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Omero, Odissea, Libro X. La passione per Circe

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO LIBRO X
Ulisse continua il racconto del suo viaggio di ritorno verso Itaca. La piccola flotta di Odisseo approda all’isola Eolia, patria di Eolo, re dei venti, signore di un luogo incantato; l’isola è circondata da un muro di bronzo e la reggia di Eolo è abitata dal dio, dalla moglie e dai suoi figli. Dopo un mese di permanenza, Odisseo parte con i suoi compagni, portando con sé un otre regalata da Eolo, che vi ha racchiuso tutti i venti, eccetto Zefiro, il vento occidentale propizio, in modo da assicurare un felice ritorno. Ma, giunti ormai in vista della costa di Itaca, i compagni di Odisseo, pensando che l’otre racchiuda un tesoro che egli non vuole dividere con essi, mentre Odisseo dorme, lo aprono provocando una terribile tempesta, che li porta fuori rotta. Approdano nuovamente all’isola di Eolo che, riconoscendo nell’accaduto l’ira degli dei, rifiuta di dare un nuovo aiuto a Odisseo. Ripartito da lì, Odisseo giunge con i suoi uomini nella terra dei Lestrigoni, giganti cannibali: mentre i compagni ormeggiano le navi in porto, la sola nave di Odisseo non vi getta l’ancora: l’eroe ordina ad alcuni dei suoi di esplorare la zona; questi, raggiunta una città, sono accolti dal re Antifate che divora uno di loro; neppure gli altri riescono a fuggire, perché i Lestrigoni, chiamandosi l’un con l’altro, gettano pietre sugli uomini delle navi ancorate in porto e, infilzandoli come pesci con delle forche, se li divorano. Solo la nave di Odisseo si salva con la fuga e giunge di lì all’isola della maga Circe, Eea. Dopo due giorni di sostanell’isola , Odisseo va in esplorazione. Recatosi su un altura, vede un fumo alzarsi, come da un’abitazione: decide allora di mandare dei suoi compagni in avanscoperta, nonostante tutte le incognite legate a questa nuova missione. Divide gli uomini in due gruppi, la sorte sceglie quello capeggiato da Euriloco. Giunti nei pressi del palazzo della maga, sono subito ammaliati dal canto di Circe stupefatti dalle belve che ne custodiscono la casa: mangiano cibi e bevande drogati e vengono trasformati in porci. Scampato all’incantesimo solo Euriloco, che si era prudentemente tenuto in disparte, torna a informare Odisseo, che vuole raggiungere subito il palazzo incantato. Sulla strada incontra Hermes, che gli dà un’erba con cui potrà difendersi dalle pozioni della maga e gli suggerisce di sguainare la spada appena la dea gli ordinerà di andare nel porcile con i compagni. Giunto da Circe, Odisseo, seguendo le istruzioni di Hermes, riesce a evitare l’incantamento della dea e ottiene che i suoi compagni ritornino uomini; dopo aver chiamato a sé quanti sono rimasti sulla nave, accetta di fermarsi da lei, ospitato in modo splendido. Dopo un anno, quando Odisseo sembra aver ormai dimenticato di far ritorno a casa, i compagni gli chiedono di prender congedo dalla maga; così egli la prega di lasciarlo partire; Circe acconsente, ma rivela a Odisseo che prima di tornare a Itaca l’eroe dovrà compiere un altro viaggio, nell’oltretomba per conoscere dall’indovino Tiresia il suo destino. Circe dà tutte le istruzioni necessarie e gli consegna un montone e una pecora nera per i sacrifici in onore degli dei inferi. Odisseo esorta i suoi compagni a ripartire, destando tuttavia in loro angoscia e paura quando rivela la meta immediata del loro viaggio.

lestrigoni

Attacco dei Lestrigoni a Ulisse, scene dagli affreschi della casa di via Graziosa, Roma (I secolo a.C.)

TESTO LIBRO X

Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto
Agl’immortali Dei d’Ippota figlio,
Eolo, abitava in isola natante,
Cui tutta un muro d’infrangibil rame,
E una liscia circonda eccelsa rupe.5
Dodici, sei d’un sesso, e sei dell’altro,
Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse
Per nodo marital suore, e fratelli,
Che avean degli anni il più bel fior sul volto.
