La peste nera del 1300 e Francesco Petrarca.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

Recentemente ho illustrato la vita di tre grandi letterati Boccaccio, Petrarca e Chaucer; abbiamo visto che tutti e tre sono vissuti, nel 1300, anno che ha visto l'Europa devastata dalla famigerata peste nera, la pandemia più letale della storia, che ha ucciso fino a 200 milioni di persone in tutta l’Eurasia e il Nord Africa (20 milioni solo in Europa). Ciascuno dei tre affrontò la pandemia in modi diversi, Boccaccio e Chaucer, restando isolati in case di campagna (lockdown ante litteram), Petrarca allontanandosi dalle città dove stava per arrivare l'onda dei contagi.
Attraverso la singolare documentazione di lettere e altri scritti che ci ha lasciato, Paula Findlen esplora come Petrarca ha raccontato, commemorato e pianto i suoi cari e cosa può insegnarci la sua esperienza ancora oggi. Questa è la traduzione italiana dell’articolo pubblicato da Public Domain Review di Paula Findlen.
"""Cosa ricorderemo di quest’anno di COVID-19 e come? Nel 1374, nell’ultimo anno di una lunga e interessante vita, Francesco Petrarca osservò che la sua società aveva vissuto con “questa peste, senza eguali in tutti i secoli”, per oltre venticinque anni. La sua fortuna e la sua sfortuna erano state quelle di sopravvivere a tanti amici e familiari morti prima di lui, molti dei quali proprio a causa di questa devastante malattia. Petrarca, una delle voci più eloquenti del suo tempo, parlò a nome di un’intera generazione di sopravvissuti alla peste, dopo la pandemia del 1346-53 e il suo periodico ritorno. Impugnava abilmente la penna per esprimere il dolore collettivo della sua società in modo profondo e personale, riconoscendo l’effetto di tante perdite e sofferenza. All’indomani dell’anno, particolarmente devastante, del 1348, quando la peste inghiottì la penisola italiana, il suo buon amico Giovanni Boccaccio, nel suo Decamerone, disegnò un ritratto indelebile di giovani fiorentini in fuga dalla loro città colpita dalla peste, intenti ad aspettare che la tempesta passasse raccontando cento storie. Da parte sua, Petrarca ha documentato l’esperienza della peste per diversi decenni, sondando i suoi mutevoli effetti sulla sua psiche. La peste nera aveva acuito la sua idea di una vita di dolcezza e fragilità, soprattutto di fronte alla realtà della malattia che si era manifestata in tante forme diverse. Il poeta aveva grandi domande ed era alla ricerca di risposte.
L’anno 1348 ci lasciò soli e indifesi”, dichiarò all’inizio delle sue Epistole, il suo grande progetto di condividere con gli amici versioni accuratamente selezionate della sua corrispondenza. Qual era il senso della vita dopo tutte quelle morti? Aveva trasformato lui o qualcun altro in meglio? L’amore e l’amicizia potevano sopravvivere alla peste? Le domande di Petrarca hanno permesso ai suoi lettori di esplorare come si sentivano a proposito di questi temi. Petrarca era un girovago e raramente rimaneva a lungo in un luogo. Alternava periodi di isolamento in campagna autoimposto e di immersione totale nella vita delle città, anche durante le peggiori epidemie. Questa mobilità lo ha reso un osservatore particolarmente singolare di come la peste sia diventata una pandemia. Alla fine del novembre 1347, un mese dopo che le navi genovesi portarono la peste a Messina, Petrarca si trovava a Genova. La malattia si diffuse rapidamente via terra e via mare – attraverso i ratti e le pulci, anche se all’epoca si credeva che fosse il prodotto della corruzione dell’aria. La consapevolezza di Petrarca del corso di questa pandemia emerge chiaramente in una lettera scritta da Verona il 7 aprile 1348, quando rifiutò l’invito di un parente fiorentino a tornare nella natia Toscana, scrivendo “la peste di quest’anno ha calpestato e distrutto il mondo intero, soprattutto lungo la costa”.

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Masolino da Panicale, scena dagli affreschi della Cappella Brancacci


Tornato alcuni giorni dopo a Parma, ancora libera dalla peste, Petrarca apprese che il suo parente di ritorno dalla Francia, il poeta Franceschino degli Albizzi, era morto nel porto ligure di Savona. Petrarca maledisse il tributo che “quest’anno pestilenziale” stava esigendo. Capì che la peste si stava diffondendo, eppure forse era la prima volta che la mortalità crescente colpiva vicino a casa sua. “Non avevo considerato la possibilità che lui fosse in procinto di morire”. La peste ora lo toccava personalmente. Con l’avanzare dell’anno, Petrarca si sentiva sempre più circondato da paura, dolore e terrore. La morte arrivò improvvisamente e ripetutamente. A giugno, un amico che era venuto a cena da lui era morto il mattino dopo, seguito dal resto della famiglia nel giro di pochi giorni. Nella poesia “Ad Seipsum”, uno sforzo per cogliere la stranezza di questa esperienza, Petrarca immaginava un futuro che non avrebbe capito quanto fosse stato terribile vivere in “una città piena di funerali” e di case vuote. Petrarca parlava di ritirarsi dalle città infestate dalla peste con i suoi amici più cari. Ma dopo che i banditi ne attaccarono due mentre viaggiavano dalla Francia all’Italia, uccidendone uno, non se ne fece più nulla. Forse i sopravvissuti riconobbero la follia di un piano idealistico che semplicemente non si adattava alle loro circostanze. Nel luglio del 1348, il più importante mecenate del Petrarca, il cardinale Giovanni Colonna, morì di peste, insieme a molti membri di questa illustre famiglia romana che egli servì ad Avignone. Il poeta era ormai senza lavoro, più irrequieto che mai.
