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Dante, Paradiso, Canto XXXIII. La visione di Dio.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

Oggi 31 dicembre, ultimo girno del 2021 e del settecentesimo anniversario dantesco, mi trovo, con commozione, a commentare l'ultimo canto del poema, quello nel quale Dante descrive la visione di Dio. Il canto è peraltro un inno alla Vergine; è per suo merito che Dante arriva a Dio; già nel secondo canto dell'inferno avevamo visto essere la Vergine la prima a preoccuparsi dello smarrimento di Dante e chiedere a Lucia di intercedere per lui.

INTRODUZIONE
Il Paradiso è la terza delle tre cantiche che compongono la Divina Commedia, dopo l'Inferno e il Purgatorio; a differenza delle altre due Cantiche questa è, a volte, un po' noiosa, come ricordiamo anche dai nostri studi liceali.
La struttura del Paradiso è costruita sul sistema geocentrico di Aristotele e di Tolomeo: al centro dell'universo sta la Terra, nella regione sublunare, e intorno a essa nove sfere concentriche, responsabili del movimento dei pianeti. Mentre l'Inferno è un luogo presente sulla Terra, il Paradiso è un mondo immateriale, etereo, diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare (nell'ordine Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile (concepito come un cielo purissimo senza astri). Il tutto è contenuto nell'Empireo. Il rapporto tra Dante e i beati è molto diverso rispetto a quello che il poeta ha intrattenuto coi dannati e i penitenti: tutte le anime del Paradiso, infatti, risiedono nell'Empireo, e precisamente nella Candida Rosa, dal quale essi contemplano direttamente Dio; tuttavia, per rendere più comprensibile al viaggiatore l'esperienza del Paradiso, le figure gli appaiono di cielo in cielo, in una precisa corrispondenza astrologica tra la qualità di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal personaggio descritto: ad esempio, nel cielo di Venere appaiono gli spiriti amanti, e in quello di Saturno gli spiriti contemplativi.
All'ingresso del Paradiso terrestre, situato sulla cima della montagna del Purgatorio, Virgilio, che secondo l'interpretazione figurale rappresenta la Ragione, scompare (Purgatorio, canto XXX) e viene sostituito da Beatrice, raffigurante la Teologia. Ciò simboleggia l'impossibilità per l'uomo di giungere a Dio per il solo mezzo della ragione umana: è necessario un diverso livello di "ragione divina" (ossia di verità illuminata), rappresentato appunto dall'accompagnatrice.
Successivamente, a Dante si affiancherà una nuova guida: Beatrice, infatti, lascia maggiore spazio a san Bernardo di Chiaravalle, pur restando presente e pregando per il poeta nel momento dell'invocazione finale del santo alla Madonna. La Teologia (Beatrice) non è sufficiente per elevarsi alla visione di Dio, alla quale si può giungere solo attraverso la contemplazione mistica dell'estasi, rappresentata allegoricamente da san Bernardo. Nello scandire i tempi del viaggio attraverso il Paradiso, Dante ha presente lo schema dell'Itinerario della mente in Dio di San Bonaventura, che prevedeva platonicamente tre gradi di apprendimento: l'Extra nos, ovvero l'esperienza dei sette cieli, corrispondente alla conoscenza sensibile della teoria platonica; l'Intra nos, o l'esperienza delle stelle fisse, corrispondente alla visione immaginativa; il Supra nos, o l'esperienza dell'Empireo, corrispondente alla conoscenza intellettuale. In questa scansione sono tuttavia presenti anche elementi di carattere scolastico-aristotelico (vita mondana, attiva e contemplativa) e agostiniano (la vita attiva secondo la Scientia, e la vita contemplativa secondo la Sapientia).
Nel Paradiso dimora l'eterna beatitudine: le anime contemplano la divinità di Dio e sono colme di grazia. Via via che Dante ascende, intorno a lui aumenta la luminosità, e il sorriso di Beatrice diviene sempre più abbagliante. Dante arriverà a vedere Dio e a contemplare la Trinità grazie all'intercessione della Madonna invocata da San Bernardo. Durante il viaggio in Paradiso, Dante affronta molte questioni filosofiche e teologiche spiegandole sulla base del sapere medievale.
Gli angeli delle gerarchie si suddividono in tre sfere di tre cori (o ordini) ciascuno, secondo la dottrina già abbozzata da san Paolo. I tre ordini superiori rivolgono lo sguardo direttamente a Dio, e vivono completamente immersi in Lui. Sono Serafini, angeli il cui atto è solo amore; i Cherubini che sussistono nella conoscenza; i Troni la cui caratteristica consiste nella partecipazione attiva all'altissima presenza di Dio. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà: la loro esistenza si attua nella collaborazione, attraverso la contemplazione e l'amore, al piano di Dio. Gli ultimi tre cori, Principati, Arcangeli e Angeli, vivono partecipando dell'atto stesso divino che crea e regge il mondo, al divenire del cosmo e alla storia dell'uomo. Gli angeli sono anche messaggeri di Dio di cui Egli si serve per agire nel mondo.
Secondo un'antichissima dottrina le intelligenze angeliche muovono le sfere celesti, poiché il primo effetto dell'azione divina è l'anelito verso di Lui, consistente nel movimento, e questo si attua nel circolo che è forma di eternità. La sfera più esterna gira più rapidamente poiché più vicina all'empireo, il luogo dove risiede Dio.