Costoro ciascun dì siedon tra il padre10
Caro, e l’augusta madre, ad una mensa
Di varie carca dilicate dapi.
Tutto il palagio, finchè il giorno splende,
Spira fragranze, e d’armonie risuona.
Poi, caduta su l’isola la notte,15
Chiudono al sonno le bramose ciglia
In traforati, e attappezzati letti
Con le donne pudiche i fidi sposi.
     Questo il paese fu, questo il superbo
Tetto, in cui me per un intero mese20
Co’ modi più gentili Eolo trattava.
Di molte cose mi chiedea: di Troja,
Del navile de’ Greci, e del ritorno;
E il tutto io gli narrai di punto in punto.
Ma come, giunta del partir mio l’ora,25
Parole io mossi ad impetrar licenza,
Ei, non che dissentir, del mio viaggio
Pensier si tolse, e cura; e della pelle
Di bue novenne presentommi un otre,
Che imprigionava i tempestosi venti:30
Poichè de’ venti dispensier supremo
Fu da Giove nomato; ed a sua voglia
Stringer lor puote, o rallentare il freno.
L’otre nel fondo del naviglio avvinse
Con funicella lucida d’argento,35
Che non ne uscisse la più picciol’aura;
E sol tenne di fuori un opportuno
Zefiro, cui le navi, e i naviganti
Diede a spinger su l’onda. Eccelso dono,
Che la nostra follia volse in disastro!40
     Nove dì senza posa, e tante notti
Veleggiavamo; e già veniaci incontro
Nel decimo la patria, e omai vicini
Quei vedevam, che raccendeano i fochi:
Quando me stanco, perch’io regger volli45
Della nave il timon, nè in mano altrui,
Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,
Sorprese il sonno. I miei compagni intanto
Favellavan tra loro, e fean pensiero,
Che argento, ed oro alle mie case, doni50
Del generoso Ippotade, io recassi.
Numi! come di sè, dicea taluno
Rivolto al suo vicin, tutti innamora
Costui, dovunque navigando arriva!
Molti da Troja dispogliata arredi55
Riporta belli, e prezïosi; e noi,
Che le vie stesse misurammo, a casa
Torniam con le man vôte. In oltre questi
L’Ippotade gli diè pegni d’amore.
Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda60
D’oro, e d’argento la bovina pelle.
     Così prevalse il mal consiglio. L’otre
Fu preso, e sciolto; e immantinente tutti
Con furia ne scoppiâr gli agili venti.
La subitana orribile procella65
Li rapìa dalla patria, e li portava
Sospirosi nell’alto. Io, cui l’infausto
Sonno si ruppe, rivolgea nell’alma,
Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,
O soffrir muto, e rimaner tra i vivi.70
Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo,
Giù nel fondo io giacea, mentre le navi,
Che i compagni di lutto empieano indarno,
Ricacciava in Eolia il fiero turbo.
     Scendemmo a terra, acqua attignemmo, e a mensa75
Presso le navi ci adagiammo. Estinta
Del cibarsi, e del ber l’innata voglia,
Io con un de’ compagni, e con l’araldo,
M’inviai d’Eolo alla magion superba;
E tra la dolce sposa, e i figli cari80
Banchettante il trovai. Sul limitare
Sedevam della porta. Alto stupore
Mostraro i figli, e con parole alate,
Ulisse, mi dicean, come venistu?
Qual t’assalì Demone avverso? Certo85
Cosa non fu da noi lasciata indietro,
Perchè alla patria, e al tuo palagio, e ovunque
Ti talentasse più, salvo giungessi.
Ed io con petto d’amarezza colmo:
Tristi compagni, e un sonno infausto a tale90
Condotto m’hanno. Or voi sanate, amici,
Che il potete, tal piaga. In questa guisa
Le anime loro io raddolcir tentai.
Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre,
Via, rispose, da questa isola, e tosto,95
O degli uomini tutti il più malvagio:
Chè a me nè accor, nè rimandar con doni
Lice un mortal, che degli Eterni è in ira.
Via, poichè l’odio lor qua ti condusse.
Così Eolo sbandia me dal suo tetto,100
Che de’ gemiti miei tutto sonava.
