Omero, Odissea, Canto III. Telemaco ospite di Nestore.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli [p. v]tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO CANTO III

All’alba del giorno successivo, Telemaco e i compagni approdano a Pilo, dove sono accolti da Nestore; dopo le rituali libagioni e il banchetto, l’anziano eroe chiede a Telemaco chi sia e da dove venga; alla risposta del giovane, Nestore allude alle vicende luttuose degli Achei nella presa di Troia e ai ritorni dei vari eroi, sottolinea la sua amichevole intesa con Odisseo e ricorda come la partenza degli eroi fu funestata da un litigio sorto fra Agamennone e Menelao. Odisseo era partito con lui, ma poi era tornato da Agamennone e, dopo averlo lasciato, Nestore non l’aveva più rivisto. Può solo riferire notizie indirette, che riguardano gli altri capi achei, fra cui Agamennone, del quale, sollecitato da Telemaco, racconta la tragica fine. Nestore chiede inoltre al giovane se il popolo lo appoggia e lo invita a sperare nell'aiuto degli dei, e soprattutto di Atena, che amava e assisteva Odisseo a Troia. Atena presente al dialogo sotto le spoglie di Mentore, incoraggia Telemaco e, mentre il giovane accetta l'ospitalità di Nestore per la notte, sceglie di tornare sulla nave. Nel momento in cui scompare, il vecchio eroe riconosce la dea, le offre una libagione e promette un sacrificio per l’indomani. Il giorno seguente, compiuto il sacrificio promesso, Telemaco e Pisistrato, figlio di Nestore partono su un carro alla volta di Sparta, dove il figlio di Odisseo incontrerà Menelao, il cui recente ritorno ne fa un testimone prezioso delle ultime vicende.

nestore

Nestore

 

TESTO CANTO III

   Uscito delle salse acque vermiglie,
Montava il Sole per l’eterea volta
Di bronzo tutta, e in cielo ai Dei recava,
Ed agli uomini il dì su l’alma terra:
Quando alla forte Pilo, alla cittade 5
Fondata da Neléo, giunse la nave.
Stavano allor sagrificando i Pilj
Tauri sul lido tutti negri al Dio
Dai crini azzurri, che la terra scuote.
Nove d’uomini squadre, e in ogni squadra 10
Cinquecento seduti, e per ciascuna
Svenati nove buoi, di cui, gustate
Le interïora, ardean le cosce al Nume.
La nave intanto d’uguai fianchi armata
Se ne venia dirittamente a proda. 15
Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
Telemaco, e Minerva il precedea,
La Dea dagli occhi di ceruleo tinti,
Che gli accenti al garzon primiera volse: 20
Telemaco, depor tutta oggi è d’uopo
La pueril vergogna. Il mar passasti,
Ma per udir, dove s’asconda, e a quale
Destin soggiacque il generoso padre.
Su, dunque, dritto al domator t’avvia 25
Di cavalli Nestorre, onde si vegga
Quel, ch’ei celato nella mente porta.
Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
Poichè mentir non può cotanto senno.
     Il prudente Telemaco rispose: 30
Mentore, per qual modo al Rege amico
M’accosterò? Con qual saluto? Esperto
Non sono ancor del favellar de’ saggi:
Nè consente pudor, che a far parole
Cominci col più vecchio il men d’etade. 35
     Ma di tal guisa ripigliò la Dea,
Cui cilestrino lume i rai colora:
Telemaco, di ciò, che dir dovrai,
Parte da sè ti nascerà nel core,
Parte nel cor la ti porranno i °Numi: 40
Chè a dispetto di questi in luce, io credo,
Non ti mandò la madre, e non ti crebbe.
     Così parlando, frettolosa innanzi
Palla si mise, ed ei le andava dopo.
Fur tosto in mezzo all’assemblea de’ Pilj, 45
Ove Nestor sedea co’ figli suoi,
Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
Altre avvampavan delle carni, ed altre
Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
Ebbero appena i forestier, che incontro 50
Lor si fero in un groppo, e gli abbracciaro,
E a seder gl’invitaro. Ad appressarli
Pisistrato fu il primo, un de’ figliuoli
Del Re. Li prese ambi per mano, e in molli
Pelli, onde attappezzata era la sabbia, 55
Appo la mensa gli adagiò tra il caro
Suo padre, ed il germano Trasimede:
Delle viscere calde ad ambi porse;
E, rosso vin mescendo in tazza d’oro,
E alla gran figlia dell’Egïoco Giove 60
Propinando, Stranier, dissele, or prega
Dell’acque il Sir, nella cui festa, i nostri
Lidi cercando, t’abbattesti appunto.
Ma, i libamenti, come più s’addice,
Compiuti, e i prieghi, del licor soave 65
Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
Pur s’annida, cred’io, timor de’ Numi,
Quando ha mestier de’ Numi ogni vivente.
Meno ei corse di vita, e d’anni eguale
Parmi con me: quindi a te pria la coppa. 70
E il soave licor le pose in mano.