cherubini

Cherubini - Raffaello

RIASSUNTO DEL CANTO XXXIII

L'ultimo Canto del Paradiso e del poema appare diviso nettamente in due parti, corrispondenti alla preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine perché questa interceda presso Dio e consenta a Dante la visione finale della Sua essenza (vv. 1-39) e alla descrizione della visione stessa (vv. 40-145), che nonostante si concluda con la «folgorazione» mistica che permette a Dante l'appagamento di tutti i suoi desideri conserva innegabilmente un carattere intellettuale e razionale. La santa orazione che il doctor mellifluus Bernardo rivolge a Maria è considerata un piccolo capolavoro retorico, che (diversamente dal Pater noster parafrasato e ampliato all'inizio del Canto XI del Purgatorio) presenta caratteri di originalità rispetto all'Ave, Maria cui pure si ispira: a una prima parte di lode ed elogio della Vergine segue infatti la preghiera vera e propria, in cui il santo si rivolge a Maria come a colei che concede sempre la sua grazia a chi gliela chiede, supplicandola non solo di permettere a Dante di spingere lo sguardo nella mente divina, ma anche di conservare sani... li affetti suoi dopo una visione così superiore alla sua natura di mortale. La prima parte della preghiera assume dunque i toni, retoricamente elevati, di una captatio benevolentiae in cui Bernardo sottolinea l'altezza e al contempo l'umiltà di Maria, figlia del proprio figlio (con due efficacissime antitesi poste nei primissimi versi del Canto), scelta da Dio per l'altissimo compito di mettere al mondo Cristo per sancire la pace tra Cielo e Terra, poiché nel suo ventre è nato l'amore che ha fatto germogliare la rosa celeste (viene già anticipato il mistero dell'Incarnazione, al centro della parte finale della visione). Di Maria è ribadito il fatto che essa è gratia plena, in grado di soddisfare ogni giusta richiesta che provenga da un cuore onesto, dunque i tratti che la caratterizzano sono la misericordia, la pietà, la magnificenza (da intendere forse come sinonimo di «liberalità» cortese) e la bontate, per cui a buon diritto Bernardo le si rivolge implorando il suo aiuto in favore di Dante, giunto fin lì dalla profondità dell'Inferno dopo aver visto lo status animarum post mortem, col compito di riferire al mondo la sua visione: è questo il motivo per cui la Vergine dovrà fare in modo che tale visione non sia letale ai sensi mortali del poeta, così che egli possa scriverne negli alti versi del suo poema e, come dirà lui stesso più avanti, lasciare a la futura gente una semplice scintilla dello splendore divino che potrà per un breve istante contemplare, per manifestare a tutti l'alta vittoria della potenza di Dio. Tutti i beati si uniscono alla implorazione di Bernardo unendo le mani in preghiera, inclusa Beatrice la cui rapida menzione è l'ultima della Commedia dopo il saluto del Canto XXXI, per cui si può affermare che tutti gli sguardi dell'Empireo sono rivolti a Dante in procinto di fissare il suo nella mente di Dio, creando un'atmosfera di tensione narrativa e di attesa che, in un certo senso, verrà protratta per tutto il Canto e si scioglierà solo nei versi finali, con la suprema intuizione elargita a Dante dall'Altissimo. L'intercessione della Vergine non viene manifestata con un gesto tangibile, neppure un cenno o un sorriso come farà invece Bernardo per esortare Dante alla visione, poiché la Regina del Cielo si limita a tenere il suo sguardo fisso in quello dell'oratore e poi a spingerlo nella luce di Dio, nella quale nessun'altra creatura può internarsi tanto in profondità (del resto Maria è umile e alta più che creatura, il che spiega anche la posizione di assoluto privilegio che occupa all'interno della rosa). Dante può dunque fissare la mente di Dio e da qui sino alla fine del Canto è come se tutti gli altri personaggi della narrazione scomparissero, poiché il poeta dovrà contemplare l'Assoluto facie ad faciem senza altri intermediari che non siano la ragione e il puro intelletto, in quanto non un abbandono mistico alla comunione col Divino è oggetto della descrizione ma un'esperienza intellettuale, in cui solo alla fine sarà necessario l'alto fulgore divino perché il poeta giunga a comprendere ciò che per sua natura è incomprensibile all'uomo. Infatti proprio questo è l'elemento centrale della seconda parte del Canto, in cui da un lato c'è il tentativo quasi vano da parte di Dante di richiamare alla memoria ciò che ha visto e che eccede totalmente le capacità del suo intelletto (secondo quanto già dichiarato nell'esordio della Cantica, Par., I, 4-12), dall'altro il tentativo altrettanto arduo di tradurre in parole umane, coi poveri mezzi della sua arte poetica, la profondità della visione, per cui la poesia dell'inesprimibile giunge qui al suo punto più alto e stilisticamente impegnato. Per rappresentare la sproporzione tra l'altezza delle cose vedute e l'angustia dei suoi limiti umani Dante ricorre a più di una similitudine tratta dall'ambito domestico o mitologico: paragona se stesso a colui che si sveglia dopo aver sognato e non ricorda nulla, ma conserva la forte impressione che il sogno gli ha lasciato nell'animo (immagine analoga più avanti, quando dirà che parlando della visione avuta sente aumentare la sua gioia); ricorda la neve che al sol si disigilla, ovvero si scioglie non conservando le orme impresse su di essa, così come i ricordi svaniscono dalla sua memoria; cita i responsi della Sibilla Cumana, che venivano scritti su foglie disperse dal vento e diventavano così incomprensibili (fin troppo ovvio il riferimento a Virgilio, Aen., VI, 74-76, in cui Enea si prepara a scendere agli Inferi); rammenta il mito di Argo, la prima nave a solcare i mari e la cui ombra riempì di stupore Nettuno (a indicare anche l'eccezionale primato della sua opera poetica: cfr. Par., II, 16-18), anche se il ricordo di quell'impresa è ancora vivo dopo 2500 anni, più di quanto lo sia quello della visione in lui dopo un brevissimo istante. L'invocazione suprema alla somma luce di Dio affinché consenta a Dante di esprimere una minima parte di ciò che ha visto (il che, a sua volta, è quasi nulla rispetto all'essenza divina) si affianca a quella di san Bernardo a Maria, sottolineando il carattere assolutamente eccezionale e irripetibile del privilegio che qui a Dante è concesso: il poeta si accinge a descrivere qualcosa che quasi nessun altro ha visto da vivo, ad eccezione dell'esperienza mistica di san Paolo, e tuttavia il poeta non rinuncia a una rappresentazione razionale e coerente della cosa vista (benché essa possa sembrare deludente agli occhi dei lettori moderni e come tale sia stata giudicata da più di un critico del Novecento, a cominciare da B. Croce); la rappresentazione del Paradiso è divenuta più astratta e immateriale man mano che si procedeva nell'ascesa, quindi la stessa astrazione quasi «matematica» non poteva non caratterizzare anche la visione di Dio, per la quale Dante (e in ciò è la novità assoluta del suo poema) rinuncia in modo programmatico a ogni elemento iconografico, come del resto si era già visto nella descrizione della rosa, degli angeli e di Maria.

