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Omero, Odissea, Libro VIII. Alcinoo organizza i giochi in onore di Ulisse.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO LIBRO VIII

La mattina successiva, Alcinoo convoca un’assemblea dei Feaci: comunica la sua decisione di fornire allo straniero una nave che lo scorti in patria; fa poi preparare un grande banchetto in onore dell’ospite, e manda a chiamare il cantore, il cieco Demodoco. Durante il banchetto, l’aèdo narra un episodio della guerra di Troia, il cui ricordo commuove fino alle lacrime Odisseo, e la cosa non sfugge ad Alcinoo. In seguito il re indice dei giochi, ai quali partecipano i giovani Feaci; anche Odisseo, provocato da Eurialo, vi prende parte gareggiando nella prova del lancio del disco nella quale anche grazie all’aiuto di Atena sbaraglia tutti gli avversari. Dopo questa gara, sfida anche altri Feaci a cimentarsi con lui, ma Alcinoo pone fine alle contese ludiche, invitando ad assistere alle danze. Nuovamente Demodoco si accinge a cantare al suono della lira: narra il tradimento di Afrodite e Ares ai danni di Efesto, che si vendica imprigionando in una rete gli adulteri. Alcinoo esorta i Feaci a offrire doni ospitali a Odisseo, prima della sua partenza; Odisseo stesso sigilla i doni in uno scrigno donatogli da Arete e, dopo un fugace incontro con Nausicaa, che lo prega di ricordarsi di lei, sua prima soccorritrice, presiede al banchetto. Nel corso della festa Odisseo esorta Demodoco a raccontare del cavallo di Troia e della presa della città: il canto rinnova il doloroso ricordo e lo induce al pianto; allora Alcinoo chiede all’ospite chi sia e lo invita a narrargli la sua storia.

cavallo troia

È l’aedo Demodoco a cantare in versi l'inganno del cavallo di Troia, di fronte a Ulisse e a tanti altri commensali

TESTO LIBRO VIII

     Ma tosto che rosata ambo le palme
Comparve in ciel l’aggiornatrice Aurora,
Surse di letto la sacrata possa
Del magnanimo Alcinoo, e il divin surse
Rovesciator delle cittadi Ulisse. 5
La possanza d’Alcinoo al parlamento,
Che i Feaci tenean presso le navi,
Prima d’ogni altro mosse. A mano a mano
Veniano i Feacesi, e su polite
Pietre sedeansi. L’occhiglauca Diva, 10
Cui d’Ulisse il ritorno in mente stava,
Tolte del regio banditor le forme,
Qua e là s’avvolgea per la cittade,
E appressava ciascuno, e, Su, dicea,
Su, Prenci, e Condottieri, al foro, al foro, 15
Se udir vi cal dello stranier, che giunse
Ad Alcinoo testè per molto mare,
E assai più, che dell’uom, del Nume ha in viso.
     Disse, e tutti eccitò. Della raccolta
Gente furo in brev’ora i seggi pieni. 20
Ciascun guardava con le ciglia in arco
Di Laerte il figliuol: chè a lui Minerva
Sovra il capo diffuse, e su le spalle
Divina grazia, e in grandezza, e in fiore
Crebbelo, e in gagliardia, perch’ei ne’ petti 25
Destar potesse riverenza, e affetto,
E de’ nobili giuochi, ove chiamato
Fosse a dar di sè prova, uscir con vanto.
     Concorsi tutti, e in una massa uniti,
Tra loro arringò Alcìnoo in questa guisa: 30
O Condottieri de’ Feaci, e Prenci,
Ciò, che il cor dirvi mi comanda, udite.
Questo a me ignoto forestier, che venne
Ramingo, e ignoro ancor, se donde il Sole
Nasce, o donde tramonta, ai tetti miei, 35
Scorta dimanda pel viaggio, e prega,
Gli sia ratto concessa. Or noi l’usanza
Non seguirem con lui? Uomo, il sapete,
Ai tetti miei non capitò, che mesto
Languir dovesse sovra queste piagge 40
Per difetto di scorta i giorni, e i mesi.
Traggasi adunque nel profondo mare
Legno dall’onde non battuto ancora,
E s’eleggan cinquanta, e due garzoni
Tra il popol tutto, gli ottimi. Costoro, 45
Varato il legno, e avvinti ai banchi i remi,
Subite, e laute ad apprestar m’andranno
Mense, che a tutti oggi imbandite io voglio.
Ma quei, che di bastone ornan la mano,
L’ospite nuovo ad onorar con meco 50
Vengano a una; e il banditor mi chiami
L’immortale Demodoco, a cui Giove
Spira sempre de’ canti il più soave,
Dovunque l’estro, che l’infiamma, il porti.
     Detto, si mise in via. Tutti i scettrati 55
Seguianlo ad una; e all’immortal cantore
L’araldo indirizzavasi. I cinquanta
Garzoni, e due, come il Re imposto avea,
Furo del mar non seminato al lido,
La nave negra nel profondo mare 60
Trassero, alzaro l’albero, e la vela,
I lunghi remi assicurâr con forti
Lacci di pelle, a maraviglia il tutto,
E, le candide vele al vento aperte,
Arrestaro nell’alta onda la nave: 65
Poscia d’Alcinoo ritrovar l’albergo.
