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Dante, Paradiso, Canto XXXII. Bernardo spiega a Dante la distribuzione dei beati nella rosa.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXXII

Il Canto rappresenta una pausa didascalica e descrittiva prima del grandioso spettacolo della visione di Dio cui Dante sarà ammesso in quello successivo, poiché qui san Bernardo si appropria del ruolo di guida e inizia e spiegare a Dante la distribuzione dei beati nella rosa: è questa la parte più ampia dell'episodio, che rappresenta l'ultima rassegna di anime dell'intero poema, benché si tratti per lo più di personaggi già presentati o evocati in precedenza (nonostante alcune assenze parse inspiegabili ai commentatori, specie quelle di san Domenico e san Paolo del tutto ignorati dalla presentazione). Dante non ci dà nulla di scontato e l'assenza di San Paolo deve avere un significato che a noi sfugge.
La «geografia» dei beati nella rosa risponde a quelle simmetrie compositive e a quel simbolismo che è parte essenziale della Commedia e della cultura medievale del tempo di Dante, per quanto ciò sia lontano dalla sensibilità del lettore moderno: Bernardo indica a Dante che l'anfiteatro è diviso in due semicerchi che ospitano rispettivamente i beati dell'Antico e del Nuovo Testamento, il primo alla sinistra di Maria e già completo, il secondo alla sua destra e con alcuni seggi vuoti, entrambi destinati a raggiungere lo stesso numero di anime; la linea divisoria tra i due settori è costituita da una serie di beati disposti in colonna, al di sotto della Vergine (che siede nel punto più alto della rosa) e di san Giovanni Battista (che occupa il seggio di fronte a lei, dalla parte opposta).
Ai piedi di Maria stanno alcune donne ebree dell'Antico Testamento, a partire da Eva che causò il peccato originale sanato poi dalla Vergine con la nascita del Redentore, mentre al di sotto del Battista siedono i santi più importanti dell'era cristiana, ovvero i fondatori delle tre principali Regole (Francesco, Benedetto, sant'Agostino, benché di quest'ultimo vi sia un rapido accenno a dispetto dell'enorme sua importanza nella teologia e nel pensiero dantesco) e altri santi non nominati, che formano una linea corrispondente a quella delle donne di fronte a loro.
Accanto a Maria vi sono poi i due beati che, a dire di Bernardo, sono come le radici dell'intera rosa, ovvero Adamo, il primo uomo che causò il peccato originale e che è dunque assai vicino ad Eva, e san Pietro, il primo successore di Cristo in Terra e fondatore in certo modo della Chiesa cristiana, nonché custode delle chiavi simboliche del Paradiso; alla loro sinistra e alla destra troviamo Mosè, che guidò il popolo ebraico fuori dalla schiavitù d'Egitto (l'evento era interpretato allegoricamente come il riscatto dal peccato) e san Giovanni Evangelista, insieme a Pietro fra gli Apostoli prediletti da Cristo e autore del libro profetico dell'Apocalisse in cui sono preannunciate le future vicende della Chiesa.
Di fronte ad Adamo e a Pietro, dall'altra parte dell'anfiteatro e dunque a destra e a sinistra del Battista, siedono rispettivamente santa Lucia, la cui presenza si giustifica forse per il suo ruolo nella vicenda allegorica del viaggio dantesco, e sant'Anna, la madre di Maria che è detta non staccare mai gli occhi dalla figlia, come era sovente raffigurata nell'iconografia dell'arte medievale. È stato osservato che i credenti in Cristo venuto dovrebbero essere più numerosi di quelli dell'Antico Testamento, mentre secondo san Bernardo essi saranno alla fine dei tempi in numero uguale (Dante si rifà alla convinzione, diffusa nella dottrina cristiana, che il numero finale dei beati sarà identico a quello degli angeli ribelli), ma è probabile che fra i secondi rientrino quelle anime oggetto di una speciale grazia da parte di Dio, come il caso già visto del pagano Rifeo; una linea orizzontale taglia poi le due linee verticali esattamente a metà, formando due croci greche e dividendo la rosa in una parte alta e una parte bassa, coerentemente alla convinzione già più volte espressa che l'altezza nella rosa corrisponda a un maggiore o minore grado di beatitudine (anche questo punto ha suscitato perplessità, in quanto vorrebbe dire che i beati più numerosi sono quelli posti in alto, essendo la rosa digradante verso il basso: ma si tratta di dettagli tecnici che nulla tolgono alla simmetria del quadro generale).
La linea orizzontale separa i beati per così dire adulti, che stanno al di sopra, dai fanciulli morti prematuramente che stanno al di sotto e hanno guadagnato la beatitudine non per meriti propri (essendo morti prima di avere la possibilità di scegliere fra bene e male) ma per quelli dei loro genitori: ciò apre il delicato problema della predestinazione dei bambini beati, oggetto di vivaci discussioni fra i teologi del tempo, alcuni dei quali affermavano che i beati dovessero avere la stessa età, nonché l'apparente ingiustizia del fatto che i fanciulli siedano a diverse altezze nella rosa e dunque godano di un diverso grado di beatitudine a dispetto della loro condotta egualmente innocente. La risposta di San Bernardo chiama in causa per l'ennesima volta l'imperscrutabilità del giudizio divino, che assegna a ogni anima all'atto della creazione un diverso grado di grazia per ragioni insondabili all'uomo, il che riguarda ovviamente anche i fanciulli; ciò spiega anche l'apparente ingiustizia dei bambini morti senza battesimo e confinati nel Limbo senza loro colpa, così come i pagani virtuosi vissuti prima di Cristo o i contemporanei nati in regioni ai confini del mondo, tutte cose inspiegabili in base alla ragione umana e da ricondurre al giudizio divino inconoscibile all'intelletto.
Bernardo si sofferma sul fatto che nei primi tempi dell'Umanità, prima dell'istituzione della circoncisione, i bambini si salvavano grazie all'innocenza e alla fede dei genitori, mentre in seguito per i maschi fu necessario il «battesimo imperfetto» (cioè l'essere circoncisi) che ovviamente riguardava i soli Ebrei; dopo la venuta di Cristo si è reso indispensabile il battesimo, l'atto con cui vengono infuse le virtù teologali e senza il quale la salvezza è impossibile, benché non sia esclusa tale possibilità ad alcuni individui oggetto di una grazia speciale per i loro meriti eccezionali.
La spiegazione di Bernardo è importante perché costituisce il suggello finale a tutta la complessa questione della predestinazione e della grazia divina, a più riprese toccata da Dante nella III Cantica insieme al problema del diverso grado di beatutudine che riguarda tutti gli eletti presenti nella rosa celeste; per l'ennesima volta il santo ribadisce che non tutto è comprensibile con l'intelletto e determinate cose devono essere date per acquisite e accettate in base alla fede, senza perdersi in pensier sottili (che sembrano essere le astruserie della filosofia razionale che forse causarono il «traviamento» di Dante), mentre Bernardo sottolinea che l'evidenza delle cose cui Dante assiste è sufficiente a chiarire i suoi dubbi, per cui qui basti l'effetto. Quanto alla diversa età dei beati, più che a ragioni dottrinali essa sembra rispondere ad esigenze descrittive, in quanto le anime si presentano con l'aspetto che avevano al momento della morte e accanto a vecchi quali san Bernardo Dante può descrivere i fanciulli dal volto e dalla voce puerile, mentre in XIV, 61-66 dopo il discorso di Salomone il poeta aveva sottolineato il desiderio dei beati di rivedere l'aspetto terreno dei loro cari, destinati a raggiungerli e a riappropriarsi dei corpi mortali dopo il Giudizio finale (Dante li vede invece ora in virtù di uno straordinario privilegio).
Presenza costante nel Canto è poi la figura di Maria, che occupa il seggio più alto della rosa e dalla cui posizione dipende tutta la complessa distribuzione dei beati, mentre al centro del Canto è descritta la sua glorificazione ad opera dell'arcangelo Gabriele e nel finale Bernardo si prepara a rivolgerle la preghiera che consentirà a Dante di accedere alla visione finale di Dio. L'insistenza sul ruolo della Vergine è chiaramente motivata dalla centralità del suo personaggio in tutta la vicenda cristiana, in quanto è grazie a lei che Dio si è incarnato redimendo l'Umanità dal peccato originale, rendendo possibile la salvezza che Dante ha descritto nella III Cantica: come già nel Canto XXIII è nuovamente Gabriele a rendere omaggio a Maria, stavolta esplicitamente nominato da Bernardo su richiesta di Dante, mentre ancora una volta è sottolineato il rapporto madre-figlio che la lega a Cristo, le cui fattezze Dante riconosce nel volto della Vergine (a differenza del Canto XXXI il poeta può intuirne la straordinaria bellezza, benché si limiti a dichiarare la sua superiorità rispetto a qualunque altro spettacolo cui abbia assistito nel viaggio in Paradiso).
Il Canto si chiude allora con l'affermazione da parte del santo della necessità che Dante ottenga l'intercessione di Maria per affrontare l'altissima visione di Dio, cui le sue sole forze umane sono ovviamente insufficienti e che rappresenta la conclusione naturale del viaggio per cui il tempo è ormai finito, avendo Dante visto tutto ciò che poteva essergli mostrato: gli ultimi versi sono occupati dalle parole di Bernardo che prepara il poeta a ricevere il fulgore che gli consentirà di figgere lo sguardo nella mente divina e vedere in una suprema intuizione l'intera essenza dell'Universo, mentre l'episodio termina in modo sospensivo col santo che sta per pronunciare la sua santa orazione alla Vergine che costituirà l'inizio solenne del Canto successivo, tutto dedicato all'esperienza mistica e intellettuale che porrà fine alla Commedia.