Petrarca piangeva profondamente l'”assenza di amici”. L’amicizia era la sua gioia e il suo dolore. Compensava questa perdita scrivendo lettere eloquenti ai vivi e rileggendo le sue missive preferite ai defunti, preparando le migliori per la pubblicazione. In un’epoca di comunicazione quasi istantanea via e-mail, telefono e social media, è facile dimenticare quanto fosse importante la corrispondenza come tecnologia per colmare le distanze sociali. Le lettere, come scrisse Cicerone, molto amato da Petrarca, rendevano presenti gli assenti. L’atto della corrispondenza poteva anche, naturalmente, divenire angoscioso. Petrarca si preoccupava della salute dei suoi amici se non rispondevano rapidamente. “Liberami da queste paure il più presto possibile con una tua lettera”, incoraggiò uno dei suoi amici più cari, soprannominato Socrate (il monaco benedettino fiammingo e cantore Ludwig van Kempen), nel settembre del 1348. Si preoccupò che “la contagiosità della peste ricorrente e l’aria malsana” potessero portare un’altra morte prematura. La comunicazione non fu rapida, ma fu comunque efficace e, in definitiva, rassicurante.
Alla fine di questo anno terribile, Petrarca aveva previsto che chiunque fosse scampato al primo assalto avrebbe dovuto prepararsi al ritorno della peste. Questa fu un’osservazione acuta e, in ultima analisi, accurata. Durante l’anno successivo, Petrarca continuò a enumerare le vittime della peste e descrivere gli effetti della quarantena e dello spopolamento. Scrisse una poesia per commemorare la tragica morte di Laura, una donna che aveva conosciuto e amato nel sud della Francia, solo per scoprire che colui a cui aveva inviato la poesia, il poeta toscano Sennuccio del Bene, in seguito morì anche lui di peste, facendo sì che Petrarca si chiedesse se le sue parole portassero il contagio. Era necessario un altro sonetto. L’atto di scrivere, che inizialmente era stato incredibilmente doloroso, cominciò a elevare il suo spirito. La vita era crudele, la morte implacabile, ma Petrarca la compensò prendendo la penna in mano – l’unica arma che aveva, oltre alla preghiera, e la sua preferita. Altri consigliarono la fuga e proposero misure temporanee di salute pubblica come la quarantena, ma Petrarca sembrava aver capito che avrebbe dovuto pensare e scrivere per sopravvivere alla pandemia. Ovunque andasse, il poeta osservava l’assenza di persone nelle città, i campi incolti nelle campagne, l’inquietudine di questo “mondo afflitto e quasi deserto”. Nel marzo 1349, si trovava a Padova. Stava cenando con il vescovo una sera, quando due monaci arrivarono con la notizia di un monastero francese infestato dalla peste. Il priore era fuggito vergognosamente e tutti i monaci rimasti, tranne uno, erano morti. Fu così che Petrarca scoprì che il fratello minore Gherardo, ora celebrato per il suo coraggio e la sua premura, era l’unico sopravvissuto di questo olocausto pestilenziale. L’eremo di Méounes-lès-Montrieux, che Petrarca visitò nel 1347 e di cui scrisse nella sua opera Sul tempo libero religioso, esiste ancora oggi. Egli scrisse immediatamente a Gherardo per esprimere l’orgoglio fraterno di avere in famiglia un eroe della peste.
Nell’ottobre del 1350 Petrarca si trasferì a Firenze, dove incontrò per la prima volta Boccaccio. Ormai la città non era più l’epicentro della pandemia, ma i suoi effetti erano ancora tangibili, come una ferita ancora aperta – o più precisamente un bubbone ancora pustoloso. Boccaccio era nel bel mezzo della stesura del Decamerone. Anche se non c’è traccia delle discussioni tra i due sulla peste, sappiamo che Boccaccio consumò avidamente la poesia e la prosa del Petrarca, copiando spesso lunghi passaggi nei suoi quaderni durante una lunga amicizia che durò fino alla loro morte, a un anno di distanza l’uno dall’altro. Fu la scrittura della prima peste di Petrarca a permettere a Boccaccio di completare la propria visione di come il 1348 divenne l’anno in cui il loro mondo cambiò. Intorno al 1351, Petrarca cominciò a commemorare coloro che amava e che aveva perduto scrivendo i suoi ricordi sulle pagine che lungamente aveva curato: la sua copia delle opere di Virgilio, ornata da un bellissimo frontespizio del pittore senese Simone Martini. Iniziò questa pratica di commemorazione registrando la morte – da tre anni prima, nel 1348 – della sua amata Laura. Petrarca decise di usare ogni grammo della sua eloquenza per renderla eternamente presente nella sua poesia ma anche nel suo Virgilio. Sulla prima pagina del libro incise queste indimenticabili parole: “Ho deciso di scrivere il duro ricordo di questa dolorosa perdita, e l’ho fatto, suppongo, con una certa amara dolcezza, proprio nel luogo che tanto spesso mi passa davanti agli occhi”. Non voleva dimenticare il dolore bruciante di questo momento che risvegliava la sua anima e aguzzava la coscienza del passare del tempo. Boccaccio era tra gli amici di Petrarca che si chiedeva se Laura fosse mai esistita al di fuori della sua immaginazione, ma non ha mai messo in discussione la determinazione di Petrarca a ricordare quell’anno come trasformativo.