Già i portici s’empiean, s’empieano i chiostri,
Non che ogni stanza, della varia gente,
Che s’accogliea, bionde, e canute teste,
Una turba infinita. Il Re quel giorno 70
Diede al sacro coltel dodici agnelle,
Otto corpi di verri ai bianchi denti,
E due di tori dalle torte corna.
Gli scojâr, gli acconciâr, ne apparecchiaro
Convito invidïabile. L’araldo 75
Ritorno feo, per man guidando il vate,
Cui la Musa portava immenso amore,
Benchè il ben gli temprasse, e il male insieme:
Degli occhi il vedovò, ma del più dolce
Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo 80
Sedia d’argento borchiettata a lui
Pose, e l’affisse a una gran colonna:
Poi la cetra vocale a un aureo chiodo
Gli appese sovra il capo, ed insegnògli,
Come a staccar con mano indi l’avesse. 85
Ciò fatto, un desco gli distese avanti
Con panier sopra, e una capace tazza,
Ond’ei, qual volta nel pungea desio,
Del vermiglio licor scaldasse il petto.
     Come la fame rintuzzata, e spenta 90
Fu la sete in ciascun, l’egregio vate,
Che già tutta sentiasi in cor la Musa,
De’ forti il pregio a risonar si volse,
Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo
Salse in que’ dì la fama. Era l’antica 95
Tenzon d’Ulisse, e del Peliade Achille,
Quando di acerbi detti ad un solenne
Convito sacro si feriro entrambi.
Il Re de’ prodi Agamennòn gioía
Tacitamente in sè, visti a contesa 100
Venire i primi degli Achéi: chè questo
Della caduta d’Ilio era il segnale.
Tanto da Febo nella sacra Pito,
Varcato appena della soglia il marmo,
Predirsi allora udì, che di que’ mali, 105
Che sovra i Teucri, per voler di Giove,
Rovesciarsi doveano, e su gli Achivi,
Si cominciava a dispiegar la tela.
     A tai memorie il Laerziade, preso
L’ampio ad ambe le man purpureo manto, 110
Sel trasse in testa, e il nobil volto ascose,
Vergognando, che lagrime i Feaci
Vederserlo stillar sotto le ciglia.
Tacque il cantor divino; ed ei, rasciutte
Le guancie in fretta, dalla testa il manto 115
Si tolse, e, dato a una ritonda coppa
Di piglio, libò ai Numi. I Feacesi,
Cui gioja erano i carmi, a ripigliarli
Il poeta eccitavano, che apria
Nuovamente le labbra; e nuovamente 120
Coprirsi il volto, e lagrimare Ulisse.
Così, gocciando lagrime, da tutti
Celossi. Alcinoo sol di lui s’avvide,
E l’adocchiò, sedendogli da presso,
Oltre che forte sospirare udillo; 125
E, più non aspettando, Udite, disse,
Della Feacia Condottieri, e Prenci.
Già del comun convito, e dell’amica
De’ conviti solenni arguta cetra,
Godemmo. Usciamo, e ne’ diversi giuochi 130
Proviamci, perchè l’ospite, com’aggia
Rimesso il piè nelle paterne case,
Narri agli amici, che l’udranno attenti,
Quanto al cesto, e alla lotta, e al salto, e al corso,
Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente. 135
     Disse, ed entrò in cammino; e i Prenci insieme
Seguianlo. Ma l’araldo, alla caviglia
Riappiccata la sonante cetra,
Prese il cantor per mano, e fuor del tetto
Menollo: indi guidavalo per quella 140
Strada, in cui posto erasi Alcinoo, e i Capi.
Movean questi veloce al Foro il piede,
E gente innumerabile a un corpo
Lor tenea dietro. Ed ecco sorger molta,
Per cimentarsi, gioventù forzuta. 145
Sorse Acroneo, ed Ocíalo, Eleatréo sorse,
E Nauteo, e Primneo, e Anchíalo: levossi
Eretmeo ancor, Pontéo, Proteo, Toóne,
Non che Anabesinéo, non che Amfiálo,
Di Polinéo Tectonide la prole, 150
E non ch’Eurialo all’omicida Marte
Somigliante, e Naubolide, che tutti,
Ma dopo il senza neo Laodamante,
Vincea di corpo, e di beltà. Nè assisi
I tre restâr figli d’Alcinoo: desso 155
Laodamante, Alio, che al Rege nacque
Secondo, e Clitonéo pari ad un Nume.
     Del corso fu la prima gara. Un lungo
Spazio stendeasi alla carriera; e tutti
Dalle mosse volavano in un groppo, 160
Densi globi di polvere levando.
Avanzò gli altri Clitonéo, che, giunto
Della carriera al fin, lasciolli indietro
Quell’intervallo, che i gagliardi muli
I tardi lascian corpulenti buoi, 165
Se lo stesso noval fendono a un’ora.
Succedè al corso l’ostinata lotta,
Ed Eurialo prevalse. Il maggior salto
Amfiálo spiccollo, e il disco lunge
Non iscagliò nessun, com’Elatréo. 170
Laodamante, il real figlio egregio,
Nel pugile severo ebbe la palma.