adamo

Adamo ed Eva con Abele e Caino

NOTE

- Quasi tutti i mss. al v. 1 leggono L'affetto o L'effetto, che però costringe a una costruzione sintattica alquanto contorta: la lez. vulgata Affetto riferisce il verbo a san Bernardo ed ha probabilmente un valore concessivo, «nonostante fosse intento al suo piacere», cioè alla contemplazione di Maria.
- I vv. 4-6 alludono ad Eva, che siede ai piedi di Maria e che causò la piaga del peccato originale, poi sanata dalla Vergine con la nascita del Redentore; richiuse e unse  costituisce un hysteron-proteron, poiché anticipa l'azione susseguente (Maria prima medicò e poi ricucì la ferita), così come aperse e... punse (Eva prima produsse e poi aprì la piaga) e come in generale le due coppie di verbi, in quanto l'azione di Maria seguì e non precedette quella di Eva.
- Al v. 7 sedi è plur. per «sedio», «seggio» e Bernardo si riferisce al terzo ordine in cui si trova il seggio di Rachele.
- Il v. 9 ricorda che Beatrice siede accanto a Rachele, come detto in Inf.II,  102.
- I vv. 10-12 indicano alcune donne dell'Antico Testamento: Sara, moglie di Abramo e madre di Isacco; Rebecca, moglie di Isacco e madre di Giacobbe; Giuditta, la donna che uccise Oloferne re degli Assiri; Ruth, bisavola (bisnonna) di David, che compose il Salmo Miserere mei per espiare l'uccisione del marito di Betsabea, Uria (II Reg., XI, 2-16).
- Il v. 18 indica che la colonna di donne ebree dividono i petali (chiome) della rosa, ovvero i seggi.
- I vv. 25-26 vogliono dire che alla destra di Maria i semicerchi (semicirculi) sono inframezzati (intercisi) di seggi vuoti.
- I vv. 31-33 alludono a san Giovanni Battista, che visse nel deserto e fu martirizzato da Erode (Matth., XIV, 3-9); essendo morto circa due anni prima di Cristo, rimase fino ad allora nel Limbo.
- I tre santi citati al v. 35 non sono i fondatori degli Ordini monastici principali, ma delle Regole (i Domenicani seguivano infatti la Regola agostiniana) ed è forse il motivo dell'assenza di san Domenico; meno spiegabile l'assenza di san Paolo nella presentazione dei beati della rosa, ma forse è uno dei santi non nominati che stanno sotto gli altri tre.
- I vv. 44-45 indicano i fanciulli beati, morti prematuramente e dunque prima che potessero scegliere in base al loro libero arbitrio tra bene e male; al v. 44 asciolti  può voler dire «sciolti dal peccato originale», ma anche «sciolti dal corpo».
- Al v. 49 sili  è lat. per «stai in silenzio» (da silere) ed è neologismo dantesco.
- Il v. 57 è forse un detto proverbiale (Bernardo intende che vi è rispondenza perfetta tra ciò che Dante vede e il volere divino).
- La festinata gente (v. 58) è l'insieme dei fanciulli, morti prematuramente e dunque affrettatisi al Cielo.
- Al v. 61 pausa  sta per «posa», mentre al v. 63 àusa  è lat. per «osa» (da audere).
- I vv. 67-69 alludono ad Esaù e Giacobbe, i due gemelli dei quali il primo era inviso a Dio e il secondo a lui diletto, cosicché già nel ventre della madre erano discordi (ebber l'ira commota); l'interpretazione dei due come esempio dell'imperscrutabilità del giudizio divino risale a san Paolo (Rom., IX, 11-13).
- I vv. 70-72 vogliono dire probabilmente che è giusto che la luce della grazia divina faccia aureola (s'incappelli) a seconda di quanto preordinato da Dio (secondo il color d'i capelli); c'è forse un ulteriore riferimento a Esaù e Giacobbe, il primo coi capelli rossi e il secondo coi capelli neri.
- Al v. 76 i secoli recenti  sono le prime generazioni dell'Umanità, cioè da Adamo ad Abramo.
- L'espressione a l'innocenti penne (v. 80) è interpretata come metafora dell'innocenza dei fanciulli circoncisi, ma forse il riferimento è al membro virile (cfr. Inf. XX, 45: le maschili penne).
- Al v. 84 là giù  si riferisce al Limbo, dove sono confinati i bambini morti senza il battesmo perfetto di Cristo (la circoncisione era considerata un battesimo imperfetto).
- Nei vv. 83-87 la parola Cristo rima con se stessa.
- Al v. 103 gioco  è provenzalismo per «gioia», «letizia» (da joc). Anche abbelliva (v. 107) è prov. da abellir, in quanto Bernardo, fedele di Maria, ne riceve la luce e se fregia (cfr. Purg. XXVI, 140: tan m'abellis, nelle parole di Arnaut Daniel).
- Il v. 112 allude all'iconografia tradizionale dell'arcangelo Gabriele, rappresentato mentre porge un ramo di palma a Maria nell'atto dell'Annunciazione (la palma è simbolo di vittoria).
- Al v. 129 Agusta è riferito a Maria e vuol dire «augusta», titolo che nell'antica Roma veniva dato alla moglie dell'imperatore.
- I vv. 121-123 alludono al primo padre, Adamo, mentre i vv. 124-126 indicano san Pietro.
- I vv. 127-130 si riferiscono a Giovanni Evangelista, che ebbe nell'Apocalisse la rivelazione profetica dei tempi gravi che attendevano la Chiesa; questa è definita come la bella sposa di Cristo, che si unì ad essa attraverso il martirio (rappresentato dalla lancia e dai clavi, i chiodi della croce).
- I vv. 131-132 alludono a Mosè e agli Ebrei, volubili e ritrosi a obbedirgli.
- I vv. 137-138 si riferiscono al momento in cui santa Lucia indusse Beatrice a soccorrere Dante (Inf., II, 97 ss.).
- Il tempo... che t'assonna (v. 139) indica probabilmente solo il fatto che Dante è ancora soggetto alle leggi dello scorrere del tempo umano, che è fatto di sonno e di veglia, e non a un'esperienza propriamente mistica in cui il poeta sia stato rapito in estasi (l'espressione è in ogni caso molto ambigua).
- Al v. 145 ne  è lat. per introdurre una finale negativa («affinché tu non...»).
- Il v. 151 termina in modo sospensivo, in attesa della santa orazione  che Bernardo pronuncerà all'inizio del Canto seguente.

rebecca

Rebecca


TESTO DEL CANTO XXXII

Affetto al suo piacer, quel contemplante 
libero officio di dottore assunse, 
e cominciò queste parole sante:                                     3

«La piaga che Maria richiuse e unse, 
quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi 
è colei che l’aperse e che la punse.                               6

Ne l’ordine che fanno i terzi sedi, 
siede Rachel di sotto da costei 
con Beatrice, sì come tu vedi.                                           9

Sarra e Rebecca, Iudìt e colei 
che fu bisava al cantor che per doglia 
del fallo disse ‘Miserere mei’,                                         12

puoi tu veder così di soglia in soglia 
giù digradar, com’io ch’a proprio nome 
vo per la rosa giù di foglia in foglia.                                15

E dal settimo grado in giù, sì come 
infino ad esso, succedono Ebree, 
dirimendo del fior tutte le chiome;                                  18

perché, secondo lo sguardo che fée 
la fede in Cristo, queste sono il muro 
a che si parton le sacre scalee.                                      21

Da questa parte onde ‘l fiore è maturo 
di tutte le sue foglie, sono assisi 
quei che credettero in Cristo venturo;                            24

da l’altra parte onde sono intercisi 
di vòti i semicirculi, si stanno 
quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.                               27

E come quinci il glorioso scanno 
de la donna del cielo e li altri scanni 
di sotto lui cotanta cerna fanno,                                      30

così di contra quel del gran Giovanni, 
che sempre santo ‘l diserto e ‘l martiro 
sofferse, e poi l’inferno da due anni;                             33

e sotto lui così cerner sortiro 
Francesco, Benedetto e Augustino 
e altri fin qua giù di giro in giro.                                       36

Or mira l’alto proveder divino: 
ché l’uno e l’altro aspetto de la fede 
igualmente empierà questo giardino.                           39

E sappi che dal grado in giù che fiede 
a mezzo il tratto le due discrezioni, 
per nullo proprio merito si siede,                                   42

ma per l’altrui, con certe condizioni: 
ché tutti questi son spiriti asciolti 
prima ch’avesser vere elezioni.                                      45

Ben te ne puoi accorger per li volti 
e anche per le voci puerili, 
se tu li guardi bene e se li ascolti.                                  48

Or dubbi tu e dubitando sili; 
ma io discioglierò ‘l forte legame 
in che ti stringon li pensier sottili.                                   51

Dentro a l’ampiezza di questo reame 
casual punto non puote aver sito, 
se non come tristizia o sete o fame:                              54

ché per etterna legge è stabilito 
quantunque vedi, sì che giustamente 
ci si risponde da l’anello al dito;                                     57

e però questa festinata gente 
a vera vita non è sine causa 
intra sé qui più e meno eccellente.                                60

Lo rege per cui questo regno pausa 
in tanto amore e in tanto diletto, 
che nulla volontà è di più ausa,                                      63

le menti tutte nel suo lieto aspetto 
creando, a suo piacer di grazia dota 
diversamente; e qui basti l’effetto.                                  66

E ciò espresso e chiaro vi si nota 
ne la Scrittura santa in quei gemelli 
che ne la madre ebber l’ira commota.                          69

Però, secondo il color d’i capelli, 
di cotal grazia l’altissimo lume 
degnamente convien che s’incappelli.                          72

Dunque, sanza mercé di lor costume, 
locati son per gradi differenti, 
sol differendo nel primiero acume.                                75

Bastavasi ne’ secoli recenti 
con l’innocenza, per aver salute, 
solamente la fede d’i parenti;                                          78

poi che le prime etadi fuor compiute, 
convenne ai maschi a l’innocenti penne 
per circuncidere acquistar virtute;                                   81

ma poi che ‘l tempo de la grazia venne, 
sanza battesmo perfetto di Cristo 
tale innocenza là giù si ritenne.                                      84

Riguarda omai ne la faccia che a Cristo 
più si somiglia, ché la sua chiarezza 
sola ti può disporre a veder Cristo».                              87

Io vidi sopra lei tanta allegrezza 
piover, portata ne le menti sante 
create a trasvolar per quella altezza,                              90

che quantunque io avea visto davante, 
di tanta ammirazion non mi sospese, 
né mi mostrò di Dio tanto sembiante;                           93

e quello amor che primo lì discese, 
cantando ‘Ave, Maria, gratia plena’, 
dinanzi a lei le sue ali distese.                                        96

Rispuose a la divina cantilena 
da tutte parti la beata corte, 
sì ch’ogne vista sen fé più serena.                                99

«O santo padre, che per me comporte 
l’esser qua giù, lasciando il dolce loco 
nel qual tu siedi per etterna sorte,                                102

qual è quell’angel che con tanto gioco 
guarda ne li occhi la nostra regina, 
innamorato sì che par di foco?».                                   105

Così ricorsi ancora a la dottrina 
di colui ch’abbelliva di Maria, 
come del sole stella mattutina.                                     108

Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria 
quant’esser puote in angelo e in alma, 
tutta è in lui; e sì volem che sia,                                     111

perch’elli è quelli che portò la palma 
giuso a Maria, quando ‘l Figliuol di Dio 
carcar si volse de la nostra salma.                               114

Ma vieni omai con li occhi sì com’io 
andrò parlando, e nota i gran patrici 
di questo imperio giustissimo e pio.                            117

Quei due che seggon là sù più felici 
per esser propinquissimi ad Agusta, 
son d’esta rosa quasi due radici:                                 120

colui che da sinistra le s’aggiusta 
è il padre per lo cui ardito gusto 
l’umana specie tanto amaro gusta;                              123

dal destro vedi quel padre vetusto 
di Santa Chiesa a cui Cristo le clavi 
raccomandò di questo fior venusto.                              126

E quei che vide tutti i tempi gravi, 
pria che morisse, de la bella sposa 
che s’acquistò con la lancia e coi clavi,                       129

siede lungh’esso, e lungo l’altro posa 
quel duca sotto cui visse di manna 
la gente ingrata, mobile e retrosa.                                132

Di contr’a Pietro vedi sedere Anna, 
tanto contenta di mirar sua figlia, 
che non move occhio per cantare osanna;                 135

e contro al maggior padre di famiglia 
siede Lucia, che mosse la tua donna, 
quando chinavi, a rovinar, le ciglia.                               138

Ma perché ‘l tempo fugge che t’assonna, 
qui farem punto, come buon sartore 
che com’elli ha del panno fa la gonna;                        141

e drizzeremo li occhi al primo amore, 
sì che, guardando verso lui, penètri 
quant’è possibil per lo suo fulgore.                              144

Veramente, ne forse tu t’arretri 
movendo l’ali tue, credendo oltrarti, 
orando grazia conven che s’impetri                              147

grazia da quella che puote aiutarti; 
e tu mi seguirai con l’affezione, 
sì che dal dicer mio lo cor non parti». 

