Boccaccio, con Dante e Petrarca "le tre corone della letteratura italiana"

«Umana cosa è aver compassione degli afflitti; e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto, li quali già hanno di conforto avuto mestiere, et hannol trovato in alcuni: fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno, o gli fu caro, o già ne ricevette piacere, io son uno di quegli.»
(Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio)

GRANDI PERSONAGGI STORICI Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona. In questa sottosezione figurano i grandi poeti che ci hanno donato momenti di grande felicitrà.

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BOCCACCIO

Giovanni Boccaccio (Certaldo o forse Firenze, giugno o luglio 1313 – Certaldo, 21 dicembre 1375) è stato uno tra i massimi scrittori, filologi e poeti italiani. Fu una delle figure più importanti nel panorama letterario europeo del XIV secolo. Alcuni studiosi lo definiscono come il maggior prosatore europeo del suo tempo, uno scrittore versatile che amalgamò tendenze e generi letterari diversi facendoli confluire in opere originali, grazie a un'attività creativa esercitata all'insegna dello sperimentalismo. La sua opera più celebre è il Decameron, raccolta di novelle che nei secoli successivi fu elemento determinante per la tradizione letteraria italiana, soprattutto dopo che nel XVI secolo Pietro Bembo elevò lo stile boccacciano a modello della prosa italiana. L'influenza delle opere di Boccaccio non si limitò al panorama culturale italiano ma si estese al resto dell'Europa, esercitando influsso su autori come Geoffrey Chaucer, figura chiave della letteratura inglese, o più tardi su Miguel de Cervantes, Lope de Vega e il teatro classico spagnolo.
Boccaccio, insieme a Dante Alighieri e Francesco Petrarca, fa parte delle cosiddette «Tre corone» della letteratura italiana. È inoltre ricordato per essere uno dei precursori dell'umanesimo, del quale contribuì a gettare le basi presso la città di Firenze, in concomitanza con l'attività del suo contemporaneo amico e maestro Petrarca. Fu anche colui che diede inizio alla critica e filologia dantesca, dedicandosi a ricopiare codici della Divina Commedia e fu anche un promotore dell'opera e della figura di Dante. Nel Novecento Boccaccio fu oggetto di studi critico-filologici da parte di Vittore Branca e Giuseppe Billanovich e il suo Decameron fu anche trasposto sul grande schermo dal regista e scrittore Pier Paolo Pasolini.
Giovanni Boccaccio nacque tra il giugno e il luglio del 1313 da una relazione extraconiugale del mercante Boccaccino di Chellino con una donna di umilissima famiglia di Certaldo, presso Firenze. Non si conosce quale sia stato esattamente il luogo in cui è nato, se Firenze o Certaldo: Vittore Branca sostiene che, quando Boccaccio si firma "Johannes de Certaldo", ciò indichi che Certaldo sia la patria della famiglia, ma non il luogo fisico di nascita. Il fatto di essere un figlio illegittimo dovette pesare notevolmente sulla psiche del Boccaccio, in quanto nelle opere in volgare costruì una sorta di biografia mitica, idealizzata, facendo credere di essere figlio di una donna membro della famiglia dei Capetingi e prendendo in tal modo spunto dai viaggi mercantili che il padre compiva a Parigi. Riconosciuto in tenera età dal padre, Giovanni fu accolto, verso il 1320, nella casa paterna sita nel quartiere di San Piero Maggiore. Grazie ai buoni uffici del padre compì i primi studi presso la scuoletta di Giovanni Mazzuoli da Strada. Durante la giovinezza, Boccaccio imparò i primi rudimenti del latino e delle arti liberali, oltre ad apprendere la Divina Commedia di Dante Alighieri, in quanto il padre si era sposato con la nobildonna Margherita de' Mardoli, imparentata con la famiglia Portinari.

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Andrea del Castagno, Giovanni Boccaccio, particolare del Ciclo degli uomini e donne illustri, affresco, 1450, Galleria degli Uffizi

