Omero, Odissea, Libro V. Ulisse lascia l'isola di Calipso.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO LIBRO V

Nuovo concilio degli Dei. Pallade si lagna, che Ulisse ritenuto sia nell’isola di Calipso, e che si tenti d’ammazzare Telemaco. Giove manda Mercurio a Calipso, che, mal volentieri, congeda Ulisse. Partenza di questo sovra una spezie di zatta da lui construtta. Nettuno gli desta contro una orribil tempesta, per cui, spezzata la barca, ei gettasi a nuoto; e con l’ajuto d’una fascia, che Ino, Dea del mare, gli diede, approda, dopo infiniti patimenti, all’isola de’ Feaci.
Il tema centrale del libro è la partenza di Odisseo, progettata e decisa dagli dei, preparata dalla profezia di Atena-Mente nel primo libro, desiderata dall’eroe, che nulla può, tuttavia, senza un intervento divino. La lunga permanenza di Odisseo nell’isola di Calipso è un’invenzione omerica senza riscontri nel mito: in questo libro Omero si è ritagliato uno spazio creativo autonomo dalla tradizione per introdurre una vicenda e un personaggio, appunto quello di Calipso, enigmatici e affascinanti. Anche se nel racconto la presenza di questa ninfa e la vita di Odisseo accanto a lei occupano uno spazio ridotto, si allude a una lunga consuetudine e a un sentimento di amore sconosciuto nel poema e che cede di fronte all’esigenza superiore del ritorno di Odisseo. Inoltre il legame fra la ninfa e l’eroe mette a confronto due diverse concezioni della vita: Calipso, che desidera trattenere accanto a sé Odisseo, gli offre ripetutamente di godere del cibo degli dei, nettare e ambrosia, per diventare immortale: ma l’eroe persiste nel rifiuto e preferisce alla condizione serena ma immobile dell’immortalità la condizione dell’uomo mortale, la cui esistenza comporta sofferenza e morte, ma anche gioia, partecipazione, coinvolgimento. Odisseo non vuole né la morte gloriosa degli eroi dell’Iliade, che trasfigurava una giovane vita nel ricordo eterno, né l’immortalità degli dèi, che è una continua sottrazione di vitalità, e sceglie la dimensione umana dell’esistenza, la cui morte giunge come coronamento di una vita lunga e piena.
Il poeta rappresenta con toni incantati il viaggio di Hermes, quindi l’isola di Calipso, dà voce alla passione femminile e alla nostalgia dolente di Odisseo senza mai scoprirsi. Fin dalle prime battute del protagonista comprendiamo come Omero abbia delineato questo personaggio, che pure fa parte del ciclo epico e della tradizione leggendaria più antica, secondo modi nuovi: Odisseo è un uomo che riflette, che esprime i suoi desideri, che si assume responsabilità, con una consapevolezza inedita; è il protagonista maturo che in una lunga sezione del poema (dal libro IX al XII) saprà essere narratore di se stesso. Abbandonato fisicamente lo spazio della reggia e i luoghi visitati da Telemaco, si apre uno scenario favoloso, quello remoto dell’isola di Calipso, una sorta di paradiso dalla rigogliosa vegetazione, di cui parla solo Omero in questo libro.Un luogo magico, nato dall’immaginazione, inquietante, perché privo di uomini, isolato, confinato In una lontananza indefinita; in particolare, la grotta di Calipso, che rappresenta un’abitazione primitiva, ha fatto pensare a una sorta di oltretomba, di luogo oscuro e magico. A questo spazio si contrappone quello di Itaca, non descritto, ma vagheggiato e desiderato da Odisseo piangente sulla riva del mare.
L’esordio del quinto libro riporta la vicenda al primo giorno della narrazione, cioè al primo libro: il viaggio di Odisseo parte contemporaneamente a quello di Telemaco e l’interruzione, tipica della poesia epica, è solo illusoria, dovuta alla necessità di dare spazio agli altri racconti, che sono una pausa narrativa, non dell’azione. Da un punto di vista simbolico, tuttavia, il tempo di Odisseo inizia solo in questo libro, perché da questo momento egli, dopo un lungo periodo nel quale è lontano dagli uomini, fuori del mondo, inizia il suo riavvicinamento alla vita normale e alla patria. D’altra parte, la narrazione è molto condensata: copre i quattro giorni durante i quali Odisseo costruisce la zattera e i venti giorni trascorsi in mare, alla fine dei quali tocca terra nel paese dei Feaci. Odisseo entra in scena presentato come un uomo dolente. Come al solito, il poeta non ne dà una descrizione fisica, lo caratterizza semmai attraverso gli epiteti, che si sottraggono alla fissità abituale degli epiteti omerici e servono invece a tratteggiare il profilo del personaggio, segnalandone la ricchezza umana: Odisseo è un uomo ricco di esperienze, di conoscenza, segnato dalla sofferenza, e ormai destinato al ritorno. D’altra parte il personaggio si caratterizza, come già aveva ricordato Elena nel terzo libro dell’Iliade, nei discorsi, in cui egli esprime valutazioni e fa considerazioni in una prospettiva nuova rispetto agli eroi dell’Iliade, ai quali manca un’attitudine riflessiva e introspettiva.
Il personaggio di Calipso non ha tracce nel mito, è un’invenzione omerica: è affascinante perché misterioso e in un certo senso ambiguo: il suo isolamento ne fa una figura quasi favolosa e l’isola dove vive, Ogigia, ha connotazioni strane, inquietanti, un po’ funeree (proprio perché regna l’immortalità, in un’eterna primavera); e rappresenta una specie di nascondiglio, soprattutto se è esatta l’etimologia che fa derivare da kalypto, “nascondo”, il nome Calipso. Nelle accorate parole che la ninfa pronuncia traspare un sentimento nuovo, che raramente ha spazio nella poesia epica, l’amore-passione, anche se è solo accennato di sfuggita. Il concilio degli dei che apre il libro riprende quello del primo libro: serve a riproporre l’inizio del viaggio di Odisseo, dopo l’interruzione della Telemachìa. Hermes si presenta come un valido aiutante (adiutore) di Odisseo, compito che assolverà spesso nel corso della vicenda, anche solo indirettamente. In realtà il dio interviene su Calipso e, come del resto Atena, si limita a dare una sorta di impulso al viaggio di Odisseo, che, ostacolato dall’ira di Poseidone, dovrà affrontare in prima persona i rischi del ritorno.