E cominciò questa santa orazione:                               151

tiepolo

Tiepolo, Rachele nasconde gli idoli a Labano

PARAFRASI CANTO XXXII

Pur essendo tutto fisso nel piacere di contemplare la Vergine, Bernardo assunse spontaneamente la funzione di guida e iniziò queste sante parole:«Colei (Eva) che siede tanto bella ai piedi di Maria, produsse e aprì la piaga (il peccato originale) che Maria poi curò e richiuse.

In quel seggio che si trova nel terzo ordine, siede Rachele sotto Eva, accanto a Beatrice come puoi vedere.

Tu puoi vedere verso il basso, di gradino in gradino, Sara, Rebecca, Giuditta e colei (Ruth) che fu la bisnonna del cantore (David) che, per rimorso del peccato commesso, compose il Salmo 'Miserere mei', così come io nomino queste donne ebree una per una.

E dal settimo ordine in giù, proprio come fino ad esso, seguono altre donne ebree, che dividono tutti i petali della rosa (tutti i beati da una parte e dall'altra);

infatti, a seconda dello sguardo con cui la fede guardò a Cristo, queste donne formano una linea divisoria che separa le sacre scalinate.

Da questa parte da cui il fiore ha tutte le sue foglie (in cui i seggi sono completi) siedono coloro che credettero in Cristo venturo;

dall'altra parte, dove i semicerchi sono inframezzati di seggi vuoti, stanno coloro che credettero in Cristo venuto.

E come da questa parte il seggio glorioso della Regina del Cielo e gli altri sottostanti formano questa linea divisoria, così fa dalla parte opposta quello di Giovanni Battista, che, sempre santo, soffrì il deserto e il martirio, e poi rimase all'inferno per due anni;

e sotto di lui ebbero in sorte di formare la divisione san Francesco, san Benedetto e sant'Agostino, e altri nei vari ordini, fino a quaggiù.

Ora osserva l'alta Provvidenza di Dio: infatti entrambi i credenti, in Cristo venuto e venturo, riempiranno in egual misura questo giardino (la rosa dei beati).

E sappi che al di sotto dell'ordine che divide egualmente in orizzontale le due divisioni, non si siede per alcun proprio merito, ma per quello degli altri, a determinate condizioni: infatti tutti questi spiriti sono stati sciolti (dal peccato o dal corpo) prima di avere modo di scegliere con libero arbitrio (sono i bambini beati).

Lo puoi capire facilmente dai volti e dalle voci infantili, se li guardi e li ascolti con la dovuta attenzione.

Adesso tu hai un dubbio, e dubitando resti in silenzio; ma io scioglierò il legame in cui sono stretti i tuoi pensieri sottili.

Nella vastità di questo santo regno non ci può essere nulla di casuale, proprio come non c'è spazio per tristezza, sete o fame:

infatti tutto ciò che vedi è stato stabilito per una legge eterna, cosicché ogni cosa corrisponde perfettamente al volere divino;

dunque queste anime di bambini che sono morti prematuramente, non senza ragione siedono a diverse altezze (e quindi godono di un diverso grado di beatitudine).

Il re (Dio) per cui questo regno riposa in tanto amore e tanta gioia che nessuna volontà osa chiedere di più, creando tutte le anime nel suo aspetto lieto le dota di un diverso grado di grazia, a suo piacimento; e sia sufficiente per questo il dato acquisito.

E ciò è detto chiaramente dalle Sacre Scritture con l'esempio dei gemelli (Esaù e Giacobbe) che anche nel ventre della madre furono tra loro discordi.

Perciò è giusto che l'altissima luce di questa grazia si adatti conformemente a quanto preordinato da Dio.

Dunque questi bambini sono collocati in gradi differenti della rosa, senza alcun merito rispetto alla loro condotta, solo in quanto fu differente la grazia loro concessa da Dio all'atto della creazione.

Nei primi tempi dell'Umanità, perché i bambini si salvassero, erano sufficienti l'innocenza e la fede dei genitori;

dopo il compimento delle prime età, fu necessario che i maschi innocenti acquistassero la virtù con la circoncisione;

ma dopo che venne il tempo della grazia, senza il perfetto battesimo di Cristo i bambini innocenti restano confinati nel Limbo.

Guarda ormai nel volto (di Maria) che più somiglia a Cristo, poiché il suo splendore è il solo che ti può preparare a vedere Cristo».

Io vidi cadere sopra Maria una tale allegria, portata dagli intelletti sani (gli angeli) creati per volare a quell'altezza, che tutto ciò che avevo visto prima non mi pervase di tale ammirazione, né mi mostrò mai una tale somiglianza con Dio;

e quell'angelo che scese lì per primo, dispiegò le sue ali di fronte a lei cantando 'Ave, Maria, piena di grazia'.

A quel canto divino rispose da ogni parte quella corte di Paradiso, in modo tale che ogni volto dei beati diventò più luminoso.

«O padre santo, che per me sopporti di essere quaggiù e di lasciare il dolce luogo nel quale tu siedi avendolo avuto in sorte per l'eternità, qual è quell'angelo che guarda con tale gioia negli occhi della nostra Regine, tanto innamorato che sembra risplendere come fuoco?»

Così mi rivolsi ancora al magistero di colui (Bernardo) che si fregiava della luce di Maria, come la stella mattutina (Venere) è illuminata dal Sole.

E lui a me: «Sicurezza d'amore e leggiadra nobiltà, quanta può essercene in un angelo e in un'anima umana, è tutta in lui, e noi vogliamo che sia così, in quanto egli è l'arcangelo Gabriele, che portò la palma in Terra a Maria (nell'Annunciazione), quando il Figlio di Dio volle incarnarsi nel nostro corpo mortale.

Ma ormai seguimi con lo sguardo mentre io parlerò, e osserva le anime più nobili in questo Impero giustissimo e devoto.

Quei due che siedono lassù e sono i più felici per essere i più vicini all'augusta Maria, sono come le due radici di questa rosa:

colui che sta alla sua sinistra è il padre (Adamo) che osò assaggiare il frutto proibito e per il quale l'Umanità sopporta tanto male;

alla sua destra vedi quell'antico padre (san Pietro) della Santa Chiesa a cui Cristo affidò le chiavi simboliche di questo bellissimo fiore (del Paradiso).

E siede accanto a lui quello (san Giovanni Evangelista) che prima di morire vide profeticamente tutte le persecuzioni della Chiesa (la bella sposa che Cristo acquistò col martirio), mentre accanto ad Adamo si trova quel condottiero (Mosè) sotto la cui guida il popolo ingrato, volubile e ribelle degli Ebrei si cibò di manna.

Di fronte a Pietro vedi che siede sant'Anna, tanto felice di contemplare la figlia Maria che non ne distoglie lo sguardo neppure mentre canta 'osanna';

e di fronte al più antico padre di famiglia (ad Adamo) siede santa Lucia, che spinse la tua donna (Beatrice) a soccorrerti, quando retrocedevi verso la selva oscura.

Ma poiché il tempo umano al quale tu sei soggetto fugge via, ci fermeremo qui, come il bravo sarto che produce la veste a seconda di quanto panno dispone;

e rivolgeremo lo sguardo al primo amore (Dio), cosicché, guardando verso di Lui, tu possa addentrarti per quanto è possibile nel suo fulgore.

Tuttavia, affinché forse tu non arretri muovendoti con le tue sole forze e credendo di avanzare, è necessario ottenere con una preghiera la grazia da colei (Maria) che può aiutarti;

e tu mi seguirai con l'affetto, cosicché tu non distolga il tuo cuore dalle mie parole».

E iniziò a pronunciare questa santa preghiera:

lucia

Lorenzo Lotto, Santa Lucia davanti al giudice (Dante era molto devoto alla santa),