     Fine al diletto de’ certami posto,
Parlò tra lor Laodamante: Amici,
Su via, l’estraneo domandiam di queste 175
Prove, se alcuna in gioventù ne apprese.
Di buon taglio e’ mi sembra; e, dove ai fianchi,
Dove alle gambe, e delle mani ai dossi
Guardisi, e al fermo collo, una robusta
Natura io veggio, e non mi par, che ancora 180
Degli anni verdi l’abbandoni il nerbo.
Ma il fransero i disagi all’onde in grembo:
Chè non è, quanto il mar, siccome io credo,
Per isconfigger l’uom, benchè assai forte.
     Laodamante, il tuo parlar fu bello, 185
Eurialo rispondea. Però l’abborda
Tu stesso, e il tenta; e a fuori uscir l’invita.
     Come d’Alcinoo l’incolpabil figlio
Questo ebbe udito, si fe’ innanzi, e, stando
Nel mezzo, Orsù, gli disse, ospite padre, 190
Tu ancor ne’ giochi le tue forze assaggia,
Se alcun mai ne apparasti a’ giorni tuoi,
E degno è ben, che non ten mostri ignaro:
Quando io non so per l’uom gloria maggiore,
Che del piè con prodezza, e della mano, 195
Mentre in vita riman, poter valersi.
T’arrischia dunque, e la tristezza sgombra
Dall’alma. Poco il desiato istante
Del tuo viaggio tarderà: varata
Fu già la nave, e i remigi son pronti. 200
     Ma così gli rispose il saggio Ulisse:
Laodamante, a che cotesto invito,
Deridendomi quasi? Io più, che giochi,
Disastri volgo per l’afflitta mente,
Io, che tanto patii, sostenni tanto, 205
E or qui, mendico di ritorno, e scorta,
Siedomi, al Re pregando, e al popol tutto.
     Il bravo Eurialo a viso aperto allora:
Uom non mi sembri tu, che si conosca
Di quelle pugne, che la stirpe umana 210
Per suo diletto esercitar costuma.
Tu m’hai vista di tal, che presso nave
Di molti banchi s’affaccendi, capo
Di marinari al trafficare intesi,
Che in mente serba il carico, e al vitto 215
Pensa, e ai guadagni con rapina fatti:
Ma nulla certo dell’Atleta tieni.
     Mirollo bieco, e replicogli Ulisse:
Male assai favellasti, e a uom protervo
Somigli in tutto. Così è ver, che i Numi 220
Le più care non dan doti ad un solo,
Sembiante, ingegno, e ragionar, che piace.
L’un bellezza non ha, ma della mente
Gl’interni sensi in cotal guisa esprime,
Che par delle parole ornarsi il volto. 225
Gode chiunque il mira. Ei, favellando
Con soave modestia, e franco a un tempo,
Spicca in ogni consesso; e allor che passa
Per la città, gli occhi a sè attrae, qual Nume.
L’altro nel viso, e nelle membra un mostra 230
Degl’immortali Dei: pur non si vede
Grazia, che ai detti suoi s’avvolga intorno.
Così te fregia la beltà, nè meglio
Formar saprian gli stessi Eterni un volto:
Se non che poco della mente vali. 235
Mi trafiggesti l’anima nel petto,
Villane voci articolando: io nuovo
Non son de’ giochi, qual tu cianci, e credo
Anzi, ch’io degli atleti andai tra i primi,
Finchè potei de’ verdi anni, e di queste 240
Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche
Durai, tra l’armi penetrando, e l’onde,
Gl’infortunj domaro. E non pertanto
Cimenterommi: chè mordace troppo
Fu il tuo sermon, nè più tenermi io valgo. 245
     Disse; e co’ panni stessi, in ch’era involto,
Lanciossi, e afferrò massiccio disco,
Che quelli, onde giocar solean tra loro,
Molto di mole soverchiava, e pondo.
Rotollo in aria, e con la man robusta 250
Lo spinse: sonò il sasso, e i Feaci,
Que’ naviganti celebri, que’ forti
Remigatori, s’abbattero in terra
Per la foga del sasso, il qual, partito
Da sì valida destra, i segni tutti 255
Rapidamente sorvolò. Minerva,
Vestite umane forme, il segno pose,
E all’ospite conversa, Un cieco, disse,
Trovar, palpando, tel potria: chè primo,
Nè già di poco, e solitario sorge. 260
Per questa prova dunque alcun timore
Non t’anga: lunge dal passarti, alcuno
Tra i Feaci non fia, che ti raggiunga.
     Rallegrossi a tai voci, e si compiacque
Il Laerziade, che nel circo uom fosse, 265
Che tanto il favoria. Quindi ai Feaci
Più mollemente le parole volse:
Quello arrivate, o damigelli, e un altro
Pari, o più grande, fulminarne in breve
Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri 270
Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora,
Chi far periglio di se stesso agogna,
Venga in campo con me: poichè di vero
Mi provocaste oltre misura. Uom vivo
Tra i Feacesi io non ricuso, salvo 275
Laodamante, che ricetto dammi.
Chi entrar vorrebbe con l’amico in giostra?