atena

Poseidone sfida Atena per il controllo dell'Attica, dal cortile di palazzo Medici a Firenze.


     Godea Minerva, che l’uom giusto pria
Offerto il nappo d’oro avesse a lei,
E subito a Nettun così pregava:
Odi, o Nettuno, che la terra cingi, 75
E questi voti appagar degna. Eterna
Gloria a Nestorre, ed a’ suoi figli in prima,
E poi grata mercede a tutti i Pilj
Dell’inclita ecatombe. Al mio compagno
Concedi in oltre, e a me, che, ciò fornito, 80
Perchè venimmo, su le patrie arene
Con la negra torniam rapida nave.
     Tal supplicava; e adempiere intendea
Questi voti ella stessa. Indi al garzone
La bella offrì gemina coppa e tonda, 85
Ed una egual preghiera il caro figlio
D’Ulisse alzò. S’abbrustolaro intanto
Le pingui cosce, degli spiedi acuti
Si dispiccaro, e si spartiro: al fine
L’alto si celebrò prandio solenne. 90
     Giunto al suo fin, così principio ai detti
Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
Gli ospiti ricercare allora è bello,
Che di cibi, e di vini hanno abbastanza
Scaldato il petto, e rallegrato il core. 95
Forestieri, chi siete? E da quai lidi
Prendeste a frequentar l’umide strade?
Trafficate voi forse? O v’aggirate,
Come corsali, che la dolce vita,
Per nuocere ad altrui, rischian sul mare? 100
     Telemaco, a cui Pallade un nuovo ardire
Spirò nel seno, acciò del padre assente
Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
Di sè spargesse per le genti il grido,
O degli Achei, rispose, illustre vanto, 105
Di satisfare ai desir tuoi son presto.
Giungiam dalla seduta a piè del Neo
Itaca alpestre, ed è cagion privata,
Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
Dietro alla fama, che riempie il Mondo, 110
Del magnanimo Ulisse, onde racconta
Pubblica voce, che i Trojani muri,
Combattendo con teco, al suol distese.
Degli altri tutti, che co’ Troi pugnaro,
Non ignoriam, dove finiro i giorni. 115
Ma di lui Giove anco la morte volle
Nasconderci; nè alcun sin qui poteo
Dir, se in terra, o sul mar, se per nemico
Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
Eccomi or dunque alle ginocchia tue, 120
Perchè tu la mi narri, o vista l’abbi
Con gli occhi proprj, o dalle labbra udita
D’un qualche pellegrin: però che molto
Disventurato il partorì la madre.
Nè timore, o pietà, del palesarmi 125
Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l’egregio
Mio padre in opra, o in detto unqua ti feo
Bene, o comodo alcun, là ne’ Trojani
Campi, che tinse il vostro sangue, o Greci,
Tel rimembra ora, e non tacermi nulla. 130
     Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
Tu mi ricordi, amico, i guai, che molti
Noi prole invitta degli Achei patimmo,
O quando erranti per le torbid’onde
Ce ne andavam sovra le navi in traccia135
Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
O allor che pugnavam sotto le mura
Della cittade alta di Priamo, dove
Grecia quasi d’eroi spenta rimase.
Là cadde Achille, e il marzïale Ajace,140
Là Patroclo, nel senno ai Dei vicino,
Quell’Antiloco là forte, e gentile,
Mio diletto figliuol, che abil del pari
La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
Se tu, queste sciagure, ed altre assai145
Per ascoltar, sino al quint’anno, e al sesto
Qui t’indugiassi, dalla noja oppresso
Leveresti di nuovo in mar le vele,
Ch’io non sarei del mio racconto a riva.
Nove anni, offese macchinando, a Troja150
Ci travagliammo intorno; e, benchè ogni arte
Vi s’adoprasse, d’espugnarla Giove
Ci consentì nel decimo a fatica.
Duce col padre tuo non s’ardia quivi
Di accorgimento gareggiar: cotanto155
Per inventive Ulisse, e per ingegni
Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
E me ingombra stupor, mentr’io ti guardo:
Chè i detti rassomigliansi, e ne’ detti