     Mesti di nuovo prendevam dell’alto:
Ma si stancavan di lottar con l’onda,
Remigando, i compagni, e del ritorno
Moria la speme ne’ dogliosi petti.105
Sei dì navigavamo, e notti sei;
E col settimo Sol della sublime
Città di Lamo dalle larghe porte,
Di Lestrigonia, pervenimmo a vista.
Quivi pastor, che a sera entra col gregge,110
Chiama un altro, che fuor con l’armento esce.
Quivi uomo insonne avria doppia mercede,
L’una pascendo i buoi, l’altra le agnelle
Dalla candida lana: sì vicini
Sono il diurno, ed il notturno pasco.115
Bello, ed ampio n’è il porto: eccelsi scogli
Cerchianlo d’ogni parte, e tra due punte,
Che sporgon fuori, e ad incontrar si vanno,
S’apre un’angusta bocca. I miei compagni,
Che nel concavo porto a entrar fur pronti,120
Propinque vi tenean le ondivaganti
Navi, e avvinte tra lor; quando nè grande
Vi s’alza mai, nè picciola onda, e sempre
Una calma vi appar tacita, e bianca.
Io sol rimasi col naviglio fuori,125
Che al sasso estremo con intorta fune
Raccomandai: poi, su la rupe asceso,
Quanto si discopria, mirava intorno.
Lavor di bue non si scorgea, nè d’uomo:
Sol di terra salir vedeasi un fumo.130
Scelgo allor due compagni, e con l’araldo
Màndoli a investigar, quali l’ignota
Terra produce abitatori e nutre.
La via diritta seguitâr, per dove
I carri conduceano alla cittade135
Dagli alti monti la troncata selva;
E s’abbattero a una real fanciulla,
Del Lestrigone Antifate alla figlia.
Che del fonte d’Artacia, onde costuma
Il cittadino attignere, in quel punto140
Alle pure scendea linfe d’argento.
Le si fero da presso, e chi del loco
Re fosse, e su qual gente avesse impero,
La domandaro; ed ella pronta l’alto
Loro additò con man tetto del padre.145
Tocco ne aveano il limitare appena,
Che femmina trovâr di sì gran mole,
Che rassembrava una montagna; e un gelo
Si sentiro d’orror correr pel sangue.
Costei di botto Antifate chiamava150
Dalla pubblica piazza, il rinomato
Marito suo, che disegnò lor tosto
Morte barbara, e orrenda. Uno afferronne,
Che gli fu cena: gli altri due con fuga
Precipitosa giunsero alle navi.155
     Di grida la cittade intanto empiea
Antifate. I Lestrigoni l’udiro,
E accorrean chi da un lato, e chi dall’altro,
Forti di braccio, in numero infiniti,
E giganti alla vista. Immense pietre160
Così dai monti a fulminar si diero,
Che d’uomini spiranti, e infranti legni
Sorse nel porto un suon tetro, e confuso.
Ed alcuni infilzati eran con l’aste,
Quali pesci guizzanti, e alle ferali165
Mense future riserbati. Mentre
Tal seguìa strage, io, sguainato il brando,
E la fune recisa, a’ miei compagni
Dar di forza nel mar co’ remi ingiunsi,
Se il fuggir morte premea loro; e quelli170
Di tal modo arrancavano, che i gravi
Massi, che piovean d’alto, il mio naviglio
Lietamente schivò: ma gli altri tutti
Colà restaro sfracellati e spersi.
     Contenti dello scampo, e in un dogliosi175
Per li troppi compagni in sì crudele
Guisa periti, navigammo avanti,
E su l’isola Eéa sorgemmo, dove
Circe, Diva terribile, dal crespo
Crine, e dal dolce canto, avea soggiorno.180
Suora germana del prudente Eeta,
Dal Sole aggiornator nacque, e da Persa
Dell’antico Oceàn figliuola illustre.
Taciti a terra ci accostammo, entrammo,
Non senza un Dio, che ci guidasse, il cavo185
Porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni
Giacevamo, e due notti, il cor del pari
La stanchezza rodendoci, e la doglia.
     Come recato ebbe il dì terzo l’Alba,
Io, presa l’asta, ed il pungente brando,190
Rapidamente andai sovra un’altezza,
Se d’uomo io vedessi opra, o voce udissi.
