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Omero, Odissea, Canto II. Telemaco si ribella ai Proci.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli [p. v]tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte (Vedi sotto)

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO CANTO II
Convocazione del Parlamento di Itaca. Telemaco si richiama de’ Proci al popolo, e agli ottimati. Antinoo, capo di quelli, e il più temerario, ritorce l’accusa contra Penelope, e vuole, ch’ei la constringa di scegliersi un nuovo marito tra essi, mercecchè il ritorno d’Ulisse non è più da sperarsi. Ma il figlio gli risponde, non dover far ciò, nè potere. Giove manda due aquile; donde il vecchio Aliterse pronostica vicino il ritorno d’Ulisse; e n’è ingiuriato da Eurimaco, l’altro Capo de’ Proci, ma men ribaldo. Dimanda, che Telemaco fa, d’una nave per andare a Pilo, e a Sparta. Mentore si studia di eccitare il popolo contra i Proci; e Leocrito il minaccia, e scioglie il Parlamento. Telemaco, ritiratosi in riva del mare, priega Minerva, che gli appare sotto la figura di Mentore, e l’assistenza sua gli promette. Egli rientra nel palagio, e richiede la nutrice Euricléa del viatico. Dolore di questa per la partenza. Giunta la notte, il giovinetto imbarcasi con Minerva, che, pur sotto la figura di Mentore, l’accompagna.


telemaco 5

Penelope abbraccia Telemaco

 