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Annunciazione di Beato Angelico


Tre sono i misteri che a Dante è dato contemplare fissando il suo sguardo nella profondità della mente di Dio, ovvero l'unità dell'Universo, la Trinità e l'Incarnazione: per rappresentarli non può che ricorrere a delle similitudini, ma mentre per il primo usa l'immagine concreta del volume che raccoglie e unifica tutto ciò che si squaderna per il Cosmo, per gli altri si serve di una pura astrazione matematica, ovvero dei tre cerchi rappresentanti le Persone Divine e dell'effigie umana dipinta con lo stesso colore entro il cerchio che corrisponde al Figlio. Tale spettacolo appaga il desiderio di conoscenza di Dante, ma ottiene anche l'effetto di farlo cambiare internamente, cosicché gli sembra che l'Unità indissolubile della Divinità muti e in realtà è la sua visione a cambiare prospettiva: l'armonia dell'Universo in cui tutto sembra avere una precisa collocazione e un'intima rispondenza è la spiegazione di tutte le apparenti contraddizioni e ingiustizie (anche politiche) che affliggono il mondo, è l'Ordine che si oppone al Caos; non a caso Dante ribadisce ciò che finora è stato detto a più riprese a proposito dei beati e degli angeli e che adesso è lui a sperimentare personalmente, ovvero che chi fissa lo sguardo in Dio non può distoglierlo per guardare null'altro, in quanto lì è racchiuso tutto il bene del mondo e vi diventa perfetto ciò che all'esterno è difettoso (lui invece dovrà farlo per tornare alla dimensione dell'umano ed è proprio questa la difficoltà più grande da superare, il motivo per cui la Vergine dovrà vincere i suoi movimenti umani). La descrizione della Trinità è poi ancora più rarefatta, affidata ai tre cerchi di diverso colore e uguali dimensioni che rappresentano il rapporto fra le tre Persone Divine (tralasciamo il fatto che, per alcuni commentatori, essi non potevano essere identici perché sarebbero stati sovrapposti), ovvero il Figlio generato dal padre e lo Spirito Santo che procede da entrambi, come una fiamma che spira dai primi due cerchi: l'immagine astrattamente geometrica può forse non soddisfare il lettore moderno in cerca di una più concreta rappresentazione, ma è quanto di più aderente alla mentalità trecentesca nella quale Dante è saldamente ancorato, per cui la descrizione della Trinità e dell'Incarnazione non può prescindere dal rigore degli argomenti teologici (e non si scordi che la geometria come scienza era considerata nel Medioevo tramite fra l'umano e il divino, degna dunque della massima considerazione). Non può stupire allora che proprio al geomètra si paragoni Dante nel tentativo vano di capire il rapporto tra l'effigie umana e il secondo cerchio, impresa disperata come lo è per il matematico calcolare il rapporto tra il raggio e la circonferenza: qui il poeta deve confessare la propria impotenza e l'incapacità del suo intelletto, ed è il solo e unico momento in cui la visione cessa di essere esperienza razionale per diventare mistica, col fulgore divino che colpisce la mente di Dante e gli consente per un brevissimo istante di vedere, con gli occhi del rapimento estatico, la verità del mistero che è inconoscibile coi soli mezzi della logica. È questo il lumen gloriae che solo può consentire alla mente umana la fruizione piena e completa dell'aspetto divino, che normalmente caratterizza i beati in Cielo e occasionalmente i mortali in vita, allegorizzato da Bernardo quale terza guida di Dante nel viaggio: ed è chiaro che tale suprema intuizione dell'essenza divina è l'appagamento finale di tutti i disii del poeta, il punto finale del suo percorso oltremondano dopo il quale egli non può che tornare alla dimensione dell'umano, accingendosi all'alto compito di descrivere nei suoi versi tutto ciò che ha visto; è anche l'affermazione definitiva dell'insufficienza della ragione umana per la comprensione dei misteri dell'Universo, che restano inconoscibili senza la fede nelle cose rivelate e, soprattutto, senza un ultimo gratuito ausilio da parte di Dio che solo può elargire la visione di Sé all'uomo, la quale costituisce quella beatitudine che tutte le anime salve godranno per l'eternità una volta giunte in patriam, nella Gerusalemme celeste. Il Canto, la Cantica e il poema possono allora chiudersi con la solenne dichiarazione del compimento del desiderio di conoscenza da parte del poeta, che trae origine non dall'acume del suo intelletto ma dall'atto di grazia che gli è stato concesso dall'amore divino, l'amor che move il sole e l'altre stelle e che appaga intimamente la sua volontà come una ruota che si muove in modo uniforme (dunque l'immagine del cerchio chiude la poesia della Commedia, essendo simbolo della perfezione divina e dell'incapacità dell'uomo di risolvere i misteri dell'Universo, proprio come impossibile è per il geomètra... misurar lo cerchio poiché gli manca il principio fondamentale, che nella concezione di Dante è da identificare con Dio).

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Madonna del Magnificat, Sandro Botticelli