Tanto di lui tenere uom, che d’etade160
Minor tanto è di lui, vero non parmi.
L’accorto Ulisse, ed io, nè in parlamento
Mai, nè in concilio, parlavam diversi:
Ma, d’una mente, con maturi avvisi
Quel, che dell’oste in pro tornar dovesse,165
Disegnavamo. Rovesciata l’alta
Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
Navi saliti, si divise il campo,
Così piacque al Saturnio; e ben si vide
Da quell’istante, che un ritorno infausto170
Ci destinava il Correttor del Mondo.
Senno non era, nè giustizia in tutti:
Quindi il malanno, che su molti cadde,
Per lo sdegno fatal dell’Occhiglauca
Di forte genitor nata, che cieca175
Tra i duo figli d’Atréo discordia mise.
A parlamento in sul cader del Sole
Chiamaro incauti, e contra l’uso, i Greci,
Che intorbidati dal vapor del vino
Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.180
Menelao prescrivea, che l’oste tutta
Le vele aprisse del ritorno ai venti:
Ma ritenerla in vece Agamennóne
Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
Sdegno a placar dell’oltraggiata Diva. 185
Stolto! che non sapea, ch’erano indarno:
Quando per fumo d’immolati tori
Mente i Numi non cangiano in un punto.
Così, garrendo di parole acerbe,
Non si movean dal lor proposto. Intanto 190
Con insano clamor sorser gli Achivi
Ben gambierati; e l’un consiglio agli uni,
L’altro agli altri piacea. Funeste cose
La notte in mezzo al sonno agitavamo
Dentro di noi: chè dal disastro il danno 195
Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
Tirammo i legni nel divino mare,
E su i legni velivoli le molte
Robe imponemmo, e le altocinte schiave.
Se non che mezza l’oste appo l’Atríde 200
Agamennón rimanea ferma: l’altra
Dava ne’ remi, e per lo mar pescoso,
Che Nettuno spianò, correa veloce.
Tenedo preso, sagrifici offrimmo,
Anelando alla patria: ma nemico 205
Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
Che di nuovo partì tra loro i Greci.
Alcuni, che d’intorno erano al ricco
Di scaltrimenti Ulisse, e al Re de’ Regi
Gratificar volean, torsero a un tratto 210
Le quinci e quindi remiganti navi:
Ma io de’ mali, che l’avverso Nume
Divisava, m’accorsi, e con le prore,
Che fide mi seguian, fuggii per l’alto.
Fuggì di Tideo il bellicoso figlio, 215
Tutti animando i suoi. L’acque salate
Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
Menelao ci trovò, che della via
Consigliavam: se all’aspra Chio di sopra,
Psiria lasciando dal sinistro lato, 220
O invece sotto Chio, lungo il ventoso
Mimanta, veleggiassimo. D’un segno
Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
Noi fendemmo nel mezzo, e dell’Eubéa
Navigammo alla volta, onde con quanta 225
Fretta si potea più, condurci in salvo.
Sorse allora, e soffiò stridulo vento,
Che volar per le nere onde, e notturni
Sorger ci feo sovra Geresto, dove
Sbarcammo, e al Nume dagli azzurri crini, 230
Misurato gran mar, molte di tori
Cosce ponemmo in su la viva brace.
Già il dì quarto splendea, quando i compagni
Del prode ne’ cavalli Dïomede
Le salde navi riposaro in Argo; 235
Ed io ver Pilo sempre il corso tenni
Con quel vento, cui pria mandato in poppa
M’aveano i Numi, e che non mai s’estinse.
Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
Nè so nulla de’ Greci o spenti, o salvi. 240
Ciò poi, che intesi ne’ miei tetti assiso,
Celare a te certo non vuolsi. È fama,
Che felice ritorno ebber gli sperti
Della lancia Mirmidoni, che il degno
Figliuol guidava dell’altero Achille. 245
Felice l’ebbe Filottete ancora,
L’illustre prole di Peante. In Creta
Rimenò Idomenéo quanti compagni
Con la vita gli uscîr fuori dell’arme:
Un sol non ne inghiottì l’onda vorace. 250
D’Agamennòn voi stessi, e come venne,
Benchè lontani dimoriate, udiste,