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Primo foglio del Virgilio Ambrosiano di Petrarca, miniato da Simone Martini


Tra le iscrizioni del Virgilio del Petrarca (cosidetto Virgilio Ambrosiano) – ora conservate presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano – c’è la notizia della morte del figlio Giovanni, ventiquattrenne, il 10 luglio 1361, a Milano, “in quell’esplosione di peste che trovò e cadde su quella città, che fino a quel momento era stata immune da tali mali”. Risparmiata la devastazione della prima ondata, Milano – dove Petrarca viveva dal 1353 – la città divenne il focolaio di una seconda pandemia nel 1359-63; peraltro essa non subì le devastazioni che colpirono altre zone. Nel 1361 Petrarca era partito per Padova, ma il figlio scelse di restare a Milano. Nel 1361, dopo la morte del figlio, Petrarca iniziò la sua Epistola ai posteri, come chiamò la sua seconda raccolta di corrispondenza, con una lettera a un amico fiorentino, Francesco Nelli, che in quell’anno si lamentava della perdita dell’amato amico Socrate. Socrate era stato la persona che aveva informato Petrarca della scomparsa di Laura, e Petrarca aggiunse una nota sulla sua copia del Virgilio Ambrosiano a proposito di quest’ultima morte che gli trafisse il cuore. Nelle sue Epistole ai posteri scrisse: “Mi ero lamentato che l’anno 1348 mi aveva privato di quasi tutte le consolazioni della vita a causa della morte dei miei amici. Ora cosa farò nel mio sessantunesimo anno?” Petrarca osservava che la seconda ondata era peggiore della prima e che quasi svuotò Milano e molte altre città. Ora era deciso a scrivere con una voce diversa, non lamentandosi ma combattendo le avversità della sfortuna.

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Buonamico Buffalmacco, L'incontro tra vivi e morti, dettaglio del Trionfo della Morte,


Durante questa seconda pandemia, Petrarca lanciò una feroce critica sul ruolo che gli astrologi avevano svolto nello spiegare il ritorno della peste e nel prevederne il corso. Considerava che le loro proclamate verità fossero in gran parte accidentali: “Perché fingete profezie a fatti avvenuti e chiamate verità il caso? ” Egli rimproverava gli amici e i mecenati che ascoltavano gli oroscopi, considerandoli una falsa scienza basata sull’uso improprio dei dati astronomici. D'altra parte gli astrologi più in vista venivano invitati dalle famiglie benestati o aristocratiche, come oggi i viroloigi nei vari talk show. Mentre la peste si diffondeva nei centri urbani, un amico medico incoraggiò il poeta a fuggire verso l’aria di campagna del Lago Maggiore, ma Petrarca si rifiutò di cedere al terrore. Rimasto in città, cominciò a passare gran parte del suo tempo tra Padova e Venezia. Quando la peste raggiunse la Repubblica di Venezia, gli amici rinnovarono le loro suppliche, portando Petrarca a commentare: “è accaduto spesso che una fuga dalla morte diventi una fuga verso la morte”. Boccaccio venne in visita e decise di non dirgli della scomparsa del loro comune amico Nelli, lasciando Petrarca il dolore di scoprire la sua più recente perdita quando le lettere tornarono indietro, mai aperte.
La peste tornò a Firenze, di nuovo, nell’estate del 1363. In questo clima di rinnovata inquietudine, Petrarca raddoppiò le sue critiche agli astrologi che si illudevano di prevedere la fine dell’ultima pandemia. Il popolo ansioso pendeva da ogni loro parola. “Non sappiamo cosa sta succedendo nei cieli”, scriveva in una lettera a Boccaccio in settembre, “ma loro dichiarano impudentemente e avventatamente di saperlo”. Una pandemia era un’opportunità d’affari per gli astrologi, che vendevano le loro parole a “menti e orecchie assetate”. Petrarca non era certo l’unico a sottolineare che le conclusioni degli astrologi non avevano alcuna base nei dati astronomici o nella diffusione delle malattie. Vendevano false speranze e certezze sul mercato. Petrarca, invece, desiderava una risposta più ragionata alla pandemia, con strumenti migliori della cosiddetta “scienza delle stelle”. ( Allora erano gli astrologi a diffondere il panico, dare false verità e guadagnare dalla loro disinformazione; oggi, nell'epoca del Covid 19 tale ruolo è assunto da pseudo scienziati dalla "incompetenza pestilenziale"e da giornalisti arruolati dalla politica NDR).
Che ne è della medicina? Petrarca era notoriamente scettico nei confronti dei medici che rivendicavano troppe certezze e autorità. Credeva che i medici, come tutti gli altri, dovessero riconoscere la propria ignoranza come un primo passo verso la conoscenza. L’ignoranza stessa era “pestifera” – una malattia da sradicare per cui non esisteva un vaccino. Pur professando rispetto per l’arte della guarigione, non aveva pazienza per quella che nelle sue invettive contro i medici chiamava “incompetenza pestilenziale”. La peste da sola non rivelava il fallimento della medicina, ma ne mostrava i limiti. Petrarca fece amicizia con alcuni dei più famosi medici della sua era e, invecchiando, discusse ostinatamente i loro consigli sulla sua salute. “Vedo medici giovani e sani che si ammalano e muoiono, dunque perché dite agli altri di continuare a sperare?” Petrarca espresse questo sentimento in una lettera al famoso medico e inventore padovano Giovanni Dondi, in seguito alla notizia della morte prematura del medico fiorentino Tommaso del Garbo nel 1370. Del Garbo scrisse uno dei più importanti trattati di peste del XIV secolo, dedicato alla conservazione della salute e del benessere dei suoi concittadini fiorentini dopo l’esperienza della prima pandemia. AAlla fine, i medici erano esseri umani come gli altri; la loro disciplina non conferì a loro o ai pazienti una forma di immortalità. Petrarca continuò a vivere, seguendo alcuni ma non tutti i consigli medici che ricevette, specialmente per la scabbia, una malattia della pelle che descrisse come l’esatto opposto di “una malattia breve e fatale” come la peste – “Temo che sia una malattia lunga e faticosa”. Sebbene non credesse che la medicina avesse poteri speciali, rispettava la combinazione di apprendimento, esperienza, cura e umiltà che erano i tratti distintivi dei migliori medici. Come suo fratello Gherardo, che si preoccupava più della fede che della medicina, e a differenza degli astrologi, che manipolavano i dati per farli combaciare con le loro previsioni, i buoni e onesti medici erano i suoi eroi della peste.