NEI PRECEDENTI CANTI HO PRESO IN CONSIDERAZIONE I SANTI MAGGIORI. ORA ANALIZZO LA VITA DI SANT'AGOSTINO

Aurelio Agostino d'Ippona (Tagaste, 13 novembre 354 – Ippona, 28 agosto 430) è stato un filosofo, vescovo e teologo romano di origine nordafricana e di lingua latina. Conosciuto come sant'Agostino, è Padre, dottore e santo della Chiesa cattolica, detto anche Doctor Gratiae ("Dottore della Grazia"). Forse il maggiore rappresentante della Patristica, è stato definito da Monsignor Antonio Livi «il massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell'umanità in assoluto». Se le Confessioni sono la sua opera più celebre, si segnala per importanza, nella vastissima produzione agostiniana, La città di Dio.
Per comprendere la dottrina di Agostino non si può prescindere dal suo vissuto: trovandosi a sperimentare un insanabile dissidio tra la ragione e il sentimento, lo spirito e la carne, il pensiero pagano e la fede cristiana, la sua filosofia consistette nel tentativo grandioso di riconciliarli e tenerli uniti. Fu proprio l'insoddisfazione per quelle dottrine che predicavano una rigida separazione tra bene e male, luce e tenebre, a spingerlo ad abbandonare il manicheismo e a subire l'influsso dello stoicismo e soprattutto del neoplatonismo, i quali viceversa riconducevano il dualismo in unità. Recependo il pensiero di Platone filtrato attraverso quello di Plotino, Agostino rielaborò così la dottrina delle idee, o quella emanatistica dell'Uno, sulla base della concezione trinitaria del Dio cristiano, che è insieme Sapienza, Potenza, e Volontà d'amore. Essendo Dio principio unico e assoluto dell'Essere, non può esistere un principio a Lui contrapposto, per cui il male è soltanto "assenza", privazione del Bene, imputabile unicamente alla disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare, tramite il ricorso alla grazia, che sola consente alla nostra anima di ricevere l'illuminazione. Questa interpretazione è assunta da Dante per l'attribuzione delLe gerarchie nel Paradiso. Ciò non toglie comunque che noi possediamo un libero arbitrio.
A differenza della filosofia greca, però, dove la lotta tra bene e male non prevedeva un esito escatologico, Agostino ebbe presente come questa lotta si svolge soprattutto nella storia. Ciò condusse a una riabilitazione della dimensione terrena rispetto al giudizio negativo che ne aveva dato il platonismo: ora anche il mondo e gli enti corporei hanno valore e significato, in quanto frutti dell'amore di Dio. Si tratta di un Dio vivo e Personale, che sceglie di entrare nella storia umana, e il cui amore infinito è la risposta all'ansia di conoscenza, tipica dell'eros greco, che l'uomo prova per Lui.
La vita di Agostino è stata tramandata con grande dettaglio nelle Confessioni, sua biografia personale, nelle Ritrattazioni, che descrivono l'evoluzione del suo pensiero, e nella Vita di Agostino, scritta dal suo amico e discepolo Possidio, che narra l'apostolato del santo. Dalla nascita alla conversione (354-387) Agostino, di etnia berbera o punica come egli stesso ci tramanda, ma di cultura fondamentalmente ellenistico-romana, nacque il 13 novembre 354 a Tagaste (attualmente Souk Ahras, in Algeria, situata a circa 70 km a sud-est di Ippona, l'odierna Annaba), che era a quei tempi una piccola città libera della Numidia proconsolare, recentemente convertita al Donatismo.
Apparteneva a una famiglia del ceto medio, ma non facoltosa: il padre, Patrizio, piccolo possidente terriero e membro dei curiales (consiglieri municipali) della città, era un pagano; di animo benevolo, anche se collerico, impetuoso e a volte infedele alla moglie Monica, madre di Agostino, proprio per influenza di quest'ultima alla lunga giungerà alla conversione, morendo cristiano verso il 371 d.C. Monica era infatti di religione cristiana, oltre a essere una donna intelligente, affettuosa e di carattere forte. Agostino ebbe anche un fratello, Navigio, che sarà a Cassiciaco in Brianza per battezzarsi, e una sorella di cui non si conosce il nome, ma della quale si sa che, rimasta vedova, diresse un monastero femminile fino alla morte. Agostino recepì dai suoi genitori due opposte visioni del mondo, da lui spesso vissute in conflitto tra loro. Mentre tuttavia nelle sue opere parla del padre come di un estraneo, sarà la madre, venerata tutt'oggi come santa dalla Chiesa cattolica, a esercitare un grande ruolo nell'educazione e nella vita del figlio, che dirà: «A lei debbo tutto ciò che sono». Agostino ricevette da lei un'istruzione cristiana, e fu iscritto fra i catecumeni. Una volta, quando era molto malato, chiese il battesimo, ma, essendo presto svanito ogni pericolo, decise di differire il momento della ricezione del sacramento, adeguandosi a una diffusa usanza di quel periodo. La sua associazione con "uomini di preghiera" lasciò tre grandi concetti profondamente incisi nella sua anima: l'esistenza di una Divina Provvidenza, l'esistenza di una vita futura con terribili punizioni e, soprattutto, Cristo il Salvatore. «Fin dalla mia più tenera infanzia, io avevo succhiato col latte di mia madre il nome del mio Salvatore, Tuo Figlio; lo conservai nei recessi del mio cuore; e tutti coloro che si sono presentati a me senza quel Nome Divino, sebbene potesse essere elegante, ben scritto, ed anche pieno di verità, non mi portarono via.» (Confessioni, I, IV) Africano di nascita, utilizzò soprattutto il latino nei suoi scritti. Non ebbe molta dimestichezza con il greco, lingua studiata in giovane età ma non amata, mentre la conoscenza del punico è stata messa in discussione da taluni studiosi. Il padre, orgoglioso del successo di suo figlio nelle scuole di Tagaste e Madaura, decise di mandarlo a Cartagine per prepararlo alla carriera forense, ma ci vollero molti mesi per raccogliere il denaro necessario, e Agostino passò il suo sedicesimo anno a Tagaste, in un ozio in cui si scatenò una grande crisi intellettuale e morale. Egli stesso avrebbe in seguito narrato come, dominato da una profonda inquietudine, venisse risucchiato in un vortice di passioni, e provasse quasi attrazione per il peccato, come avvenne per esempio in occasione del celebre furto delle pere, che Agostino organizzò insieme ad alcuni coetanei: «Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello se eri un furto; anzi, sei "qualcosa" per cui possa rivolgerti la parola? Belli erano i frutti che rubammo... ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto(Confessioni, II, 6, 12)
Quando all'età di diciassette anni giunse a Cartagine, verso la fine del 370, ogni situazione che gli capitava lo portava a deviare sempre di più dall'antico corso della sua vita: le molte seduzioni della grande città che era ancora per metà pagana, la licenziosità degli altri studenti, i teatri, l'ebbrezza del suo successo letterario e uno smisurato desiderio di essere sempre il primo, anche nel peccato. In questa città, appassionandosi di filosofia, iniziò a studiare la maggior parte dei testi principali della cultura ellenistico-latina. Dotato di un forte senso critico e animato da un desiderio bramoso di verità, passò gli anni della sua gioventù nella ricerca insaziabile del senso della vita. Non molto tempo dopo essere giunto a Cartagine, però, Agostino fu costretto a confessare a sua madre Monica di avere una relazione con una donna, che gli aveva dato un figlio, Adeodato (372), e con la quale visse in concubinato per quindici anni. Si separarono nel 386, quando ella lo lasciò a Milano per recarsi in Numidia con la promessa che sarebbe tornata. Agostino non ne riporta il nome in alcun testo. Esistono pareri contrastanti nella valutazione di questa crisi adolescenziale. Alcuni, come Theodor Mommsen, la evidenziano, altri come Friedrich Loofs rimproverano a Mommsen questa conclusione o si dimostrano clementi verso Agostino, quando affermano che, a quei tempi, la Chiesa permetteva il concubinato. Agostino mantenne comunque una certa dignità e, fin dall'età di diciannove anni, mostrò un genuino desiderio di uscire da quella condotta dissoluta: nel 373, la lettura dell'Hortensius di Marco Tullio Cicerone, testo protrettico oggi andato perduto, provocò un cambiamento di direzione nella sua vita. Si imbevve dell'amore per la saggezza che Cicerone così eloquentemente encomiava e, da quel momento, Agostino considerò la retorica soltanto una professione, da esercitare in qualità di insegnante. Il suo cuore si era completamente volto alla filosofia.
Nel 373 la sua ansia per la ricerca dell'assoluto lo fece approdare al Manicheismo, di cui, insieme al suo amico Onorato, divenne uno dei massimi esponenti e divulgatori. Agostino stesso narra che fu attratto dalle promesse di una filosofia libera dai vincoli della fede, dalle vanterie dei manichei che affermavano di aver scoperto delle contraddizioni nelle Sacre Scritture e, soprattutto, dalla speranza di trovare nella loro dottrina una spiegazione scientifica della natura e dei suoi fenomeni più misteriosi. La mente indagatrice di Agostino era entusiasta per le scienze naturali ed i Manichei dichiaravano che la natura non aveva segreti per Fausto di Milevi, il loro dottore. Tale adesione tuttavia non fu scevra da dubbi: essendo torturato dal problema dell'origine del male, Agostino, nell'attesa di risolverlo, diede credito alla tesi manichea di un perenne conflitto tra due princìpi, il bene e il male. C'era, inoltre, un fascino molto potente nell'irresponsabilità morale derivante da una dottrina che negava la libertà e attribuiva l'imputabilità dei crimini a un principio esterno. Una volta unitosi a questo gruppo, Agostino gli si dedicò con tutto l'ardore del suo carattere; ne lesse tutti i libri, adottò e difese tutte le sue idee. Il suo attivissimo proselitismo convinse anche i suoi amici Alipio e Romaniano, i suoi mecenati di Tagaste, gli amici di suo padre che stavano sostenendo le spese dei suoi studi. Fu durante questo periodo manicheo che le facoltà letterarie di Agostino giunsero al loro pieno sviluppo, quando era ancora un semplice studente di Cartagine.
Al termine dei suoi studi sarebbe dovuto entrare nel forum litigiosum, ma preferì la carriera letteraria. Possidio narra che tornò a Tagaste per "insegnare la grammatica". Il giovane professore incantò i suoi alunni, uno dei quali, Alipio, appena più giovane del suo maestro, per non lasciarlo dopo averlo seguito tra i Manichei, fu in seguito battezzato insieme a lui a Milano, per poi, probabilmente, diventare vescovo di Tagaste, la sua città natale. Monica era profondamente dispiaciuta per l'eresia di Agostino e non l'avrebbe neanche ricevuto in casa o fatto sedere alla sua tavola, se non fosse stata consigliata da un vescovo che dichiarò che "il figlio di così tante lacrime e preghiere non poteva perire". Poco tempo dopo Agostino tornò a Cartagine, dove continuò a insegnare retorica. I suoi talenti gli furono anche di maggiore vantaggio su questo palcoscenico più grande e, attraverso un'infaticabile ricerca delle arti liberali il suo intelletto raggiunse la piena maturità. Qui vinse un torneo di poesia e il proconsole Vindiciano gli conferì pubblicamente la corona agonistica. Fu in questo momento di ebbrezza letteraria, quando aveva appena completato il suo primo lavoro sull'estetica (ora perso) che Agostino cominciò a ripudiare il Manicheismo. Anche quando era nel suo massimo entusiasmo, tuttavia, gli insegnamenti di Mani erano stati lontani dal calmare la sua inquietudine. Nonostante fosse stato accusato di essere diventato un prete della "setta", non fu mai iniziato o enumerato fra gli "eletti", ma rimase un "uditore", il grado più basso nella gerarchia. Egli stesso fornì le ragioni del suo disincanto: prima di tutto l'inclinazione della filosofia manichea - "Distruggono tutto e non costruiscono nulla" -; poi la loro immoralità in contrasto con la loro apparente virtù; quindi la debolezza delle loro argomentazioni nella controversia con i "cattolici", ai cui precetti basati sulle Scritture la loro unica replica era: "Le Sacre Scritture sono state falsificate". Ma la ragione principale fu che tra loro non trovò la scienza a cui anelava, ossia quella conoscenza della natura e delle sue leggi che gli avevano promesso. Quando li interrogava sui movimenti delle stelle, nessuno di loro era in grado di rispondergli, invitandolo ad attendere le spiegazioni esaustive di Fausto di Milevi, il celebre vescovo manicheo. Finalmente, nel 383, costui giunse a Cartagine: Agostino gli fece visita e lo interrogò, ma scoprì nelle sue risposte solo volgare retorica, assolutamente estranea a qualsiasi cultura astronomica e matematica. L'incantesimo si ruppe e, anche se Agostino non abbandonò immediatamente il gruppo, il suo animo deluso iniziò a respingere le dottrine manichee.