Fermato il piè su la scoscesa cima,
Scôrsi un fumo salir d’infra una selva
Di querce annose, che in un vasto piano195
Di Circe alla magion sorgeano intorno.
Entrar disposi senza indugio in via,
E il paese cercar: poi, ripensando,
Al legno in vece rivoltare i passi,
Cibo dare ai compagni, e alcuni prima200
A esplorare inviar, mi parve il meglio.
Già tra la nave, e me poco restava:
Quando ad un de’ Celesti, in cui pietade
Per quella solitudine io destai,
Grosso, ed armato di ramose corna205
Drizzare alla mia volta un cervo piacque.
Spinto dal Sole, che il cuocea co’ raggi,
De’ paschi uscia della foresta, e al fiume
Scendea con labbra sitibonde; ed io
Su la spina lo colsi a mezzo il tergo210
Sì, che tutto il passò l’asta di rame.
Nella polve cadè, mandando un grido,
E via ne volò l’alma. Accorsi, e, il piede
Pontando in esso, dalla fonda piaga
Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno215
Cerro deposi a terra: indi virgulti
Divelsi, e giunchi, attorcigliaili, fune
Sei spanne lunga ne composi, e i morti
Piedi ne strinsi dell’enorme fera.
Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi,220
Su la lancia poggiandomi, al naviglio:
Chè mal potuto avrei sovra una sola
Spalla portar così sformata belva.
Presso la nave scaricaila; e ratto
Con soavi parole i miei compagni,225
A questo rivolgendomi, ed a quello,
Così tentai rianimare: Amici,
Prima del nostro dì d’Aide alle porte
Non calerem, benchè ci opprima il duolo.
Su, finchè cibo avemo, avem licore,230
Non mettiamli in obblio; nè all’importuna
Fame lasciamci consumar di dentro.
Quelli, ubbidendo alle mie voci, usciro
Delle latebre loro, e, in riva al mare,
Che frumento non genera, venuti,235
Stupian del cervo. Sì gran corpo egli era!
E come sazj del mirarlo furo,
Ne apparecchiaro non vulgar convito,
Sparse prima di chiara onda le palme.
Così tutto quel dì sino all’Occaso240
Di carne opima, e di fumoso vino
L’alma riconfortammo: il Sol caduto,
E comparse le tenebre, nel sonno
Ci seppellimmo al mormorio dell’onde.
     Ma sorta del mattin la rosea figlia,245
Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi:
Compagni, ad onta di guai tanti, udite.
Qui, d’onde l’Austro spira, o l’Aquilone,
E in qual parte il Sole alza, in qual dechina,
Noto non è. Pur consultare or vuolsi,250
Qual consiglio da noi prender si debba,
Se v’ha un consiglio: di che forte io temo.
Io d’in su alpestre poggio isola vidi
Cinta da molto mar, che bassa giace,
E nel cui mezzo un nereggiante fumo255
D’infra un bosco di querce al ciel si volve.
     Rompere a questo si sentiro il core,
D’Antifate membrando, e del Ciclope
La ferocia, i misfatti, e le nefande
Della carne dell’uom mense imbandite.260
Strida metteano, e discioglieansi in pianto.
Ma del pianto che pro? che delle strida?
Tutti in due schiere uguali io li divisi,
E diedi ad ambo un Duce: all’una il saggio
Euriloco, e me all’altra. Indi nel cavo265
Rame dell’elmo agitavam le sorti,
Ed Euriloco uscì, che in via si pose
Senza dimora. Ventidue compagni,
Lagrimando, il seguian; nè affatto asciutte
Di noi, che rimanemmo, eran le guance.270
     Edificata con lucenti pietre
Di Circe ad essi la magion s’offerse,
Che vagheggiava una feconda valle.
Montani lupi, e leon falbi, ch’ella
Mansuefatti avea con sue bevande,275
Stavano a guardia del palagio eccelso,
Nè lor già s’avventavano; ma in vece
Lusingando scotean le lunghe code,
E su l’anche s’ergeano. E quale i cani
Blandiscono il signor, che dalla mensa280
Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano:
Tal quelle di forte unghia orride belve
Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo
Vederle s’arretraro, ivan blandendo.