Boccaccino desiderava che il figlio si avviasse alla professione di mercante, secondo la tradizione di famiglia. Dopo avergli fatto fare un breve tirocinio a Firenze, nel 1327 decise di portare con sé il giovane figlio a Napoli, città dove egli svolgeva il ruolo di agente di cambio per la famiglia dei Bardi. Boccaccio arriva quattordicenne in una realtà totalmente diversa da quella di Firenze: se Firenze era una città comunale fortemente provinciale, Napoli era invece sede di una corte regale e cosmopolita, quella degli Angiò. Il re Roberto d'Angiò (1277-1343) era un re estremamente colto, un appassionato della cultura tanto da avere una notevole biblioteca, gestita dall'erudito Paolo da Perugia. Il padre Boccaccino vide ben presto, con suo grande disappunto, che quel suo figliolo non si trovava a suo agio negli uffici dei cambiavalute e di come preferisse dedicarsi agli studi letterari. Pertanto, dopo aver cercato di distoglierlo da questi interessi del tutto estranei alla mercatura, iscrisse il figlio a giurisprudenza all'Università di Napoli. Boccaccio vi seguì per due anni (1330-31) le lezioni del poeta e giurista Cino da Pistoia ma, anziché studiare con lui il diritto canonico, preferì accostarsi alle lezioni poetiche che il pistoiese impartiva al di fuori dell'ambiente accademico. Grazie a Cino, Boccaccio approfondì la grande tradizione stilnovistica in lingua volgare di cui Cino da Pistoia, che aveva intrattenuto amichevoli rapporti con l'amato Dante, era uno degli ultimi esponenti.
Inoltre, Giovanni incominciò a frequentare la corte angioina (dove conobbe, oltre a Paolo da Perugia, anche Andalò del Negro) e a occuparsi di letteratura: scrisse sia in latino, sia in volgare, componendo opere come il Teseida, il Filocolo, il Filostrato e la Caccia di Diana. Un elemento inusitato per l'educazione tipica dell'epoca è l'apprendimento di alcune nozioni grammaticali e lessicali del greco da parte del monaco e teologo bizantino Barlaam di Seminara, giunto nell'Italia meridionale in ambasceria per conto dell'imperatore bizantino. La giovinezza napoletana non si esaurisce, però, soltanto nella frequentazione degli ambienti accademici e di corte: le fiabe e le avventure dei mercanti che Boccaccio sente mentre presta servizio al banco commerciale saranno fondamentali per il grande affresco narrativo che prenderà vita col Decameron.
A questo punto il poeta, divenuto un autodidatta colto ed entusiasta, crea il proprio mito letterario, secondo i dettami della tradizione stilnovistica: la donna al centro della sua attenzione poetica è Fiammetta, forse Maria d'Aquino, figlia illegittima di Roberto D'Angiò. Il periodo napoletano si conclude improvvisamente nel 1340, quando il padre lo richiama a Firenze per un forte problema economico dovuto al fallimento di alcune banche nelle quali aveva fatto importanti investimenti. L'orizzonte di Boccaccio, col ritorno a Firenze agli inizi degli anni quaranta, cambia totalmente dal punto di vista economico e sociale; insofferente verso la vita troppo ristretta e provinciale di Firenze, cercherà per tutta la vita di ritornare a Napoli, iniziando già nel 1341 con la stesura dell'Epistola V indirizzata al vecchio amico Niccolò Acciaioli, ormai divenuto connestabile del Regno di Napoli. Nonostante quest'insofferenza emotiva per l'abbandono della città partenopea, Boccaccio seppe nel contempo percepire quell'affettività "materna" nei confronti della sua città natale, tipica della cultura medievale, cercando di accattivarsi l'animo dei suoi concittadini attraverso la realizzazione della Commedia delle Ninfe fiorentine e del Ninfale fiesolano. Nonostante i successi letterari, la situazione economica di Boccaccio non diede segni di miglioramento, costringendo il giovane letterato ad allontanarsi da Firenze nel tentativo di ottenere una posizione in qualche corte emiliana.

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Visione di Fiammetta; olio su tela dipinto da Dante Gabriel Rossetti, 1878