Stolto, e da nulla è senza dubbio, e tutto
Storpia le imprese sue, chiunque in mezzo
D’un popolo stranier con chi l’alberga 280
Si presenta a contendere. Degli altri
Nessun temo, o dispregio, e son con tutti
Nel dì più chiaro a misurarmi pronto,
Come colui, che non mi credo imbelle,
Quale il cimento sia. L’arco lucente 285
Trattare appresi: imbroccherei primajo,
Saettando un guerrier dell’oste avversa,
Benchè turba d’amici a me d’intorno
Contra quell’oste disfrenasse i dardi.
Sol Filottete mi vincea dell’arco, 290
Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci:
Ma quanti sulla terra or v’ha mortali,
Cui la forza del pane il cor sostenta,
Io di gran lunga superar mi vanto:
Chè non vo’ pormi io già co’ prischi eroi, 295
Con Eurito d’Ecalia, o con Alcide,
Che agli Dei stessi di scoccar nell’arte
Si pareggiaro. Che ne avvenne? Giorni
Sorser pochi ad Euríto, e le sue case
Nol videro invecchiar: poscia che Apollo 300
Forte si corrucciò, che disfidato
L’avesse all’arco, e di sua man l’uccise.
Dell’asta poi, quanto nessun di freccia
Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo,
Non mi vantaggi alcun: chè tra che molto 305
M’afflisse il mare, e che non fu il mio legno
Sempre vettovagliato, a me, qual prima,
Non ubbidisce l’infedel ginocchio.
     Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo
Rispose: Forestier, la tua favella 310
Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto
De’ motti audaci, onde colui ti morse,
La virtù mostrar vuoi, che t’accompagna,
Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga,
Più biasmata non fia. Ma tu m’ascolta: 315
Acciocchè un dì, quando nel tuo palagio
Sederai con la sposa, e i figli a mensa,
E quel, che di gentile in noi s’annida,
Rimembrerai, possi a un illustre amico
Favellando narrar, quali redammo 320
Studi dagli avi per voler di Giove.
Non siam nè al cesto, nè alla lotta egregi:
Ma rapidi moviam, correndo, i passi,
E a maraviglia navighiamo. In oltre
Giocondo sempre il banchettar ci torna, 325
Musica, e danza, ed il cangiar di veste,
I tepidi lavacri, e i letti molli.
Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo
Pregio dell’arte della danza avete,
Fate, che lo straniero a’ suoi più cari, 330
Risalutate le paterne mura,
Piacciasi raccontar, quanto anche al ballo,
Non che al nautico studio, e alla corsa,
Noi da tutte le genti abbiam vantaggio.
E tu, Pontonoo, per l’arguta cetra, 335
Che nel palagio alla colonna pende,
Vanne, e al divin Demodoco la reca.
     Sorse, e partì l’araldo; e al tempo stesso
Sorsero i nove a presedere ai giuochi
Giudici eletti dai comuni voti, 340
E il campo agguagliaro, e dilataro,
Rimosse alquanto le persone, il circo.
Tornò l’araldo con la cetra, e in mano
La pose di Demodoco, che al circo
S’adagiò in mezzo. Danzatori allora 345
D’alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni,
Feano al vate corona, e il bel circo
Co’ presti piedi percoteano. Ulisse
De’ frettolosi piè gli sfolgoríi
Molto lodava; e non si riavea 350
Dallo stupor, che gl’ingombrava il petto.
     Ma il poeta divin, citareggiando,
Del bellicoso Marte, e della cinta
Di vago serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo 355
Lor conversar nella superba casa
Del Re del fuoco, di cui Marte il casto
Letto macchiò nefandemente, molti
Doni offerti alla Dea, con cui la vinse.
Repente il Sole, che la colpa vide, 360
A Vulcan nunzïolla; e questi, udito
L’annunzio doloroso, alla sua negra
Fucina corse, un’immortal vendetta
Macchinando nell’anima. Sul ceppo
Piantò una magna incude; e col martello 365
Nodi, per ambo imprigionarli, ordia
A frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate le insidie, ei, contra Marte
D’ira bollendo, alla secreta stanza,
Ove steso giaceagli il caro letto, 370
S’avviò in fretta, e alla lettiera bella
Sparse per tutto i fini lacci intorno,
E molti sospendeane all’alte travi,
Quai fila sottilissime d’aragna,
Con tanta orditi, e sì ingegnosa fraude, 375
Che nè d’un Dio li potea l’occhio torre.
Poscia che tutto degl’industri inganni
Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno,
Terra ben fabbricata, e più, che ogni altra
Cittade, a lui diletta. In questo mezzo 380
Marte, che d’oro i corridori imbriglia,
Alle vedette non istava indarno.
Vide partir l’egregio fabbro, e, sempre
Nel cor portando la di vago serto
Cinta il capo Ciprigna, alla magione 385
Del gran mastro de’ fuochi in fretta mosse.
Ritornata di poco era la diva
Dal Saturníde onnipossente padre
Nel conjugale albergo; e Marte, entrando,
La trovò, che posava, e lei per mano 390
Prese, e a nome chiamò: Venere, disse,
Ambo ci aspetta il solitario letto.
Di casa uscì Vulcano: altrove, a Lenno
Vassene, e ai Sintii di selvaggia voce.