calipso 1
Calipso in un dipinto di William Adolphe Bouguereau.

TESTO LIBRO V

Già l’Aurora, levandosi a Titone
D’allato, abbandonava il croceo letto,
E ai Dei portava, ed ai mortali il giorno;
E già tutti a concilio i Dei beati
Sedean con Giove altitonante in mezzo, 5
Cui di possanza cede ogni altro Nume.
     Memore Palla dell’egregio Ulisse,
Che mal suo grado appo la ninfa scorge,
I molti ritesseane acerbi casi.
O Giove, disse, e voi tutti d’Olimpo 10
Concittadini, che in eterno siete,
Spoglisi di giustizia, e di pietade,
E iniquitate, e crudeltà si vesta
D’ora innanzi ogni Re, quando l’imago
D’Ulisse più non vive in un sol core 15
Di quella gente, ch’ei reggea da padre.
Ei nell’isola intanto, ove Calipso
In cave grotte ripugnante il tiene,
Giorni ozïosi, e travagliosi mena;
E del tornare alla sua patria è nulla, 20
Poichè navi non ha, non ha compagni,
Che il carreggin del mar su l’ampio tergo.
Che più? Il figliuol, che all’arenosa Pilo
Mosse, ed a Sparta, onde saver di lui,
Tor di vita si brama al suo ritorno. 25
     Figlia, qual ti sentii fuggir parola
Dal recinto de’ denti? a lei rispose
L’adunator di nubi Olimpio Giove.
Tu stessa in te non divisavi, come
Rieda Ulisse alla patria, e di que’ tristi 30
Vendetta faccia? In Itaca il figliuolo
Per opra tua, chi tel contende? salvo
Rientri, e l’onde navigate indarno
Rinavighi de’ Proci il reo naviglio.
     Disse, e a Mercurio, sua diletta prole, 35
Così si rivolgea: Mercurio, antico
De’ miei comandi apportator fedele,
Vanne, alla Ninfa dalle crespe chiome
Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse
Le native contrade omai rivegga. 40
Ma nol guidi uom, nè Dio. Parta su travi
Con multiplici nodi in un congiunte,
E il ventesimo dì della feconda
Scheria le rive, sospirando, attinga;
E i Feaci l'accolgano, che quasi 45
Degl'Immortali al par vivon felici.
Essi, qual Nume, onoreranlo, e al dolce
Nativo loco il manderan per nave,
Rame in copia darangli, ed oro, e vesti,
Quanto al fin seco dalla vinta Troja 50
Condotto non avria, se con la preda,
Che gli toccò, ne ritornava illeso:
Chè la patria così, gli amici, e l'alto
Riveder suo palagio, è a lui destino.
     Obbedì il prode messaggiero. Al piede 55
S'avvinse i talar belli, aurei, immortali,
Che sul mare il portavano, e su i campi
Della terra infiniti, al par col vento.
Poi l'aurea verga nelle man recossi,
Onde i mortali dolcemente assonna, 60
Quanti gli piace, e li dissonna ancora,
E con quella tra man l'aure fendea.
Come presi ebbe di Pieria i gioghi,
Si calò d'alto, e si gittò sul mare:
Indi l'acque radea velocemente, 65
Símile al laro, che pe' vasti golfi
S'aggira in traccia de' minuti pesci,
E spesso nel gran sale i vanni bagna.
Non altrimenti sen venia radendo
Molte onde e molte l'Argicida Ermete. 70
Ma tosto che fu all'isola remota,
Salendo allor dagli azzurrini flutti,
Lungo il lido ei sen gïa, finchè vicina
S'offerse a lui la spazïosa grotta,
Soggiorno della Ninfa il crin ricciuta, 75
Cui trovò il Nume alla sua grotta in seno.
     Grande vi splendea foco, e la fragranza
Del cedro ardente, e dell'ardente tio
Per tutta si spargea l'isola intorno.
Ella, cantando con leggiadra voce, 80
Fra i tesi fili dell'ordita tela
Lucida spola d'òr lanciando andava.
Selva ognor verde l'incavato speco
Cingeva: i pioppi vi cresceano, e gli alni,
E gli spiranti odor bruni cipressi; 85
E tra i lor rami fabbricato il nido
S'aveano augelli dalle lunghe penne,
Il gufo, lo sparviere, e la loquace
Delle rive del mar cornacchia amica.
Giovane vite di purpurei grappi 90
S'ornava, e tutto rivestia lo speco.
Volvean quattro bei fonti acque d'argento,
Tra sè vicini prima, e poi divisi
L'un dall'altro, e fuggenti; e di vïole
Ricca si dispiegava in ogni dove 95
De' molli prati l'immortal verzura.
Questa scena era tal, che sino a un Nume
Non potea farsi ad essa, e non sentirsi
Di maraviglia colmo, e di dolcezza.
Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto 100
Lodatola in suo core, all'antro cavo,
Non indugiando più, dentro si mise.