Scrivendo da Venezia nel dicembre del 1363, Petrarca notò un certo appiattimento locale della curva epidemica, ma non pensava che la peste fosse finita anche altrove. “Ancora infuria ampiamente e orribilmente” scriveva. Offrendo un ritratto vivido di una città incapace di seppellire i suoi morti o di piangere adeguatamente, osservava l’ultima tragedia senza più mostrare il proprio dolore. Sembra che stesse imparando a convivere con la peste. Nel 1366, Petrarca portò a termine i suoi Rimedi per l’una e l’altra sorte, che includevano un dialogo sulla peste. “Ho paura della peste”, proclama la Paura, ventriloquando l’ansia crescente per questo “pericolo onnipresente”. La Ragione osservava pragmaticamente che la paura della peste non è “nient’altro che paura della morte”. Con cupo umorismo scherzava sul fatto che era meglio morire in buona compagnia durante una pandemia che morire da soli. Quanto ai sopravvissuti, Petrarca non ha potuto fare a meno di sottolineare quanti di loro erano immeritevoli della loro buona sorte. I buoni perirono mentre “questi parassiti, così resistenti che né la peste, né la morte stessa può sterminarli”, resistettero. Nessuno dice che la peste abbia portato la morte con giustizia. Un anno dopo, nel 1367, Petrarca tornò a Verona, il luogo dove aveva ritrovato con gioia le lettere perdute di Cicerone in una biblioteca monastica in tempi più felici, e dove aveva sentito parlare della morte di Laura, avvenuta tanti anni prima. La città aveva sofferto molto durante la seconda ondata della pandemia, ma c’erano segni di ripresa. Tuttavia, non poteva dire in tutta onestà che Verona, o qualsiasi altra città che conosceva, fosse magnifica e prospera come lo era prima del 1348. I comuni medievali italiani erano potenze economiche i cui commerci attraversavano l’intera Eurasia, ma questa prosperità era in pericolo. Ancora una volta, si ritrovò a pensare a come il suo mondo fosse cambiato – e non solo a causa della peste. Era anche colpa della guerra, della politica, del declino del commercio, dello stato pietoso della chiesa, dei terremoti, degli inverni gelidi e del crimine dilagante. Egli vide contrarsi l’economia tardo-medievale, osservandone gli effetti ben oltre il proprio mondo. Come scrisse in una lettera in cui rifletteva sui vent’anni trascorsi dall’epidemia del 1348, “Ammetto di non sapere cosa stia accadendo tra gli indiani e i cinesi, ma l’Egitto e la Siria e tutta l’Asia Minore non mostrano un aumento di ricchezza e non stanno meglio di noi”. (Paradossalmente erano proprio le attività commerciali che trasmettevano la pandemia da città, in città, da paese a paese, da continente, a continente. NDR).
Petrarca sapeva che “peste” era una parola della grande antichità, ma considerava nuova e inedita l’esperienza di “una piaga universale che doveva svuotare il mondo”. Capiva anche che la peste “non scompare davvero da nessuna parte”. Fu una piaga ventennale. Compose questa lettera d’anniversario per uno dei suoi pochi amici d’infanzia rimasti, Guido Sette, che era arcivescovo di Genova. Quando il corriere giunse a Genova, Sette non era più in vita per leggere le sue parole. Ancora una volta, la penna del Petrarca sembrava preannunciare la fine di un altro capitolo di una vita. Nella primavera e nell’estate del 1371, la peste tornò nella Repubblica di Venezia. Petrarca respinse ulteriori inviti a fuggire dal vortice di contagi. Riconosceva che le città erano tornate a essere pericolose, nelle “fauci di una pestilenza che infuriava in lungo e in largo”, ma aveva trovato “un luogo molto piacevole e salutare” dal quale non si sarebbe più mosso. Ormai Petrarca si era ritirato nella casa che aveva costruito nella pittoresca cittadina collinare di Arquà (oggi nota come Arquà Petrarca), appena a sud di Padova. Nemmeno l’imminente avvicinarsi della guerra gli impedì di rimanere nella casa dove trascorse gli anni che gli rimanevano, scrivendo lettere agli amici e perfezionando la sua raccolta di poesie, nominalmente dedicate alla memoria di Laura ma in cui parlava anche della natura del tempo e della mortalità.
In questo contesto bucolico, Petrarca continuava a ricevere notizie infelici dall’Italia colpita dalla peste. Un altro amico d’infanzia, il cardinale Philippe de Cabassoles, morì poco dopo lo scambio di lettere che riaffermavano la forza della loro lunga amicizia. Petrarca registrò ancora una volta questa perdita nelle pagine del suo Virgilio. Nell’ottobre 1372, scrisse una lettera al suo amico medico Dondi, consolandolo sulla “malattia e la morte nella sua famiglia”. Petrarca non spiegò mai cosa lo portò a riconoscere finalmente nel 1373 di aver letto il Decamerone del suo caro amico Boccaccio (completato vent’anni prima). Affermava che una copia gli era arrivata misteriosamente, eppure sembra impossibile credere che non avesse conosciuto quest’opera fino ad allora. Petrarca dichiarò di aver scremato più che imbevuto il Decamerone: “Se dovessi dire di averlo letto, mentirei, perché è molto lungo, essendo stato scritto per il volgo e in prosa”. Ma non dovremmo credere alla sua denigrazione del libro che definì la sua generazione. Era soltanto una battuta tra due grandi scrittori. Petrarca perdonava le cadute morali dell’autore nei racconti più salaci perché apprezzava la serietà del suo messaggio, su come le mancanze umane – avidità, lussuria, arroganza, corruzione della Chiesa e dello Stato – contribuissero a incubare un mondo pestilenziale. In particolare elogiò l’inizio del libro, ammirando la perfezione della vivida descrizione che Boccaccio fece di Firenze sotto assedio durante “quel tempo di peste”. Petrarca fece all’amico l’ultimo complimento traducendo il racconto finale (riguardante la pazienza e la forza d’animo di una giovane contadina di nome Griselda sposata con un nobile arrogante che la mise alla prova in ogni modo possibile) dal toscano al latino, per renderlo più disponibile ai lettori che non conoscevano la lingua nativa dell’autore. “Ho raccontato la tua storia con parole mie”, disse. Eppure, in un certo senso, Petrarca lo aveva già fatto fin dal 1348, raccogliendo i suoi racconti sulla peste, trovando modi diversi per esprimere l’intero spettro di emozioni che evocava questa malattia.