L'invocazione alla Vergine nella poesia: Petrarca
L'invocazione alla Vergine affidata alle parole di san Bernardo e con cui si apre il Canto XXXIII del Paradiso non è certo un caso isolato nella letteratura italiana del tempo di Dante e successiva, che si riallaccia del resto a una lunga tradizione della dossologia mariana e ha in Jacopone da Todi (autore dell'inno Stabat Mater e della lauda Donna de Paradiso) un insigne precedente: poco dopo Dante sarà F. Petrarca a chiudere i Rerum vulgarium fragmenta con la famosa canzone dedicata alla Vergine (CCCLXVI, Vergine bella, che di sol vestita), che rispetto ai versi danteschi che preludono alla visione beatifica di Dio presenta analogie e differenze. Analoga è la posizione nella raccolta petrarchesca, in quanto il componimento chiude il Canzoniere come il Canto dantesco è l'ultimo della Commedia, e simile è anche il carattere di orazione e inno religioso che la canzone assume, proponendosi come un bilancio del percorso umano e letterario del poeta quasi alla fine della sua vita; diversa è l'ispirazione della poesia in Petrarca, poiché Maria è invocata come fonte di grazia e salvezza da chi si considera peccatore e teme per la sua salvezza a causa degli errori commessi (specie in campo amoroso), dunque la canzone è espressione dei dubbi interiori e delle lacerazioni proprie di tutta l'opera di Petrarca, ben lontana dalle granitiche certezze in campo religioso ed escatologico che sono al centro del poema di Dante. La Vergine, anzi, è di fatto paragonata per contrasto alla donna amata da Petrarca, quella Laura che gli ha causato tante sofferenze e che al tempo della stesura della canzone è morta da tempo, in quanto quest'ultima è stata fonte di traviamento morale e illusioni sul piano amoroso, mentre Maria rappresenta un esempio di purezza che si oppone in modo antitetico alla bellezza seducente e pericolosa della donna mortale. Ciò è evidente fin dai primi versi, in cui Maria è indicata come colei che Dio ha scelto per l'altissimo compito di consentire l'Incarnazione di Cristo (vv. 2-3, al sommo Sole / piacesti sì, che 'n te Sua luce ascose; cfr. Par., XXXIII, 4-6) e come la creatura che risponde sempre benevolmente a chi le chiede la grazia (vv. 7-8, Invoco lei che ben sempre rispose / chi la chiamò con fede; cfr. XXXIII, 13-15), mentre più avanti si dirà che trasforma 'l pianto d'Eva in allegrezza (v. 36, e infatti anche Dante la colloca al di sopra di Eva nella rosa celeste); al contrario Laura è indicata quasi spregiativamente come mortal bellezza (v. 85), terra (v. 92), poca mortal terra caduca (v. 121), a indicare non solo il fatto che la donna è morta e i suoi resti corporei si sono decomposti, ma anche l'enorme sproporzione tra l'amore celeste rappresentato dalla Vergine e l'amore terreno raffigurato da Laura (non a caso Maria è di sol vestita e coronata di stelle, Laura è terra). Questo amore è condannato da Petrarca in quanto gli ha provocato pena e grave... danno, lo ha spinto a versare lagrime e a spendere lusinghe e preghi indarno, gettandolo in un tempestoso mare in cui solo la Vergine può rappresentare per lui una stella e una fidata guida: l'amore per Laura è vano in quanto non corrisposto e fonte soltanto di sofferenza, come già dichiarato nel sonetto proemiale del Canzoniere, e la donna è descritta come colei che quand'era viva in pianto... tenne il cuore del poeta non conoscendo neppure tutti i mali che lui provava; questo amore è stato un errore, che ha tramutato Petrarca in un sasso / d'umor vano stillante (vv. 111-112) e per liberarsi del quale ora rivolge a Maria (vv. 115-117) un ultimo pianto... devoto, / senza terrestro limo (cioè senza passioni terrene), / come fu 'l primo - non d'insania vòto (torna il tema del vaneggiare del poeta dietro la bellezza di Laura, spesso indicato come la ragione per cui egli fu favola per il popolo, I, 9-11). Dunque la Vergine è invocata come colei che può concedere la grazia e intercedere presso Dio al fine di ottenere per il poeta il perdono dei suoi peccati, ma anche come l'alta creatura che si oppone alle passioni terrene che hanno sviato Petrarca dall'amore divino, rischiando seriamente di compromettere la sua salvezza nell'Aldilà: tali passioni occupano la sua anima ancora con grande forza, tanto che a suo dire egli è ancora legato al ricordo di Laura con... mirabil fede (v. 122, e val la pena di osservare il senso ambivalente della parola fede) e solo l'aiuto di Maria può fargli sperare di risollevarsi dal suo stato assai misero e vile (v. 124) e di ottenere la sospirata salvezza ora che si avvicina il giorno della morte, superando la passione terrena per Laura dalla quale, pare evidente nei versi finali, egli non riesce a liberarsi neppure a tanti anni dalla morte della donna. Più che un'invocazione, il suo è l'accorato grido di aiuto di chi vive in uno stato travagliato di lacerazione interiore e si aspetta da Maria l'intercessione per la remissione dei propri peccati, mentre in Dante l'orazione di san Bernardo doveva concedergli l'assistenza necessaria a completare il suo viaggio allegorico che è un percorso (realizzato con successo) verso Dio: l'ultima poesia del Canzoniere dimostra ulteriormente la distanza ormai incolmabile tra l'autore della Commedia, poeta della certezza e della fede che ha superato e risolto i suoi dubbi in materia religiosa, e il pre-umanista Petrarca, poeta del dubbio e dell'angosciosa incertezza, la cui fede è continuamente messa alla prova e che neppure alla fine della sua opera mostra di aver completamente risolto le ansie che caratterizzarono tutta la sua esperienza di uomo e scrittore.
Interpretazioni a confronto: B. Croce e S. Battaglia
A conclusione della lettura del Paradiso e del Canto conclusivo della Cantica, proponiamo due brevi estratti dei saggi di due insigni critici letterari e studiosi di Dante del Novecento, che propongono un'interpretazione alquanto diversa, se non decisamente opposta, della rappresentazione dantesca del regno santo. Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, saggista, critico letterario fondatore di una vera e propria scuola nei primi decenni del secolo scorso, tende a svalutare la componente teologica e dottrinale del Paradiso e critica come artificiosa e ripetitiva la sua descrizione come qualcosa che è in realtà non rappresentabile, individuando gli unici momenti di alta poesia della III Cantica nelle immagini concrete e «domestiche» cui Dante ricorre per raffigurare la dimensione celeste; viceversa Salvatore Battaglia (1904-1971), linguista, filologo e studioso di letteratura, sottolinea proprio il valore della poesia dell'inesprimibile come la caratteristica peculiare del Paradiso e come la principale novità del poema dantesco, ben diverso da tutte le precedenti descrizioni dell'Oltretomba (questa interpretazione, del resto, è stata fatta propria dai principali dantisti del XX secolo, da E. Auerbach a U. Bosco, fino a G. Bàrberi Squarotti).
Benedetto Croce: il Paradiso come «romanzo teologico»