calipso2

Calipso


     Calipso, inclita Dea, non ebbe in lui
Gli occhi affissati, che il conobbe: quando
Per distante, che l'un dall'altro alberghi, 105
Celarsi l'uno all'altro i Dei non ponno.
Ma nella grotta il generoso Ulisse
Non era: mesto sul deserto lido,
Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi
Con dolori, con gemiti, con pianti 110
Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare
Sempre agguardava, lagrime stillando.
     La Diva il Nume interrogò, cui posto
Su mirabile avea seggio lucente:
Mercurio, Nume venerato, e caro, 115
Che della verga d'òr la man guernisci,
Qual mai cagione a me, che per l'addietro
Non visitavi, oggi t'addusse? Parla.
Cosa, ch’io valga oprar, nè si sconvegna,
Disdirti io non saprei, se il pur volessi. 120
Su via, ricevi l’ospital convito:
Poscia favellerai. Detto, la mensa,
Che ambrosia ricopria, gli pose avanti,
Ed il purpureo nettare versògli.
Questo il celere messaggiero, e quella 125
Prendea; nè prima nelle forze usate
Tornò, che apria le labbra in tali accenti:
Tu Dea me Dio dunque richiedi? Il vero,
Poichè udirlo tu vuoi, schietto io ti narro.
Questo viaggio di Saturno il figlio 130
Mal mio grado mi diè. Chi vorria mai
Varcar tante onde salse, infinite onde,
Dove città non sorge, e sagrifici
Non v’ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?
Ma il precetto di Giove a un altro Nume 135
Nè vïolar, nè obbliar lice. Teco,
Disse l’Egidarmato, i giorni mena
L’uom più gramo tra quanti alla cittade
Di Priamo innanzi combattean nove anni,
Finchè il decimo al fin, Troja combusta, 140
Spiegaro in mar le ritornanti vele.
Ma nel cammino ingiuriâr Minerva,
Che destò le bufere, e immensi flutti
Contra lor sollevò. Tutti periro
Di quest'uomo i compagni; ed ei dal vento 145
Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato.
Or tu costui congederai di botto:
Chè non morir dalla sua terra lunge,
Ma la patria bensì, gli amici, e l'alto
Riveder suo palagio, è a lui destino. 150
     Inorridì Calipso, e, con alate
Parole rispondendo, Ah, Numi ingiusti,
Sclamò, che invidia non più intesa è questa,
Che se una Dea con maritale amplesso
Si congiunge a un mortal, voi nol soffrite? 155
Quando la tinta di rosato Aurora
Orïone rapì, voi, Dei, cui vita
Facile scorre, acre livor mordea,
Finchè in Ortigia il rintracciò la casta
Dal seggio aureo Diana, e d'improvvisa 160
Morte il colpì con invisibil dardo.
E allor che venne innanellata il crine
Cerere a Giasïon tutta amorosa,
E nel maggese, che il pesante aratro
Tre volte aperto avea, se gli concesse, 165
Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise
Giasïon con la folgore affocata.
Così voi, Dei, con invid'occhio al fianco
Mi vedete un eroe da me serbato,
Che solo stava in su i meschini avanzi 170
Della nave, che il telo igneo di Giove
Nel mare oscuro gli percosse, e sciolse.
Io raccogliealo amica, io lo nutria
Gelosamente, io prometteagli eterni
Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni. 175
Ma quando troppo è ver, che alcun di Giove
Precetto vïolare a un altro Nume
Non lice, od obbliar, parta egli, e solchi,
Se il comandò l'Egidarmato, i campi
Non seminati. Io nol rimando certo: 180
Chè navi a me non sono, e non compagni,
Che del mare il carreggino sul tergo.
Ben sovverrogli di consiglio, e il modo
Gli additerò, che alla sua dolce terra
Su i perigliosi flutti ei giunga illeso. 185
     Ogni modo il rimanda, l'Argicida
Soggiunse, e pensa, che infiammarsi d'ira
Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno.
E sul fin di tai detti a lei si tolse.
     L'augusta Ninfa, del Saturnio udita 190
la severa imbasciata, il prode Ulisse
Per cercar s'avviò. Trovollo assiso
Del mar in su la sponda, ove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni. 195
Chè della Ninfa non pungealo amore:
E se le notti nella cava grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i lidi assiso, e su i romiti scogli, 200
Con dolori, con gemiti, con pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
     Calipso, illustre Dea, standogli appresso,
Sciagurato, gli disse, in questi pianti 205
Più non mi dar, nè consumare i dolci
Tuoi begli anni così: la dipartita,
Non che vietarti, agevolarti io penso.
Su via, le travi nella selva tronche,
Larga, e con alti palchi a te congegna 210
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
Io di candido pan, che l'importuna
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
E di rosso licor, gioja dell'alma,
La carcherò: ti vestirò non vili 215
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui di senno in prova io già non vegno.
     Raccapricciossi a questo il non mai vinto 220
Dalle sventure Ulisse, e, O Dea, rispose
Con alate parole, altro di fermo,
Non il congedo mio, tu volgi in mente,
Che vuoi, ch’io varchi su tal barca i grossi
Del difficile mar flutti tremendi, 225
Cui le navi più ratte, e d’uguai fianchi
Munite, e liete di quel vento amico,
Che da Giove partì, varcano appena.
No, su barca sì fatta, e a tuo dispetto,
Non salirò, dove tu pria non degni 230
Giurare a me con giuramento grande,
Che nessuno il tuo cor danno m’ordisce.
     Sorrise l’Atlantíde, e, della mano
Divina careggiandolo, la lingua
Sciolse in tai voci: Un cattivello sei, 235
Nè ciò, che per te fa, scordi giammai.
Quali parole mi parlasti? Or sappia
Dunque la Terra, e il Ciel superno, e l’atra,
Che sotterra si volve, acqua di Stige,
Di cui nè più solenne han, nè più sacro 240
Gl’Iddj beati giuramento, sappia,
Che nessuno il mio cor danno t’ordisce.
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch’io
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.
Giustizia regge la mia mente, e un'alma 245
Pietosa, non di ferro, in me s'annida.
     Ciò detto, abbandonava il lido in fretta,
E Ulisse la seguia. Giunti alla grotta,
Colà, dond'era l'Argicida sorto,
S'adagiò il Laerziade; e la Dea molti 250
Davante gli mettea cibi, e licori,
Quali ricever può petto mortale.
Poi gli s'assise a fronte; e a lei le ancelle
L'ambrosia, e il roseo nettare imbandiro.
     Come ambo paghi per la mensa furo, 255
Con tali accenti cominciava l'alta
Di Calipso beltade: O di Laerte
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,
Così tu parti adunque, e alla nativa
Terra, e alle case de' tuoi padri vai? 260
Va, poichè sì t'aggrada, e va felice.
Ma se tu scorger del pensier potessi
Per quanti affanni ti comanda il fato
Prima passar, che al patrio suolo arrivi,
Questa casa con me sempre vorresti 265
Custodir, ne son certa, e immortal vita
Da Calipso accettar: benchè sì viva
Brama t'accenda della tua consorte,
A cui giorno non è che non sospiri.
Pur non cedere a lei nè di statura 270
Mi vanto, nè di volto; umana donna
Mal può con una Dea, nè le s'addice,
Di persona giostrare, o di sembianza.
     Venerabile Iddia, riprese il ricco
D'ingegni Ulisse, non voler di questo 275
Meco sdegnarti: appien conosco io stesso,
Che la saggia Penelope tu vinci
Di persona non men, che di sembianza,
Giudice il guardo, che ti stia di contra.
Ella nacque mortale, e in te nè morte 280
Può, nè vecchiezza. Ma il pensiero è questo,
Questo il desio, che mi tormenta sempre,
Veder quel giorno al fin, che alle dilette
Piagge del mio natal mi riconduca.
Che se alcun me percoterà de' Numi 285
Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo
Forte contra i disastri anima in petto.
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi
Già ne sostenni; e sosterronne ancora.
     Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno 290
Si ritiraro della cava grotta
Più interno, e oscuro, e in dolce sonno avvolti
Tutte le cure lor mandaro in bando.