TESTO CANTO II

Come la figlia del mattin, la bella
Dalle dita di rose Aurora surse,
Surse di letto anche il figliuol d’Ulisse,
I suoi panni vestì, sospese il brando
Per lo pendaglio all’omero, i leggiadri
Calzari strinse sotto i molli piedi,
E della stanza uscì rapidamente
Símile ad un degl’Immortali in volto.
Tosto agli araldi dall’arguta voce
Chiamare impose i capelluti Achivi,
E questi, al gridar loro accorsi in fretta,
Si ragunaro, s’affollaro. Ei pure
Al parlamento s’avviò: tra mano
Stavagli un’asta di polito rame,
E due bianchi il seguian cani fedeli.
Stupia ciascun, mentr’ei mutava il passo,
E il paterno sedil, che dai vecchioni
Gli fu ceduto, ad occupar sen gïa:
Tanta in quel punto, e sì divina grazia,
Sparse d’intorno a lui Pallade amica.
     Chi ragionò primiero? Egizio illustre,
Che il dorso avea per l’età grande in arco,
E di vario saver ricca la mente.
Sulle navi d’Ulisse alla feconda
Di nobili destrier ventosa Troja
Andò il più caro de’ figliuoli, Antífo;
E a lui diè morte nel cavato speco
Il Ciclope crudel, che la cruenta
S’imbandì del suo corpo ultima cena.
Tre figli al vecchio rimanean: l’un, detto
Eurinomo, co’ Proci erasi unito,
E alla coltura de’ paterni campi
Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,
Che più non ha, sempre s’affisa il padre,
Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte
Parole allor, pur lagrimando, sciolse:
O Itacesi, uditemi. Nessuna,
Dacchè Ulisse levò nel mar le vele,
Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?
Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse
Di estrania gente, che s’appressi armata?
O d’altro, da cui penda il ben comune,
Ci viene a favellar? Giusto, ed umano
Costui, penso, esser dee. Che che s’aggiri
Per la sua mente, il favorisca Giove!
     Telemaco gioía di tali accenti,
Quasi d’ottimo augurio, e sorto in piedi,
Chè il pungea d’arringar giovane brama,
Trasse nel mezzo, dalla man del saggio
Tra gli araldi Pisenore lo scettro
Prese, e ad Egizio indi rivolto, O, disse,
Buon vecchio, non è assai quinci lontano
L’uom, che il popol raccolse: a te dinanzi,
Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.
Non di gente, che a noi s’appressi armata,
Nè d’altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d’un male, anzi di duo,
Che aspramente m’investono ad un’ora.
Il mio padre io perdei? Che dico il mio?
Popol d’Itaca, il nostro: a tutti padre
Più assai, che Re, si dimostrava Ulisse.
E a questa piaga ohimè! l’altra s’arroge,
Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta
Spiantasi dal suo fondo a me la casa.
Nojoso assedio alla ritrosa madre
Poser de’ primi tra gli Achivi i figli.
Perchè di farsi a Icario, e di proporgli
Trepidan tanto, che la figlia ei doti,
E a consorte la dia cui più vuol bene?
L’intero dì nel mio palagio in vece
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo, e dell’armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne vôtando,
Vivon di me: nè v’ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d’infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, nè uguale all’opra
In me si trova esperïenza, e forza.
Oh così le avess’io, com’io le bramo!
Poscia che il lor peccar varca ogni segno,
E, che più m’ange, con infamia io pero.
Deh s’accenda in voi pur nobil dispetto:
Temete il biasmo delle genti intorno,
Degl’immortali Dei, non forse cada
Delle colpe de’ Proci in voi la pena,
L’ira temete. Per l’Olimpio Giove,
Per Temi, che i consigli assembra, e scioglie,
Costoro, amici, d’aïzzarmi contro
Restate, e me lasciate a quello in preda
Cordoglio sol, che il genitor mi reca.
Se non che forse Ulisse alcuni offese
De’ prodi Achivi, ed or s’intende i torti
Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi
Stendete ai beni la rapace destra:
Meglio fora per me, quando consunti
Suppellettil da voi fossemi, e censo,
Da voi, dond’io sperar potrei restauro.
Vi assalirei per la città con blande
Parole ad uno ad un, nè cesserei,
Che tutto in poter mio pria non tornasse,
E di nuovo s’ergesse in piè il mio stato.
Ma or dolori entro del petto, a cui
Non so rimedio alcun, voi mi versate.
Detto così, gittò lo scettro a terra,
Ruppe in lagrime d’ira, e viva corse
Di core in cor nel popolo pietade.
     Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d’una risposta,
Tutti stavano i Proci. Antinoo solo
Sorse, e arringò: Telemaco, a cui bolle
Nel petto rabbia, che il tuo dir sublima,
Quai parole parlasti ad onta nostra?
Improntar sovra noi macchia sì nera?
Non i migliori degli Achei: la cara
Tua madre, e l’arti, ond’è maestra, incolpa.
Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,
Che degli amanti suoi prendesi gioco,
Tutti di speme, e d’impromesse allatta,
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Questo ancor non pensò novello inganno?
Tela sottile, tela grande, immensa,
A oprar si mise, e a sè chiamonne, e disse:
Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Poichè già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch’io questo possa
Lúgubre ammanto per l’eroe Laerte,
Acciò le fila inutili io non perda,
Prima fornir, che l’inclemente Parca
Di lunghi sonni apportatrice il colga.
Non vo’, che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d’arredi vivo,
Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto.
Con simil fola leggermente vinse
Gli animi nostri generosi. Intanto,
Finchè il giorno splendea, tessea la tela
Superba; e poi la distessea la notte