Questi spettacoli di luce e di canto, oltre il loro senso letterale e poetico ne hanno un altro, dottrinale, come l'avevano altresì i tormenti dell'Inferno e i castighi del Purgatorio. Senonché, in questa terza parte della Commedia, i due sensi se ne stanno assai meno distaccati che nelle due prime, e, di gran lunga più, tendono a entrare l'uno nell'altro. Il concetto della gioia paradisiaca restringe il poeta a pochissimi, e anzi quasi a un ordine solo d'immagini, riduce la sua tavolozza a un sol colore, che egli non può differenziare se non nel grado, nel meno e più, e non può variare se non nella configurazione spaziale, e talvolta nella sola scelta dei vocaboli e dei paragoni. Onde l'impressione che il lettore riceve, in più luoghi di quelle scene, dello sforzo, di una valentia che è sforzo, e che si ammira non come un moto naturale, ma come un gioco ginnastico (e molti, dimentichi di quel che sia propriamente poesia, riversano l'ammirazione su questi luoghi del Paradiso, prodigando lodi di dubbia legittimità estetica): l'impressione di una ricchezza esuberante, che ha della povertà e nasce da una certa povertà, come lustro di cui questa si ricopre. Tale non infrequente impressione di povertà nella profusione, e di vuoto nel pieno, è accresciuta dal carattere maraviglioso, ma intellettualistico, sebbene ingenuamente escogitato, di quelle luci, che si ordinano in ruote, in croce, in rosa, in aquila, in iscala, in lettere d'alfabeto, e, raccostando le lettere, compongono scritte latine con motti e ammonimenti. E, in questa terza parte, nelle rappresentazioni paradisiache, il poeta avverte il bisogno, e con pari candidezza lo soddisfa, di rialzare l'effetto con le iperboli negative; per esempio, con l'osservare che le bellezze della natura e dell'arte, tutte adunate, varrebbero niente «ver lo piacer divin che mi rifulse», o che, comparata al suono della lira da lui udita, qualunque più dolce melodia terrena «parrebbe nube che squarciata tuona»; e, mezzo rettorico anche meno efficace, con le continue proteste, che ciò che egli vede è indescrivibile e ineffabile. La luce, la gioia, che egli vorrebbe pensare e rappresentare, è cosi pura, perfetta e santa, cosi assoluta, che si converte sovente in un'astrattezza, e, come tale, non si può rappresentare e neppure pensare. Non si pensa e non si rappresenta se non la gioia concreta, che nasce dal dolore ed è venata di dolore e torna al dolore; la luce che è insieme ombra, e combatte con l'ombra, e la vince e n'è in parte vinta. […] Donde, in tanto infinito, alcunché di troppo finito, e talora perfino di grottesco, che viene appunto dal contrasto tra l'infinito dell'intenzione e il finito della rappresentazione. […] Insomma, quella monotonia, quelle ripetizioni, quegli sforzi, quell'artificiosità, quelle puerilità, che sono state troppo severamente notate nel Paradiso, e hanno fatto scuotere la testa innanzi all'ardimento del poeta e considerarlo come ardimento verso l'impossibile, e fallacemente riportarlo a un vizio della materia, particolare al Paradiso ed estraneo alla materia delle altre due cantiche, è invece qualcosa che si trova in tutte le tre cantiche, ma nella terza si accentua proprio nella rappresentazione che fa da scena o da sfondo: l'ubbidienza all'assunto didascalico, ossia al «romanzo teologico». (da La poesia di Dante, Bari, Laterza 1940)
Salvatore Battaglia: il Paradiso come «regno della pura intuizione»
La terza cantica trova la sua prima emozione lirica nella stessa premessa dell'insufficienza espressiva del poeta. Il Paradiso non si può rappresentare, è ineffabile. È possibile intuirlo nel colmo della fede, come mistica aspirazione, ma la sua realtà è sovrasensibile, esclude la comprensione e la raffigurazione. Il poeta è qui chiamato a sceneggiare la trascendenza divina e l'ineffabilità dei suoi misteri. Ma com'è possibile figurarla nei termini del linguaggio umano se essa per definizione ne è il superamento e la sublimazione? In questa antinomia risiede la fondamentale difficoltà e insieme la qualità linguistica della terza cantica. Al poeta toccherà esprimere l'incomunicabile. L'impresa dello stile che ora Dante progetta sembra assurda, è al di fuori d'ogni realizzazione. Perché non appena l'intelletto e la parola presumeranno di descrivere il Paradiso e di ridurlo in termini espositivi, il Paradiso stesso cesserà di fruire della sua natura trascendente, sovrumana, misteriosa. Al poeta resterà questo compito: non già di rappresentare il Paradiso nella sua inattingibile verità, ma di farne intravedere l'intatta eternità e l'immensa beatitudine con i mezzi impari di cui dispone la parola dell'uomo. Il nodo lirico del Paradiso e del suo linguaggio consiste nell'esprimere questa situazione, che prima di essere stilistica è morale: cioè, l'interna intuizione del Paradiso come simulacro esemplare dell'anima, e, nello stesso tempo, la struggente incapacità a raffigurarne realmente l'essenza.
Nel Paradiso è la stessa realtà che dovrebbe risultare abolita o superata. II poeta si trova, pertanto, al limite del reale. Immateriale, invisibile, assolutamente mistico, il Paradiso è il regno della pura intuizione, che si realizza unicamente nei silenzi incommensurabili ed essenziali dello spirito: «lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede». Questo dramma stilistico è forse la componente più lirica della terza cantica. Rimane il mistero di ciò che si è contemplato nell'interiorità spirituale: «... e vidi cose che ridire / né sa né può chi di lassù discende». Perché accostarsi al Paradiso e alla sua visione equivale ad uscire dalla natura umana e rompere l'involucro dei sensi: «trasumanar significar per verba / non si porìa». Infatti il trapasso dal mondo terreno è istantaneo, fulmineo: «Tu non se' 'n terra, sì come tu credi: / ma folgore, fuggendo il proprio sito, / non corse come tu ch'ad esso riedi». Il cimento espressivo è strenuo, estremo, al limite delle possibilità del linguaggio. […]
E di fronte all'angustia terrestre dei primi due regni, il Paradiso si dispone nella prospettiva delle sfere celesti, occupando l'intero sistema planetario: paesaggi immacolati e senza limiti, il cui linguaggio è luce e moto, musica e coro, ordine e armonia. Il Paradiso s'identifica con il firmamento, si converte nell'universo: partecipa dell'infinita presenza di Dio nel cosmo. E, pertanto, il viaggio di Dante si sviluppa nella successione ascensionale dello zodiaco, dal cielo della luna fino all'Empireo, dove fiorisce la candida rosa dei beati. Qui sono tutte le anime del Paradiso, raccolte nel mistico fiore, in un unico consesso, di cui nei singoli cieli Dante ha conosciuto le postille, le loro trasparenze individuali. Ma ora tutte concorrono al trionfo supremo e inesauribile di Dio, che Dante concepisce in un'essenza totale, illimite, inattingibile. Forse questa di Dante è la concezione più austera della divinità unica e incommensurabile, universa e inestimabile. Il poeta l'ha resa nella sua più sgomenta profondità, nel suo mistero insondabile. Il Dio di Dante è la categoria mentale dell’inconoscibile. (da Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli, Liguori 1967)