     Ma come del mattin la figlia, l'alma
Dalle dita di rose Aurora apparve, 295
Tunica, e manto alle sue membra Ulisse,
E Calipso alle sue larga ravvolse
Bella gonna, sottil, bianca di neve,
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo
Sovra l'òr crespo della chioma impose. 300
Nè d'Ulisse a ordinar la dipartita
Tardava. Scure di temprato rame,
Grande, manesca, e d'ambo i lati aguzza,
Con leggiadro, d'oliva, e bene attato
Manubrio, presentògli, e una polita 305
Vi aggiunse ascia lucente: indi all'estremo
Dell'isola il guidò, dove alte piante
Crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti,
Ciascun risecco di gran tempo, e arsiccio,
Che gli sdruccioli agevole su l'onda. 310
Le altere piante gli additò col dito,
E alla sua grotta il piè torse la Diva.
     Egli a troncar cominciò il bosco: l'opra
Nelle man dell'eroe correa veloce.
Venti distese al suolo arbori interi, 315
Gli adeguò, li polì, l'un destramente
Con l'altro pareggiò. Calipso intanto
Recava seco gli appuntati succhj,
Ed ei forò le travi, e insieme unille,
E con incastri assicurolle, e chiovi. 320
Larghezza il tutto avea, quanta ne danno
Di lata nave trafficante al fondo
Periti fabbri. Su le spesse travi
Combacianti tra sè lunghe stendea
Noderose assi, e il tavolato alzava. 325
L'albero con l'antenna ersevi ancora,
E construsse il timon, che in ambo i lati
Armar gli piacque d'intrecciati salci
Contra il marino assalto, e molta selva
Gittò nel fondo per zavorra, o stiva.330
Le tue tele, o Calipso, in man gli andaro,
E buona gli uscì pur di man la vela,
Cui le funi legò, legò le sarte,
La poggia, e l'orza: al fin, possenti leve
Supposte, spinse il suo naviglio in mare, 335
Che il dì quarto splendea. La Dea nel quinto
Congedollo dall'isola: odorate
Vesti gli cinse dopo un caldo bagno;
Due otri, l'un di rosseggiante vino,
Di limpid'acqua l'altro, e un zaino, in cui 340
Molte chiudeansi dilettose dapi,
Collocò nella barca; e fu suo dono
Un lenissimo ancor vento innocente,
Che mandò innanzi ad increspargli il mare.
     Lieto l'eroe dell'innocente vento, 345
La vela dispiegò. Quindi, al timone
Sedendo, il corso dirigea con arte,
Nè gli cadea su le palpébre il sonno,
Mentre attento le Plejadi mirava,
E il tardo a tramontar Boóte, e l'Orsa, 350
Che detta è pure il Carro, e là si gira,
Guardando sempre in Orïóne, e sola
Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi:
L'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca
Lasciar dovea, come la Diva ingiunse. 355
Dieci pellegrinava e sette giorni
Su i campi d'Anfitrite. Il dì novello,
Gli sorse incontro co' suoi monti ombrosi
L'isola de' Feaci, a cui la strada
Conducealo più corta, e che apparia 360
Quasi uno scudo alle fosche onde sopra.
     Sin dai monti di Solima lo scôrse
Veleggiar per le salse onde tranquille
Il possente Nettun, che ritornava
Dall'Etïopia, e nel profondo core 365
Più crucciato, che mai, squassando il capo,
Poh! disse dentro a sè, nuovo decreto,
Mentr'io fui tra gli Etíopi, intorno a Ulisse
Fer dunque i Numi? Ei già la terra vede
De’ Feaci, che il fato a lui per meta 370
Delle sue lunghe disventure assegna.
Pur molto, io credo, a tollerar gli resta.
     Tacque; e, dato di piglio al gran tridente,
Le nubi radunò, sconvolse l’acque,
Tutte incitò di tutti i venti l’ire, 375
E la terra di nuvoli coverse;
Coverse il mar: notte di ciel giù scese.
S’avventaro sul mar quasi in un groppo
Ed Euro, e Noto, e il celebre Ponente,
E Aquilon, che pruine aspre su l’ali 380
Reca, ed immensi flutti innalza e volve.
     Discior sentissi le ginocchia, e il core
Di Laerte il figliuol, che tal si dolse
Nel secreto dell’alma: Ahi me infelice!
Che di me sarà omai? Temo, non torni 385
Verace troppo della Ninfa il detto,
Che al patrio nido io giungerei per mezzo
Delle fatiche solo e dell’angosce.