Al complice chiaror di mute faci.
Così un triennio la sua frode ascose,
E deluse gli Achei. Ma come il quarto
Con le volubili ore anno sorvenne,
Noi, da un’ancella non ignara instrutti,
Penelope trovammo, che la bella
Disciogliea tela ingannatrice: quindi
Compierla dovè al fin, benchè a dispetto.
Or, perchè a te sia noto, e ai Greci, il tutto,
Ecco risposta, che ti fanno i Proci.
Accommiata la madre, e quel di loro,
Che non dispiace a Icario, e a lei talenta,
A disposar costringila. Ma dove,
Le doti usando, onde la ornò Minerva,
Che man formolle così dotta, e ingegno
Tanto sagace, e accorgimenti dielle,
Quali non s’udîr mai nè dell’antiche
Di Grecia donne dalle belle trecce,
Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti
Di sì fini pensier mai non fioriro:
Dove credesse lungo tempo a bada
Tenerci ancor, la sua prudenza usata
Qui l’abbandoneria. Noi tanto il figlio
Consumerem, quanto la madre in core
Serberà questo suo, che un Dio le infuse,
Strano proposto. Eterna gloria forse
A sè procaccerà, ma gran difetto
Di vettovaglia a te; mentre noi certo
Da te pensiam non istaccarci, s’ella
Quel, che le aggrada più ,pria non impalma.
     Io, rispose Telemaco, di casa
Colei sbandir, donde la vita io tengo?
Dal cui lattante sen pendei bambino?
Grave in oltra mi fora, ov’io la madre
Dipartissi da me, sì ricca dote
Tornare a Icario. Cruccieriasi un giorno
L’amato genitor, che forse vive,
Benchè lontano, e punirianmi i Numi,
Perch’ella, slontanandosi, le odiate
Imploreria vendicatrici Erinni.
Che le genti dirian? No, tal congedo
Non sarà mai, ch’io liberi dal labbro.
L’avete voi per mal? Da me sgombrate;
Gozzovigliate altrove; alternamente
L’un l’altro inviti, e il suo retaggio scemi.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguite. Io dell’Olimpo
Gli abitatori invocherò, nè senza
Speme, che il Saturníde a tai misfatti
La debita mercè renda, e che inulto
Scorra nel mio palagio il vostro sangue.
     Sì favellò Telemaco, e dall’alto
Del monte due volanti aquile a lui
Mandò l’eterno onniveggente Giove.
Tra lor vicine, distendendo i vanni,
Fendean la vana regïon de’ venti.
Nè prima fur dell’assemblea sul mezzo,
Che si volsero in giro, e, l’ali folte
Starnazzando, e mirando a tutti in faccia,
Morte auguraro: al fin, poichè a vicenda
Con l’unghie il capo insanguinato e il collo
S’ebber, volaro a destra, e dileguârsi
Della città su per gli eccelsi tetti.
Maravigliò ciascuno; e ruminava
Fra sè, quai mali promettesse il fato.
     Quivi era un uom di molto tempo, e senno,
Di Mastore figliuol, detto Aliterse,
Che nell’arte di trar dagli osservati
Volanti augelli le future cose,
Tutti vinceva i più canuti crini.
Itacesi, ascoltatemi, e più ancora
M’ascoltin, disse, i Proci, a cui davante
S’apre un gran precipizio. Ulisse lungi
Da’ cari suoi non rimarrà molt’anni.
Che parlo? Ei spunta, e non ai soli Proci
Strage prepara, e morte: altri, e non pochi
Che abitiam la serena Itaca, troppo
Ci accorgerem di lui. Consultiam dunque,
Come gli amanti, che pel meglio loro
Cessar dovrian per sè, noi raffreniamo.
Uom vi ragiona de’ presagi esperto
Per lunghissima prova. Ecco maturo
Ciò, ch’io vaticinai, quando per Troja
Scioglieano i Greci, e Ulisse anch’ei sarpava.
Molti, io gridai, patirà duoli, e tutti
Perderà i suoi: ma nel ventesim’anno
Solo, e ignoto a ciascun, farà ritorno.
Già si compie l’oracolo: tremate.
     Folle vecchiardo, in tua magion ricovra,
Eurimaco di Polibo rispose,
E oracoleggia ai figli tuoi, non forse
Gl’incolga un dì qualche infortunio. Assai
Più là di te ne’ vaticini io veggio.
Volan, rivolan mille augelli e mille
Per l’aere immenso, e non dibatton tutti
Sotto i raggi del sol penne fatali.
Quinci lontano perì Ulisse. Oh fossi
Tu perito con lui! Chè non t’udremmo
Profetare in tal guisa, e il furor cieco
Secondar di Telemaco, da cui
Qualche don, credo, alle tue porte attendi.
Ma oracol più verace odi. Se quanto
D’esperïenza il bianco pel t’addusse,
A sedurre il fanciullo, e a più infiammarlo
L’adopri, tu gli nuoci, a’ tuoi disegni
Non giovi, e noi tale imporremti multa,
Che morte fíati il sostenerla. Io poi
Tal consiglio al fanciul porgo: la madre
Rimandi a Icario, che i sponsali, e ricca,
Qual dee seguir una diletta figlia,
Dote apparecchierà. Prima io non penso,
Che da questa di nozze ardua tenzone
I figli degli Achei vorran giù torsi.
Di nessuno temiam, non, benchè tanto
Loquace, di Telemaco; nè punto
Del vaticinio ci curiam, che indarno
T’uscì, vecchio, di bocca, e che fruttarti
Maggiore odio sol può. Fine i conviti
Non avran dunque, e non sarà mai calma,
Finchè d’oggi in doman costei ci mandi.
Noi ciascun dì contenderem per lei,
Nè ad altre donne andrem, quali ha l’Acaja
Degne di noi, perchè cagion primiera
Dell’illustre contesa è la virtude.
     Eurimaco, e voi tutti, il giovinetto
Soggiunse allor, competitori alteri,
Non più: già il tutto sanno uomini, e Dei.
Or non vi chiedo, che veloce nave
Con dieci e dieci poderosi remi,
Che sul mar mi trasporti. All’arenosa
Pilo, ed a Sparta valicare io bramo,
Del padre assente per ritrar, s’io mai
Trovar potessi chi men parli chiaro,
O quella udir voce fortuita, in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.
Vivrà? ritornerà? Benchè dolente,
Sosterrò un anno. Ma se morto, e fatto
Cenere il risapessi, al patrio nido
Riederò senza indugio; e qui un sepolcro
Gli alzerò, renderogli i più solenni,
Qual si convien, fúnebri onori, e un altro
Sposo da me riceverà la madre.