venere 9

LA NASCITA DI VNERE DI SANDRO BOTTICELLI


     Piacque l’invito a Venere, e su quello 395
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor s’avvolgean per cotal guisa intorno,
Che stendere una man, levare un piede,
Tutto era indarno; e s’accorgeano al fine,
Non aprirsi di scampo alcuna via. 400
S’avvicinava intanto il fabbro illustre,
Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:
Perocchè il Sole spiator la trista
Storia gli raccontò. Tutto dolente
Giunse al suo ricco tetto, ed arrestossi 405
Nell’atrio: immensa ira l’invase, e tale
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell’Olimpo l’udîr gli abitatori:
O Giove padre, e voi, disse, beati
Numi, che d’immortal vita godete, 410
Cose venite a rimirar da riso,
Ma pure insopportabili: Ciprigna,
Di Giove figlia, me, perchè impedito
De’ piedi son, cuopre d’infamia ognora,
E il suo cor nell’omicida Marte 415
Pone, come in colui, che bello, e sano
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,
Che tal non mi dovean mettere in luce,
Parenti miei? Testimon siate, o Numi, 420
Del lor giacersi uniti, e dell’ingrato
Spettacol, che oggi sostener m’è forza.
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,
Benchè sì accesi, e a cotai sonni in preda
Più non vorranno abbandonarsi. Certo 425
Non si svilupperan d’este catene,
Se tutti prima non mi torna il padre
Quei, ch’io posi in sua man, doni dotali
Per la fanciulla svergognata: quando
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede, 430
Ma del proprio suo cor non donna punto.
     Disse; e gli Dei s’adunaro alla fondata
Sul rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno, il Dio, per cui la terra trema,
Mercurio venne de’ mortali amico, 435
Venne Apollo dal grande arco d’argento.
Le Dee non già: chè nelle stanze loro
Riteneale vergogna. Ma i datori
D’ogni bramato ben Dei sempiterni
Nell’atrio s’adunâr: sorse tra loro 440
Un riso inestinguibile, mirando
Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo
Gli occhi al vicino, in tai parole uscia:
Fortunati non sono i nequitosi
Fatti, e il tardo talor l’agile arriva. 445
Ecco Vulcan, benchè sì tardo, Marte,
Che di velocità tutti d’Olimpo
Vince gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo essendo, con l’arte; onde la multa
Dell’adulterio gli può torre a dritto. 450
     Allor così a Mercurio il gajo Apollo:
Figlio di Giove, messaggiero accorto,
Di grate cose dispensier cortese,
Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi
Dormire all’aurea Venere da presso? 455
     Oh questo fosse, gli rispose il Nume
Licenzïoso, e a opre turpi avvezzo,
Fosse, o Sir dall’argenteo arco, e in legami
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,
E intendessero i Numi in me lo sguardo 460
Tutti, e tutte le Dee! Non mi dorria
Dormire all’aurea Venere da presso.
     Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non ridea Nettuno, anzi Vulcano,
L’inclito mastro, senza fin pregava, 465
Liberasse Gradivo, e con alate
Parole gli dicea: Scioglilo. Io t’entro
Mallevador, che agl’Immortali in faccia
Tutto ei compenserà, com’è ragione.
     Questo, rispose il Dio dai piè distorti 470
Al Tridentier dalle cerulee chiome,
Non ricercar da me. Triste son quelle
Malleverie, che dannosi pe’ tristi.
Come legarti agl’Immortali in faccia
Potrei, se Marte, de’ suoi lacci sciolto, 475
Del debito, fuggendo, anco s’affranca?
     Io ti satisfarò, riprese il Nume,
Che la terra circonda, e fa tremarla.
     E il divin d’ambo i piè zoppo ingegnoso:
Bello non fora il ricusar, nè lice. 480
Disse, e d’un sol suo tocco i lacci infranse.
     Come liberi fur, saltaro in piede,
E Marte in Tracia corse: ma la Diva
Del riso amica, riparando a Cipri,
In Pafo si fermò, dove a lei sacro 485
Frondeggia un bosco, e un altar vapora.
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
Olio, che la beltà cresce de’ Numi,
Unsero a lei le delicate membra:
Poi così la vestîr, che maraviglia 490
Non men, che la Dea stessa, era il suo manto.
     Tal cantava Demodoco; e Ulisse,
E que’ remigator forti, que’ chiari
Navigatori, di piacere, udendo,
Le vene ricercar sentiansi, e l’ossa. 495
     Ma di Laodamante, e d’Alio soli,
Chè gareggiar con loro altri non osa,
Ad Alcinoo mirar la danza piacque.
Nelle man tosto la leggiadra palla
Si recaro, che ad essi avea l’industre 500
Polibo fatta, e colorata in rosso.
L’un la palla gittava in ver le fosche
Nubi, curvato indietro; e l’altro, un salto
Spiccando, riceveala, e al compagno
La rispingea senza fatica, o sforzo, 505
Pria che di nuovo il suol col piè toccasse.
Gittata in alto la vermiglia palla,
La nutrice di molti amica terra
Co’ dotti piedi cominciaro a battere,
A far volte, e rivolte alterne, e rapide, 510
Mentre lor s’applaudia dagli altri giovani
Nel circo, e acute al ciel grida s’alzavano.