Tra il 1345 e il 1346 Boccaccio risiedette a Ravenna alla corte di Ostasio da Polenta, presso il quale tentò di ottenere qualche incarico remunerativo e dove portò a compimento la volgarizzazione della terza e della quarta decade dell'Ab Urbe Condita di Tito Livio, dedicando l'impresa letteraria al signore ravennate. Fallito questo proposito, nel 1347 Boccaccio si trasferì a Forlì alla corte di Francesco II Ordelaffi. Qui frequentò i poeti Nereo Morandi e Checco Miletto de Rossi, col quale mantenne poi amichevole corrispondenza sia in latino sia in volgare. Tra i testi di questo periodo si deve citare l'egloga Faunus, in cui Boccaccio rievoca il passaggio a Forlì di Luigi I d'Ungheria (Titiro, nell'egloga) diretto verso Napoli, a cui si unisce Francesco Ordelaffi (Fauno). Il componimento viene poi incluso dal Boccaccio nella raccolta Buccolicum Carmen (1349-1367).
Nonostante questi soggiorni Boccaccio non riuscì a ottenere i posti desiderati, tanto che tra la fine del 1347 e il 1348 fu costretto a ritornare a Firenze. Il ritorno del Boccaccio coincise con la terribile "peste nera" che contagiò la stragrande maggioranza della popolazione, causando la morte di molti suoi amici e parenti, tra cui il padre e la matrigna. Fu durante la terribile pestilenza che Boccaccio elaborò l'opera che sarà la base narrativa della novellistica occidentale, cioè il Decameron, che completò probabilmente nel 1351.
Boccaccio e Petrarca
Petrarca fu una figura fondamentale per l'evoluzione intellettuale del Boccaccio, conducendolo alla comprensione del suo rivoluzionario programma culturale. Boccaccio sentì parlare di Petrarca già durante il soggiorno napoletano: grazie a padre Dionigi da Borgo Sansepolcro e, forse, a Cino da Pistoia, Boccaccio ebbe notizia di questo giovane prodigioso residente ad Avignone. Ritornato a Firenze, la conoscenza con Sennuccio del Bene e altri vari ammiratori fiorentini (i protoumanisti Lapo da Castiglionchio, Francesco Nelli, Bruno Casini, Zanobi da Strada e Mainardo Accursio) contribuì nell'animo del Certaldese a rinsaldare quella che inizialmente era una curiosa attenzione, fino a farla diventare una passione viscerale nei confronti di quest'uomo che, pudico, austero e grande poeta, avrebbe potuto risollevare il Boccaccio dallo stato di decadenza morale in cui versava. In questo decennio Boccaccio realizzò alcune composizioni celebrative di Petrarca: la Mavortis Milex del 1339, elogio nei confronti della persona di Petrarca, capace di salvarlo dalla sua degradazione morale; il Notamentum, scritto dopo il 1341 col fine di celebrare Petrarca come il primo poeta laureato a Roma dopo Stazio, come Virgilio redivivo, come filosofo morale alla pari di Cicerone e di Seneca; e infine la De vita et moribus domini Francisci Petracchi, scritta prima del 1350 e ricalcante l'esaltazione del Notamentum, un vero e proprio tentativo di «canonizzazione» dell'Aretino. Grazie alla frequentazione degli amici fiorentini del Petrarca, Boccaccio poté raccogliere nella sua “antologia petrarchesca” i carmi che quest'ultimo scambiava con i suoi discepoli, cercando così di appropriarsi della cultura che ammirava.
L'incontro di persona con il grande poeta laureato avvenne quando Petrarca, in occasione del Giubileo del 1350, si accinse a lasciare Valchiusa, dove si era rifugiato a causa della grande peste, per andare a Roma. Lungo il tragitto Petrarca, d'accordo con il circolo degli amici fiorentini, decise di fermarsi per tre giorni a Firenze a leggere e spiegare le sue opere. Fu un momento di straordinaria intensità: Lapo da Castiglionchio donò a Petrarca la Institutio oratoria di Quintiliano, mentre Petrarca in seguito invierà loro la Pro Archia, scoperta anni prima nella biblioteca capitolare di Liegi. Dal 1350 in avanti nasce un rapporto profondo tra Boccaccio e Petrarca, che si concretizzerà negli incontri degli anni successivi, durante i quali avvenne gradualmente, secondo un termine coniato dal filologo spagnolo Francisco Rico, la "conversione" del Boccaccio al nascente umanesimo. Fin dalla sua prima giovinezza a Napoli, Boccaccio era entrato in contatto con ricche biblioteche, tra le quali spiccava sicuramente quella del monastero di Montecassino, ove erano custoditi numerosissimi codici di autori pressoché sconosciuti nel resto dell'Europa occidentale: tra questi, Apuleio, Ovidio, Marziale e Varrone. Prima dell'incontro con Petrarca Boccaccio continuava a vedere i classici nell'ottica della salvezza cristiana, deformati rispetto al loro messaggio originario ed estraniati dal contesto in cui furono composti. I vari incontri con il poeta laureato, mantenuti costanti attraverso una fitta corrispondenza epistolare e l'assidua frequentazione degli altri proto-umanisti, permisero a Boccaccio di sorpassare la mentalità medievale e di abbracciare il nascente umanesimo.
Nel giro di un quinquennio Boccaccio poté avvicinarsi alla mentalità di colui che diverrà il suo praeceptor, constatando l'indifferenza che questi nutriva per Dante e l'ostentato spirito cosmopolita che spinse il poeta aretino a rifiutare l'invito del Comune di Firenze di assumere il ruolo di docente nel neonato Studium e ad accettare invece, nel 1353, l'invito di Giovanni II Visconti, acerrimo nemico dei fiorentini. Superata la crisi dei rapporti per il voltafaccia di Petrarca, Boccaccio riprese le fila delle relazioni culturali tra lui e il circolo degli amici fiorentini, arrivando alla maturazione della mentalità umanista quando nel 1355, donò all'amico due preziosissimi codici: uno delle Enarrationes in Psalmos di sant'Agostino, cui seguì poco dopo quello contenente il De Lingua Latina dell'erudito romano Varrone e l'intera Pro Cluentio di Cicerone. Mentre Boccaccio consolidava l'amicizia con Petrarca, il primo cominciò a essere impiegato per varie ambasciate diplomatiche dalla Signoria, ben conscia delle qualità retoriche del Certaldese. Già tra l'agosto e il settembre del 1350, per esempio, Boccaccio fu inviato a Ravenna per portare a Suor Beatrice, la figlia di Dante, 10 fiorini d'oro a nome dei capitani della compagnia di Orsanmichele.
Nel 1351, la Signoria incaricò Boccaccio di una triplice missione: convincere Petrarca, che nel frattempo si trovava a Padova, a stabilirsi a Firenze per insegnare nel neonato Studium (i colloqui tra i due si svolsero a marzo); stipulare con Ludovico di Baviera, marchese del Brandeburgo, un'alleanza contro le mire espansionistiche di Giovanni Visconti (dicembre 1351-gennaio 1352); e infine, dopo essere stato nominato uno dei Camerlenghi della Repubblica, quella di convincere Giovanna I di Napoli a lasciare Prato sotto la giurisdizione fiorentina. Nonostante il fallimento delle trattative con Petrarca, la Signoria rinnovò al Boccaccio la propria fiducia, inviandolo ad Avignone presso Innocenzo VI (maggio-giugno 1354) e, nel 1359, a Milano presso il nuovo signore Bernabò Visconti, città in cui Boccaccio si fermò per visitare Petrarca, la cui casa si trovava vicino a Sant'Ambrogio. Questo decennio di intensa attività politica fu contrassegnato, però, anche da alcune dolorose vicende personali: nel 1355 morì la figlioletta naturale Violante (Boccaccio, in una data imprecisata, venne ordinato prete, come è testimoniato in un beneficio del 1360); sempre nel medesimo anno, lo scrittore provò amarezza e rancore nel non essere stato aiutato dall'influente amico Niccolò Acciaiuoli nell'ottenere un posto alla corte di Giovanna di Napoli. Il 1355 vide però anche un piccolo successo finanziario da parte del Certaldese, in quanto alcuni commerci da lui intrapresi con la città di Alghero gli fruttarono quelle risorse delle quali dimostrerà di poter disporre negli anni successivi, caratterizzati da varie difficoltà economiche.