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Annunciazione di Leonardo

NOTE

- Al v. 7 Dante parla del ventre  di Maria come aveva fatto l'arcangelo Gabriele in XXIII, 104: si è osservato che altrove il termine è associato a significati negativi e sgradevoli, mentre qui il poeta si è forse rifatto al versetto dell'Ave, Maria (benedictus fructus ventris tui).
- Il fiore  del v. 9 è la rosa dei beati.
- Al v. 10 la Vergine è detta meridiana face, perchè paragonata a una fiaccola luminosa come il sole di mezzogiorno.
- Al v. 20 magnificenza  è forse sinonimo di «liberalità», «generosità», anche perché si è detto che Maria concede spesso la grazia senza attendere la richiesta (cfr. Par. XVII, 73-75, 85).
- I vv. 22-24 indicano che Dante è giunto fino all'Empireo dalla profondità dell'Inferno e che ha visto la condizione delle anime dopo la morte (incluse, probabilmente, anche quelle dannate).
- Nei vv. 29 ss. Bernardo ricorre con insistenza al verbo pregare e a termini affini: 29, tutti miei prieghi; 30, priego; 32, co' prieghi tuoi; 34, ancor ti priego; 39, per li miei prieghi.
- Al v. 38 Beatrice è nominata per l'ultima volta nel poema.
- I vv. 44-45 indicano che Maria è colei che più in profondità spinge lo sguardo nella mente di Dio, più di ogni creatura umana o angelica.
- Il v. 48 è stato variamente interpretato, ma è probabile che Dante voglia dire che ha portato a compimento ogni ardore di desiderio.
- Al v. 57 oltraggio  vuol dire «eccedenza», «sproporzione».
- Il v. 64 indica che la neve, al sole, si scioglie e non conserva le orme lasciate su di essa.
- I vv. 65-66 alludono al mito classico della Sibilla Cumana, che scriveva i responsi su foglie che il vento disperdeva, rendendo impossibile la decifrazione: in Aen., VI, 74-76 ENEA  (in procinto di scendere agli Inferi per incontrare l'anima del padr) prega la profetessa di parlargli senza ricorrere a quell'espediente, in quanto ha necessità di comprendere le sue parole.
- Il v. 84 indica non che Dante abbia consumato la sua visione, ma che ha portato la sua vista alle estreme possibilità umane.
- I vv. 85-87 paragonano l'Universo a un volume che raccoglie e rilega tutte le pagine che compongono il creato; nei vv. seguenti (88-90) Dante indica lo stesso concetto con termini filosofici, parlando di sostanze (ciò che esiste di per se stesso), accidenti (le qualità delle sostanze) e lor costume (il legame che le unisce insieme).
- I vv. 94-96, assai discussi dai critici, vogliono prob. dire che un solo istante (punto), quello della visione, è per Dante oblio (letargo) maggiore di quanto non lo sia l'impresa della nave Argo, a venticinque secoli di distanza (la quale infatti è ancora ricordata dagli uomini). Il mito degli Argonauti, i primi a solcare il mare con una nave, ribadisce il motivo del primus ego  in quanto Dante è il primo ad affrontare l'alta materia del Paradiso, come già detto in II, 16-18.
- I tre giri  del v. 117 sono stati interpretati come tre cerchi, ma anche come tre sfere.
- La circulazion  del v. 127 è il secondo cerchio, corrispondente al Figlio.
- I vv. 133-138 indicano che Dante tenta di capire quale sia il rapporto tra la nostra effige  e il cerchio, dal momento che l'immagine umana è dipinta entro il cerchio con lo stesso colore e sarebbe dunque indistinguibile: così il matematico cerca di calcolare esattamente la circonferenza, ma non vi riesce perché indige, manca di un elemento essenziale (il rapporto raggio-circonferenza).
- Al v. 138 vi s'indova  è neologismo dantesco, da dove («vi trova luogo», «vi si colloca»).
- I vv. 140-141 indicano che la mente di Dante è illuminata da un alto fulgore, che gli consente in una suprema intuizione di cogliere il rapporto tra l'umano e il divino, dunque di comprendere il mistero dell'Incarnazione.
- Il verso conclusivo della Cantica (145) termina con la parola stelle, come l'Inferno  e il Purgatorio.