Di quai nuvole il ciel ampio inghirlanda
Giove, ed il mar conturba? E come tutti 390
Fremono i venti? A certa morte io corro.
Oh tre fïate fortunati e quattro,
Cui perir fu concesso innanzi a Troja,
Per gli Atridi pugnando! E perchè allora
Non caddi anch’io, che al morto Achille intorno 395
Tante i Trojani in me lance scagliaro?
Sepolto i Greci co’ funébri onori
M’avriano, e alzato ne’ lor canti al cielo.
Or per via così infausta ir deggio a Dite.
     Mentre così doleasi, un’onda grande 400
Venne d’alto con furia, e urtò la barca,
E rigirolla; e lui, che andar lasciossi
Dalle mani il timon, fuori ne spinse.
Turbine orrendo d’aggruppati venti
L’albero al mezzo gli fiaccò: lontane 405
Vela, ed antenna caddero. Ei gran tempo
Stette di sotto, mal potendo il capo
Levar dall’onde impetuose e grosse:
Chè le vesti gravavanlo, che in dono
Da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta 410
Dalla bocca gli uscia, gli piovea molta
Dalla testa, e dal crine onda salata.
Non però della zatta il prese obblio:
Ma, da sè i flutti respingendo, ratto
L’apprese, e già di sopra, il fin di morte 415
Schivando, vi sedea. Rapiala il fiotto
Qua e là per lo golfo. A quella guisa,
Che sovra i campi il Tramontan d’Autunno
Fascio trabalza d'annodate spine,
I venti trabalzavanla sul mare. 420
Or Noto da portare a Borea l'offre,
Ed or, perchè davanti a sè la cacci,
Euro la cede d'Occidente al vento.
     La bella il vide dal tallon di perla
Figlia di Cadmo, Ino chiamata al tempo, 425
Che vivea tra i mortali: or nel mar gode
Divini onori, e Leucotéa si noma.
Compunta il cor per lui d'alta pietade,
S'alzò dell'onda fuor, qual mergo, a volo,
E, su le travi bene avvinte assisa, 430
Così gli favellò: Perchè, meschino,
S'accese mai con te d'ira sì acerba
Lo scuotitor della terrena mole,
Che ti semina i mali? Ah! non fia certo,
Ch'ei, per quanto il desíi, spenga i tuoi giorni. 435
Fa, poichè vista m'hai d'uomo non folle,
Ciò, ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti,
Lascia il naviglio da portarsi ai venti,
E a nuoto cerca il Feacese lido,
Che per meta de' guai t'assegna il fato. 440
Ma questa prendi, e la t'avvolgi al petto,
Fascia immortal, nè temer morte, o danno.
Tocco della Feacia il lido appena,
Spogliala, e in mar dal continente lungi
La gitta, e torci nel gittarla il volto. 445
Ciò detto, e a lui l'immortal fascia data,
Rientrò, pur qual mergo, in seno al fosco
Mare ondeggiante, che su lei si chiuse.
     Pensoso resta, e in forse, il pazïente
Laerziade divino, e con se stesso, 450
Raddoppiando i sospir, tal si consiglia:
Ohimè! che nuovo non mi tessa inganno
De' Sempiterni alcun, che dal mio legno
Partir m'ingiunge. Io così tosto penso
Non ubbidirgli: chè la terra, dove 455
Di scampo ei m'affidò, troppo è lontana.
Ma ecco quel, che ottimo parmi: quanto
Congiunte rimarran tra lor le travi,
Non abbandonerolle, e co' disastri
Fermo io combatterò. Sciorralle il flutto? 460
Porrommi a nuoto; nè veder so meglio.
     Tai cose in sè volgea, quando Nettuno
Sollevò un'onda immensa, orrenda, grave,
Di monte in guisa, e la sospinse. Come
Disperse qua e là vanno le secche 465
Paglie, di cui sorgea gran mucchio in prima,
Se mai le investe un furïoso turbo,
Le tavole pel mar disperse andaro.
Sovra un sol trave a cavalcioni Ulisse
Montava: i panni, che la Dea Calipso 470
Dati gli avea, svestì, s’avvolse al petto
L’immortal benda, e si gittò ne’ gorghi
Boccon, le braccia per notare aprendo.
Nè già s’ascose dal ceruleo Iddio,
Che, la testa crollando, A questo modo 475
Erra, dicea tra sè, di flutto in flutto
Dopo tante sciagure, e a genti arriva
Da Giove amate: benchè speme io porti,
Che nè tra quelle brillerai di gioja.
Così Nettuno; e della verde sferza 480
Toccò i cavalli alle leggiadre chiome,
Che il condussero ad Ega, ove gli splende
Nobile altezza di real palagio.