Giunti alle porte, la Deessa udiro285
Dai ben torti capei, Circe, che dentro
Canterellava con leggiadra voce,
Ed un’ampia tessea, lucida, fina,
Maravigliosa, immortal tela, e quale
Della man delle Dive uscir può solo.290
Polite allor, d’uomini capo, e molto
Più caro, e in pregio a me, che gli altri tutti,
Sciogliea tai detti: Amici, in queste mura
Soggiorna, io non so ben, se donna, o Diva,
Che, tele oprando, del suo dolce canto295
Tutta fa risentir la casa intorno.
Voce mandiamo a lei. Disse, e a lei voce
Mandaro; e Circe di là tosto, ov’era,
Levossi, e aprì le luminose porte,
E ad entrare invitavali. In un groppo300
La seguian tutti incautamente, salvo
Euriloco, che fuor, di qualche inganno
Sospettando, restò. La Dea li pose
Sovra splendidi seggi; e lor mescea
Il Pramnio vino con rappreso latte,305
Bianca farina, e mel recente; e un succo
Giungeavi esizïal, perchè con questo
Della patria l’obblio ciascun bevesse.
Preso, e votato dai meschini il nappo,
Circe batteali d’una verga, e in vile310
Stalla chiudeali: avean di porco testa,
Corpo, setole, voce; ma lo spirto
Serbavan dentro, qual da prima, integro.
Così rinchiusi, sospirando, furo:
Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti315
Gettava, e della rovere, e dell’elce,
De’ verri accovacciati usato cibo.
     Nunzio verace dell’infausto caso
Venne rapido Euriloco alla nave.
Ma non potea per iterati sforzi320
La lingua disnodar: gonfi portava
Di pianto i lumi, e un vïolento duolo
L’alma gli percotea. Noi, figurando
Sventure nel pensier, con maraviglia
L’interrogammo; ed ei l’eccidio al fine325
De’ compagni narrò: Nobile Ulisse,
Attraversato delle querce il bosco,
Come tu comandavi, eccoci a fronte
Magion construtta di politi marmi,
Che di mezzo a una valle alto s’ergea.330
Tessea di dentro una gran tela, e canto
Donna, o Diva, chi ’l sa? stridulo alzava.
Voce mandaro a lei. Levossi, e aperse
Le porte, e ne invitò. Tutti ad un corpo
Nella magion disavvedutamente335
Seguianla: io no, che sospettai di frode.
Svaniro insieme tutti; e per istarmi
Lungo, ch’io feci, ad esplorare assiso,
Traccia d’alcun di lor più non m’apparve.
     Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta,340
Spada d’argento bullettata appesi,
Appesi un valid’arco, e ingiunsi a lui,
Che innanzi per la via stessa mi gisse.
Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani
Stringendomi, e piangendo, Ah! mal mio grado,345
Con supplici gridò parole alate,
Là non guidarmi, o del gran Giove alunno,
Donde, non che altri ricondur, tu stesso
Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo
Senza indugio con questi, e la vicina350
Parca schiviam, finchè schivarla è dato.
     Euriloco, io risposi, e tu rimanti,
Di carne, e vino a riempirti il ventre,
Lungo la nave. Io, cui severa stringe
Necessitate, andrò. Ciò detto, a tergo355
La nave negra io mi lasciava, e il mare.
     Già per le sacre solitarie valli
Della Maga possente all’alta casa
Presso io mi fea, quando Mercurio, il Nume,
Che arma dell’aureo caducéo la destra,360
In forma di garzone, a cui fiorisce
Di lanuggine molle il mento appena,
Mi venne incontro, e per la man mi prese,
E, Misero! diss’ei con voce amica,
Perchè ignaro de’ lochi, e tutto solo,365
Muovi così per queste balze a caso?
Sono in poter di Circe i tuoi compagni,
E li chiudon, quai verri, anguste stalle.
Venistu forse a riscattarli? Uscito
Dell’immagine tua penso, che a terra370
Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio
Fuor d’ogni storpio, e in salvo porti. Prendi
Questo mirabil farmaco, che il tristo
Giorno dal capo tuo storni, e con esso
Trova il tetto di Circe, i cui perversi375
Consigli tutti io t’aprirò. Bevanda
Mista, e di succo esizïale infusa,
Colei t’appresterà: ma le sue tazze
Contra il farmaco mio nulla varranno.