E qual gli tramò Egisto acerba morte.
Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello,
Che il figliuol dell’estinto in vita resti! 255
Quel dell’Atride vendicossi a pieno
Dell’omicida fraudolento e vile,
Che morto aveagli sì famoso padre.
Quinci e tu, amico, però ch’io ti veggio
Di sembiante non men grande, che bello, 260
Fortezza impara, onde te pure alcuno
Benedica di quei, che un dì vivranno.
     Nestore, degli Achei gloria immortale,
Telemaco riprese, ei vendicossi,
E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome 265
Nel canto se n’udrà. Perchè in me ancora
Non infuser gli Dei tanto di lena,
Che dell’onte de’ Proci e delle trame
Potessi a pieno ristorarmi anch’io?
Ma non a me, non ad Ulisse, e al figlio, 270
Tanta felicità dagl’Immortali
Fu destinata; e tollerar m’è forza.
     Poichè tai mali, ripigliò Nestorre,
Mi riduci alla mente, odo la casa
Molti occuparti a forza, e insidïarti, 275
Vagheggiatori della madre. Dimmi:
Volontario piegasti al giogo il collo?
O in odio, colpa d’un oracol forse,
I cittadini t’hanno? Ad ogni modo,
Chi sa, che il padre ne’ suoi tetti un giorno 280
Non si ricatti o solo, o con gli Achivi
Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
Se te così Pallade amasse, come
A Troja, duol de’ Greci, amava Ulisse
(Sì palese favor d’un Nume, quale 285
Di Pallade per lui, mai non si vide)
Se ugual di te cura prendesse, ai Proci
Della mente uscirian le belle nozze.
     E d’Ulisse il figliuol: Tanto io non penso,
Che s’adempia giammai. Troppo dicesti, 290
Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
Chè ciò bramar, non conseguir, mi lice,
Non, se agli stessi Dei ciò fosse in grado.
     Qual ti sentii volar fuori de’ denti,
Telemaco, parola? allor soggiunse 295
La Dea che lumi cilestrini gira.
Facile a un Dio, sempre che il voglia, uom vivo
Ripatriar dai più remoti lidi.
Io per me del ritorno anzi torrei
Scorgere il dì dopo infiniti guai, 300
Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
Cader, come d’Egisto, e dell’infida
Moglie per frode il miserando Atríde.
La morte sola, comun legge amara,
Gli stessi Dei nè da un amato capo 305
Distornarla potrian, quandunque sopra
Gli venga in sua stagion l’apportatrice
Di lunghi sonni disamabil Parca.
     E temo io ben, Telemaco rispose,
Che una morte crudel, non il ritorno, 310
Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
Ma di questo non più: benchè agli afflitti
Parlare a un tempo, e lagrimar sia gioja.
Io voglio d’altro dimandar Nestorre,
Che vede assai più là d’ogni mortale, 315
E l’età terza, qual si dice, or regna,
Tal che mirare in lui sembrami un Nume.
Figlio di Neleo, il ver mi narra. Come
Chiuse gli occhi Agamennone, il cui regno
Stendeasi tanto? Menelao dov’era? 320
Qual morte al sommo Agamennóne ordia
L’iniquo Egisto, che di vita uom tolse
Tanto miglior di sè? Non era dunque
Nell’Argo Acaica Menelao? Ma forse
Lontano errava tra straniere genti, 325
E quei la spada, imbaldanzito, strinse.
     Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
Figlio, quant’io dirò, per certo il tieni.
Tu feristi nel segno. Ah! se l’illustre
Menelao biondo, poichè apparve in Argo, 330
Nel palagio trovava Egisto in vita,
Non si spargea sul costui morto corpo
Un pugno scarso di cavata terra:
Fuor delle mura sovra il nudo campo
Cani, e augelli voravanlo, nè un solo 335
Delle donne d’Acaja occhio il piangea.
Noi sotto Troja, travagliando in armi,
Passavam le giornate; ed ei nel fondo
Della ricca di paschi Argo tranquilla
Con detti aspersi di dolce veleno 340
La moglie dell’Atride iva blandendo.
Rifuggia prima dall’indegno fatto
La vereconda Clitennestra, e retti
Pensier nutria, standole a fianco il vate,