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William Bell Scott, Boccaccio fa visita alla figlia di Dante, olio su tela,

L'anno 1360 segnò una svolta nella vita sociale del Boccaccio. In quell'anno, infatti, durante le elezioni dei priori della Signoria fu scoperta una congiura alla quale parteciparono persone vicine allo stesso Boccaccio. Benché fosse estraneo al tentato colpo di Stato, Boccaccio fu malvisto da parte delle autorità politiche fiorentine, tanto che fino al 1365 non partecipò a missioni diplomatiche o a incarichi politici.
Nel corso degli anni cinquanta, mentre avanzava nella conoscenza della nuova metodologia umanistica, Boccaccio si accinse a scrivere cinque opere in lingua latina, frutto del continuo studio sui codici dei classici. Tre di queste hanno un carattere erudito (la Genealogia deorum gentilium, il De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis e il De montibus), mentre le restanti (il De Casibus e il De mulieribus claris) hanno un sapore divulgativo. Uno dei più grandi meriti del Boccaccio per la diffusione della cultura umanistica fu l'interesse dimostrato nei confronti del monaco calabrese Leonzio Pilato, erudito conoscitore del greco di cui Petrarca parlò all'amico fiorentino. Ottenuto da parte della Signoria fiorentina che Pilato venisse accolto nello Studium come insegnante di greco, Boccaccio ospitò a sue spese il monaco tra l'agosto 1360 e l'autunno 1362. La convivenza non dovette essere molto semplice a causa del pessimo carattere del Pilato, ma al contempo si rivelò proficua per l'apprendimento del greco da parte del Certaldese. A Firenze Pilato tradusse i primi cinque libri dell'Iliade e l'Odissea (oltre a commentare Aristotele ed Euripide) e realizzò due codici di entrambe le opere, che Boccaccio inviò al Petrarca (1365).
Il periodo che va dal 1363 all'anno della morte (1375) viene denominato «periodo fiorentino-certaldese»: infatti, Boccaccio comincerà sempre più a risiedere a Certaldo, nonostante i maggiorenti fiorentini avessero deciso di reintegrarlo nei pubblici uffici, inviandolo come in passato in missioni diplomatiche. A partire dal 1363, infatti, Boccaccio risiedette per più di dieci mesi nella cittadina toscana, dalla quale sempre più raramente si mosse anche a causa della salute declinante (negli ultimi anni fu afflitto dalla gotta, dalla scabbia e dall'idropisia). Gli unici viaggi che avrebbe compiuto sarebbero stati per rivedere il Petrarca, alcune missioni diplomatiche per conto di Firenze, oppure per ritentare la fortuna presso Napoli. Oltre alla decadenza fisica, si aggiunse anche uno stato di abbattimento psicologico: nel 1362 il monaco certosino (e poi beato) Pietro Petroni rimproverò lui e Petrarca di dedicarsi ai piaceri mondani quali la letteratura, critica che toccò nel profondo l'animo di Boccaccio, tanto che questi pensò addirittura di bruciare i propri libri e rinunziare agli studi, vendendo al Petrarca la propria biblioteca.
Nel 1365 Boccaccio venne messo a capo di una missione diplomatica presso la corte papale di Avignone. In quella città il Certaldese doveva ribadire la lealtà dei fiorentini al papa Urbano V contro le ingerenze dell'imperatore Carlo IV di Lussemburgo. Nel 1367 Boccaccio andò a Roma per congratularsi del ritorno del papa nella sua sede diocesana. La basilica di Santo Spirito, coll'annesso convento agostiniano, negli ultimi anni del Boccaccio fu luogo d'incontro tra i vari intellettuali vicini alla sensibilità umanistica. Ospitò anche la cosiddetta «Parva libreria», cioè l'insieme dei libri che Boccaccio donò a Martino da Signa, in base alle sue volontà testamentarie. Gli anni successivi videro sempre più un rallentamento dei viaggi del Boccaccio: nel 1368 incontrò per l'ultima volta l'amico Petrarca, ormai stabile ad Arquà; tra il 1370 e il 1371 fu a Napoli, città in cui decise sorprendentemente di non fermarsi più a risiedere per l'età avanzata e la salute sempre più malandata. Lo scopo principale del Certaldese, negli ultimi anni di vita, fu quello di portare a termine le sue opere latine e rafforzare il primato della cultura umanistica in Firenze. Fu proprio in questi anni che Boccaccio, già ammirato dall'élite culturale italiana, poté crearsi una cerchia di fedelissimi a Firenze presso il convento agostiniano di Santo Spirito. Tra questi si ricordano fra Martino da Signa, Benvenuto da Imola e, soprattutto, il notaio e futuro cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati.
A fianco della produzione umanistica, Boccaccio continuò a coltivare il suo amore per la poesia volgare, specie per Dante. Preparò un'edizione manoscritta della Divina Commedia, correggendone criticamente il testo, e scrisse il Trattatello in laude di Dante, realizzato in più redazioni tra il 1357 e il 1362, fondamentale per la biografia dantesca. Nel 1370, inoltre, trascrisse un codice del Decameron, il celeberrimo Hamilton 90 scoperto da Vittore Branca. Nonostante le malattie si facessero sempre più gravi, Boccaccio accettò un ultimo incarico dal Comune di Firenze, iniziando una lettura pubblica della Commedia dantesca nella Badia Fiorentina, interrotta al canto XVII dell'Inferno a causa del tracollo fisico.
Gli ultimi mesi passarono tra le sofferenze fisiche e il dolore per la perdita dell'amico Petrarca, morto tra il 18 e il 19 luglio del 1374. A testimonianza di questo dolore abbiamo l'Epistola XXIV indirizzata al genero dello scomparso Francescuolo da Brossano, in cui il poeta rinnova l'amicizia con il poeta laureato, sentimento che si protrarrà oltre alla morte. Infine, il 21 dicembre 1375 Boccaccio spirò nella sua casa di Certaldo. Pianto sinceramente dai suoi contemporanei o discepoli (Franco Sacchetti, Coluccio Salutati) e dai suoi amici (Donato degli Albanzani, Francescuolo da Brossano, genero di Petrarca), Boccaccio fu sepolto con tutti gli onori nella chiesa dei Santi Iacopo e Filippo. Sulla sua tomba volle che venisse ricordata la sua passione dominante per la poesia, con la seguente iscrizione funebre:

«Sotto questa lastra giacciono le ceneri e le ossa di Giovanni:
La mente si pone davanti a Dio, ornata dai meriti delle fatiche della vita mortale.
Boccaccio gli fu genitore, Certaldo la patria, amore l’alma poesia.»


Importanza del Boccaccio
La figura di Boccaccio, sia umana sia letteraria, rappresenta un ponte tra il Medioevo e l'età moderna. Attratto, da un lato, verso il mondo medievale per il suo attaccamento alla città natale e ai valori dell'età di mezzo, dall'altro il suo ottimismo e la sua fiducia nelle potenzialità dell'essere umano lo portano già a essere un proto-umanista quale il suo maestro Petrarca. Al contrario di quest'ultimo, infatti, Boccaccio si rivelò sempre attaccato alla città natale Firenze, rivelando un'affinità straordinaria con l'atteggiamento dantesco. Comunque, se Dante si considerava come un figlio dell'amata Firenze, tanto da non riuscire a lenire il dolore col passare degli anni, Boccaccio sentì la lontananza anche di Napoli, la città della giovinezza. Boccaccio dimostrò una sensibilità moderna nell'affrontare le vicende umane, legate alla volubile fortuna, dandole un'ottica decisamente più "laica" rispetto a Dante: da qui, Francesco De Sanctis giunse a definire Boccaccio come il primo scrittore distaccato dalla mentalità medievale. Al contrario il maggiore studioso di Boccaccio del XX secolo, Vittore Branca, nel suo libro Boccaccio medievale, tese a rimarcare la mentalità medievale del Certaldese, su cui si basano i valori, le immagini e le scene delle novelle. Uno dei massimi filologi italiani del XX secolo, Gianfranco Contini, espresse il medesimo giudizio e chiosò dicendo che «oggi il Boccaccio appare per un verso di cultura medievale e retrospettiva, per un altro buon deuteragonista italiano di quel movimento aristocratico che fu l'Umanesimo». A mio avviso Boccaccio è un eroe della nostra letteratura e meriterebbe più di qwuanto la critica è disposta a riconoscergli.

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Il Decameron, olio su tela del 1837 di Franz Xaver Winterhalte

Già fin dal periodo napoletano Boccaccio dimostra un'incredibile versatilità nel campo delle lettere, sapendo con maestria adoperare il materiale letterario con cui entra in contatto, rielaborandolo e producendo nuovi lavori originali. Nel clima cosmopolita napoletano, ove l'etica cavalleresca francese importata dagli Angiò, le influenze arabo-bizantine, l'erudizione di corte e la presenza di cultori della memoria dantesca si incontrano, Boccaccio dà adito a uno sperimentalismo in cui tutti questi elementi si incrociano. Prendendo, per esempio, il Filocolo, primo romanzo in volgare italiano, si può notare che:
- il titolo è un grecismo.
- la narrazione riprende la vicenda amorosa di Fiorio e Biancifiore, legata alla tradizione occitanica.
- si trovano influssi classicisti, che hanno per modello la Historia distructionis Troiae di Guido delle Colonne.
Con la narrativa promossa dal Boccaccio, la prosa letteraria italiana raggiunge un livello elevatissimo. Grazie alla volgarizzazione di Tito Livio Boccaccio adotta infatti un periodare delle frasi più sciolto, meno paratattico e incentrato invece sulla concatenazione gerarchica dei periodi, tipica dell'opera liviana. Tale stile fluido e scorrevole, intriso di un linguaggio proprio della dimensione quotidiana (resa ancor più marcata dalla presenza di dialettismi e da contesti dominati da doppi sensi), si contrappone decisivamente al resto della produzione letteraria in prosa, caratterizzata da un periodare paratattico e asciutto.
Boccaccio, in certe occasioni, si dimostrò più volte in disaccordo con Petrarca man mano che il Certaldese si impadroniva dei principi della lezione umanistica. A parte la crisi del 1354, dovuta al trasferimento di Petrarca nella nemica Milano, tra Boccaccio e il poeta aretino ci fu uno scontro sul valore che il greco antico poteva apportare alla cultura occidentale: se per Petrarca tutta l'eredità della cultura greca fu assorbita da quella latina, Boccaccio (che fu a stretto contatto col lavoro di traduzione di Leonzio Pilato) invece ritenne che i Latini non avessero assorbito tutte le nozioni della civiltà ellenica. Boccaccio sosteneva che come gli antichi Romani imitarono e ripresero la letteratura greca, così anche gli umanisti dovevano riprenderne il pensiero. La lungimiranza culturale di Boccaccio, la cui proposta culturale trovò conferma già sotto la generazione d'umanisti successiva, fu in questo modo sintetizzata dal filologo bizantino Agostino Pertusi:

«[Il Boccaccio] intravvide, seppur vagamente, che l'Umanesimo per esser veramente integrale doveva completarsi con la matrice della cultura e della 'humanitas latina, cioè con la cultura e l'humanitas' dei Greci»
(Agostino Pertusi in Branca 1977, p. 118)

Al contrario di Petrarca, Boccaccio cercò sempre di fornire un'utilità pratica alle sue opere umanistiche di carattere erudito. Sia nella Genealogia sia nel De montibus, infatti, Boccaccio ebbe come scopo quello di fornire dei prontuari enciclopedici volti a conservare il patrimonio della cultura classica e a trasmetterlo alla posterità. Nel caso del Proemio dei libri della Genealogia, rivolgendosi al destinatario dell'opera, Ugo IV di Lusignano, Boccaccio espresse tale proposito con grande umiltà, dopo aver ricordato la sua inadeguatezza nell'adempiere questo compito, ricordando il valore intellettuale di Petrarca:

«Per tuo comandamento adunque, lasciati i sassi dei monti di Certaldo et lo sterile paese, con debile barchetta in un profondo mare, pieno di spessi scogli, come novo nocchiero entrerò, dubbioso veramente che opra io mi sia per fare, se bene leggerò tutti i liti, i montuosi boschi, gli antri et le spelonche, et se sarà bisogno caminar per quelli et discender fino all’Inferno. Et fatto un altro Dedalo, Secondo il tuo disio volelerò per insino al cielo; non altramente che per un vasto lido raccogliendo i fragmenti d’un gran naufragio, così raccorrò io tutte le reliquie che troverò sparse quasi infiniti volumi dei Dei gentili; et raccolte et sminuite, et quasi fatte in minuzzoli, con quel ordine ch’io potrò, acciò che tu habbi il tuo disio, in un corpo di Geneologia le ritornerò.» (Genealogia deorum gentilium, Proemio Libro I; per la traduzione Geneologia degli Dei. I quindeci libri, tradotti et adornati per messer Giuseppe Betussi da Bassano, 1547)

Lo stesso proposito è proprio del prontuario geografico De montibus, ove sottolinea i possibili punti di "debolezza" dovuti agli errori e alle imprecisioni causate dalla sua ignoranza, ricordando ai lettori di intervenire, qualora si dovessero accorgere di tali mancanze: «E se ho visto libri più corretti di quelli che si utilizzano, i lettori se ne accorgano e, per carità, siano inclini all'indulgenza e li correggano.»
(De montibus, conclusione)

Boccaccio ebbe un enorme successo già a partire dalla sua scomparsa. Nella Firenze umanistica, che era debitrice profondamente della lezione filologica impartita dal Boccaccio ai suoi giovani allievi nel circolo di Santo Spirito, la figura del Certaldese è ricordata con affetto e venerazione, come si può notare già dall'epistolario di Coluccio Salutati o dalla Vita di Giannozzo Manetti, delineando, insieme alle biografie di Dante e Petrarca scritte da Leonardo Bruni, il culto delle «tre corone fiorentine». Dopo aver goduto di grande successo anche presso l'umanesimo "volgare" (Lorenzo de' Medici elogiò come grande opera il Decameron) la consacrazione, però, giunse nel 1525, allorché il futuro cardinale e poeta italiano Pietro Bembo, con le sue Prose della volgar lingua, delineò come modello prosaico il Decameron:

«Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è [...] e molto meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi.»
(Pietro Bembo, Prose della volgar lingua I, XIX)