Più oltre intendi. Come te la Diva380
Percosso avrà d’una sua lunga verga,
Tu cava il brando, che ti pende al fianco,
E, di ferirla in atto, a lei t’avventa.
Circe, compresa da timor, sue nozze
T’offrirà pronta: non voler tu il letto385
Della dea ricusare, acciò ti sciolga
Gli amici, e amica ti si renda. Solo
Di giurarti costringila col grande
Degl’immortali Dei giuro, che nulla
Più non sarà per macchinarti a danno:390
Onde, poichè t’avrà l’armi spogliate,
Del cor la forza non ti spogli ancora.

circe 1

“Circe offre la coppa ad Odisseo”, dettaglio del quadro di John William Waterhouse (1891)


     Finito il ragionar, l’erba salubre
Porsemi già dal suol per lui divelta,
E la natura divisonne: bruna395
N’è la radice; il fior bianco di latte;
Moli i Numi la chiamano: resiste
Alla mano mortal, che vuol dal suolo
Staccarla; ai Dei, che tutto ponno, cede.
Detto, dalla boscosa isola il nume400
Alle pendici dell’Olimpo ascese;
Ed io ver Circe andai: ma di pensieri
In gran tempesta m’ondeggiava il core.
     Giunto alla Diva dalle belle trecce,
La voce alzai dall’atrio. Udimmi, e ratta405
Levossi, e aprì le luminose porte,
E m’invitava: io la seguia non lieto.
Sovra un distinto d’argentini chiovi
Seggio a grand’arte fatto, e vago assai,
Mi pose: lo sgabello i piè reggea.410
Quindi con alma, che pensava mali,
La mista preparommi in aureo nappo
Bevanda incantatrice, ed io la presi
Dalla sua mano, e bebbi; e non mi nocque.
Però in quel che la Dea me della lunga415
Verga percosse, e, Vanne, disse, e a terra
Co’ tuoi compagni nella stalla giaci,
Tirai dal fianco il brando, e contra lei,
Di trafiggerla in atto, io mi scagliai.
Circe, mandando una gran voce, corse420
Rapida sotto il colpo, e le ginocchia
Con le braccia afferrommi, e queste alate
Parole mi drizzò, non senza pianto:
Chi sei tu? donde sei? la patria dove?
Dove i parenti a te? Stupor m’ingombra,425
Che l’incanto bevuto in te non possa,
Quando io non vidi, cui passasse indarno
Per la chiostra de’ denti il mio veleno.
Certo un’anima invitta in petto chiudi.
Sarestu forse quel sagace Ulisse,430
Che Mercurio a me sempre iva dicendo
Dover d’Ilio venir su negra nave?
Per fermo sei. Nella vagina il brando
Riponi, e sali il letto mio: dal core
D’entrambi ogni sospetto amor bandisca.435
     Circe, risposi, che da me richiedi?
Io cortese ver te, che in sozze belve
Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi
Tacite frodi entro te stessa; ed io
La tua penetrerò stanza secreta,440
Onde, poichè m’avrai l’armi spogliate,
Del cor la forza tu mi spogli ancora?
No, se non giuri prima, e con quel grande
Degl’immortali Dei giuro, che nulla
Più non sarai per macchinarmi a danno.445
Dissi; e la Dea giurò. Di Circe allora
Le belle io salsi maritali piume.
     Quattro serviano a lei nel suo palagio
Di quelle Ninfe, che dai boschi nate
Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri,450
Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi.
L’una gittava su i politi seggi
Bei tappeti di porpora, cui sotto
Bei tappeti mettea di bianco lino:
L’altra mense d’argento innanzi ai seggi455
Spiegava, e d’oro v’imponea canestri:
Mescea la terza nell’argentee brocche
Soavissimi vini, e d’auree tazze
Copria le mense: ma la quarta il fresco
Fonte recava, e raccendea gran fuoco460
Sotto il vasto treppiè, che l’onda cape.