Cui di casta serbargliela l’Atride 345
Molto ingiungea, quando per Troja sciolse.
Ma sorto il dì, che cedere ad Egisto
La infelice dovea, quegli, menato
A un’isola deserta il vate in seno,
Colà de’ feri volator pastura 350
Lasciollo, e strazio: e ne’ suoi tetti addusse
Non ripugnante l’infedel Regina.
E molte cosce del cornuto armento
Su l’are il folle ardea, sospendea molti
Di drappi d’oro sfavillanti doni, 355
Compiuta un’opra, che di trarre a fine
Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
Già partiti di Troja, e d’amistade
Congiunti, battevam lo stesso mare
Menelao, ed io: ma divenimmo al sacro 360
Promontorio d’Atene, al Sunio, appena,
Che il suo nocchier, che del corrente legno
Stava al governo, un’improvvisa uccise
Di Febo Apollo mansueta freccia,
L’Onetoride Fronte, uom senza par i365
Co’ marosi a combattere, e co’ venti.
L’Atríde, benchè in lui gran fretta fosse,
Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
E d’esequie onorollo, e di sepolcro.
Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso 370
Giunto della Maléa, cammin felice
Non gli donò l’onniveggente Giove.
Venti stridenti, e smisurati flutti,
Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
E ne disgiunse i legni, e parte a Creta 375
Ne spinse là, ’ve albergano i Cidonj
Alle correnti del Giardáno in riva.
Liscia, e pendente sovra il fosco mare
Di Gortina al confin sorge una rupe,
Contro alla cui sinistra, e non da Festo 380
Molto lontana punta, Austro i gran flutti
Caccia: li frange un piccoletto sasso.
Là percotendo si fiaccaro i legni,
Scampate l’alme a gran fatica, e sole
Cinque altre navi dall’azzurra prora 385
Portò sovra l’Egitto il vento, e l’onda.
Mentre con queste Menelao tra genti
D’altra favella s’aggirava, e forza
Vi raccogliea di vettovaglia, e d’oro,
Tutti ebbe i suoi desir l’iniquo Egisto: 390
Agamennóne a tradimento spense,
Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
Della ricca Micene il fren ritenne.
Ma l’ottavo anno ritornò d’Atene
Per sua sciagura il pari ai Numi Oreste, 395
Che il perfido assassin del padre illustre
Spogliò di vita, e la funébre cena
Agli Argivi imbandì per l’odïosa
Madre non men, che per l’imbelle drudo.
Lo stesso giorno Menelao comparve, 400
Tanta ricchezza riportando seco,
Che del pondo gemean le stanche navi.
Figlio, non l’imitar, non vagar troppo,
Lasciando in preda le sostanze ai Proci,
Che ciò tra lor, che non avran consunto, 405
Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
Se non ch’io bramo, anzi t’esorto, e stringo,
Che il Re di Sparta trovi. Ei testè giunse,
Donde altri, che in quel mar furia di crudo
Vento cacciasse, perderia la speme 410
Di rieder più: mar così immenso, e orrendo,
Che nel giro d’un anno augel nol varca.
Hai nave, ed hai compagni. E se mai fosse
Più di tuo grado la terrestre via,
Cocchio io darotti, e corridori, e i miei 415
Figli, che guideranti alla divina
Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
Pregalo, e non temer, che le parole
Re sì prudente di menzogne involva.
Disse; e tramontò il Sole, e bujo venne. 420
     Qui la gran Diva dal ceruleo sguardo
Si frappose così: Buon vecchio, tutto
Dicesti rettamente. Or via, le lingue
Taglinsi, e di licor s’empian le tazze.
Poscia, fatti a Nettuno, e agli altri Numi 425
I libamenti, si proccuri ai corpi
Riposo, e sonno, come il tempo chiede.
Già il Sol s’ascose, e non s’addice al sacro
Troppo a lungo seder prandio solenne.
     Così Palla, nè indarno. Acqua gli araldi 430
Dier subito alle man, di vino l’urne
Coronaro i donzelli, ed il recaro,
Con le tazze augurando, a tutti in giro.
I convitati s’alzano, e le lingue
Gittan sul fuoco, e libano. Libato 435
Ch’ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