Se la fortuna della lirica petrarchesca durerà fino al XIX secolo, dando il via al fenomeno del petrarchismo, Boccaccio invece subì una netta condanna da parte del Concilio di Trento, per via dei contenuti "immorali" presenti in molte novelle, ove il Certaldese mise a nudo vizi e difetti del clero: tra il 1573 e il 1574 il filologo e religioso Vincenzio Borghini compì una vera e propria emendatio morale del Decameron, che nel contempo permise all'opera di salvarsi dalla distruzione totale. Soltanto con l'inizio dell'età contemporanea (e della laicizzazione della società), il Boccaccio del Decameron iniziò a essere riconsiderato dalla critica, nonostante alcune timide rivisitazioni ci fossero già state nel corso del XVIII secolo.
Il giudizio favorevole di Ugo Foscolo e di Francesco De Sanctis prima, e di Vincenzo Crescini poi, diede inizio a una fiorente stagione di studi letterari che, nel corso del XX secolo, culminò con gli studi filologici di Vittore Branca, di Carlo Dionisotti e di Giuseppe Billanovich, tesi a dare un'immagine più reale a quella "boccaccesca" affibbiatagli negli ultimi secoli. Contini, al contrario, si pone in contrasto con quest'ottimismo critico-letterario, rimarcando i limiti della prosa boccacciana.
Il propagamento del Decameron, secondo quanto ebbe a dire Branca, «è più europeo che italiano»: la diffusione che l'opera ebbe in Francia, in Spagna, in Germania e, soprattutto, in Inghilterra, fu senza precedenti. Nel mondo anglosassone, infatti, Boccaccio fu più di un semplice modello: fu l'ispiratore della pietra miliare che ispirò il primo grande letterato e poeta inglese Geoffrey Chaucer, autore de I racconti di Canterbury, che si strutturano allo stesso modo sia dal punto di vista del genere letterario sia dal punto di vista contenutistico (anche se Chaucer non raccolse più di 24 racconti, invece degli sperati 100). Il successo di Boccaccio in Europa non fu legato, però, soltanto al Decameron, ma anche a quelle opere considerate come "minori", come il De casibus virorum illustrium, il Filocolo e, presso gli eruditi, le enciclopediche latine.
Nel XVIII secolo Boccaccio si affaccia anche in Russia con la prima traduzione delle sue opere. Nikolaj Cernyševskij fa dire alla protagonista del suo celebre romanzo Che fare?, nell'ambito di un discorso imperniato sulla natura dell'amore, che le novelle boccacciane esprimono «pensieri freschi, puri, luminosi», e che possono essere affiancate «ai migliori drammi shakespeariani per la profondità e la finezza dell'analisi psicologica».
In tutta la sua vita Boccaccio vide nel Petrarca un praeceptor, capace di risollevarlo dai peccati della carne tramite la letteratura classica e la spiritualità agostiniana, giungendolo a considerarlo come una vera e propria guida spirituale. Da parte sua l'intellettuale aretino nutriva ancora una sorta di distacco intellettuale dal suo affettuoso amico, benché lo considerasse l'unico a «essergli compagno nella titanica impresa culturale che stava compiendo». Infatti, Petrarca non permise mai a Boccaccio di accedere del tutto alla sua biblioteca personale, mentre il secondo gli procurava rari codici contenenti opere latine e le versioni dal greco curate da Leonzio Pilato. Era un rapporto ambiguo, che emerge anche dalle ultime quattro Seniles, quando Petrarca, irritato dall'eccessiva preoccupazione di Boccaccio per la sua salute, decise di tradurre l'ultima novella del Decameron, Griselda, in latino, per dimostrare ancora il suo vigore. Non si può considerare il rapporto fra i due come un rapporto di “sudditanza psicologica” del Boccaccio nei confronti del Petrarca, quanto invece una «rivendicazione orgogliosa della parte da lui sostenuta perché si affermasse il progetto globale concepito dal Petrarca». Difatti, bisogna ricordare che non fu soltanto Petrarca a essere praeceptor di Boccaccio, ma anche il contrario: se l'Aretino ha indubbiamente segnato una svolta nel percorso intellettuale del Certaldese, quest'ultimo ha lasciato un'impronta significativa nella produzione letteraria petrarchesca.
Boccaccio, in certe occasioni, si dimostrò più volte in disaccordo con Petrarca man mano che il Certaldese si impadroniva dei principi della lezione umanistica: la questione "greca" e quella "senecana". Riguardo alla prima, Boccaccio ribadiva (al contrario del praeceptor) di come fosse necessario recuperare la letteratura greca per una migliore comprensione della civiltà occidentale. Sulla seconda questione l'Epistola XX, scritta al giurista napoletano Pietro Piccolo da Monteforte, vicino alla cultura umanista e grande appassionato del Boccaccio, rivela la diatriba di natura filologica tra Petrarca e Boccaccio. Quest'ultimo, difatti, dimostra amarezza per essere stato contraddetto da Petrarca sulla questione se esistessero due Seneca distinti fra di loro. Nonostante le procedure filologiche adottate dal Certaldese, che aveva appreso di questa divisione da un errore di Marziale, risultassero esatte, Petrarca ritenne, sulla base dello stile praticamente uguale, che non potessero essere due autori distinti. Concludendo sulla base della sintesi dei due maggiori studiosi del Boccaccio, Vittore Branca e Giuseppe Billanovich, il rapporto fra i due uomini non si può marcare nel semplice binomio preaceptor-discipulus, quanto invece si deve osservare la

«[...] convergenza in problemi, in interessi, in soluzioni analoghe anche stilistiche: di intertestualità, si è poi detto. La caccia agli echi e alle riprese doveva in conseguenza, a nostro avviso, cedere il passo alla ricerca degli scambi e della circolazione di esperienze che di continuo, nell'alto commercio Petrarca-Boccaccio, si arricchiscono reciprocamente. Favorivano quella convergenza letteraria e questo commercio spirituale, una comunanza di gusti e di sensibilità nella stessa atmosfera di prepotente rinnovamento culturale.»
(Vittore Branca, Intertestualità fra Petrarca e Boccaccio, citato in Boccaccio: autore e copista, pp. 39-40)

Boccaccio, durante tutta la sua vita, fu un appassionato cultore di Dante e della sua opera, che ebbe modo di conoscere fin dalla sua prima giovinezza grazie al contatto con Margherita e Filippa de' Mardoli. Perfezionatosi, poi, alla scuola di Cino da Pistoia, amico dell'Alighieri, già nella Caccia di Diana la presenza delle terzine dantesche indica un precoce avvicinamento alla poetica del venerato modello, che si protrarrà fino al senile Corbaccio, ove la presenza della selva e della visione rimandano inequivocabilmente all'ambientazione infernale dell'immortale poema. L'avvicinamento alla mentalità umanistica e il culto per Petrarca, però, non distolsero il Boccaccio dalla volontà di diffondere a Firenze il culto per Dante e la sua opera, anche se il giudizio più che ottimista si raffreddò durante la fase umanista, dopo aver constatato la superiorità del Petrarca in lingua latina. Oltre ad aver copiato di suo pugno tre codici della Commedia, il Certaldese scrisse anche il Trattatello in laude di Dante Alighieri (composto in due redazioni tra il 1351 e il 1366) e tenne delle lectiones magistrales sui canti dell'Inferno, fermatesi solo all'esegesi del XVII canto per il brusco declino fisico del Boccaccio. Spesso Boccaccio, nel suo commento dantesco, interviene sul testo di Dante, alterandolo deliberatamente o interpretandolo in base al contesto poetico-narrativo del passo analizzato.