Quando la peste tornò nel 1374 a Bologna (dove Petrarca aveva studiato in gioventù), incoraggiò l’amico Pietro da Moglio a fuggire e a raggiungerlo ad Arquà. Il famoso professore di retorica rifiutò, citando lo stesso Petrarca come fonte di ispirazione per rimanere al suo posto. In risposta, Petrarca osservò: “Molti fuggono, tutti hanno paura, tu non sei né l’uno né l’altro – splendido, magnifico! Perché cosa c’è di più sciocco che temere ciò che non si può evitare con qualsiasi strategia, e che si aggrava con la paura? Che cosa c’è di più inutile che fuggire da ciò che vi troverà sempre, ovunque fuggirete?” Tuttavia, egli desiderava la compagnia del suo amico nell'”aria salubre” di Arquà, ma senza promettere che sarebbe rimasta tale. Facendo eco alla concezione predominante della peste come malattia diffusa dalla corruzione degli elementi che producevano miasmi di malattia, Petrarca osservava che l’aria era “un elemento infido e instabile”. Petrarca morì nel luglio 1374, ma non di peste, avendo finalmente ceduto a vari disturbi che lo tormentarono negli ultimi anni. Nel testamento lasciò 50 fiorini d’oro all’amico medico Dondi per l’acquisto di “un piccolo anello per le dita da portare in mia memoria”, e 50 fiorini a Boccaccio “per un cappotto invernale per i suoi studi e il suo lavoro di studi notturni”. Boccaccio sarebbe sopravvissuto all’amico per poco più di un anno, passando a miglior vita nel dicembre 1375, probabilmente per insufficienza cardiaca ed epatica.
Gli scritti del Petrarca – sia nella forma che nel contenuto – avrebbero continuato a influenzare molto la letteratura, la storia e la filosofia italiana del XV e XVI secolo, e il Rinascimento in generale (alcuni lo hanno descritto come il “padre del Rinascimento” per aver espresso in modo così eloquente il motivo per cui l’antichità era importante per i suoi tempi). Oggi, nel bel mezzo di una pandemia, il suo impegno intorno agli effetti della peste risuona più acutamente, come può essere accaduto anche in altri periodi di epidemia a partire dal XIV secolo, quando i lettori hanno riscoperto le lettere, i dialoghi e la poesia di Petrarca. Rivisitare il Petrarca in questi mesi mi ha fatto pensare a come ricorderemo il 2020, un anno in cui la malattia collega ancora una volta molte parti del mondo. Ciò che succede alla nostra famiglia e i nostri amici rende la pandemia stranamente personale, ma allo stesso tempo siamo anche testimoni dello scenario più generale che sta modellando il mondo intero. Chi scriverà di questo periodo? L’Italia del Trecento è stata la prima società a documentare in modo dettagliato l’esperienza di una malattia che ha trasformato il mondo. Per contro, la descrizione della peste di Atene del 430 a.C. fatta da Tucidide è un unico e agghiacciante passaggio. Il Petrarca ci permette di vedere non solo cosa, ma anche come si pensava alla malattia. Il poeta riconosceva con intelligenza l’importanza di queste conversazioni pubbliche, e attraverso la sua dedizione nel registrare le sue riflessioni e a suscitarne negli altri, ha lasciato un ricco registro storico di cui possiamo beneficiare ancora oggi. Ecco perché mi chiedo quale sia la natura del ricordo che lasceremo di questo tempo. I nostri archivi, anche se saranno senza dubbio molto estesi, difficilmente riusciranno a catturare il modo in cui interagiamo e comunichiamo tra di noi in privato, ad esempio su Zoom, come hanno fattole lettere di Petrarca.
Alcune cose, naturalmente, le facciamo meglio. In generale, resistiamo alle malattie meglio di quanto facesse la gente ai tempi di Petrarca – il risultato diretto di una migliore alimentazione, migliori condizioni di vita sanitarie, igiene moderna e innovazione medica. Tuttavia, l’esperienza non uniforme del Covid19 ha messo in luce vulnerabilità persistenti che ignoriamo a nostro rischio e pericolo. La crudeltà della malattia è stata quella di colpire in modo particolarmente duro certi luoghi, certe famiglie, particolari gruppi di amici e comunità, e la professione medica che si prende cura di loro. Dobbiamo imparare a gestire questo tipo di perdita improvvisa. Dobbiamo fare i conti con il suo impatto su tutti noi. E probabilmente dovremmo essere preparati a qualcosa di più. Petrarca potrebbe osservare che l’esperienza premoderna della malattia non è mai del tutto scomparsa. Tante persone che Petrarca conosceva morirono in ondate successive di peste. La consapevolezza della mortalità umana era radicata nella sua coscienza in un modo oggi sconosciuto alla maggior parte di noi – almeno per quelli che hanno il privilegio di godere di una relativa salute e prosperità, e di una vita libera dalla violenza, il che, naturalmente, non è vero per tutti. Petrarca usò il suo notevole talento letterario per cogliere l’essenza di questa esperienza collettiva. La sua comprensione del valore dell’amore e dell’amicizia si intensificò a causa della peste e questi sentimenti diventarono più ricchi e profondi proprio perché tutto era messo in pericolo dalla malattia. I morti non sono scomparsi finché lui li ha tenuti in vita. In modo molto più personale e coinvolgente del suo amico Boccaccio, ha trasformato le perdite che la peste ha inflitto indiscriminatamente ad amici e familiari in opere d’arte che ispirano ancora oggi. Se avesse vissuto la crisi sanitaria dovuta all’Aids, Petrarca avrebbe capito perché quella generazione ha risposto facendo dell’arte, del cinema, della poesia e dei romanzi l’espressione del proprio dolore e della propria rabbia, facendo sì che i morti non fossero dimenticati.