mentore

Telemaco e Mentore


     Tacque, e s’assise; e Mentore levossi,
Del padre il buon compagno, a cui su tutto
Vegghiar, guardare il tutto, ed i comandi
Seguitar di Laerte, Ulisse ingiunse,
Quando per l’alto sal mise la nave.
O Itacesi, tal parlava il saggio
Vecchio, alle voci mie l’orecchio date.
Nè giusto più, nè liberal, nè mite,
Ma iniquo, ma inflessibile, ma crudo
D’ora innanzi un Re sia, poichè tra gente,
Su cui stendea scettro paterno Ulisse,
Più non s’incontra un sol, cui viva in core.
Che arroganti rivali ad opre ingiuste
Trascorran ciechi della mente, io taccio.
Svelgono, è ver, sin dalle sue radici
La casa di quel Grande, a cui disdetto
Sperano il ritornar, ma in rischio almeno
Pongon la vita. Ben con voi m’adiro,
Con voi, che muti, ed infingardi, e vili
Vi state lì, nè d’un sol motto il vostro
Signore inclito aitate. Ohimè! dai pochi
Restano i molti soverchiati e vinti.
     Mentor, non so qual più, se audace, o stolto,
Leocrito d’Evenore rispose,
Che mai dicestu? Contra noi tu ardisci
Il popol eccitar? Non lieve impresa
Una gente assalir, che per la mensa
Brandisca l’armi, e i piacer suoi difenda.
Se lo stesso Re d’Itaca tornato
Scacciar tentasse i banchettanti Proci,
Scarso del suo ritorno avria diletto
Questa sua donna, che il sospira tanto,
E morire il vedria morte crudele,
Benchè tra molti ei combattesse: quindi
Del tuo parlar la vanità si scorge.
Ma, su via, dividetevi, e alle vostre
Faccende usate vi rendete tutti.
Mentore, ed Aliterse, che fedeli
A Telemaco son paterni amici,
Gli metteran questo viaggio in punto:
Bench’ei del padre le novelle, in vece
Di cercarle sul mar, senza fatica
Le aspetterà nel suo palagio, io credo.
     Disse, e ruppe il concilio. I cittadini
Scioglieansi l’un dall’altro, e alle lor case
Qua e là s’avviavano: d’Ulisse
Si ritiraro alla magione i Proci.
     Ma dalla turba solitario e scevro
Telemaco rivolse al mare i passi,
Le mani asterse nel canuto mare,
E supplicò a Minerva: O diva amica,
Che degnasti a me jer scender dal cielo,
E fender l’onde m’imponesti, un padre
Per rintracciar, che non ritorna mai,
Il tuo solo favor puommi davante
Gl’inciampi tor, che m’opporranno i Greci,
E più, che altr’uomo in Itaca, i malvagi
Proci, la cui superbia ognor più monta.
     Così pregava; e se gli pose allato
Con la faccia di Mentore, e la voce,
Palla, e a nome chiamollo, e feo tai detti:
Telemaco, nè ardir giammai, nè senno
Ti verrà men, se la virtù col sangue
Trasfuse in te veracemente Ulisse,
Che quanto impreso avea, quanto avea detto,
Compiea mai sempre. Il tuo vïaggio a vôto
Non andrà, qual temer, dove tu figlio
Non gli fossi, io dovrei. Vero è, che spesso
Dal padre il figlio non ritrae: rimane
Spesso da lui lungo intervallo indietro,
E raro è assai, che aggiungalo, od il passi.
Ma senno a te non verrà men, nè ardire,
Ed io vivere Ulisse in te già veggo.
Lieto dunque degli atti il fine spera:
Nè t’anga il vano macchinar de’ Proci,
Che non sentono incauti, e ingiusti al paro,
La nera Parca, che gli assal da tergo,
Ed in un giorno sol tutti gli abbranca.
Io, d’Ulisse il compagno, un tale ajuto
Ti porgerò, che partirai di corto
Su parata da me celere nave,
E con me stesso al fianco in su la poppa.
Orsù, rientra nel palagio, ai Proci
Nuovamente ti mostra, ed apparecchia
Quanto al viaggio si richiede, e il tutto
Riponi: il bianco nelle dense pelli
Gran macinato, ch’è dell’uom la vita,
E nell’urne il licor, che la rallegra.
Compagni a radunarti in fretta io movo,