atena 5

Nascita di Atena, particolare di vaso attico del 570–560 a.C. ritrovato a Tebe


     Pallade intanto, la prudente figlia
Di Giove, altro pensò. Fermò gli alati 485
Venti, e silenzio impose loro, e tutti
Gli avvinse di sopor, fuorchè il veloce
Borea, che, da lei spinto, i vasti flutti
Dinanzi a Ulisse infranse, ond’ei le rive
Del vago di remar popol Feace 490
Pigliar potesse, ed ingannar la Parca.
Due giorni in cotal foggia, e tante notti
Per l’ampio golfo errava, e spesso il core
Morte gli presagía. Ma quando l'Alba
Cinta la fronte di purpuree rose 495
Il dì terzo recò, tacquesi il vento,
E un tranquillo seren regnava intorno.
Ulisse allor, cui levò in alto un grosso
Flutto, la terra non lontana scôrse,
Forte aguzzando le bramose ciglia. 500
Quale appar dolce a un figliuol pio la vista
Del genitor, che su dolente letto
Scarno, smunto, distrutto, e da un maligno
Demone giacque lunghi dì percosso,
E poi del micidial morbo cortesi 505
Il disciolser gli Dei: tale ad Ulisse
La terra, e il verde della selva apparve.
Quinci ei, notando, ambi movea di tutta
Sua forza i piedi a quella volta. Come
Presso ne fu, quanto d'uom corre un grido, 510
Fiero il colpì romor: poichè i ruttati
Sin dal fondo del mar flutti tremendi,
Che agli aspri si rompean lidi ronchiosi,
Strepitavan, mugghiavano, e di bianca
Spuma coprian tutta la sponda, mentre 515
Porto capace di navigli, o seno
Non vi s'apria, ma littorali punte
Risaltavano in fuori, e scogli, e sassi.
     Le forze a tanto, ed il coraggio Ulisse
Fallir si sente, e dice a sè, gemendo: 520
Qual pro, che Giove il disperato suolo
Mostri, e io m’abbia la via per l’onde aperta,
Se dell’uscirne fuor non veggio il come?
Sporgon su l’onde acuti sassi, a cui
L’impetuoso flutto intorno freme, 525
E una rupe va su liscia e lucente:
Nè così basso è il mar, che nell’arena
Fermare il piè securamente io valga.
Quindi, s’io trar men voglio, un gran maroso
Sovra di sè può tormi, e in dura pietra 530
Cacciarmi; o s’io lungo le rupi cerco
Notando un porto, o una declive schiena,
Temo, non procellosa onda m’avvolga,
E sospirando gravemente in grembo
Mi risospinga del pescoso mare. 535
Forse un de’ mostri ancor, che molti nutre
Ne’ gorghi suoi la nobile Anfitrite,
M’assalirà: chè l’odio io ben conobbi,
Che m’ha quel Dio, per cui la terra trema.
     Stando egli in tai pensieri, una sconcia onda 540
Trasportollo con sè ver l’ineguale
Spiaggia, che lacerata in un sol punto
La pelle avriagli, e sgretolate l’ossa,
Senza un consiglio, che nel cor gli pose
L’occhicerulea Diva. Afferrò ad ambe 545
Mani la rupe, in ch’ei già dava, e ad essa
Gemendo s’attenea. Deluso intanto
Gli passò su la testa il vïolento
Flutto: se non che poi, tornando indietro,
Con nuova furia il ripercosse, e lunge 550
Lo sbalzò della spiaggia al mare in grembo.
Polpo così dalla pietrosa tana
Strappato vien: salvo che a lui non pochi
Restan lapilli nelle branche infitti,
E Ulisse in vece la squarciata pelle 555
Delle nervose man lasciò alla rupe.
L’onde allora il copriro, e l’infelice
Contro il fato peria: ma infuse a lui
Nuovo pensier l’Occhiazzurrina. Sorto
Dall’onde, il lido costeggiava, ai flutti, 560
Che vel portavan, contrastando, e attento
Mirando sempre, se da qualche parte
Scendesse una pendice, o un seno entrasse:
Nè dall’opra cessò, che d’un bel fiume
Giunto si vide all’argentina foce. 565
Ottimo qui gli sembrò il loco al fine,
Siccome quel, che nè di sassi aspro era,
Nè discoperto ai venti. Avvisò ratto
Il puro umor, che devolveasi al mare,
E tal dentro di sè preghiera feo: 570
O chiunque tu sii Re di quest'acque,
Odimi: a te, cui sospirai cotanto,
Gli sdegni di Nettuno, e le minacce
Fuggendo, io m'appresento. È sacra cosa
Per gl'Immortali ancor l'uom, che d'altronde 575
Venga errando, com'io, che dopo molti
Durati affanni ecco alla tua corrente
Giungo, e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse,
Che tuo supplice vedi, o Re, ti prenda.
     Disse; ed il Nume acchetò il corso, e l'onda 580
Ritenne, sparse una perfetta calma,
E alla foce il salvò del suo bel fiume.
L'eroe, tocca la terra, ambo i ginocchi
Piegò, piegò le nerborute braccia:
Tanto il gran sale l'affliggea. Gonfiava 585
Tutto quanto il suo corpo, e per la bocca
Molto mar gli sgorgava, e per le nari;
Ed ei senza respiro, e senza voce
Giaceasi, e spento di vigore affatto:
Chè troppa nel suo corpo entrò stanchezza. 590
Ma come il fiato, ed il pensier riebbe,
Tosto dal petto la divina benda
Sciolse, e gittolla, ove amareggia il fiume.
La corrente rapivala; nè tarda
A riprenderla fu con man la Dea. 595