Palla, e d’Ulisse il deïforme figlio
Ritirarsi voleano al cavo legno.
Ma Nestore fermolli, e con gentile
Corruccio, Ah! Giove tolga, e gli altri, disse, 440
Non morituri Dei, ch’ire io vi lasci,
Qual tapino mortale, a cui la casa
Di vestimenti non abbonda, e coltri,
Ove gli ospiti suoi, non ch’egli, avvolti
Mollemente s’addormino. Credete, 445
Che a me vesti non sieno, e coltri belle?
No, su palco di nave il figlio caro
Di cotant’uom non giacerà, me vivo,
E vivo un sol de’ figli miei, che quanti
Verranno alle mie case ospiti accolga. 450
     O vecchio amico, replicò la Diva,
Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
Motto da te non s’ode altro che saggio.
Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua, 455
E s’adagi in tua casa. Io ver la nave
A confortar rivolgomi, e di tutto
Gli altri a informar: però ch’io tutti vinco
Que’ giovani d’età, che non maggiori
Di Telemaco sono, e accompagnarlo 460
Voller per amistade. In sul naviglio
Mi stenderò: ma, ricomparsa l’Alba,
Ai Caucóni magnanimi non lieve
Per ricevere andrò debito antico.
E tu questo garzon, che a te drizzossi, 465
Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
De’ corridori, che in tue stalle nutri,
I più ratti gli accoppia, e più gagliardi.
Qui fine al dir pose la Dea, cui ride
Sotto le ciglia un azzurrino lume, 470
E si levò, com’aquila, e svanio.
     Stupì chiunque v’era, ed anco il veglio,
Visto il portento, s’ammirava; e, preso
Telemaco per man, nomollo, e disse:
Ben conosc’ora, che dappoco e imbelle, 475
Figliuol mio, non sarai, quando compagni
Così per tempo ti si fanno i Numi.
Degli abitanti dell’Olimpie case
Chi altri esser porria, che la pugnace
Figlia di Giove, la Tritonia Palla, 480
Che l’egregio tuo padre in fra gli Achivi
Favorì ognor? Propizia, o gran Regina,
Guardami, e a me co’ figli, e con la casta
Consorte gloria non vulgar concedi.
Giovenca io t’offrirò di larga fronte, 485
Che vide un anno solo, e al giogo ancora
Non sottopose la cervice indoma.
Questa per te cadrà con le vestite
Di lucid’oro giovinette corna.
     Tal supplicava; e l’udì Palla. Quindi 490
Generi, e figli al suo reale ostello
Nestore precedea. Giunti, posaro
Su gli scanni per ordine, e su i troni.
Il Re canuto un prezïoso vino,
Che dalla scoverchiata urna la fida 495
Custode attinse nell’undecim’anno,
Lor mescea nella coppa, e alla possente
Figlia libava dell’Egïoco Giove,
Supplichevole orando. E gli altri ancora
Libaro, e a voglia lor bebbero. Al fine 500
Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
Ma nella sua magione il venerato
Nestore vuol, che del divino Ulisse
La cara prole in traforato letto
Sotto il sonante portico s’addorma; 505
E accanto a lui Pisistrato, di gente
Capo, e il sol de’ figliuoi, che sin qui viva
Celibe vita. Ei del palagio eccelso
Si corcò nel più interno; e la reale
Consorte il letto preparògli, e il sonno. 510
     Tosto che del mattin la bella figlia
Con le dita rosate in cielo apparve,
Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
S’assise all’alte porte in sui politi,
Bianchi, e d’unguento luccicanti marmi, 515
Su cui sedea par nel consiglio ai Numi
Neleo, che, vinto dal destin di morte,
Nelle case di Pluto era già sceso.
Nestore allora, guardïan de’ Greci,
Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti 520
Di loro stanza maritale anch’essi,
Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
Echefróne, Perséo, Strazio, ed Aréto,
E il nobil Trasimede, a cui s’aggiunse
Sesto l’eroe Pisistrato. Menaro 525
D’Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
Collocârlo del padre, che le labbra
In queste voci aprì: Figli diletti,
Senza dimora il voler mio fornite.