Nel 383 Agostino, all'età di 29 anni, cedette all'irresistibile attrazione che l'Italia aveva per lui; a causa della riluttanza della madre a separarsi da lui, dovette ricorrere a un sotterfugio e imbarcarsi con la copertura della notte. Non appena giunto a Roma, dove continuò a frequentare la comunità manichea, si ammalò gravemente. Quando guarì aprì una scuola di retorica ma, disgustato dai trucchi dei suoi alunni, che lo defraudavano spudoratamente delle loro tasse d'istruzione, fece domanda per un posto vacante come professore a Milano. Il praefectus urbi Quinto Aurelio Simmaco l'aiutò a ottenere il posto con l'intento di contrastare la fama del vescovo Ambrogio. Dopo aver fatto visita al vescovo, però, si sentì attratto dai suoi discorsi e iniziò a seguire regolarmente le sue predicazioni. Agostino tuttavia fu travagliato da tre ulteriori anni di dubbi, durante i quali la sua mente passò attraverso varie fasi. In un primo tempo si volse verso la filosofia degli Accademici, attratto dal loro scetticismo pessimistico, deluso com'era dal manicheismo e diffidando ormai di ogni forma di credenza religiosa. Lo tormentava più di tutti il problema del male: se Dio esiste ed è onnipotente, perché non riesce ad annientarlo? «Tali pensieri volgevo nel mio petto infelice, gravato da preoccupazioni tormentosissime, perché temevo la morte e non avevo trovato la verità. Pure rimaneva ferma stabilmente nel mio cuore la fede cattolica nel «Cristo tuo, Signore e Salvatore nostro», una fede ancora informe sotto molti aspetti, e fluttuante al di fuori della dottrina, eppure il mio animo non l'abbandonava.» (Confessioni, VII,5)
Ma fu poi decisivo l'incontro con la filosofia neo-platonica, dalla quale rimase entusiasmato: l'attenta lettura delle opere di Platone e di Plotino riaccese nuovamente in lui la speranza di trovare la verità. Ancora una volta Agostino cominciò a sognare che lui ed i suoi amici avrebbero potuto condurre una vita dedicata alla ricerca di essa, rinunciando a tutte le aspirazioni terrene come onori, ricchezza, o piacere, e con il celibato come regola. Ma era solo un sogno; le sue passioni lo rendevano ancora schiavo. Il passaggio attraverso la fase del dubbio non fu per Agostino un semplice incidente di percorso, ma fu determinante per fargli trovare la via della fede. Secondo Agostino infatti, solo chi dubita è animato da un desiderio sincero di trovare la verità (ci ricorda Pascal), a differenza di colui che non si pone nessuna domanda. È la consapevolezza della propria ignoranza che spinge a indagare il mistero; eppure non si cercherebbe la verità se non si fosse certi almeno inconsciamente della sua esistenza. Un tema, questo, di lontana ascendenza socratica e platonica, ma Agostino lo inserisce nell'ottica cristiana del Dio-Persona: è Dio stesso che fa nascere nell'uomo il desiderio della verità. Un Dio inconscio e nascosto che vuole farsi conoscere dall'uomo. Solo l'intervento della Sua grazia permette alla ragione umana di trascendere i suoi limiti, illuminandola. Ed è così che avviene l'intuizione: essa è un comprendere, e al tempo stesso un credere, che non avrebbe senso dubitare se non ci fosse una Verità che appunto al dubbio si sottrae; e che non si cercherebbe Dio se non Lo si fosse già trovato. Monica intanto, che aveva raggiunto suo figlio a Milano, lo convinse a fidanzarsi, ma la sua promessa sposa era troppo giovane, e anche se Agostino salutò la madre di Adeodato, il suo posto fu presto preso da un'altra. Dovette così attraversare un ultimo periodo di lotta e di angoscia, durante il quale la sua volontà di convertirsi non riusciva a prevalere del tutto sull'idea dei piaceri a cui avrebbe dovuto rinunciare. Finché, anche grazie ai preziosi contributi del vescovo Ambrogio, intuì come la verità, tema centrale del suo itinerario filosofico, non sia un semplice fatto in sé da possedere, quale egli la percepiva nei tribunali dell'impero romano, ma che da essa si viene posseduti, perché è qualcosa di assoluto, totale e universale. Comprendendo come essa non sia un oggetto ma un Soggetto, cioè un'entità viva e Personale, proprio come viene presentata nei Vangeli, ebbe la certezza che Gesù fosse l'unica via per giungervi, e che alla Verità l'uomo aderisce innanzitutto con il suo modo di vivere.
Fu un colloquio con Simpliciano, futuro successore di Ambrogio, che raccontò ad Agostino la storia della conversione del celebre retore neo-platonico Vittorino, a preparare la strada per la conversione. Questa sarebbe avvenuta all'età di 32 anni nel settembre 386, in un giardino di Milano, dove - come racconta lo stesso Agostino - sentì la voce di una bimba o un bimbo che canterellava tolle et lege, ossia «prendi e leggi», invito che egli riferì alla Bibbia, che a quel punto aprì a caso cadendo su un passaggio di Paolo di Tarso. Alcuni giorni più tardi, Agostino, mentre era malato, sfruttando le vacanze autunnali, si dimise dal suo lavoro di insegnante, andò con Monica, Adeodato, e i suoi amici a Cassiciacum, residenza di campagna di Verecondo. Lì si dedicò alla ricerca della vera filosofia che, per lui, ormai era inseparabile dal Cristianesimo. Agostino, gradualmente, conobbe la dottrina cristiana e, nella sua mente, iniziarono a fondersi la filosofia platonica e i dogmi rivelati. La solitudine di Cassiciacum gli permise di realizzare un sogno a lungo inseguito: nei suoi libri Contra academicos, Agostino descrisse la serenità ideale di questa esistenza, animata solamente dalla passione per la verità. Inoltre completò l'istruzione dei suoi giovani amici, ora con letture in comune, ora con conferenze filosofiche alle quali, qualche volta, invitava anche la madre, ed i cui racconti, trascritti da un segretario, furono la base dei "Dialoghi". Licenzio avrebbe ricordato in seguito nelle sue Lettere le mattinate e le serate di filosofia durante le quali Agostino era solito intraprendere disquisizioni che si elevavano molto al di sopra dei luoghi comuni. I temi favoriti di queste conferenze erano la verità, la certezza (Contra academicos), la vera felicità nella filosofia (De beata vita), l'ordine provvidenziale del mondo e la sua perfezione matematica (De Musica), il problema del male (De ordine) ed infine Dio e l'anima (Soliloquia, De immortalitate animae).
Verso l'inizio della quaresima del 387, Agostino si recò a Milano dove, con Adeodato e Alipio, prese posto fra i competentes per essere battezzato da Ambrogio nella Veglia pasquale.Fu a questo punto che Agostino, Alipio, ed Evodio decisero di ritirarsi nella solitudine dell'Africa. Agostino rimase a Milano fino all'estate, continuando i suoi lavori (De immortalitate animae e De Musica). Poi, mentre era in procinto di imbarcarsi ad Ostia, Monica morì. Agostino, allora, rimase per molti mesi a Roma occupandosi principalmente della confutazione del Manicheismo. Tornò in Africa solo dopo la morte dell'usurpatore Magno Massimo (agosto 388) e, dopo un breve soggiorno a Cartagine, ritornò a Tagaste. Subito dopo il suo arrivo, decise di iniziare a seguire il suo ideale di vita perfetta, dedicata a quel Dio che era giunto ad amare in età adulta: «Tardi ti ho amato, Bellezza così antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Sì, perché tu eri dentro di me ed io fuori: lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle sembianze delle tue creature. Eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, respirai ed ora anelo verso di te; ti gustai ed ora ho fame e sete di te; mi toccasti, e arsi dal desiderio della tua pace.» (Confessioni X, 27.38)
Cominciò vendendo tutti i suoi beni e dando il ricavato ai poveri. Poi lui e i suoi amici si ritirarono nel suo appezzamento di terreno, che già era stato alienato, per condurre una vita comune in povertà, in preghiera, e nello studio della letteratura sacra. Il libro De diversis quaestionibus octoginta tribus è il frutto delle riunioni tenute durante questo ritiro, nel quale scrisse anche il De Genesi contra Manicheos, il De magistro ed il De vera religione. Agostino non pensava di diventare sacerdote e, per paura dell'episcopato, scappava anche dalle città nelle quali era necessaria un'elezione. Un giorno, essendo stato chiamato a Ippona da un amico, stava pregando in una chiesa quando un gruppo di persone improvvisamente lo circondò. Costoro lo consolarono e implorarono Valerio, il vescovo, di elevarlo al sacerdozio; nonostante i suoi timori, Agostino fu ordinato nel 391. Il novello sacerdote considerò la sua ordinazione come una ragione in più per riprendere la vita religiosa a Tagaste e Valerio approvò così entusiasticamente che gli mise a disposizione delle proprietà della chiesa, autorizzandolo a fondare un monastero. Il suo ministero sacerdotale durato cinque anni fu molto fruttifero: Valerio l'autorizzò a predicare nonostante l'uso africano che riservava quel ministero ai soli vescovi; combatté l'eresia, specialmente quella manichea e il suo successo fu notevole. Fortunato, uno dei loro grandi dottori, che Agostino aveva sfidato in pubblico, fu così umiliato dalla sconfitta che fuggì da Ippona. Egli abolì anche l'uso di tenere banchetti nelle cappelle dei martiri. L'8 ottobre 393 prese parte al Concilio Plenario d'Africa presieduto da Aurelio, vescovo di Cartagine, dove, dietro richiesta dei vescovi, fu obbligato a comporre una dissertazione che, nella sua forma completa, in seguito, divenne il trattato De fide et symbolo.
Indebolito dall'età ormai avanzata, Valerio, vescovo di Ippona, ottenne da Aurelio, Primate d'Africa, che Agostino fosse associato alla sua sede in qualità di vescovo coadiutore. Pertanto Agostino si dovette rassegnare alla consacrazione dalle mani di Megalio, Primate di Numidia. Aveva quarantadue anni, e avrebbe occupato la sede di Ippona per i successivi 34. Il nuovo vescovo comprese bene come combinare l'esercizio dei suoi doveri pastorali con l'austerità della vita religiosa e, sebbene avesse lasciato il suo monastero, la sua residenza episcopale divenne un monastero dove visse una vita di comunità con il suo clero, che osservava una religiosa povertà. La casa episcopale di Ippona divenne un vero vivaio per i nuovi fondatori di monasteri che presto si diffusero in tutta l'Africa e per i vescovi che occupavano le sedi vicine. Possidio elencò dieci amici e discepoli del santo che furono elevati all'episcopato. In questo modo Agostino si guadagnò il titolo di patriarca dei religiosi e rinnovatore della vita ecclesiastica in Africa. Le sue attività dottrinali, l'influenza delle quali era destinata a durare molto a lungo, furono molteplici: predicava frequentemente, a volte per cinque giorni consecutivi; scrisse lettere che trasmisero a tutto il mondo conosciuto la sua soluzione per i problemi dell'epoca; lasciò la sua impronta su tutti i concili africani ai quali partecipò, per esempio quelli di Cartagine del 398, 401, 407, 419 e di Milevi del 416 e 418; infine, lottò infaticabilmente contro tutte le eresie. Controversia manichea ed il "problema del male" Dopo che Agostino divenne vescovo, lo zelo che, fin dai tempi del suo battesimo, manifestava nel portare i suoi ex correligionari all'interno della Chiesa, assunse una forma più paterna senza però perdere il suo antico ardore. Fra gli eventi più memorabili che avvennero durante questa controversia è da ricordare la grande vittoria del 404 su Felice, un "eletto" e grande dottore manicheo. Questi stava predicando ad Ippona e Agostino lo invitò a una disputa pubblica, al termine della quale Felice si dichiarò vinto, si convertì e, insieme ad Agostino, sottoscrisse gli atti della disputa. Nelle sue opere Agostino confutò successivamente: Mani (397), Fausto di Milevi (400), Secondino (405) e (intorno al 415) i Priscillianisti, di cui gli aveva parlato Paolo Orosio. Queste opere contengono le sue opinioni sul "problema del male", opinioni basate sull'ottimismo derivante dall'idea che ogni opera di Dio è buona e che l'unica fonte del male è la libertà delle creature. Agostino difese il libero arbitrio, anche nell'uomo, con tale ardore che i suoi lavori contro i Manichei sono una ricca fonte di argomentazioni per questo problema.
