudi, questo atteggiamento causò una forte risentimento che crebbe nel corso del tempo. Questa era la situazione che il re dovette affrontare quando arrivò a Torino nel novembre del 1310, alla testa di 5.000 soldati, di cui 500 cavalieri.
Dopo un breve soggiorno ad Asti, dove intervenne negli affari politici della città con grande costernazione dei guelfi italiani, Enrico procedette verso Milano, dove fu incoronato re d'Italia con la Corona Ferrea il 6 gennaio 1311, giorno dell'Epifania.
I Guelfi toscani si rifiutarono di partecipare alla cerimonia e così ebbe inizio la preparazione all'opposizione ai sogni imperiali di Enrico. Come parte del suo programma di riabilitazione politica, Enrico richiamò dall'esilio i Visconti, i governanti estromessi da Milano. Guido della Torre, che aveva cacciato i Visconti da Milano, si oppose e organizzò contro l'imperatore una rivolta che fu spietatamente repressa, mentre i Visconti riacquistavano il potere e Matteo Visconti veniva nominato vicario imperiale di Milano, e suo cognato, Amedeo di Savoia, vicario generale in Lombardia. Queste misure, oltre a un prelievo di massa imposto alle città italiane, portarono le città guelfe a rivoltarsi contro Enrico e determinarono un'ulteriore resistenza quando il sovrano cercò di far valere i diritti imperiali su quelle che erano diventate terre comunali e provò a sostituire i regolamenti comunali con le leggi imperiali. Tuttavia, Enrico riuscì a ripristinare una parvenza di potere imperiale in alcune parti del nord Italia, in città come Parma, Lodi, Verona e Padova.
Allo stesso tempo ogni resistenza dei comuni del nord Italia veniva soppressa senza pietà. La prima città a subire l'ira di Enrico fu Cremona, dove la famiglia Torriani e i loro sostenitori si erano rifugiati: cadde il 26 aprile 1311 e le mura della città furono rase al suolo.
Enrico poi impiegò quattro mesi di tempo nell'estate 1311 nell'assedio di Brescia, che gli fece ritardare il suo viaggio a Roma. L'opinione pubblica cominciò a rivoltarsi contro Enrico; la stessa Firenze si alleò con le comunità guelfe di Lucca, Siena e Bologna e si impegnò in una guerra di propaganda contro il re. Questo comportò anche che papa Clemente V, sotto la pressione crescente da re Filippo di Francia, cominciò a prendere le distanze da Enrico e ad abbracciare la causa dei guelfi italiani che si erano rivolti al papato per ottenere sostegno.
Nonostante la peste e le diserzioni, Enrico riuscì a ottenere la resa di Brescia nel settembre 1311, poi passò per Pavia prima di arrivare a Genova, dove di nuovo cercò di mediare tra le fazioni in lotta all'interno della città. Durante il suo soggiorno nella città, sua moglie Margherita di Brabante morì. Inoltre, mentre era a Genova scoprì che il re Roberto di Napoli aveva deciso di opporsi al consolidamento del potere imperiale nella penisola italiana e aveva ripreso la sua tradizionale posizione di capo della parte guelfa, che vedeva schierate Firenze, Lucca, Siena e Perugia. Enrico provò ad intimidire Roberto ordinandogli di presenziare alla sua incoronazione imperiale e di giurare fedeltà per i suoi feudi imperiali in Piemonte e Provenza.
Mentre gran parte della Lombardia era in aperta ribellione contro Enrico, con rivolte tra il dicembre 1311 e il gennaio 1312, in Romagna il re Roberto rafforzava la sua posizione. Tuttavia, i sostenitori imperiali riuscivano a occupare Vicenza e ricevevano un'ambasciata da Venezia, che offriva l'amicizia della loro città. Dopo aver trascorso due mesi a Genova, il sovrano continuò in nave verso Pisa, dove fu ricevuto con entusiasmo dagli abitanti, ghibellini e nemici tradizionali di Firenze. Qui ancora una volta iniziò a negoziare con Roberto di Napoli, prima di decidere di entrare in un'alleanza con Federico III di Sicilia, per rafforzare la sua posizione e mettere pressione sul re angioino. Poi lasciò Pisa per andare a Roma per essere incoronato imperatore, ma sulla sua strada dovette scoprire che Clemente V non aveva intenzione di incoronarlo in quella sede.
Enrico si avvicinò alle mura di Roma, mentre la città era in uno stato di confusione: la famiglia Orsini aveva abbracciato la causa di Roberto di Napoli, mentre i Colonna erano schierati con gli imperiali.