C’è una certa resistenza morale nel suo messaggio che varrà la pena ricordare quando la l’ondata di Covid 19 si placherà. Petrarca non ha mai offerto una sola volta rassicurazioni sul fatto che le cose sarebbero migliorate. Piuttosto, ha risposto in modo creativo e ponderato alle sfide inaspettate, supponendo che non sarebbero finite né rapidamente né facilmente; peraltro la peste rimase sempre latente ed ebbe frequenti riprese, come risulta dalle evidenze storiche, fino a quella famosa del 1600, che venne racconata dal Manzoni.. Le sue parole, che riecheggiano in un abisso di oltre seicento anni, continuano a cercare un pubblico. In mezzo alle nostre ansie su ciò che il futuro potrebbe riservare, la sua è una voce dal passato, che parla ai posteri, che ci sfida ad essere creativi nella nostra risposta a un periodo di pandemia."""

 

Paula Findlen è professoressa di storia italiana all'Università di Stanford e Diretrice del Suppes Center for History and Philosiphy of Science and Technology.

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Trionfo della Morte, 1446 circa Palazzo Abatellis, Palermo.

LA CRISI DEL XIV SECOLO

La crisi del XIV secolo o del basso medioevo fu un fenomeno di ampia portata nella storia europea, che durò per vari decenni, con una ripresa solo a partire dalla seconda metà. Dopo tre secoli di grande sviluppo e prosperità nel continente europeo, il Trecento fu un secolo di rottura, con l'interruzione di fenomeni in crescita come lo sviluppo demografico, l'ampliamento e la creazione di nuove città, lo straordinario aumento dei traffici in quantità e in qualità. Oggi si inizia a considerare che il regresso possa essere stato causato innanzitutto da una variazione del clima, con la fine del cosiddetto periodo caldo medioevale, che aveva permesso lo scioglimento dei ghiacci (si pensi alla navigazione dei Vichinghi e alla colonizzazione della Groenlandia), la coltivazione della vite fin sopra Londra, abbondanti raccolti facilitati dalle piogge scarse e regolari e le tiepide primavere. La crisi del Trecento si manifestò innanzitutto con la fame, prima ancora che con la tristemente celebre ondata di peste. Molti storici hanno iniziato a supporre un eccessivo aumento della popolazione rispetto alle risorse producibili: nei secoli precedenti l'aumento delle derrate prodotte si era avuto grazie alla coltivazione di nuovi terreni, che verso la fine del Duecento erano giunti alla saturazione. Ne è una prova la presenza di insediamenti anche in zone disagiate (montagne, zone paludose, ecc.) dove si produceva con grosse difficoltà, ma anche quel contributo era necessario (tutti insediamenti che vennero poi abbandonati nel corso del secolo con la diminuzione demografica dando origine al fenomeno dei villaggi abbandonati). Il clima più freddo e più umido peggiorò i raccolti e esponeva la popolazione, soprattutto i bambini, alle malattie da raffreddamento. Si manifestava così, nei ceti subalterni, una fetta di popolazione denutrita, abituata da generazioni a nutrirsi quasi esclusivamente di cereali, che dovette soccombere al primo prolungato rialzo dei prezzi dovuto ai cattivi raccolti degli anni 1315-1317. La "Grande carestia" fu il primo sintomo di una situazione in peggioramento, della quale, naturalmente, i contemporanei non potevano avere consapevolezza. La ricca Europa duecentesca non era stata immune dalle carestie, solo che esse avevano coinvolto alcune zone circoscritte, ai cui bisogni si era potuto provvedere facendo affluire derrate alimentari da altre aree non colpite. Periodi siccitosi, alternati a forti piogge, già tra il 1309 ed il 1315, causarono una grande crisi nella produzione agricola di vaste aree del nord Italia, come Piemonte, Lombardia ed Emilia. Nel 1315-17 la carestia invece si manifestò in maniera disastrosa in quasi tutto il continente e in contemporanea. Si erano infatti susseguite delle condizioni climatiche negative (inverni rigidi e prolungati, estati eccessivamente piovose, alluvioni e grandinate), danneggiando ripetutamente i raccolti. I prezzi dei cereali aumentarono vorticosamente, provocando la morte per denutrizione di molte persone e di parecchio bestiame. È stato calcolato che nella città di Ypres, tra il maggio e il novembre 1316, morirono quasi tremila persone su una popolazione di 20-25.000 unità. Nelle città la crisi si manifestò con il ristagno della produzione e dello smercio di alcuni prodotti (soprattutto tessili), e con uno stallo dei rapporti tra moneta aurea e d'argento, che aveva visto una minor richiesta dell'oro, segno della cattiva salute dei traffici internazionali. Nel 1183 il Doge di Venezia, Sebastiano Ziani costringe Federico Barbarossa con la Pace di Costanza a rinunciare alla Sovranità monetaria in Italia fino a costringerlo a ritirare le coniazioni imperiali e concedendo alle città il diritto di battere la propria moneta. Venezia riesce ad avere il monopolio della moneta sostituendo la propria a quella bizantina ed alle altre monete italiane. Il Ducato Veneziano d'oro diventa successivamente la moneta dominante nel grande commercio assieme al fiorino. Venezia aveva di fatto imposto la moneta d'oro dove in cambio riceveva l'argento che trasportava in quantità enormi verso oriente, in cambio ricevendo oro arbitraggiando sulla differenza dei prezzi. Questo provocò problemi alle bilance dei pagamenti dell'Inghilterra e delle Fiandre. Attorno al 1325- 1345 il prezzo dell'oro crolla mentre sale quello dell'argento. Venezia ne ha in grandi quantità a differenza di Edoardo III d'Inghilterra. L'insolvenza di re Edoardo III d'Inghilterra, sconfitto nella guerra dei cent'anni fa fallire diversi prestatori di moneta tra cui i Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli nel 1342-1346.