     Così ad Alcinoo l’Itacese allora:
O de’ mortali il più famoso, e grande,
Mi promettesti danzatori egregi, 515
E ingannato non m’hai. Chi può mirarli
Senza inarcar dello stupor le ciglia?
     Gioì d’Alcinoo la sacrata possa,
E ai Feaci rivolto, Udite, disse,
Voi, che per sangue, e merto i primi siete. 520
Saggio assai parmi il forestiero, e degno,
Che di ricchi l’orniam doni ospitali.
Dodici reggon questa gente illustri
Capi, e tra loro io tredicesmo siedo.
Tunica, e manto, e un talento d’oro 525
Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo:
Ond’ei, così donato, alla mia cena
Con più gioja nel cor vegna, e s’assida.
Eurialo, che il ferì d’acerbi motti,
Co’ doni, e in un con le parole, il plachi. 530
     Assenso diè ciascuno, e un banditore
Mandò pe’ doni; e così Eurialo: Alcinoo,
Il più famoso de’ mortali, e grande,
L’ospite io placherò, come tu imponi.
Gli offrirò questa di temprato rame 535
Fedele spada, che d’argento ha l’elsa,
La vagina d’avorio; e fu l’avorio
Tagliato dall’artefice di fresco.
Non l’avrà, io penso, il forestiere a sdegno.
     Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose 540
Con tali accenti: Ospite padre, salve.
Se dura fu profferta, e incauta voce,
Prendala, e seco il turbine la porti.
E a te della tua donna, e degli amici,
Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi, 545
Giove conceda i desïati aspetti.
     Salve, gli replicò subito Ulisse,
Amico, e tu. Gli abitator d’Olimpo
Dianti felici dì; nè mai nel petto
Per volger d’anni uopo, o desir ti nasca 550
Di questa spada, ch’io da te ricevo,
Benchè placato già sol da’ tuoi detti.
Tacque; e il buon brando agli omeri sospese.
     Già dechinava il Sole, e innanzi a Ulisse
Stavano i doni. Gli onorati araldi 555
Nella reggia portaro i doni eletti,
Che dai figli del Re tolti, e all’augusta
Madre davante collocati furo.
Alcinoo entrò alla reggia, e seco i Prenci,
Che altamente sedero; e del Re il sacro 560
Valore in forma tal parlò ad Arete:
Donna, su via, la più sald’arca, e bella,
Fuor traggi, e una tunica vi stendi,
E un manto, di cui nulla offenda il lustro.
Scaldisi in oltre allo stranier nel cavo 565
Rame sul foco una purissim’onda,
Perch’ei, le membra asterse, e visti in bello
Ordin riposti de’ Feaci i doni,
Meglio il cibo gli sappia, e più gradito
Scendagli al core per l’orecchio il canto. 570
Io questa gli darò di pregio eccelso
Mia coppa d’oro, acciò non sorga giorno,
Ch’ei d’Alcinoo non pensi, al Saturníde
Libando nel suo tetto, e agli altri Numi.
     Disse; ed Arete alle sue fanti ingiunse 575
Porre il treppiede in su le brace ardenti.
Quelle il treppiede in su le ardenti brace
Posero, e versâr l’onda, e le raccolte
Legne accendeanvi sotto: il cavo rame
Cingean le fiamme, e si scaldava il fonte. 580
Arete fuor della secreta stanza
Trasse dell’arche la più salda, e bella,
E tutti con la tunica, e col manto
Vi allogò i doni in vestimenta, e in oro.
Indi assennava l’ospite: Il coverchio 585
Metti tu stesso, e bene avvolgi il nodo,
Non forse alcun ti nuoccia, ove te il dolce
Sonno cogliesse nella negra nave.
     L’accorto eroe, che non udilla indarno,
Mise il coverchio, e l’intricato nodo 590
Prestamente formò, di cui mostrato
Gli ebbe il secreto la dedalea Circe.
E qui ad entrar la dispensiera onesta
L’invitava nel bagno. Ulisse vide
I lavacri fumar tanto più lieto, 595
Che tai conforti s’accostâr di rado
Al suo corpo dal dì, che della Ninfa
Le grotte più nol ritenean, dov’era
D’ogni cosa adagiato al par d’un Nume.
     Lavato, ed unto per le scorte ancelle, 600
E di manto leggiadro, e di leggiadra
Tunica cinto, alla gioconda mensa
Da’ tepidi lavacri Ulisse giva.
Nausíca, cui splendea tutta nel volto
La beltà degli Dei, della superba 605
Sala fermossi alle lucenti porte.
Sguardava Ulisse, e l’ammirava, e queste
Mandavagli dal sen parole alate:
Felice, ospite, vivi, e ti ricorda,
Come sarai nella natia tua terra, 610
Di quella, onde pria venne a te salute.
     Nausíca, del pro’ Alcinoo inclita figlia,
Ulisse rispondeale, oh! così Giove,
L’altitonante di Giunon marito,
Voglia, che il dì del mio ritorno spunti, 615
Com’io nel dolce ancor nido nativo
Sempre, qual Dea, t’onorerò: chè fosti
La mia salvezza tu, fanciulla illustre.