TESTO DEL CANTO XXXIII

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio, 
umile e alta più che creatura, 
termine fisso d’etterno consiglio,                                    3

tu se’ colei che l’umana natura 
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore 
non disdegnò di farsi sua fattura.                                    6

Nel ventre tuo si raccese l’amore, 
per lo cui caldo ne l’etterna pace 
così è germinato questo fiore.                                         9

Qui se’ a noi meridiana face 
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, 
se’ di speranza fontana vivace.                                       12

Donna, se’ tanto grande e tanto vali, 
che qual vuol grazia e a te non ricorre 
sua disianza vuol volar sanz’ali.                                     15

La tua benignità non pur soccorre 
a chi domanda, ma molte fiate 
liberamente al dimandar precorre.                                18

In te misericordia, in te pietate, 
in te magnificenza, in te s’aduna 
quantunque in creatura è di bontate.                             21

Or questi, che da l’infima lacuna 
de l’universo infin qui ha vedute 
le vite spiritali ad una ad una,                                         24

supplica a te, per grazia, di virtute 
tanto, che possa con li occhi levarsi 
più alto verso l’ultima salute.                                          27

E io, che mai per mio veder non arsi 
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi 
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,                        30

perché tu ogne nube li disleghi 
di sua mortalità co’ prieghi tuoi, 
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.                           33

Ancor ti priego, regina, che puoi 
ciò che tu vuoli, che conservi sani, 
dopo tanto veder, li affetti suoi.                                        36

Vinca tua guardia i movimenti umani: 
vedi Beatrice con quanti beati 
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».                         39

Li occhi da Dio diletti e venerati, 
fissi ne l’orator, ne dimostraro 
quanto i devoti prieghi le son grati;                                42

indi a l’etterno lume s’addrizzaro, 
nel qual non si dee creder che s’invii 
per creatura l’occhio tanto chiaro.                                  45

E io ch’al fine di tutt’i disii 
appropinquava, sì com’io dovea, 
l’ardor del desiderio in me finii.                                      48

Bernardo m’accennava, e sorridea, 
perch’io guardassi suso; ma io era 
già per me stesso tal qual ei volea:                               51

ché la mia vista, venendo sincera, 
e più e più intrava per lo raggio 
de l’alta luce che da sé è vera.                                        54

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio 
che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, 
e cede la memoria a tanto oltraggio.                             57

Qual è colui che sognando vede, 
che dopo ‘l sogno la passione impressa 
rimane, e l’altro a la mente non riede,                           60

cotal son io, ché quasi tutta cessa 
mia visione, e ancor mi distilla 
nel core il dolce che nacque da essa.                           63

Così la neve al sol si disigilla; 
così al vento ne le foglie levi 
si perdea la sentenza di Sibilla.                                      66

O somma luce che tanto ti levi 
da’ concetti mortali, a la mia mente 
ripresta un poco di quel che parevi,                               69

e fa la lingua mia tanto possente, 
ch’una favilla sol de la tua gloria 
possa lasciare a la futura gente;                                    72

ché, per tornare alquanto a mia memoria 
e per sonare un poco in questi versi, 
più si conceperà di tua vittoria.                                        75

Io credo, per l’acume ch’io soffersi 
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, 
se li occhi miei da lui fossero aversi.                            78

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito 
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi 
l’aspetto mio col valore infinito.                                       81

Oh abbondante grazia ond’io presunsi 
ficcar lo viso per la luce etterna, 
tanto che la veduta vi consunsi!                                      84

Nel suo profondo vidi che s’interna 
legato con amore in un volume, 
ciò che per l’universo si squaderna:                              87

sustanze e accidenti e lor costume, 
quasi conflati insieme, per tal modo 
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.                          90

La forma universal di questo nodo 
credo ch’i’ vidi, perché più di largo, 
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.                             93

Un punto solo m’è maggior letargo 
che venticinque secoli a la ‘mpresa, 
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.                       96

Così la mente mia, tutta sospesa, 
mirava fissa, immobile e attenta, 
e sempre di mirar faceasi accesa.                                99

A quella luce cotal si diventa, 
che volgersi da lei per altro aspetto 
è impossibil che mai si consenta;                                102

però che ‘l ben, ch’è del volere obietto, 
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella 
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.                                         105

Omai sarà più corta mia favella, 
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante 
che bagni ancor la lingua a la mammella.                  108

Non perché più ch’un semplice sembiante 
fosse nel vivo lume ch’io mirava, 
che tal è sempre qual s’era davante;                           111

ma per la vista che s’avvalorava 
in me guardando, una sola parvenza, 
mutandom’io, a me si travagliava.                                114

Ne la profonda e chiara sussistenza 
de l’alto lume parvermi tre giri 
di tre colori e d’una contenenza;                                    117

e l’un da l’altro come iri da iri 
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco 
che quinci e quindi igualmente si spiri.                       120

Oh quanto è corto il dire e come fioco 
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, 
è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.                           123

O luce etterna che sola in te sidi, 
sola t’intendi, e da te intelletta 
e intendente te ami e arridi!                                            126

Quella circulazion che sì concetta 
pareva in te come lume reflesso, 
da li occhi miei alquanto circunspetta,                         129

dentro da sé, del suo colore stesso, 
mi parve pinta de la nostra effige: 
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.                    132

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige 
per misurar lo cerchio, e non ritrova, 
pensando, quel principio ond’elli indige,                    135

tal era io a quella vista nova: 
veder voleva come si convenne 
l’imago al cerchio e come vi s’indova;                         138

ma non eran da ciò le proprie penne: 
se non che la mia mente fu percossa 
da un fulgore in che sua voglia venne.                         141

A l’alta fantasia qui mancò possa; 
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa, 

l’amor che move il sole e l’altre stelle.                         145

madonna 4

Madonna con Bambino sotto un melo, opera del pittore Lucas Cranach il Vecchio

PARAFRASI CANTO XXXIII

«O Vergine Madre, figlia del tuo stesso Figlio (di Cristo-Dio), la più umile e la più alta di tutte le creature, termine fisso della sapienza divina, tu sei quella che ha nobilitato la natura umana a tal punto che il suo Creatore non disdegnò di diventare sua creatura (con l'Incarnazione).

Nel tuo grembo si riaccese l'amore tra Dio e l'uomo, grazie al cui ardore nella pace eterna è germogliato questo fiore (la rosa celeste dei beati).

Qui per noi tu sei una fiaccola lucente di carità e sulla Terra, fra i mortali, sei una viva fonte di speranza.

Donna, sei così grande e hai così grande valore che, se uno vuole una grazia e non ricorre alla tua intercessione, è come se il suo desiderio volesse volare senza le ali.

La tua benevolenza non solo risponde a chi la domanda, ma molte volte anticipa spontaneamente la richiesta.

In te vi sono misericordia, pietà, liberalità, in te si raccoglie tutta la bontà che può esservi in una creatura.