atena 6

Giuseppe Bottani, Atena rivela Itaca a Ulisse, 1775, Pavia, Pinacoteca Malaspina.


Prima tra i numi l’Atenéa Minerva 530
Non degg’io venerar, che nel solenne
Banchetto sacro manifesta io vidi?
Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
Perchè tirata dal bifolco giunga
Ratto la vaccherella. Un altro mova 535
Dell’ospite alla nave, e, salvo due,
Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
Laerce chiami, l’ingegnoso mastro,
Della giovenca ad inaurar le corna.
Gli altri tre qui rimangano, e all’ancelle 540
Faccian le mense apparecchiar, sedili
Apportar nel palagio, e tronca selva,
E una pura dal fonte acqua d’argento.
     Non indarno ei parlò. Venne dal campo
La giovinetta fera, e dalla nave 545
Dell’ospite i compagni; il fabbro venne,
Tutti recando gli strumenti, e l’armi,
L’incude, il buon martello, e le tenaglie
Ben fabbricate, con che l’òr domava:
Nè ai sagrifici suoi mancò la Diva. 550
Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
Domato l’ebbe, ne vestì le corna
Della giovenca, acciocchè Palla, visto
Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
Per le corna la vittima Echefróne 555
Guidava, e Strazio: dalle stanze Aréto
Purissim’onda in un bacile a vaghi
Fiori intagliato d’una man portava,
Orzo dell’altra in bel canestro, e sale:
Il bellicoso Trasimede in pugno 560
Stringea l’acuta scure, che sul capo
Scenderà della vittima; ed il vaso,
Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
Ma de’ cavalli il domator, l’antico
Nestore, il rito cominciò: le man i565
S’asterse, sparse il salat’orzo, e a Palla
Pregava molto, nell’ardente fiamma
Le primizie gittando, i peli svelti
Dalla vergine fronte. Alla giovenca
S’accostò il forte Trasimede allora, 570
E con la scure acuta, onde colpilla,
Del collo i nervi le recise, e tutto
Svigorì il corpo: supplicanti grida
Figliuole alzaro, e nuore, e la pudica
Di Nestor donna, Euridice, che prima 575
Di Climèn tra le figlie al Mondo nacque.
Poi la buessa, che giacea, di terra
Sollevâr nella testa, e in quel, che lei
Reggean così, Pisistrato scannolla.
Sgorgato il sangue nereggiante, e scorso, 580
E abbandonate dallo spirto l’ossa,
La divisero in fretta: ne tagliaro
Le intere cosce, qual comanda il rito,
Di doppio le covriro adipe, e i crudi
Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio 585
Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
Di rosso vin, mentre abili donzelli
Spiedi tenean di cinque punte in mano.
Arse le cosce, e i visceri gustati,
Minuti pezzi fer dell’altro corpo, 590
Che rivolgeano, ed arrostiano infissi
Negli acuti schidoni. Policasta,
La minor figlia di Nestorre, intanto
Telemaco lavò, di bionda l’unse
Liquida oliva, e gli vestì una fina 595
Tunica, e un ricco manto; ed egli emerse
Fuor del tepido bagno agl’Immortali
Símile in volto, e a Nestorre avviossi
Pastor di genti, e gli s’assise al fianco.
     Abbrostite le carni ed imbandite, 600
Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
Ricolmavan le ciottole dell’oro.
Ma poichè spenti i naturali furo
Della fame desiri e della sete, 605
Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
Miei figli, per Telemaco, su via,
I corridori dal leggiadro crine
Giungete sotto il cocchio. Immantinente
Quelli ubbidiro, e i corridor veloci 610
Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
Candido pane, e vin purpureo, e dapi,
Quai costumano i Re di Giove alunni,
La veneranda dispensiera pose.
Telemaco salì, salì l’ornata 615
Biga con lui Pisistrato, di gente
Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
Nella man tolte, con la sferza al corso
I cavalli eccitò, che alla campagna
Si gittâr lieti: de’ garzoni agli occhi 620
Di Pilo s’abbassavano le torri.
Squassavano i destrier tutto quel giorno
Concordi il giogo, ch’era lor sul collo.
Tramontò il Sole, ed imbrunian le strade:
E i due giovani a Fera, e alla magione 625
Di Diócle arrivâr, del prode figlio
Di Orsiloco d’Alféo, dove riposi
Ebber tranquilli, ed ospitali doni.
     Ma come del mattin la bella figlia
Comparve in ciel con le rosate dita, 630
Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
Biga saliro, e del vestibol fuori
La spinsero, e del portico sonante.
Scosse la sferza il Nestoríde, e quelli
Lietamente volaro. I pingui campi 635
Di ricca messe biondeggianti indietro
Fuggian l’un dopo l’altro; e sì veloci
Gli allenati destrier movean le gambe,
Che l’Itacense, e il Pilïese al fine
Del viaggio pervennero, che d’ombra, 640
Il sol caduto, si copria la terra.

 

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Eugenio Caruso - 19 - 01 - 2022

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