Il 7 maggio, le truppe tedesche si fecero strada attraverso il Ponte Milvio ed entrarono in Roma, ma fu impossibile scacciare le truppe angioine dalla roccaforte del Vaticano. La famiglia Colonna controllava stabilmente la zona attorno alla basilica di San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore ed il Colosseo; Enrico fu costretto a svolgere la sua incoronazione il 29 giugno 1312 presso il Laterano. La cerimonia fu effettuata da tre cardinali ghibellini che si erano uniti a Enrico lungo il suo cammino attraverso l'Italia. Roberto di Napoli, nel frattempo, aumentava le sue richieste all'imperatore: voleva che suo figlio Carlo fosse nominato vicario imperiale di Toscana e che Enrico partisse da Roma entro quattro giorni dalla sua incoronazione. Ma Enrico rinunciava a impegnarsi, come papa Clemente V gli aveva chiesto, di cercare una tregua con Roberto di Napoli e anzi minacciava di attaccare il Regno di Napoli, dopo aver concluso un trattato con il rivale di Roberto al trono di Sicilia, Federico d'Aragona.
Ma il caos nella città di Roma costrinse Enrico ad allontanarsi e, seguendo il consiglio dei ghibellini toscani, si recò ad Arezzo. Qui, nel settembre 1312, emise una sentenza contro Roberto di Napoli, in quanto vassallo ribelle, mentre da Carpentras, vicino ad Avignone, Clemente V non era disposto a sostenere pienamente l'imperatore. Ma prima che Enrico potesse organizzarsi per attaccare Roberto di Napoli, dovette avere a che fare con i fiorentini. A metà settembre, si avvicinò molto rapidamente alla città toscana: era ovvio che la milizia della città e la cavalleria guelfa non potevano competere con l'esercito imperiale in una battaglia aperta. Siena, Bologna, Lucca e altre città inviarono uomini per aiutare nella difesa delle mura. Così ebbe inizio l'assedio di Firenze: l'imperatore disponeva di circa 15.000 fanti e 2.000 cavalieri, contro 64.000 difensori. Firenze fu in grado di mantenere aperta ogni porta, tranne quella dalla parte dell'imperatore assediante, e mantenne tutte le sue rotte commerciali funzionanti. Per sei settimane Enrico batté le mura di Firenze e alla fine fu costretto ad abbandonare l'assedio. Tuttavia, entro la fine del 1312, aveva soggiogato gran parte della Toscana e avevano trattato i suoi nemici sconfitti con grande indulgenza.
Nei primi di gennaio del 1313 arrivò a Poggibonsi, memore della fedeltà alla causa ghibellina dei suoi abitanti, qui dopo avere ricevuto le chiavi della città, iniziò la costruzione di una nuova città sul sito dell'antica Poggio Bonizio, ribattezzandola Monte Imperiale. Il nuovo insediamento, che doveva essere un nuovo capisaldo del potere imperiale nella Toscana fu recintato e munito di quattro porte: Porta Romana, Porta Aretina, Porta Pisana e la Porta Nicolaia. Da Monte Imperiale l'Imperatore pronunziò editti contro i guelfi toscani ed anche contro Roberto d'Angiò. Nel marzo del 1313, l'imperatore tornò nella sua roccaforte di Pisa, e da qui accusò formalmente di tradimento Roberto di Napoli che finalmente aveva deciso di accettare la carica di capitano della lega guelfa. Mentre indugiava a Pisa, in attesa di rinforzi provenienti dalla Germania, attaccò Lucca, un nemico tradizionale di Pisa. Dopo aver ottenuto più denaro che poteva da Pisa (circa 2 milioni di fiorini), Enrico iniziò la sua campagna contro Roberto di Napoli l'8 agosto 1313. I suoi alleati italiani erano restii a unirsi a lui e così il suo esercito era composto di circa 4.000 cavalieri, mentre una flotta era pronta ad attaccare il regno di Napoli dal mare.
Il suo primo obiettivo fu la città guelfa di Siena, che cinse d'assedio, ma nel giro di una settimana sembra che fosse colpito dalla malaria. Lasciati i Bagni di Macereto e le Terme di Santa Caterina, dove aveva cercato sollievo, si portò a Buonconvento dove morì venerdì 24 agosto 1313 a ora nona nella chiesa di San Pietro, come riporta Tommaso Montauri. Anche Agnolo di Tura riporta che morì nella chiesa di Buonconvento. La stessa cosa affermano altri cronisti dell'epoca, come riportato nel volume Arrigo VII di Lussemburgo imperatore curato da Carli, Civitelli e Pellegrini.
La leggenda vuole che fosse stato avvelenato da un frate di nome Bernardino da Montepulciano. La leggenda ha un fondamento di verità: Enrico VII aveva contratto l'antrace, una infezione acuta che crea piaghe di colore scuro; all'epoca per curarla si usavano impacchi all'arsenico. Dall'esame delle ossa, riesumate dalla Cattedrale di Pisa, dove erano state sepolte, il prof. Francesco Mallegni ha rivelato che l'imperatore era stato avvelenato proprio dall'arsenico. Dall'analisi del teschio è emerso anche che il volto scolpito da Tino di Camaino non corrisponde a quello che avrebbe avuto realmente.