La peste nera
Il vero e proprio tracollo europeo si ebbe con l'arrivo di una durissima ondata di pestilenza, pare proveniente dal kazakistan (dove c'era stata una grave pandemia nel 1333), che nel 1347 arrivò in Europa tramite le rotte commerciali, in particolare, pare, tramite le navi genovesi che facevano la spola tra Mar Nero e Mediterraneo per il commercio del grano. La pandemia si diffuse nelle zone portuali, arrivando a Messina e poi nelle città sul Tirreno, per poi spargersi ovunque. L'epidemia era arrivata in Italia e nel Mediterraneo occidentale nell'autunno del 1347 per poi "congelarsi" durante i mesi invernali. Da marzo a maggio la diffusione del contagio divenne esplosiva, con le città che assistevano al progredire verso di esse del contagio terrorizzate di scoprire da un momento all'altro i segni della comparsa del male. Per tre lunghi anni la pandemia falciò il continente, fino all'estate del 1350 compresa. Le cause dirette della pestilenza furono investigate solo nel XIX secolo, individuando almeno tre tipi di infezioni (polmonare, setticemia e ghiandolare o "bubbonica") che forse infierirono contemporaneamente. Quella bubbonica in particolare dava segni evidenti (i "bubboni") e si trasmetteva tramite i parassiti veicolati dai ratti all'uomo. L'epidemia fu particolarmente violenta per la debolezza di larghe fette di popolazione denutrite e con il sistema immunitario depresso, e per le precarie condizioni igieniche di molti centri urbani sovraffollati. La comparsa dei sintomi (bubboni nella zona ascellare e inguinale, macchie nere, fino all'espettorazione di sangue), gettavano la popolazione nel terrore quali segni di sicura morte. Gli studi parlano di una mortalità media del 25% della popolazione, con picchi (in Germania, in Francia e in Italia), del 30-35% e oltre.
La pandemia terminò la fase acuta tra il 1350 e il 1351, permanendo però allo stato endemico e ricomparendo in successive ondate fino alla successiva del 1630, raccontata dal Manzoni nei Promessi sposi. Giova ricordare che nel citato romanzo gli untori, cui spettava il compito di trasportare i morti da peste e che erano ritenuti responsabili dei contagi, in realtà, erano coloro che avevano contratto la malattia, ne erano guariti ed erano pertanto immunizzati; anche oggi l'opinione pubblòica ha individuati i presunti "untori del Covidi: " i non vaccinati.
La popolazione europea non si riprese dal tracollo fino almeno al Settecento. Tra le conseguenze vi furono lo spopolamento delle aree impervie, con i contadini migrati a riempire gli spazi vuoti nelle aree più fertili in pianura e in collina, e la crisi dei piccoli proprietari terrieri, che vendendo i loro terreni favorirono la concentrazione delle proprietà in un minor numero di mani. I ceti dirigenti, in alcune zone, si allontanarono dal controllo diretto della terra, preferendo affidarla in affitto o secondo altri contratti (come la mezzadria in Toscana) e vivendo di rendita. Le condizioni di vita del ceto rurale peggiorarono comunque notevolmente e si andò formando una specie di "proletariato" rurale.
Conseguenze devozionali
La disordinata religiosità che fu animata dalla sensazione di terrore e di disorientamento a fronte dell'inspiegabile susseguirsi di calamità e sciagure (carestie, epidemie, guerre, l'avanzata dei Turchi o dei Tartari), fu permeata da elementi apocalittici e irrazionali, che credevano in un'azione diabolica congiunta e particolarmente efficace. La fine del mondo e la venuta dell'anticristo sembravano più vicine che mai e si cercarono dei nemici da combattere, che erano, oltre ai cattivi cristiani, gli ebrei e le streghe, contro le quali si scatenò una vera e propria caccia. Della sensibilità religiosa imbevuta di paura approfittarono i predicatori popolari, che fecero incrementare le donazioni alla Chiesa e l'acquisto di indulgenze. La paura per la morte, visibile nei frequenti dipinti di trionfi della morte, danze macabre e incontro dei tre vivi e dei tre morti, era un sentimento nuovo ed era drammatizzata dal confronto con i prosperi secoli immediatamente precedenti. Proliferavano gruppi e confraternite di penitenti, più o meno eterodosse, mentre in Italia e in Fiandra nacque la devotio moderna, con rappresentanti come Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Enrico Suso e Tommaso da Kempis. Essa promuoveva un'adesione religiosa meno formale e più legata ad aspetti intimi e personali, intesa come un valore essenzialmente umano. L'opera più importante di questa corrente fu l'Imitazione di Cristo, tra i più celebri trattati di meditazione cristiana di tutti i tempi.