Che ti seguano allegri. Ha su l’arena
Molte l’ondicerchiata Itaca navi
Novelle, e antiche: ne’ salati flutti
Noi lancerem senza ritardo armata
Qual miglior mi parrà veleggiatrice.
     Così di Giove la celeste figlia:
Nè più, gli accenti della diva uditi,
S’indugiava Telemaco. Al palagio,
Turbato della mente, ire affrettossi,
E trovò i Proci, che a scojar capretti,
E pingui ad abbronzar corpi di verri,
Nel cortile intendeano. Il vide appena,
Che gli fu incontro sogghignando, e il prese
Per mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa:
O molto in arringar, ma forte poco
Nel dominar te stesso, ogni rancore
Scaccia dal petto, e, qual solevi, adopra
Da prode il dente, e i colmi nappi asciuga.
Tutto gli Achei t’allestiran di botto:
Nave, e remigi eletti, acciò tu possa,
Ratto varcando alla divina Pilo,
Correr del padre tuo dietro alla fama.
     E Telemaco allor: Sedermi a mensa
Con voi, superbi, e una tranquilla gioja
Provarvi, a me non lice. Ah non vi basta
Ciò, che de’ miei più prezïosi beni
Nella prima età mia voi mi rapiste?
Ma or ch’io posso dell’altrui saggezza
Giovarmi, e sento con le membra in petto
Cresciutami anco l’alma, io disertarvi
Tenterò pure, o ch’io qui resti, o parta.
Ma parto, e non invan, spero, e su nave
Parto non mia, quando al figliuol d’Ulisse,
Nè ciò sembravi sconcio, un legno manca.
Tal rispose crucciato, e destramente
Dalla man d’Antinóo la sua disvelse.
     Già il convito apprestavano, ed acerbi
Motti scoccavan dalle labbra i Proci.
Certo, dicea di que’ protervi alcuno,
Telemaco un gran danno a noi disegna.
Da Pilo ajuti validi, o da Sparta
Menerà seco, però ch’ei non vive,
Che di sì fatta speme: o al suol fecondo
D’Efira condurrassi, e ritrarranne
Fiero velen, che getterà nell’urne
Con man furtiva; e noi berem la morte.
E un altro ancor de’ pretendenti audaci:
Chi sa, ch’egli non men, sul mar vagando,
Dagli amici lontano un dì non muoja,
Come il suo genitor? Carco più grave
Su le spalle ne avremmo: il suo retaggio
Partirci tutto, ma la casta madre,
E quel di noi, ch’ella scegliesse a sposo,
Nel palagio lasciar sola con solo.
     Telemaco frattanto in quella scese
Di largo giro, e di sublime volta
Paterna sala, ove rai biondi, e rossi
L’oro mandava, e l’ammassato rame;
Ove nitide vesti, e di fragrante
Olio gran copia chiudean l’arche in grembo;
E presso al muro ivano intorno molte
Di vino antico, saporoso, degno
Di presentarsi a un Dio, gravide botti,
Che del ramingo travagliato Ulisse
Il ritorno aspettavano. Munite
D’opportuni serrami eranvi, e doppie
Con lungo studio accomodate imposte;
Ed Euricléa, la vigilante figlia
D’Opi di Pisenorre, il dì e la notte
Questi tesori custodia col senno.
Chiamolla nella sala, e a lei tai voci
Telemaco drizzò: Nutrice, vino,
Su via, m’attigni delicato, e solo
Minor di quel, che a un infelice serbi,
Se mai, scampato dal destin di morte,
Comparisse tra noi. Dodici n’empi
Anfore, e tutte le suggella. Venti
Di macinato gran giuste misure
Versami ancor ne’ fedeli otri, e il tutto
Colloca in un: ma sappilo tu sola.
Come la notte alle superne stanze
La madre inviti, e al solitario letto,
Per tai cose io verrò: chè l’arenosa
Pilo visitar voglio, e la ferace
Sparta, e ad entrambe domandar del padre.
     Diè un grido, scoppiò in lagrime, e dal petto
Euricléa volar feo queste parole:
Donde a te, caro figlio, in mente cadde
Pensiero tal? Tu, l’unico rampollo
Di Penelope, tu, la nostra gioja,
Per tanto Mondo raggirarti? Lunge