     Già le carni partiansi, e nelle coppe
Gli umidi vini si mesceano. Ed ecco 620
Il banditor venir, guidar per mano
L’onorato da tutti amabil vate,
E adagiarlo, facendogli d’un’alta
Colonna appoggio, ai convitati in mezzo.
Ulisse allor dall’abbrostita, e ghiotta 625
Schiena di pingue, dentibianco verro
Tagliò un florido brano, e all’araldo,
Te’, disse, questo, e al vate il porta, ond’io
Rendagli, benchè afflitto, un qualche onore.
Chi è, che in pregio, e in riverenza i vati 630
Non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui
Sì dolci melodie la Musa impara.
     Portò l’araldo il dono, e il vate il prese,
E per l’alma gli andò tacita gioja.
     Alle vivande intanto, e alle bevande 635
Porgean la mano; e furo spenti appena
Della fame i desiri, e della sete,
Che il saggio Ulisse tali accenti sciolse:
Demodoco, io te sopra ogni vivente
Sollevo, te, che la canora figlia 640
Del sommo Giove, o Apollo stesso inspira.
Tu i casi degli Achivi, e ciò, che opraro,
Ciò, che soffriro, con estrema cura,
Quasi visto l’avessi, o da que’ prodi
Guerrieri udito, su la cetra poni. 645
Via, dunque, siegui, e l’edifizio canta
Del gran cavallo, che d’inteste travi,
Con Pallade al suo fianco, Epéo construsse,
E Ulisse penetrar feo nella rocca
Dardania pregno, stratagemma insigne! 650
Degli eroi, per cui Troja andò in faville.
Ciò fedelmente mi racconta, e tutti
Sclamar m’udranno, e attestar, che il petto
Di tutta la sua fiamma il Dio t’accende.
     Demodoco, che pieno era del Nume, 655
D’alto a narrar prendea, come gli Achivi,
Gittato il foco nelle tende, i legni
Parte saliro, e aprîr le vele ai venti,
Parte sedean col valoroso Ulisse
Ne’ fianchi del cavallo entro la rocca. 660
I Troi, standogli sotto in cerchio assisi,
Molte cose dicean, ma incerte tutte.
E in tre sentenze divideansi: o il cavo
Legno intagliato lacerar con l’armi,
O addurlo in cima d’una rupe, e quindi 665
Precipitarlo, o il simulacro enorme
Agli adirati Numi offrire in voto.
Questo prevalse al fin: poichè destino
Era, che allor perisse Ilio superbo,
Che ricettata nel suo grembo avesse 670
L’immensa mole intesta, ove de’ Greci,
Morte ai Troi per recar, sedeano i Capi.
Narrava pur, come de’ Greci i figli,
Fuor di quella versatisi, e lasciate
Le cave insidie, la cittade a terra 675
Gittaro; e come, mentre i lor compagni
Guastavan qua e là palagi, e templi,
Ulisse di Deïfobo alla casa
Col divin Meneláo corse, qual Marte,
E un duro v’ebbe a sostener conflitto, 680
Donde uscì vincitore, auspice Palla.
     A tali voci, a tai ricordi Ulisse
Struggeasi dentro, e per le smorte guance
Piovea lagrime giù dalle palpebre.
Qual donna piange il molto amato sposo, 685
Che alla sua terra innanzi, e ai cittadini
Cadde, e ai pargoli suoi, da cui lontano
Volea tener l’ultimo giorno; ed ella,
Che moribondo il vede, e palpitante,
Sovra lui s’abbandona, e urla, e stride, 690
Mentre ha di dietro chi dell’asta il tergo
Le va battendo, e gli omeri, e le intima
Schiavitù dura, e gran fatica, e strazio,
Sì che già del dolor la miserella
Smunto ne porta e disfiorato il volto: 695
Così Ulisse di sotto alle palpebre
Consumatrici lagrime piovea.
Pur del suo pianto non s’accorse alcuno,
Salvo Re Alcinoo, che sedeagli appresso,
E gemere il sentia: però ai Feaci, 700
Udite, disse, o Condottieri, e Prenci.
Deponga il vate la sonante cetra:
Chè a tutti il canto suo grato non giunge.
Dal primo istante, ch’ei toccolla, in pianto
Cominciò a romper l’ospite, a cui siede 705
Certo un’antica in sen cura mordace.
La mano adunque dalle corde astenga;
E lieto allo stranier del par, che a noi,
Che il ricettammo, questo giorno cada.
Consiglio altro non v’ha. Per chi tal festa? 710
Per chi la scorta preparata, e i doni,
D’amistà pegni, e le accoglienze oneste?
Un supplice straniero ad uom, che punto
Scorga diritto, è di fratello in vece.
Ma tu di quel, ch’io domandarti intendo, 715
Nulla celarmi astutamente: meglio
Torneranne a te stesso. Il nome dimmi,
Con che il padre solea, solea la madre,
E i cittadin chiamarti, ed i vicini:
Chè senza nome uom non ci vive in terra; 720
Sia buono, o reo, ma, come aperse gli occhi,
Da’ genitori suoi l’acquista in fronte.