atena 4

Athena Varvakeion, copia romana dell'Atena Parthenos di Fidia


Ei, dall'onda ritrattosi, chinossi
Su i molli giunchi, e baciò l'alma Terra.
Poi nel secreto della sua grand'alma
Così parlava, e sospirava insieme:
Eterni Dei, che mi rimane ancora 600
Di periglioso a tollerar? Dov'io
Questa gravosa notte al fiume in riva
Vegghiassi, l'aer freddo, e il molle guazzo
Potrian me di persona, e d'alma infermo
Struggere al tutto: chè sui primi albori 605
Nemica brezza spirerà dal fiume.
Salirò al colle in vece, ed all'ombrosa
Selva, e m'addormirò tra i folti arbusti,
Sol che non vieti la fiacchezza, o il ghiado,
Che il sonno in me passi furtivo? Preda 610
Diventar delle fere, e pasto io temo.
     Dopo molto dubbiar questo gli parve
Men reo partito. Si rivolse al bosco,
Che non lunge dall'acque a un poggio in cima
Fea di sè mostra, e s'internò tra due 615
Sì vicini arboscei, che dalla stessa
Radice uscir pareano, ambi d'ulivo,
Ma domestico l'un, l'altro selvaggio.
La forza non crollavali de’ venti,
Nè l’igneo Sole co’ suoi raggi addentro 620
Li saettava, nè le dense piogge
Penetravan tra lor: sì uniti insieme
Crebbero, e tanto s’intrecciaro i rami.
Ulisse sottentrovvi, e ammonticossi
Di propria man commodo letto, quando 625
Tal ricchezza era qui di foglie sparse,
Che ripararvi uomini tre, non che uno,
Potuto avriano ai più crudeli verni.
Gioì alla vista delle molte foglie
L’uom divino, e corcossi entro alle foglie, 630
E a sè di foglie sovrappose un monte.
Come se alcun, che solitaria suole
Condur la vita in sul confin d’un campo,
Tizzo nasconde fumeggiante ancora
Sotto la bruna cenere, e del foco, 635
Perchè cercar da sè lungi nol debba,
Serba in tal modo il prezïoso seme:
Così celossi tra le foglie Ulisse.
Pallade allor, che di sì rea fatica
Bramava torgli l’importuno senso, 640
Un sonno gli versò dolce negli occhi,
Le dilette palpebre a lui velando.

Leucotea

leucotea

Leucotea, di Jean Jules Allasseur

Leucotea (in greco antico: Leukothéa) e letteralmente "Dea bianca", da intendersi forse come "'La dea che scorre sulla schiuma del mare" è un personaggio della mitologia greca ed è una divinità del mare. Nella mitologia romana viene identificata con la dea Mater Matuta. Di Leucotea, la "dea marina bianca" ed a volte invocata dai marinai in difficoltà, si ha l'esempio più esplicito nell'Odissea quando Omero scrive che emerge dal mare e dona un velo a Odisseo, quasi naufrago e in balia dei venti mentre, a riguardo della sua adorazione terrena, ne esiste traccia tra gli scritti di Alcmane che, nel settimo secolo a.C., scriveva dell'esistenza di un santuario a lei dedicato. Se si considera che la tradizione mitologica dei greci è sempre stata quella di attribuire a ogni personaggio divino un'ascendenza immortale, la figura di Leucotea rappresenta un'eccezione poiché nei suoi riguardi non esiste alcuna testimonianza che confermi questa consuetudine e invece sono molte le opere (o leggende) che le attribuiscono un'origine umana. Tra le due versioni che fanno risalire Leucotea ad una precedente donna mortale, la più diffusa porta ad Ino che, nel riassunto dei suoi svariati miti, commise (o assistette a) un crimine verso i suoi figli e in seguito si gettò nel mare. Ino fu poi tramutata in Leucotea per volere degli dei. Diversamente dal numero di autori che scrivono di Ino, uno solo (Diodoro Siculo, che tra l'altro non scrive di Ino), racconta di una ninfa di nome Alia che si gettò nel mare per la vergogna della violenza subita dai suoi stessi figli. Anche Alia prese in seguito il nome di Leucotea. Nella consuetudine delle diverse leggende il contatto del corpo mortale con il mare trasforma la protagonista in una Dea. Dopo che si gettò in mare, Leucotea fu trasportata da un delfino fino alle spiagge di Corinto dove il re locale (Sisifo) istituì i Giochi Istmici e delle celebrazioni annuali in suo onore. Nella vicina Megaride la tradizione invece dice che furono le onde a portarne il corpo a riva e che fu trovato e seppellito da due donne vergini. A Rodi, l'isola di cui scrive Diodoro Siculo, divenne dea dopo essersi gettata in mare. Il latino Cicerone asserisce che è da ritenersi divina come Leucotea in Grecia e a Roma con il nome di Matuta. Il culto, i templi ed i monumenti dedicati a Leucotea, si estendeva dalla Grecia continentale, alle isole egee, alle coste del Mar Nero e fino all'Etruria. La più antica attestazione giunta a noi del culto di Leucotea e risalente al III secolo a.C. è una stele in marmo rinvenuta a Larissa oggi conservata all'Archaeological and Byzantine Myseum of Larissa di Volos. Nella mitologia romana viene identificata con la dea Mater Matuta, e a Leucotea si ricollega Ovidio, per spiegare l'usanza romana di portare in braccio al tempio di Mater Matuta in occasione della festività dei Matralia, non i propri figli ma quelli dei fratelli.

Eugenio Caruso - 05 - 02- 2022

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