Agostino operò una prima distinzione fra il male fisico del corpo e il male morale dell'anima, legato al peccato. In questo modo superò una convinzione diffusa nel periodo precedente, che concepiva la malattia e il dolore come una conseguenza e una sorta di punizione divina delle azioni umane. Agostino escluse questa possibilità poiché "Dio è Amore", e un'eventuale espiazione dei peccati si colloca in una vita ultraterrena. Dolore, fame, malattia e peccato hanno però la stessa origine metafisica, ontologica, sono mancanza di essere, nell'anima e nel corpo, così come teorizzava la filosofia classica. Il male non è concepibile da parte di Dio, mentre lo è da parte dell'uomo, che può attuarlo poiché è creato libero, "a immagine e somiglianza di Dio", come afferma la Genesi. In questo senso l'uomo può fare il male, mentre Dio no. Ciò non significa che l'uomo è più libero, o che la divinità cristiana non è onnipotente, ma che l'uomo, errando, può commettere atti che lo rendono imperfetto e infelice. Non commettere il male non è un limite, ma un segno di perfezione. Agostino, come Socrate, sostenne l'intellettualismo etico, ossia che il male si manifesta per ignoranza, ed esclude nuovamente il male dalla natura divina perché questa è onnisciente. In altre parole, Dio non può fare il male per un motivo ontologico, perché il male è mancanza di essere, mentre lui è "Essenza", che non ha nulla fuori di sé, e per uno gnoseologico-etico, per il quale chi ha la conoscenza ed è veramente libero non commette atti legati all'ignoranza del proprio bene, e che negano la propria libertà. L'uomo è libero al punto di negare la propria libertà innata, compiendo il male; la fonte dell'essere e della conoscenza sono la medesima, e da entrambe deriva l'esclusione di una deviazione etica in un essere perfetto.
Lo scisma donatista fu l'ultimo episodio delle controversie montaniste e novazianiste che agitavano la Chiesa dal II secolo. Mentre l'oriente stava investigando sotto vari aspetti il problema divino e cristologico della "Parola", l'occidente, indubbiamente a causa della sua vocazione più pratica, si poneva il problema morale del peccato in tutte le sue forme. Il problema principale era la santità della Chiesa; il peccatore avrebbe potuto essere perdonato e rimanere al suo interno? In Africa la questione riguardava in particolar modo la santità della gerarchia. I vescovi di Numidia che, nel 312, avevano rifiutato di accettare come valida la consacrazione di Ceciliano alla sede di Cartagine da parte di un traditore, avevano dato il via ad uno scisma che aveva posto queste gravi questioni: i poteri gerarchici dipendono dalla dignità morale del presbitero? Come può l'indegnità dei suoi ministri essere compatibile con la santità della Chiesa? Essendo stato identificato con un movimento politico, forse con un movimento nazionale contro la dominazione romana, al tempo dell'arrivo di Agostino ad Ippona, lo scisma aveva raggiunto proporzioni immense. Comunque, al suo interno è facile scoprire una tendenza di vendetta antisociale che gli imperatori dovevano combattere con leggi severe. La setta nota come "Soldati di Cristo", e chiamata dai cattolici "Circoncellioni" ("briganti", "vagabondi"), associata agli scismatici, fu caratterizzata da fanatica distruttività, causando una severa legislazione da parte degli imperatori.
La storia delle lotte di Agostino con i Donatisti è anche quella del suo cambio di opinione sull'utilizzo di misure rigide contro gli eretici. Anche la Chiesa d'Africa, dei cui concili era stato l'anima, lo seguì in questo cambio. Agostino, inizialmente, tentò di ritrovare l'unità attraverso conferenze e controversie amichevoli. Nei concili africani ispirò varie misure conciliatrici, spedì ambasciatori presso i Donatisti per invitarli a rientrare nella Chiesa o, almeno, esortarli ad inviare deputati ad una conferenza (403). I Donatisti accolsero questi inviti dapprima col silenzio, poi con insulti e infine con tale violenza che Possidio, vescovo di Calama e amico di Agostino, sfuggì alla morte per puro caso, il vescovo di Bagaïa fu lasciato ricoperto di orribili ferite e la vita del vescovo di Ippona subì vari attentati. Questa violenza dei Circoncellioni richiese una dura repressione, e Agostino, apprendendo delle molte conversioni che ne seguirono, da allora approvò l'impiego di leggi rigide, pur non volendo mai che l'eresia fosse punibile con la morte. Nonostante ciò, i vescovi erano ancora favorevoli ad una conferenza con gli scismatici e, nel 410, un editto promulgato dall'imperatore Onorio pose fine al rifiuto dei Donatisti. Nel giugno 411, alla presenza di 286 vescovi cattolici e 279 vescovi donatisti, fu organizzato a Cartagine un solenne Concilio. I portavoce dei Donatisti erano Petiliano di Costantina, Primiano di Cartagine e Emerito di Cesarea, gli oratori cattolici Aurelio di Cartagine e Agostino. Alla questione storica in discussione, il vescovo di Ippona provò l'innocenza di Ceciliano e del suo consacratore Felice, sostenendo, nel dibattito dogmatico, la tesi cattolica che la Chiesa, finché esiste sulla terra, può, senza perdere la sua santità, tollerare i peccatori al suo interno nell'interesse della loro conversione. A nome dell'imperatore il proconsole Marcellino sanzionò la vittoria dei cattolici su tutti i punti in discussione.
La disputa con Pelagio riguardava essenzialmente la natura della volontà. Contro di lui Agostino sosteneva che la volontà umana è stata irrimediabilmente corrotta dal peccato originale, che ha inficiato per sempre la nostra libertà. Quest'ultima consiste nella capacità, oramai andata perduta, di dare realizzazione ai nostri propositi, e va distinta perciò dal libero arbitrio, che è invece la facoltà razionale di scegliere, in linea teorica, tra il bene e il male. L'uomo, che è dotato di libero arbitrio, vorrebbe per natura tendere al bene, ma è incapace di perseguirlo, perché nel momento concreto della scelta la sua volontà si ritrova dilaniata una condizione di duplicità che non gli consente di «volere» appieno, ma si può esemplificare piuttosto nell'espressione «vorrei volere». Soltanto Dio con la sua grazia può redimere l'uomo, non solo illuminando i suoi eletti su cosa è bene, ma anche infondendo loro la volontà effettiva di perseguirlo, volontà che altrimenti sarebbe facile preda dell'incostanza e delle tentazioni malvagie. Solo in questo modo l'uomo potrà ritrovare la sua libertà. La fine della controversia donatista coincise pressappoco con l'inizio di una nuova disputa teologica che impegnò Agostino fino alla sua morte. L'Africa, dove Pelagio e il suo discepolo Celestio si erano rifugiati dopo il sacco di Roma da parte di Alarico, era diventato il principale centro di diffusione del movimento pelagiano. Già nel 412 un concilio tenuto a Cartagine aveva condannato i Pelagiani per le loro opinioni sulla dottrina del peccato originale, ma, grazie all'attivismo di Agostino, la condanna dei Pelagiani, che avevano avuto il sopravvento in un sinodo tenuto a Diospolis in Palestina, fu reiterata dai successivi concili tenuti a Cartagine e a Milevi, e confermata da papa Innocenzo I nel 417. Un secondo periodo di attivismo pelagiano si sviluppò a Roma; papa Zosimo fu inizialmente convinto da Celestio ma, dopo essere stato convinto da Agostino, nel 418 pronunciò una solenne condanna contro i Pelagiani. In seguito la disputa fu proseguita per iscritto contro Giuliano di Eclano, che aveva assunto la guida del gruppo ed attaccava violentemente Agostino.
Verso il 426 nacque il movimento dei Semipelagiani, i cui primi membri furono i monaci di Hadrumetum, in Africa, seguiti da quelli di Marsiglia guidati da Giovanni Cassiano, abate di San Vittore. Essi cercarono di mediare tra Agostino e Pelagio sostenendo che la grazia dovesse essere concessa solo a coloro che la meritano e negata agli altri. Informato delle loro opinioni da Prospero d'Aquitania, il santo scrisse il De praedestinatione sanctorum, nel quale spiegava che qualsiasi desiderio di salvezza era dovuto alla "Grazia di Dio" che, perciò, controllava completamente la nostra predestinazione. Nel 426, all'età di 72 anni, desiderando risparmiare alla sua città il tumulto di un'elezione episcopale dopo la sua morte, Agostino spinse sia il clero sia il popolo ad acclamare come suo ausiliare e successore il diacono Eraclio. In quegli anni l'Africa fu sconvolta dalla rivolta del comes Bonifacio (427); i Visigoti inviati dall'imperatrice Galla Placidia per contrastare Bonifacio e i Vandali che questi aveva chiamato in suo aiuto erano tutti Ariani e, al seguito delle truppe imperiali, entrò ad Ippona Massimino, un vescovo ariano. Agostino difese la propria fede in una conferenza pubblica (428) e con vari scritti. Essendo profondamente addolorato per la devastazione dell'Africa, lavorò per una riconciliazione tra il comes Bonifacio e l'imperatrice; la pace fu ristabilita, ma non con Genserico, il re vandalo. Bonifacio, cacciato da Cartagine, cercò rifugio a Ippona, dove molti vescovi si erano già rifugiati per cercare protezione in questa città ben fortificata, ma i Vandali l'assediarono per ben diciotto mesi. Cercando di controllare la sua angoscia, Agostino continuò a confutare Giuliano di Eclano, ma, all'inizio dell'assedio, fu colpito da una malattia fatale e, dopo tre mesi, il 28 agosto 430, morì all'età di 75 anni. Nel 718 il suo feretro, venerato per secoli a Cagliari dove era stato portato da esuli fuggiti all'invasione vandala del Nordafrica, fu fatto trasportare dalla Sardegna a Pavia, a opera del re longobardo Liutprando. Da allora le sue spoglie sono custodite nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro.
Opere Agostino fu un autore molto prolifico, notevole per la varietà dei soggetti che produsse, come scritti autobiografici, filosofici, apologetici, dogmatici, polemici, morali, esegetici, raccolte di lettere, di sermoni e di opere in poesia (scritte in metrica non classica, bensì accentuativa, per facilitare la memorizzazione da parte delle persone incolte). Bardenhewer ne lodava la straordinaria varietà di espressione e il dono di descrivere gli avvenimenti interiori, di dipingere i vari stati dell'anima e gli avvenimenti del mondo spirituale. In generale, il suo stile è nobile e casto; ma, diceva lo stesso autore, "nei suoi sermoni e negli altri scritti destinati al popolo, intenzionalmente, il tono scendeva ad un livello popolare".