Dimmi il tuo suol, le genti, e la cittade,
Sì che la nave d’intelletto piena
Prenda la mira, e vi ti porti. I legni 725
Della Feacia di nocchier mestieri
Non han, nè di timon: mente hanno, e tutti
Sanno i disegni di chi stavvi sopra,
Conoscon le cittadi, e i pingui campi,
E senza tema di ruina, o storpio, 730
Rapidissimi varcano, e di folta
Nebbia coverti, le marine spume.
Bensì al padre Nausitoo io dire intesi,
Che Nettun contra noi forte s’adira,
Perchè illeso alla patria ogni mortale 735
Riconduciamo; e che un de’ nostri legni
Ben fabbricati, al suo ritorno, il Dio
Struggerà nelle fosche onde, e la nostra
Cittade coprirà d’alta montagna.
Ma effetto abbiano, o no, queste minacce, 740
Tu mi racconta, nè fraudarmi il vero,
I mari scorsi, e i visitati lidi.
Parlami delle genti, e delle terre,
Che di popol ridondano, e di quante
Veder t’avvenne nazïoni agresti, 745
Crudeli, ingiuste, o agli stranieri amiche,
E a cui timor de’ Numi alberga in petto.
Nè mi tacer, perchè secreto piangi,
Quando il fato di Grecia, e d’Ilio ascolti.
Se venne dagli Dei strage cotanta, 750
Lor piacque ancor, che degli eroi le morti
Fossero il canto dell’età future.
Ti perì forse un del tuo sangue a Troja,
Genero prode, o suocero, i più dolci
Nomi al cor nostro dopo i figli, e i padri? 755
O forse un fido, che nell’alma entrarti
Sapea, compagno egregio? È qual fratello
L’uom, che sempre usa teco, e a cui forniro
D’alta prudenza l’intelletto i Numi.

dei

L'Olimpo greco

Le cinque dee greche più importanti

Afrodite
Al primo posto troviamo Afrodite, dea della bellezza, del desiderio carnale e della passione sfrenata. Per quanto riguarda il racconto della sua nascita, ci sarebbero due tradizioni differenti: alcuni, infatti, la definiscono come figlia di Zeus e Dione; altri, invece, pensano che ella sia figlia di Urano, i cui organi sessuali, tagliati da Crono, caddero in mare generandola dalle onde. Attorno a lei, inoltre, si sono condensate tantissime leggende da non considerare un corpus unico, piuttosto un repertorio di episodi in cui ella compare. Nonostante fosse sposata con Efesto, Afrodite amava follemente Ares, il dio della guerra. Non solo, ma aveva anche altri numerosissimi amanti, tra cui Adone e Anchise.
Artemide
Dea della caccia, della verginità, degli animali, della foresta e della luna, Artemide è stata da sempre legata ai simboli di arco e frecce. È il più delle volte considerata sorella gemella di Apollo e dunque figlia di Zeus e Latona. La sua peculiarità è quella di essere molto vendicativa e in effetti molte furono le vittime mietute a causa della sua ira. Come suo fratello Apollo era considerato l’incarnazione del sole, così Artemide era invece considerata la personificazione della Luna che erra nelle montagne. Tra gli animali a lei sacri c’erano i cervi e gli orsi e, infine, viene ricordata spesso come la protettrice delle Amazzoni.
Atena
È figlia di Zeus e Meti. La storia della sua nascita è del tutto particolare: si dice infatti che Atena nacque dalla testa di Zeus, tutta armata presso le rive del lago Tritonio, in Libia. Slanciandosi, ella emise un grido di guerra di cui risuonarono cielo e terra. Atena è la dea guerriera, armata di lancia ed egida (una sorta di corazza di pelle di capra) ed ebbe una parte importantissima nella lotta contro i Giganti. È inoltre dea della saggezza e i suoi simboli sono la civetta e l’olivo. È anche ricordata come Atena “dagli occhi glauchi”, per indicare il colore azzurro lucente che caratterizzava appunto le sue pupille.
Demetra
Demetra è la Dea materna della Terra, figlia di Crono e Rea, sorella di Zeus. La sua personalità, religiosa e mitica allo stesso tempo, la distingue da Gaia, la Terra concepita come elemento cosmogenico. Essa è essenzialmente dea del grano, ma anche una delle maggiori divinità dei riti eleusini: il suo potere sulla vita delle piante e sul ciclo vitale in generale simboleggia il passaggio dell’anima dalla vita all’oltretomba. I suoi attributi simbolici sono la spiga, il narciso, il papavero e la gru è il suo uccello preferito. Spesso viene rappresentata seduta con un serpente o delle fiaccole
Era
È la più grande tra le dee dell’Olimpo, figlia di Crono e Rea e perciò sorella di Zeus pur essendone allo stesso tempo la moglie. Si diceva che fosse stata allevata all’estremità del Mondo da Oceano e Teti, ai quali Rea l’aveva affidata durante la lotta di Zeus con i Titani. Secondo l’Iliade Zeus ed Era si erano uniti in nozze sul monte Ida, in Frigia, sebbene altre testimonianze affermino la celebrazione in altri luoghi. Benché fosse la dea del matrimonio, Zeus le era molto infedele e questo le procurava non poche gelosie. Gli animali a lei sacri erano il pavone, la vacca e il cuculo.


Eugenio Caruso - 01- 03- 2022

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www.impresaoggi.com