Dopo la sua morte gli furono tolte le viscere che furono conservate sotto l'altare di Sant'Antonio nella chiesa stessa, come ricordava una lapide in situ fino a tutto il 1700. Il corpo fu trasportato a Paganico e poi a Suvereto, dove fu sottoposto, a causa del caldo che impediva il ritorno del cadavere in Germania, al rito del mos Teutonicus, ossia la bollitura del corpo per separare le carni dalle ossa. In questo modo le ossa, unitamente ai simboli imperiali, scettro e globo, vennero tumulate fra spezie e aromi nel Duomo di Pisa, mentre le carni furono sepolte nella chiesa di Buonconvento dove la comunità locale fu ben felice di ospitare la reliquia dell’Imperatore. Enrico non aveva nemmeno 40 anni quando morì e le speranze per un effettivo potere imperiale, in Italia, morirono con lui.
Alla morte di Enrico VII, e per i decenni successivi, la figura centrale nella politica italiana sarebbe stata proprio Roberto di Napoli. Nell'Impero, il figlio di Enrico, Giovanni il Cieco, fu eletto re di Boemia nel 1310. Dopo la morte di Enrico VII, due rivali, Ludovico Wittelsbach di Baviera e Federico il Bello della Casa d'Asburgo, rivendicarono la corona. La loro disputa culminò il 28 settembre 1322 nella battaglia di Mühldorf, dove Federico fu sconfitto. Anche la spedizione italiana di Ludovico (1327-1329), realizzata nello spirito di recuperare le sconfitte di Enrico, fu abortita. L'eredità di Enrico risulta particolarmente evidente nelle carriere di successo di due fra i despoti locali che egli fece vicari imperiali in città del nord, Cangrande I della Scala di Verona e Matteo Visconti di Milano.
Pisa era una città ghibellina, il che significa che la città aveva sostenuto il Sacro Romano Impero. Quando Enrico VII morì, i Pisani costruirono una tomba monumentale all'interno della loro Cattedrale, con ricco corredo. La tomba fu collocata dietro l'altar maggiore, nell'abside. La scelta del luogo era diretta a dimostrare la devozione dei Pisani per l'Imperatore.
La tomba fu costruita nel 1315 da Tino di Camaino ed era composta dal sarcofago, la statua di Enrico VII, disteso sopra di esso e molte altre statue di dignitari e angeli. Ma non ebbe lunga vita: per motivi politici fu smantellata, poi fu danneggiata nell'incendio del 1595, e le parti furono riutilizzate in altri luoghi della piazza del Duomo. Fino al 1985, il sarcofago dell'imperatore era stato trasferito nel transetto destro della Primaziale, vicino all'urna di San Ranieri, patrono alfeo. Un paio di statue erano state messe sulla parte superiore della facciata e una serie di statue raffiguranti lo stesso Enrico e i suoi consiglieri erano nel Campo Santo Monumentale. Oggi le statue si trovano nel Museo dell'Opera del Duomo, inaugurato nel 1986, mentre la tomba è rimasta nella Cattedrale.
Una ricognizione è stata effettuata nel 2014 ed ha permesso di recuperare le ossa dell'Imperatore, la corona, lo scettro e il globo, oltre ad un raffinatissimo drappo rosso.
L'analisi ha permesso di ricostruire il volto dal Cranio da parte del Prof. Francesco Mallegni, di capire che la testa e il resto del corpo furono sottoposti a bollitura separatamente e che la causa della morte fu un eccesso di arsenico con cui dovette presumibilmente curare l'antrace di cui alcune fonti riportano soffrisse l'imperatore da un anno circa.
Dante e l'imperatore Arrigo
Enrico è il famoso alto Arrigo nel Paradiso di Dante. Anche nel Purgatorio Dante allude ad un uomo savio che, si augura, riporrà l'Italia sotto il controllo imperiale ponendo così fine al potere temporale della Chiesa.
E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v'è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l'alma, che fia giù agosta,
de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
verrà in prima ch'ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v'ammalia
simili fatti v'ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch'el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d'Alagna intrar più giuso».
Dante, Paradiso, XXX
Il 31 marzo 1311 dal castello dei Guidi a Porciano Dante scrisse ai suoi concittadini di Firenze cercando di convincerli ad assoggettarsi a Enrico VII, nel quale riconosceva le alte qualità morali e nel quale sperava per un riequilibrio del potere temporale della Chiesa succube del Regno di Francia.
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Eugenio Caruso - 14 - 12- 2021
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