Già fervea questa nel cavato bronzo,
E me la Ninfa guidò al bagno, e l’onda
Pel capo mollemente, e per le spalle
Spargermi non cessò, ch’io mi sentii465
Di vigor nuovo rifiorir le membra.
Lavato, ed unto di licor d’oliva,
E di tunica, e clamide coverto,
Sovra un distinto d’argentini chiovi
Seggio a grand’arte fatto, e vago assai,470
Mi pose: lo sgabello i piè reggea.
E un’altra Ninfa da bel vaso d’oro
Purissim’acqua nel bacil d’argento
Mi versava, e stendeami un liscio desco,
Che di candido pane, e di serbate475
Dapi a fornir la dispensiera venne.
Cíbati, mi dicea la veneranda
Dispensiera, ed instava; ed io, d’ogni esca
Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi,
Tenea la mente, pur sedendo, infissa.480
Circe, ratto che avvidesi, ch’io mesto
Non mi curava della mensa punto,
Con queste m’appressò voci sul labbro:
Perchè così, qual chi non ha favella,
Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda485
Non tocchi, nè bevanda? In te sospetto
S’annida forse di novello inganno?
Dopo il mio giuramento a torto temi.
     Ed io: Circe, qual mai retto uomo e saggio
Vivanda toccheria prima, o bevanda,490
Che i suoi vedesse riscattati, e salvi?
Fa, che liberi io scorga i miei compagni,
Se vuoi, che della mensa io mi sovvegna.
     Circe uscì tosto con in man la verga,
E della stalla gl’infelici trasse,495
Che di porci novenni avean l’aspetto.
Tutti le stavan di rincontro; e Circe,
D’uno all’altro passando, un prezïoso
Sovra lor distendea benigno unguento.
Gli odiati peli, che la tazza infesta500
Produsse, a terra dalle membra loro
Cadevano; e ciascun più, che non era,
Grande apparve di corpo, e assai più fresco
D’etade in faccia, e di beltà più adorno.
Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi505
La destra; e un così tenero, e sì forte
Compianto si levò, che la magione
Ne risonava orrendamente, e punta
Sentiasi di pietà la stessa Maga.
     Ella, standomi al fianco, O sovrumano510
Di Laerte figliuol, provvido Ulisse,
Corri, diceami, alla tua nave, e in secco
La tira, e cela nelle cave grotte
Le ricchezze, e gli arnesi: indi a me torna,
E i diletti compagni adduci teco.515
     M’entrò il suo dir nell’alma. Al lido io corsi,
E i compagni trovai, che appo la nave
Di lagrime nutriansi, e di sospiri.
Come, se riedon le satolle vacche
Dai verdi prati al rusticale albergo,520
I vitelli saltellano, e alle madri,
Che più serraglio non ritienli, o chiostra,
Con frequente muggir corrono intorno:
Così con pianto a me, vistomi appena,
Intorno s’aggiravano i compagni,525
E quei mostravan su la faccia segni,
Che vi si scorgerian, se il dolce nido,
Dove nacquero, e crebbero, se l’aspra
Itaca avesser tocca. O, lagrimando
Dicean, di Giove alunno, una tal gioja530
Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse
D’Itaca il porto. Ma, su via, l’acerbo
Fato degli altri raccontar ti piaccia.
     Ed io con dolce favellar: La nave
Si tiri in secco, e nelle cave grotte535
Le ricchezze si celino, e gli arnesi.
Poi seguitemi in fretta; ed i compagni
Nel tetto sacro dell’illustre Circe
Vedrete assisi ad una mensa, in cui
Di là d’ogni desio la copia regna.540
     Pronti obbediro. Ripugnava Euriloco
Solo, ed or questo m’arrestava, or quello,
Gridando, Sventurati, ove ne andiamo?
Qual mai vi punge del disastro sete,
Che discendiate alla Maliarda, e vôlti545
Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri,
Il suo palagio a custodir dannati?
L’ospizio avrete del Ciclope, quando
Calaro i nostri nella grotta, e questo
Prode Ulisse guidavali, di cui550
Morte ai miseri fu lo stolto ardire.