Le rivolte
Alle carestie, le epidemie, la riduzione degli spazi a coltura cerealicola in favore di coltivazioni più redditizie, le vessazioni del ceto fondiario, vanno aggiunte le guerre che erano frequenti in tutta Europa e che si tramutavano talvolta in razzie, saccheggi e assedi, con una destabilizzazione a lungo termine della società. L'aggravarsi delle condizioni di vita dei ceti subalterni nelle campagne produsse inizialmente un flusso di persone verso le città, dove erano almeno presenti alcune istituzioni caritatevoli che assicuravano loro un minimo di sostentamento giornaliero. Ciò causò un sovrappiù di manodopera che minacciò i ceti subalterni cittadini. Il malessere verso una situazione divenuta ormai insostenibile fu all'origine di rivolte un po' in tutta Europa, sia nelle campagne che nelle città, a partire dai ceti più umili che talvolta riuscivano a coinvolgere anche frange più agiate, come i piccoli artigiani o i produttori subalterni. In Fiandra si erano registrate rivolte già nel primo trentennio del Trecento, mentre le campagne francesi vennero battute tra 1315 e 1360 dalle folle dei pastoureaux ("pastorelli") e, tra il 1356 e il 1358, dalla jacquerie, dove i contadini inferociti misero al rogo parecchi castelli ed aggravarono la situazione già difficile durante la guerra dei cent'anni. Nel 1356 dilagò a Parigi una rivolta capeggiata dal "prevosto" dei mercanti Étienne Marcel. Tra il 1351 e il 1378 si ebbero le rivolte dei Ciompi a Perugia, a Siena e a Firenze. In Inghilterra si ebbe una dura rivolta cristiano-popolare nel 1381, capeggiata da Wat Tyler e John Ball, che si ribellarono al duro regime fiscale imposto dal re a causa della lunga guerra contro la Francia.
Le compagnie di ventura
Lo spopolamento ebbe come conseguenza anche l'impossibilità di tenere milizie cittadine e cavallerie feudali permanenti, rendendo necessario ricorrere a guerrieri di mestiere, che fossero ben addestrate e mobili. Nacquero così le compagnie di ventura, istituzioni militari composte da armati che di mestiere si prestavano a chi ne facesse richiesta in cambio di soldi. Erano delle vere e proprie "imprese" commerciali, che si offrivano ai vari governi come mercenari. Il contratto che essi stipulavano si chiamava "condotta", da cui il termine condottiero. Inizialmente le compagnie di ventura, che tanto peso ebbero nelle vicende italiane, erano straniere (Francesco Petrarca le chiamò "pellegrine spade"), come la Grande Compagnia di Guarnieri d'Urslingen, la Compagnia Bianca di Giovanni Acuto. Presto si formarono anche compagnie italiane, come la Compagnia del Cappelletto creata da Niccolò da Montefeltro, la Compagnia di San Giorgio di Alberico da Barbiano, nella quale si formarono i condottieri Braccio da Montone e Muzio Attendolo Sforza, i quali furono all'origine delle due principali tattiche militari del tempo: quella braccesca, basata sull'assalto impetuoso, e quella sforzesca, che privilegiava la tattica e le manovre. Le compagnie di ventura vendevano un servizio, quello militare, e non avevano nessun interesse a distruggersi a vicenda, né erano particolarmente interessate alla causa per la quale lottavano. Per questo vennero spesso accusate di non combattere sul serio e di essere inclini al tradimento favorendo chi offriva loro più soldi. Ma il più grave difetto di queste compagnie, che si rivelò solo nei secoli successivi, era quello di trarre profitto dalla guerra, quindi di impedire l'instaurarsi di una qualsiasi pace duratura: in tempi tranquilli esse si davano al saccheggio costringendo i governi a pagare loro una sorta di tassa per impedire che si dessero a eccessi. Alcuni condottieri riuscirono a fare una politica personale che nel migliore dei modi fruttò loro una signoria e, magari più tardi, anche un principato.
La ripresa
La crisi generale del Trecento riuscì ad innescare anche un riassetto economico e produttivo che gradualmente risalirono la china verso una nuova prosperità. Per esempio le compagnie commerciali divennero, dopo i fallimenti a catena del 1342-1346, più flessibili, in modo che l'eventuale fallimento di una filiale non si ripercuotesse sull'intera compagnia. Inoltre venne meno il monopolio tessile delle Fiandre in favore di altre zone, come l'Olanda, l'Inghilterra e l'Italia. Si svilupparono inoltre le attività manifatturiere nelle campagne, dove la manodopera era più docile di quella cittadina, come quelle tessili, metallurgiche e cartarie. Si diffuse, oltre alla lana, l'uso di fibre vegetali come la canapa e il lino, grazie anche alla nuova moda di vestire camicie e sottovesti. Aumentò la domanda della seta e del vetro. Nonostante i problemi quindi, sembrò che dopo la metà del Trecento la popolazione europea tornasse a consumare e lo facesse in maniera più diversificata. Aumentò il volume dei commerci soprattutto grazie al movimento delle merci "povere" (vini, alimenti, stoffe), che resero necessarie navi più ampie e capienti. Vennero sviluppati strumenti per il commercio come la partita doppia e la lettera di cambio. Si fece strada un nuovo ceto imprenditoriale e capitalistico, che si imparentò con famiglie di antica nobiltà feudale, rispolverando tradizioni nobiliari in grande pompa. Con questi dati alcuni storici hanno modificato la valutazione complessiva dell'età fra Tre e Quattrocento, sostenendo che il brusco calo demografico riequilibrò il rapporto tra risorse e individui, portando un miglioramento complessivo. A sostegno di questa ipotesi ci sarebbe anche il grande sviluppo artistico dell'Umanesimo e del Rinascimento. Altri, come Roberto Sabatino Lopez, hanno sostenuto invece che l'impossibilità di reinvestire i capitali durante un'epoca di depressione portò a "tesaurizzarli" nelle opere d'arte, finanziando cicli pittorici e opere monumentali.


Eugenio Caruso - 11 - 01 - 2022

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