LE OPERE
- Le Confessioni, scritte intorno al 400, sono la storia della sua maturazione religiosa. Il nocciolo del pensiero agostiniano presente nelle Confessioni sta nel concetto che l'uomo è incapace di orientarsi da solo: esclusivamente con l'illuminazione di Dio, a cui deve obbedire in ogni circostanza, l'uomo riuscirà a trovare l'orientamento nella sua vita. La parola "confessioni" viene intesa in senso biblico (confiteri), non come ammissione di colpa o racconto, ma come preghiera di un'anima che ammira l'azione di Dio nel proprio interno.
- Le Retractationes ("Ritrattazioni"), composte verso la fine della sua vita, tra il 426 e il 428, sono una revisione, un riesame dei propri lavori ripercorsi in ordine cronologico, spiegando l'occasione della loro genesi e l'idea dominante di ognuno. Rappresentano una guida di inestimabile valore per comprendere l'evoluzione del pensiero di Agostino.
- Le Epistolae, che nella raccolta benedettina ammontano a 270 (53 dei corrispondenti di Agostino), sono utili per la conoscenza della sua vita, della sua influenza e della sua dottrina.
Scritti filosofici
Queste opere, in gran parte composte nella villa di Cassiciacum, dalla conversione al battesimo (388-387), continuano l'autobiografia di Agostino iniziando il lettore alle ricerche ed alle esitazioni platoniche della sua mente. Sono saggi letterari, la cui semplicità rappresenta il culmine dell'arte e dell'eleganza. In nessun'altra opera lo stile di Agostino è così castigato e la sua lingua così pura. La loro forma dialogica dimostra che erano di ispirazione platonica e ciceroniana. Le principali sono:
- Contra Academicos, l'opera filosofica più importante;
- De beata vita;
- De Ordine;
- Soliloquia, in due libri;
- De immortalitate animae;
- De Magistro, un dialogo tra Agostino e suo figlio Adeodato;
- De Musica, in sei libri.
Scritti apologetici Le sue opere apologetiche rendono Agostino il grande teorico della fede, e delle sue relazioni con la ragione. «Lui è il primo dei Padri» - affermava Adolf von Harnack (Dogmengeschichte, III 97) - «che sentì il bisogno di costringere la sua fede a ragionare».
- La città di Dio (De civitate Dei contra Paganos, "La città di Dio contro i Pagani"), in 22 libri, fu iniziato nel 413 e terminato nel 426; esso rappresentava la risposta di Agostino ai pagani che attribuivano la caduta di Roma (410) all'abolizione del Paganesimo. Considerando il problema della Divina Provvidenza applicato all'Impero romano, egli allargò l'orizzonte e creò la prima filosofia della storia, abbracciando con uno sguardo i destini del mondo raggruppati intorno alla religione cristiana. La città di Dio è considerata il più importante lavoro del vescovo di Ippona. Mentre le Confessioni sono teologia vissuta nell'anima e rappresentano la storia dell'azione di Dio sugli individui, La città di Dio è teologia incastonata nella storia dell'umanità che spiega l'azione di Dio nel mondo; l'opera costituisce una vera e propria apologia del Cristianesimo messo a confronto con la civiltà pagana, oltre a fornire riflessioni sulla "grandezza e l'immortalità dell'anima". In essa Agostino cerca di dimostrare che la decadenza della cosiddetta città degli uomini (contrapposta a quella di Dio e da lui identificata proprio con l'Impero romano d'Occidente) non poteva essere imputata in alcun modo alla religione cristiana, essendo il frutto di un processo storico teleologicamente preordinato da Dio.
- De vera religione, fu composto a Tagaste tra il 389 ed il 391;
- De utilitate credendi, del 391;
- De fide rerum quae non videntur, del 400;
- Lettera 120 a Consenzio.
Controversie
Contro i Manichei
- De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum (" I costumi della Chiesa e i costumi dei Manichei"), scritto a Roma nel 368;
- De duabus animabus contra Manichaeos ("Le due anime contro i Manichei"), scritto prima del 392;
- Acta seu disputatio contra Fortunatum manichaeum ("Atti della disputa contro il manicheo Fortunato"), del 392;
- Contra Felicem manichaeum ("Contro il manicheo Felice"), del 404;
- De libero arbitrio ("Il libero arbitrio"), opera importante per la trattazione dell'origine del male;
- Contra Adimantum manichaei discipulum ("Contro Adimanto, discepolo manicheo");
- Contra epistolam Manichaei quam vocant Fundamenti ("Contro la lettera di Mani che chiamano della Fondazione");
- Contra Faustum manichaeum ("Contro il manicheo Fausto");
- Contra Secundinum manichaeum ("Contro il manicheo Secondino");
- De Genesi contra Manichaeos ("La Genesi contro i Manichei");
- De natura boni contra Manichaeos ("La natura del bene contro i Manichei");
Contro i Donatisti
- Psalmus contra partem Donati ("Salmo contro la fazione di Donato"), scritto intorno al 395, è semplicemente un canto ritmato per uso popolare, il più antico esempio del genere;
- Contra epistolam Parmeniani ("Contro la lettera di Parmeniano"), scritto nel 400;
- De baptismo contra Donatistas ("Il battesimo contro i Donatisti"), scritto intorno al 400, una delle opere più importanti scritte durante questa controversia;
- Contra litteras Petiliani ("Contro le lettere di Petiliano");
- Contra Cresconium grammaticum Donatistam ("Contro il grammatico donatista Cresconio");
- Breviculus collationis cum Donatistas ("Sommario della conferenza coi Donatisti");
- Contra Gaudentium Donatistarum episcopum ("Contro Gaudenzio vescovo dei Donatisti");
- De gestis cum Emerito Donatistarum episcopo ("Gli atti del confronto con Emerito vescovo dei Donatisti");
- Epistola ad Catholicos contra Donatistas ("Lettera ai Cattolici contro i Donatisti");
- Post collationem ad Donatistas ("Ai Donatisti dopo la conferenza");
- De unico baptismo contra Petilianum ("Il battesimo unico contro Petiliano");
- Un buon numero di epistolae sull'argomento.
Contro i Pelagiani
- De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvolorum ("Il castigo e il perdono dei peccati e il battesimo dei bambini"), scritto nel 412, tratta del merito e del perdono;
- De Spiritu et littera ("Lo Spirito e la lettera"), scritto nel 412;
- De perfectione iustitiae hominis ("La perfezione della giustizia dell'uomo"), scritto nel 415 ed importante per la comprensione del pensiero pelagiano;
- De gestis Pelagii ("Le gesta di Pelagio"), scritto nel 417, narra la storia del Concilio di Diospolis, di cui riproduce gli atti;
- De gratia Christi et de peccato originale contra Pelagium ("La grazia di Cristo ed il peccato originale contro Pelagio"), scritto nel 418;
- De nuptiis et concupiscentia ("Le nozze e la concupiscenza"), scritto nel 419;
- Contra duas epistolas Pelagianorum ("Contro due lettere dei Pelagiani");
- De natura et gratia contra Pelagium ("La natura e la grazia contro Pelagio");
- Contra Iulianum haeresis Pelagianae ("Contro Giuliano dell'eresia pelagiana"), ultimo della serie, interrotta dalla morte del santo.
Contro i Semipelagiani
- De correptione et gratia ("La correzione e la grazia"), scritto nel 427;
- De praedestinatione sanctorum ("La predestinazione dei santi"), scritto nel 428;
- De dono perseverantiae ("Il dono della perseveranza"), scritto nel 429.
Contro gli Ariani
- Contra sermonem Arianorum ("Contro il sermone degli Ariani"), del 418;
Collatio cum Maximino Arianorum episcopo ("Conferenza con Massimino vescovo degli Ariani");
Contra Maximinum haereticum episcopum Arianorum ("Contro Massimino vescovo eretico degli Ariani").
Altre eresie
- De haeresibus ("Le eresie");
- Contra Priscillanistas et Origenistas ("Contro i Priscillanisti e gli Origenisti").
Scritti esegetici
- In evangelium Ioannis, 1050-1100 ca., Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze
I più notevoli dei suoi lavori biblici illustrano o una teoria dell'esegesi (generalmente approvata) che si diletta nel trovare interpretazioni mistiche ed allegoriche, o lo stile della predicazione che si fonda su quei punti di vista. La sua produzione strettamente esegetica è ben lontana, tuttavia, dall'eguagliare il valore scientifico di quella di Girolamo: la sua conoscenza delle lingue bibliche era insufficiente. Da giovane comprendeva il greco con qualche difficoltà e, per quanto riguarda l'ebraico, tutto ciò che si può desumere dagli studi di Martin Schanz e Odilo Rottmanner è che aveva familiarità con il punico, una lingua simile all'ebraico. Inoltre, le due grandi qualità del suo genio, la prodigiosa sottigliezza e l'ardente sensibilità, lo portarono a destreggiarsi tra interpretazioni che a volte erano più ingegnose che realistiche. Tra le sue opere vanno ricordate:
- De doctrina christiana ("La dottrina cristiana"), iniziato nel 397 e terminato nel 426, fu il primo vero trattato esegetico, poiché Girolamo scrisse piuttosto come controversialista; esso si occupa della predicazione, dell'interpretazione della Bibbia e dei rapporti fra retorica classica e retorica cristiana.
- De Genesi ad litteram ("La Genesi alla lettera"), composto tra il 401 ed il 415;
- Enarrationes in Psalmos ("Esposizioni sui Salmi"), in 4 volumi, parte dei Discorsi, un capolavoro di eloquenza popolare;
- De sermone Domini in monte ("Il discorso del Signore sulla montagna"), scritto durante il suo ministero sacerdotale;
- De consensu evangelistarum ("Il consenso degli evangelisti"), scritto nel 400;