Dal suo nido perì l’inclito Ulisse
Fra estranie genti; e perirai tu ancora.
Sciolta la fune non avrai, che i Proci
Ti tenderanno agguati, uccideranti,
E tutte partirannosi tra loro
Le spoglie tue. Deh qui con noi rimani,
Con noi qui siedi, e su i marini campi,
Che fecondi non son che di sventure,
Lascia, che altri a sua posta errando vada.
     Fa cor, Nutrice, ei le risponde tosto:
Senza un Nume non è questo consiglio.
Ma giura, che alla madre, ov’aura altronde
Non le ne giunga prima, e ten richiegga,
Nulla dirai, che non appaja in cielo
La dodicesm’Aurora; onde col pianto
Al suo bel corpo ella non rechi oltraggio.
     L’ottima vecchia il giuramento grande
Giurò de’ Numi; e a lui versò ne’ cavi
Otri, versò nell’anfore capaci,
Le candide farine, e il rosso vino.
Ei, nella sala un’altra volta entrato,
Tra i Proci s’avvolgea: nè in questo mezzo
Stavasi indarno la Tritonia Palla.
Vestite di Telemaco le forme,
Per tutto si mostrava, ed appressava
Tutti, e loro ingiungea, che al mare in riva
Si raccogliesser nottetempo, e il ratto
Legno chiedea di Fronio al figlio illustre,
A Noemòn, cui non chiedealo indarno.
S’ascose il Sole, e in Itaca omai tutte
S’inombravan le vie. Minerva il ratto
Legno nel mar tirò, l’armò di quanto
Soffre d’arnesi un’impalcata nave,
E al porto in bocca l’arrestò. Frequenti
Si raccoglieano i remator forzuti
Sul lido, e inanimavali la Dea
Dallo sguardo azzurrin, che altro disegno
Concepì in mente. La magion d’Ulisse
Ritrova, e sparge su i beenti Proci
Tal di sonno un vapor, che lor si turba
L’intelletto, e confondesi, e di mano
Casca sul desco la sonante coppa.
Sorse, e mosse ciascuno al proprio albergo,
Nè fu più nulla del sedere a mensa:
Tal pondo stava sulle lor palpébre.
Ma l’occhiglauca Dea, ripreso il volto
Di Mentore, e la voce, e richiamato
Fuor del palagio il giovinetto, disse:
Telemaco, ciascun de’ tuoi compagni,
Che d’egregi schinier veston le gambe,
Già siede al remo, e, se tu arrivi, guarda.
     Ciò detto, la via prese, ed il garzone
Seguitavane l’orme. Al mar calati,
Trovâr sul lido i capelluti Achivi,
Cui di tal guisa favellò la sacra
Di Telemaco possa: Amici, in casa
Quanto al cammin bisogna, unito giace.
Trasportarlo è mestieri. Nè la madre
Sa, nè, fuor che una, il mio pensier le ancelle.
     Tacque, e loro entrò innanzi; e quelli dietro
Teneangli. Indi con l’anfore, e con gli otri,
Come d’Ulisse il caro figlio ingiunse,
Tornaro, e il carco nella salda nave
Deposero. Il garzon sopra vi salse
Preceduto da Pallade, che in poppa
S’assise; accanto ei le sedea: la fune
I remiganti sciolsero, e montaro
La negra nave anch’essi, e i banchi empiero.
Tosto la Dea dalle cerulee luci
Chiamò di verso l’Occidente un vento
Destro, gagliardo, che battendo venne
Su pel tremolo mar l’ale sonanti.
Mano, mano agli attrezzi, allor gridava
Telemaco; ov’è l’albero? I compagni
L’udiro, e il grosso, e lungo abete in alto
Drizzaro, e l’impiantaro entro la cava
Base, e di corda l’annodaro al piede:
Poi tiravano in su le bianche vele
Con bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo
Le vele il vento; e forte alla carena
L’azzurro mar romoreggiava intorno,
Mentre la nave sino al fin del corso
Su l’elemento liquido volava.
Legati i remi del naviglio ai fianchi,
Incoronaro di vin maschio l’urne,
E a ciascun degli Dei sempre viventi
Libaro, ma più a te, figlia di Giove,
Che le pupille di cilestro tingi.
Il naviglio correa la notte intera,
E del suo corso al fin giungea con l’Alba.