Ora costui (Dante), che dal profondo dell'Inferno fino a qui ha visto la condizione tutte le anime dopo la morte, supplica che tu gli conceda, per tua grazia, quella virtù sufficiente perché possa sollevarsi più in alto, verso l'ultima salvezza (guardare Dio).

E io, che non ho mai desiderato di veder Dio più di quanto desideri ardentemente che lo veda lui, ti porgo tutte le mie preghiere e prego che siano sufficienti, affinché tu dissolva in lui ogni velo di mortalità con le tue preghiere a Dio, cosicché gli venga mostrata la suprema beatitudine.

Ti prego inoltre, o Regina che puoi ottenere tutto ciò che vuoi, che tu conservi puri i suoi sentimenti dopo una simile visione.

La tua custodia tenga a freno le passioni umane: vedi Beatrice e tutti gli altri beati che uniscono le mani unendosi alla mia preghiera!»

Gli occhi (di Maria) amati e venerati da Dio, fissi in quelli dell'oratore (san Bernardo), ci dimostrarono quanto le siano gradite le preghiere devote;

quindi si rivolsero alla luce eterna di Dio, nella quale non bisogna credere che alcuna altra creatura, umana o angelica, possa penetrare lo sguardo altrettanto chiaramente.

E io, che mi avvicinavo alla conclusione di tutti i desideri, così come dovevo fare, esaurii in me stesso l'ardore del mio desiderio.

Bernardo mi faceva cenni e mi sorrideva, affinché io guardassi in alto; ma io ero già disposto a farlo da me stesso, come lui voleva:

infatti la mia vista, diventando più limpida, penetrava sempre di più nel raggio dell'alta luce che è vera di per se stessa.

Da quel momento in poi la mia visione fu superiore a quanto possa esprimere il mio linguaggio, che è inferiore a quel che vidi, così come la memoria è insufficiente a ricordare un tale eccesso.

Come quello che vede qualcosa in sogno, e quando si sveglia gli resta l'impressione nell'animo e non riesce a ricordare nulla, così sono io, dal momento che quasi tutta la mia visione è svanita dalla mia memoria, ma nel cuore è ancora presente la dolcezza che nacque da essa.

Così le impronte sulla neve si sciolgono al sole; così il responso della Sibilla si disperdeva al vento, scritto sulle foglie leggere.

O luce suprema, che ti sollevi così tanto rispetto all'intelletto umano, riporta alla mia mente un poco di quello che apparivi allora, e rendi il mio linguaggio tanto efficace che io possa lasciare ai posteri una sola scintilla della tua gloria;

infatti, se potrò ricordare qualcosa e rappresentarlo un poco in questi versi, si potrà comprendere meglio la tua vittoria.

Io credo che mi sarei smarrito se i miei occhi si fossero distolti dal vivo raggio della mente divina, a causa del fulgore che mi colpì.

Mi ricordo che per questo io fui più coraggioso a sostenerne la vista, a tal punto che spinsi a fondo il mio sguardo nel valore infinito.

Oh, grazia abbondante per la quale ebbi l'ardire di fissare lo sguardo nella luce eterna, al punto che portai la mia vista al limite estremo delle sue capacità!

Nella sua profondità vidi che è contenuto tutto ciò che è disperso nell'Universo, rilegato in un volume:

sostanze, accidenti e il loro legame, quasi unificati insieme, in modo tale che ciò che io ne dico è un barlume di verità.

Credo di aver visto la forma universale di questo nodo, perché mentre ne parlo sento accrescere in me la gioia.

Un attimo solo (quello della visione) è per me oblio maggiore dei venticinque secoli che ci separano dall'impresa degli Argonauti, per cui Nettuno si stupì vedendo l'ombra della nave Argo.

Così la mia mente, tutta sospesa, ammirava con lo sguardo fisso, immobile e attento, aumentando via via il desiderio di osservare.

Di fronte a quella luce si diventa tali che è impossibile voler distogliere il proprio sguardo da essa per guardare qualcos'altro;

infatti il bene, che è oggetto della volontà, si raccoglie tutto in essa, e al di fuori di essa ciò che lì è perfetto diventa difettoso.

Ormai le mie parole saranno insufficienti a esprimere i miei ricordi, più di quelle di un bambino che sia ancora allattato dalla madre.

Non perché nella viva luce che io guardavo ci fosse più di un unico aspetto, che è sempre identico a ciò che era prima, ma per la mia vista che si accresceva man mano che guardavo, al mio mutare interiore quell'unico aspetto si trasformava ai miei occhi.

Nella profonda e luminosa essenza della luce di Dio mi apparvero tre cerchi, di tre colori diversi e uguali dimensioni;

e il secondo (il Figlio) sembrava un riflesso del primo (il Padre), come un arcobaleno riflesso da un altro, e il terzo (lo Spirito Santo) sembrava una fiamma che spira egualmente dagli altri due.

Oh, quanto è insufficiente il mio linguaggio a esprimere ciò che ricordo! E anche questo, rispetto a quel che vidi, è così esiguo che non basta dire 'poco'.

O luce eterna, che hai luogo solo in te stessa, che sola ti comprendi e, compresa da te stessa e nell'atto di comprenderti, ami e ardi di carità!

Quel cerchio (il secondo, il Figlio) che sembrava nascere come da un riflesso, dopo essere stato a lungo osservato dai miei occhi, mi sembrò che avesse dipinta in esso, dello stesso colore, l'immagine umana: per questo avevo penetrato all'interno tutto il mio sguardo.

Come lo studioso di geometria, che si ingegna con tutte le sue forze per misurare la circonferenza e non trova, pensando, quell'elemento di cui manca, così ero io davanti a quella visione straordinaria:

volevo capire come l'immagine umana si inscrivesse nel cerchio e in che modo si collocasse al suo interno;

ma le mie ali non erano adatte a un volo simile (non ne avevo le capacità): senonché la mia mente fu colpita da una folgorazione, grazie alla quale poté soddisfare il suo desiderio.

Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l'amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare (Dio aveva appagato ogni mio intimo desiderio).

AUDIO CANTO XXXIII


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Eugenio Caruso - 31 - 12- 2021

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Tratto da

1

www.impresaoggi.com