- In evangelium Ioannis ("Nel vangelo di Giovanni"), scritto nel 416 considerato una delle opere migliori di Agostino;
- Expositio Epistolae ad Galatos ("Esposizione della Lettera ai Galati");
- Annotationes in Iob ("Annotazioni in Giobbe");
- De Genesi ad litteram imperfectus ("La Genesi alla lettera incompiuta");
- Epistolae ad Romanos inchoata expositio ("Inizio dell'esposizione della Lettera ai Romani");
- Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos ("Esposizione di alcune frasi dalla Lettera ai Romani");
- In Epistolam Ioannis ad Parthos ("Nella Lettera di Giovanni ai Parti");
- Locutiones in Heptateuchum ("Locuzioni nell'Ettateuco").
- De doctrina Christiana
Da quando Agostino fu ordinato sacerdote cominciò seriamente a interessarsi all'esegesi delle Sacre Scritture. Quest'opera, redatta in quattro libri, raccoglie la sua esperienza di commentatore biblico: i primi tre libri trattano della comprensione dei contenuti (res) e delle parole (signa), il quarto discorre della corretta esposizione dei contenuti (proferre). Il commentatore dei testi sacri, in questo caso della Bibbia, deve ponderare bene le proprie ipotesi e obbligatoriamente valutarle alla luce della gemina caritas ("duplice carità") cristiana, presente in ogni parte della Sacra Scrittura: questo duplice amore, quello per Dio e quello per il prossimo, ne rappresenta il valore portante. Il lettore deve inoltre prestare molta attenzione alla comprensione delle parole che possono risultare sconosciute, spiegabili attraverso il confronto con le lingue greco-ebraiche, oppure quelle ambigue, che possono essere veramente comprese ricorrendo al testo originale o in alternativa consultando altre traduzioni a disposizione. Agostino dimostra qui uno spirito filologico di sensibilità molto elevata, ed elabora concetti di scientificità basilari per l'approccio alla comprensione di un testo. Per quanto riguarda il proferre, l'autore ammette, a differenza di altri autori cristiani, l'uso della retorica classica purché miri alla creazione di una nuova retorica cristiana, che per essere tale deve essere esercitata da uomini meritevoli e integerrimi, ricordando il pensiero di Catone (un buon cittadino è un ottimo oratore). All'interno del componimento si trovano molte riflessioni interessanti, come la differenza tra frui ("godere") e uti ("usare"), basata su una concezione che vede l'uomo bearsi di tutto ciò che provoca diletto ed usa ogni mezzo che è necessario per raggiungere tale piacere. Nel sistema del godimento creato da Agostino, Dio naturalmente occupa il posto massimo, dunque l'uomo per raggiungere tale letizia deve impiegare gli strumenti che possiede, ossia l'anima e il corpo. L'altra riflessione che emerge è di carattere linguistico-culturale e consiste nella differenza tra res (la cosa in sé) e signum (ciò che rimanda ad altro). La parola è sicuramente un segno, afferma Agostino, pertanto la teoria platonica di un linguaggio naturale viene sostituita da quella di un linguaggio convenzionale, ossia frutto di un accordo comune tra gli uomini. Il filosofo chiude l'opera esprimendo la sua idea di nuova retorica cristiana: un'opera non dev'essere giudicata attraverso canoni prefissati (cioè quelli della retorica classica) ma, più propriamente, in base a ciò che essa realmente contiene.
Opere dogmatiche e morali
- De Trinitate ("La Trinità"), in 15 libri, scritto dal 400 al 416, è l'opera più complessa e profonda di Agostino. Gli ultimi libri sulle analogie che il mistero della Trinità ha con la nostra anima sono molto discussi;
- Enchiridion de fide, spe et charitate ("Manuale sulla fede, sulla speranza e sull'amore"), scritto nel 421 su richiesta di un pio romano, Laurenzio, è una sintesi della teologia di Agostino, ridotta alle tre virtù teologiche. Padre Faure ne ha elaborato un dotto commentario, mentre Harnack un'analisi particolareggiata (Storia dei dogmi, III, pp. 205–221);
- De diversis quaestionibus ad Simplicianum ("Diverse domande a Simpliciano"), scritto nel 397, dove Agostino torna sul tema della grazia salvatrice, ritenuta un dono gratuito che non dipende da meriti ma esclusivamente «da Dio che usa misericordia», secondo una prospettiva echeggiante la predicazione di Paolo;
- Quaestiones Evangeliorum ("Domande sui Vangeli");
- Quaestiones in Heptateuchum ("Domande sull'Ettateuco");
- Quaestiones septemdecim in Evangelium secundum Matthaeum ("Diciassette domande sul Vangelo secondo Matteo");
- De diversis quaestionibus octoginta tribus ("Ottantatré diverse questioni");
- De octo Dulcitii quaestionibus ("Le otto domande di Dulcizio");
- De octo quaestionibus ex Veteri Testamento ("Otto domande sull'Antico Testamento");
- De bono coniugali ("Il bene del matrimonio");
- De bono viduitatis ("Il bene della vedovanza");
- De coniugiis adulterinis ("I connubi adulterini");
- De continentia ("La continenza");
- De cura pro mortuis gerenda ("La cura che dev'essere riservata ai morti");
- De mendacio ("La menzogna");
- De patientia ("La pazienza");
- De quantitate animae ("La grandezza dell'anima");
- De utilitate ieiunii ("L'utilità del digiuno");
- De sancta virginitate ("La santa verginità").
Pastorali e predicazioni
Oltre alle omelie sulle Scritture, i Benedettini hanno raccolto 364 sermoni di provata autenticità; la loro brevità suggerisce che siano resoconti redatti da discepoli, spesso revisionati da Agostino stesso. Se il Dottore che era in lui predominava sull'oratore, aveva meno colore, meno opulenza, meno attualità e meno fascino orientale di Giovanni Crisostomo, ma, d'altra parte, dimostrava una logica più nervosa, paragoni più arditi, maggiore elevazione e maggiore profondità di pensiero e, a volte, nei suoi scoppi d'emozione e nelle sue cadute nella forma dialogica, raggiungeva il potere irresistibile dell'oratore greco. Tra queste opere:
- De catechizandis rudibus ("I novelli catechizzandi"), scritto nel 400, in cui viene spiegata la teoria della predicazione e dell'istruzione religiosa delle persone;
- De disciplina Christiana ("La disciplina cristiana"), in 4 libri;
- Sermo ad Caesariensis Ecclesiae plebem ("Discorso al popolo della Chiesa di Cesarea");
- Sermones ("Sermoni"), caratterizzati dalla chiarezza d'esposizione e dall'efficacia della nuova retorica teorizzata nel De doctrina Christiana. Nelle opere agostiniane complete stampate nel 1683 dalla Congregazione di San Mauro, i sermoni sono 394, dei quali 364 si attribuiscono ad Agostino; altri ritrovamenti vi hanno aggiunto 175 sermoni. Tra le scoperte più recenti, lo storico Germain Morin nel 1917 aggiunse 34 sermoni, dal Codex Guelferbytani; il benedettino medievalista Dom André Wilmart nel 1921-1930 vi aggiunse 15 sermoni dal Codex Wilmart; Dom Cyrille Lambot rinvenne 24 nuovi sermoni, sette in frammenti, nel Codex Lambot. L'ultimo ritrovamento fu nel 1990, quando François Dolbeau scoprì a Magonza un manoscritto con 26 sermoni.
Altre opere
- Adversus Judaeos ("Contro i Giudei"), in quest'opera Agostino attacca i giudei, accusati di avversare la nuova fede cristiana; le disgrazie patite dai giudei attraverso la diaspora e le loro sciagure rappresentavano, per Agostino, la testimonianza della «validità della religione cristiana e dunque la giustezza della nuova interpretazione delle Sacre Scritture». Agostino avanzava verso i giudei l'accusa gravissima di aver crocifisso ed ucciso Cristo: « [...] i giudei lo tengono prigioniero, i giudei lo insultano, i giudei lo legano, lo incoronano di spine, lo disonorano con gli sputi, lo flagellano, lo coprono di ingiurie, lo appendono alla Croce, lo trapassano con una lancia, alla fine lo seppelliscono». In quest'opera Agostino tracciava anche una netta divisione tra cristiani ed ebrei giudei: una cesura dettata dall'esigenza dello Spirito con riferimento alla comune discendenza da Abramo. Per i giudei era un'origine carnale, non originata dalla Fede in Dio, come è invece per i cristiani: «È la stirpe dei giudei che trae origine dalla sua carne, - scrive Agostino - non la stirpe dei cristiani: noi discendiamo da altre genti e tuttavia imitando la sua virtù, siamo divenuti figli di Abramo. [...] Noi siamo dunque fatti discendenti di Abramo per grazia di Dio. Dio non fece suoi eredi i discendenti carnali di Abramo. Anzi questi li ha diseredati per adottare quegli altri».
- Contra adversarium Legis et Prophetarum ("Contro l'avversario della Legge e dei Profeti");
- Contra mendacium ("Contro la menzogna");
- De agone Christiano ("Il combattimento cristiano");
- De anima et eius origine contra Vincentium Victorem ("L'anima e la sua origine contro Vincenzo Vittore");
- De divinatione demonum ("La divinazione dei demoni");
- De excidio urbis Romae ("La rovina della città di Roma");
- De fide et operibus ("La fede e le opere");
- De fide et symbolo ("La fede e il simbolo");
- De grammatica ("La grammatica");
- De gratia et libero arbitrio ("La grazia e il libero arbitrio");
- De opera monachorum ("L'opera dei monaci");
- De Scriptura Sacra speculum ("Specchio della Sacra Scrittura");
- De symbolo ad Catechumenos ("Il simbolo ai Catecumeni");
- Regula ad servos Dei ("Regola ai servi di Dio").

AUDIO


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Eugenio Caruso - 20 - 12- 2021

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