Ippolito Pindemonte

pindemonte

Ritratto di Ippolito Pindemonte


Ippolito Pindemonte (Verona, 13 novembre 1753 – Verona, 18 novembre 1828) è stato un poeta, letterato e traduttore italiano. Nacque, ultimo di tre figli maschi, da Luigi, appassionato di pittura, musica ed erudizione, e Lodovica Maria (detta Dorotea) Maffei, nipote del noto erudito Scipione Maffei. I Pindemonte del ramo di Sant'Egidio erano una delle famiglie più illustri di Verona e si fregiavano del titolo marchionale sin dal 1654; nel 1782, poco prima delle nozze tra il fratello Giovanni e Vittoria Widmann-Rezzonico, ottennero anche l'iscrizione al patriziato veneziano. Dopo la prematura morte del padre, il 24 settembre 1765 entrò con il fratello nel collegio dei Nobili di Modena, dove insegnavano Lazzaro Spallanzani, Francesco Barbieri, Giuliano Cassiani e Luigi Cerretti. Nello stesso periodo cominciò a cimentarsi nella poesia. Durante la giovinezza viaggiò molto in Italia (Roma, Napoli e la Sicilia). Nel 1776 fece un viaggio in barca a vela in Sicilia, Malta e Grecia, cui alludono i versi 213/4 nel carme Dei sepolcri di Foscolo. Il 2 novembre del 1779, di ritorno, il Pindemonte si fermò in Sicilia e visitò le Catacombe dei Cappuccini di Palermo e ne rimase colpito tanto profondamente dalle mummie lì raccolte da trarne l'ispirazione d'un suo carme, e ricordarle ancora trent'anni dopo nei suoi omonimi Sepocri dedicati al Foscolo in risposta al carme del primo.
Nel 1788 partì per un grand tour in Francia, Germania e Austria. Questo viaggio gli permise di scoprire la profonda frattura tra teoria e prassi dei cosiddetti "despoti illuminati". Il suo intento, tuttavia, era fuggire da Verona e dal clima inquisitorio che lo accusava di appartenere alla massoneria. Non esistono prove della sua appartenenza a tale organizzazione, di cui era membro invece il fratello Giovanni. Nel periodo della Rivoluzione francese si trovava vicino a Parigi con Vittorio Alfieri: pur apprezzando inizialmente gli ideali rivoluzionari, alle violenze del Terrore contrappose sempre il desiderio di pace nell'abbandono alla contemplazione della natura, per cui già l'anno dopo tornò in Italia. Al ritorno dal viaggio scrisse un romanzo autobiografico, Abaritte. Storia verissima, pubblicato nel 1790. Abaritte è Pindemonte stesso, che usa pseudonimi per chiamare persone e luoghi. Condivide poi la condanna dei rivoluzionari pronunciata dallo stesso Alfieri. Subendo l'influenza del poeta inglese Thomas Gray e del poeta svizzero Salomon Gessner, la sua poesia è di stampo neoclassico, con chiari elementi che si avvicinano alla nuova sensibilità romantica, facendone un esponente del preromanticismo. Ottenne un premio dall'Accademia della Crusca, di cui divenne membro. Durante il periodo napoleonico italiano, continua a scrivere e ad animare i salotti letterari, sia nel Regno d'Italia che nella Venezia austriaca. Morì nel 1828, un anno dopo Ugo Foscolo (in esilio a Londra), il poeta che gli dedicò la sua famosa opera Dei sepolcri, ma col quale Pindemonte ebbe un rapporto complicato, misto di freddezze e ammirazione.
Opere
La sua opera più nota è sicuramente la traduzione dell'Odissea, che ebbe grandissimo successo e numerose edizioni e ristampe; trovo, tuttora, molto valida questa truduzione anche se molti si sono cimentati nell'impresa. L'incipit del proemio resta una delle più note traduzioni italiane, ("Musa, quell’uom di moltiforme ingegno / Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra / Gittate d’Iliòn le sacre torri..."), come lo era l'incipit dell'Iliade del Monti; Pindemonte tradusse l'Odissea direttamente dal greco, mentre Monti tradusse l'Iliade da testi in laqtino. Fu poi autore di due raccolte affini per spirito e temi: Poesie campestri (prima edizione del 1788) e le Prose campestri (prima parte del Saggio dei Prose e Poesie campestri (1795)), nelle quali meglio si esprime la poetica del Pindemonte. Pur essendo uno dei più rilevanti esempi del