Il Filocolo

Il Filocolo è stato composto da Boccaccio durante la sua giovinezza, attorno al 1337, e fa parte della produzione del periodo napoletano. Boccaccio scelse questo titolo, come fece anche per il Filostrato, secondo una sua personale interpretazione etimologica: "filocolo" significa infatti in questo caso "fatica d’amore". Il romanzo, composto in prosa e in lingua volgare, racconta una travagliata vicenda d’amore, che vede protagonisti Florio e Biancofiore: lui erede al trono spagnolo, lei ragazza orfana cresciuta a corte. I due si amano sin dalla più tenera età, ma i genitori del giovane ostacolano tenacemente il loro sentimento a causa della condizione sociale della ragazza. Boccaccio sottolinea come la passione tra i due innamorati sia divampata leggendo l’Ars amatoria di Ovidio, riferimento che ci riporta subito alla memoria i danteschi Paolo e Francesca. Non riuscendo a tenere separati i giovani amanti, i genitori di Florio decidono di allontanare il figlio con la scusa dello studio, e di donare Biancofiore come schiava all’ammiraglio di Alessandria, perché la porti con sé in Oriente. Quando Florio scopre l’accaduto s’imbarca alla ricerca di Biancofiore, con il falso nome di Filocolo, ma, colto da una tempesta, deve sostare a Napoli, dove gode della raffinatezza della corte e della compagnia di Fiammetta. Ripreso il mare, giunge ad Alessandria, e riesce a entrare nella stanza della torre dell’ammiraglio in cui è tenuta prigioniera Biancofiore. Ritrovatisi, i due amanti si sposano e consumano il matrimonio. Una volta scoperti però, vengono condannati a morte attraverso il rogo, pena che si rivela inefficace grazie all’intervento di un deus ex machina, in questo caso la dea Venere, che rende i due giovani immuni alle fiamme. Infine, secondo il classico meccanismo dell'agnizione, l’ammiraglio riconosce Florio, suo nipote, e vengono alla luce anche le origini nobili di Biancofiore. Così i due amanti vedono trionfare il loro amore nel più tipico lieto fine. Boccaccio, nella stesura di quest’opera, prende spunto da un poemetto popolare intitolato Cantare di Florio e Biancofiore, del quale esistevano anche varie versioni francesi. In questo componimento s’intrecciano inoltre diversi piani narrativi, che generano molte digressioni nel corso della vicenda. Lo stile, letterario ed elevato, è modellato sugli esempi colti dell'ars dictandi medievale.

FIAMMETTA

Maria d'Aquino (morta nel 1382) era una nobildonna napoletana che è tradizionalmente identificata con l'amata e musa Fiammetta di Giovanni Boccaccio. Maria d'Aquino era figlia illegittima di Roberto il Saggio, re di Napoli e conte di Provenza. Fu complice nell'omicidio del 1345 di re Andrea, marito di sua nipote e successore di Roberto, la regina Giovanna I. Per questo Maria fu condannata a morte e decapitata nel 1382 per ordine del successore della regina Giovanna I, il re Carlo III. Boccaccio scrisse di Maria d'Aquino e della loro relazione in molte delle sue opere letterarie. È tradizionalmente identificata come Fiammetta. Secondo lui, la madre di Maria era una nobildonna provenzale, Sibila Sabran, moglie del conte Tommaso IV d'Aquino. Nacque dopo che la contessa Sibila e il re Roberto commisero adulterio durante i festeggiamenti per l'incoronazione nel 1310, ma le fu dato il cognome del marito di sua madre. Suo padre putativo la mise in un convento.

Se la vicenda di Fiammetta ha una forte componente patetica, non viene mai meno l'elaborazione letteraria; la vicenda è sempre filtrata dallo stile letterario di Boccaccio, attento a conservare una forma raffinatamente elevata, costruita a partire dal modello delle Heroides di Ovidio.
In Boccaccio non manca un po' di stilnovismo; infatti in questo sonetto ritorna il concetto del paradiso, dell'angelo e del miracolo.

Su la poppa sedea d’una barchetta,
Che ’l mar segando presta era tirata,
La donna mia con altre acompagnata,
Cantando or una or altra canzonetta.

Or questo lito et or quest’isoletta,
Et ora questa et or quella brigata
Di donne visitando, era mirata
Qual discesa dal cielo una angioletta.

Io che, seguendo lei, vedeva farsi
Da tutte parti incontro a rimirarla
Gente, vedea come miracol nuovo.

Ogni spirito [mio] in me destarsi
Sentiva, et con amor di commendarla
Sazio non vedea mai il ben ch’io provo.

 

Eugenio Caruso - 21 - 12 - 2021

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