genere georgico-didascalico, ebbe sempre un approccio da letterato, mai da diffusore di cultura agronomica. In Francia conobbe Jean-Jacques Rousseau e altri della sua cerchia (tra cui forse l'architetto paesaggista René-Louis de Girardin) che influenzarono questa concezione filo-rurale. Pindemonte partecipò alla sistemazione dei giardini di Villa Mosconi Bertani ispirando la trasformazione di parte del parco in un giardino all'inglese. Nel 1792 all'Accademia di Scienze e Agricoltura di Padova pubblicò la Dissertazione su i giardini inglesi e sul merito in ciò dell'Italia. Scrisse le Epistole (1805) e i Sermoni poetici (1819); fu anche autore di diverse tragedie, tra cui Arminio (1804), in cui si nota l'influenza della poesia ossianica. Si dedicò alla poesia cimiteriale dopo aver letto l'Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray. Il poemetto I cimiteri, contro l'editto di Saint-Cloud, fu lasciato incompiuto dall'autore alla notizia che il Foscolo, che aveva cambiato idea e avversava anche lui l'editto, stava per dare alle stampe Dei sepolcri (1806, pubblicato nel 1807): questi dedicò il carme proprio al Pindemonte. Nei Cimiteri si vedono influenze ossianiche, pariniane, dantesche, youngiane e altri anglosassoni, e della Bassvilliana di Vincenzo Monti.
Tuttavia, l'anno successivo alla pubblicazione del capolavoro foscoliano, Pindemonte pubblicò un omonimo carme Dei sepolcri (con dedica a Foscolo) composto l'anno prima, dove il tema cimiteriale è trattato su un piano più privatamente affettivo, contrariamente a quanto aveva inteso fare Foscolo con la sua poesia civile. A differenza del Foscolo, nei Sepolcri del Pindemonte viene inoltre rigettata la concezione materialistica ("Vero è ben, o Pindemonte, anche la Speme / Ultima Dea, fugge i sepolcri" secondo l'agnostico Foscolo) in favore della concezione cristiana della resurrezione, come si nota nelle strofe finali dedicati alla defunta contessa Elisa Mosconi, frequentata dal Pindemonte e deceduta nel 1807 (probabilmente amante del poeta, la sua morte lo spinse a comporre l'opera) in cui afferma come Foscolo che l'uomo è fatto sì di atomi, ma che tali atomi torneranno a ricomporre il corpo per opera divina. «Quegli atomi, ond’Elisa era composta, Riuniransi e torneranno Elisa. Chi seppe tesser pria dell’uom la tela Ritesserla saprà: l’eterno Mastro Fece assai più, quando le rozze fila Del suo nobil lavor dal nulla trasse; E allor non fia per circolar di tanti Secoli e tanti indebolita punto, Nè invecchiata la man del Mastro eterno. Lode a lui, lode a lui sino a quel giorno.» (I. Pindemonte, I sepolcri) Altro esempio della poesia cimiteriale preromantica del Pindemonte è Sopra i Sepolcri dei Re di Francia nella Chiesa di San Dionigi (1789, scritto prima del danneggiamento operato nella necropoli reale dai rivoluzionari) che sarà in seguito recensito da Alessandro Manzoni e il Lamento di Aristo in morte di Giuseppe Torelli. Pindemonte compose inoltre un'ode dedicatoria all'astronomo Antonio Cagnoli pubblicata sul testo Notizie astronomiche]. La poetica di Pindemonte, seppur classicista, ha in sé un'inquietudine, uno spirito melanconico: a tal proposito va citato il testo esemplare della poetica di Pindemonte, La melanconia ("Melanconia, / Ninfa gentile, / La vita mia / Consegno a te. / I tuoi piaceri / Chi tiene a vile, / Ai piacer veri / Nato non è.") tratta dalle Poesie campestri, e la descrizione fatta dal Foscolo nei Sepolcri: "Nè da te, dolce amico, udrò più il verso / E la mesta armonia che lo governa" - e una vicinanza ai temi sentimentali, che a tratti l'avvicinano alla nuova poetica romantica: per questo fu considerato dai romantici italiani come Manzoni e Leopardi un precursore della nuova sensibilità, sulla scia dei poeti cimiteriali inglesi del Settecento Edward Young e Thomas Gray.

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Eugenio Caruso - 17 - 01 - 2022

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