     Così Euriloco; ed io la lunga spada
Cavar pensai della vagina, e il capo
Dal busto ai piè sbalzargli in su la polve,
Benchè vincol di sangue a me l’unisse.555
Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi
Con favella gentil: Di Giove alunno,
Costui sul lido, se ti piace, in guardia
Della nave rimangasi, e alla sacra
Magion noi guida. Detto ciò, dal mare560
Meco venian, nè restò quegli indietro:
Tanto della minaccia ebbe spavento.
     Cura prendeasi Circe in questo mezzo
Degli altri, che lavati, unti, e di buone
Tuniche cinti, e di bei manti furo.565
Seduti a mensa li trovammo. Come
Si sguardaro l’un l’altro, e sul passato
Con la mente tornaro, in pianti, e in grida
Davano; e ne gemean pareti, e volte.
M’appressò allora, e mi parlò in tal guisa570
L’inclita tra le Dive: O di Laerte
Gran prole, o ricco di consigli Ulisse,
Modo al dirotto lagrimar si ponga.
Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso
Duraste affanni, e so le crude offese,575
Che vi recaro in terra uomini ostili.
Su via, gioite omai, finchè nel petto
Vi rinasca l’ardir, ch’era in voi, quando
Itaca alpestre abbandonaste in prima.
Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue,580
Per la memoria de’ viaggi amari
Nelle menti ancor viva, e l’allegrezza
Disimparaste tra cotanti guai.
     Agevolmente ci arrendemmo. Quindi
Pel continuo rotar d’un anno intero585
Giorno non ispuntò, che a lauta mensa
Me non vedesse, e i miei compagni in festa.
Ma rivolto già l’anno, e le stagioni
Tornate in sè col varïar de’ mesi,
Ed il cerchio dei dì molti compiuto,590
I compagni, traendomi in disparte,
Infelice! mi dissero, del caro
Cielo nativo, e delle avite mura
Non ti rammenterai, se vuole il fato,
Che in vita tu rimanga, e le rivegga?595
     Sano avviso mi parve. Il Sol caduto,
E coverta di tenebre la terra,
Quei si corcaro per le stanze; ed io,
Salito il letto a maraviglia bello
Di Circe, supplichevoli drizzai600
Alla Dea, che m’udì, queste parole:
Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro
Rendimi natio ciel, cui sempre vola,
Non pure il mio, ma de’ compagni il core,
De’ compagni, che stanno a me d’intorno,605
Sempre che tu da me t’apparti, e tutta
Con le lagrime lor mi struggon l’alma.
     O di Laerte sovrumana prole,
La Dea rispose, ritenervi a forza
Io più oltre non vo’. Ma un’altra via610
Correre in prima è d’uopo: è d’uopo i foschi
Di Pluto, e di Proserpina soggiorni
Vedere in prima, e interrogar lo spirto
Del Teban vate, che, degli occhi cieco,
Puro conserva della mente il lume;615
Di Tiresia, cui sol diè Proserpina
Tutto portar tra i morti il senno antico.
Gli altri non son, che vani spettri, ed Ombre.
     Rompere il core io mi sentii. Piagnea,
Su le piume giacendomi, nè i raggi620
Volea del Sol più rimirare. Al fine,
Poichè del pianger mio, del mio voltarmi
Su le piume io fui sazio, Or qual, ripresi,
Di tal viaggio sarà il Duce? All’Orco
Nessun giunse finor su negra nave.625
     Per difetto di guida, ella rispose,
Non t’annojar. L’albero alzato, e aperte
Le tue candide vele, in su la poppa
T’assidi, e spingerà Borea la nave.
Come varcato l’Oceáno avrai,630
Ti appariranno i bassi lidi, e il folto
Di pioppi eccelsi, e d’infecondi salci
Bosco di Proserpína: a quella piaggia,
Che l’Oceán gorghiprofondo batte,
Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.635
Rupe ivi s’alza, presso cui due fiumi
S’urtan tra lor romoreggiando, e uniti
Nell’Acheronte cadono: Cocito,
Ramo di Stige, e Piriflegetonte.
Appréssati alla rupe, ed una fossa,640
Che un cubito si stenda in lungo, e in largo,
Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino,
Indi vin puro, e limpidissim’onda,
Vérsavi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspergi.645
Poi degli estinti prega i frali, e vôti
Capi, e prometti lor, che nel tuo tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherai, di doni il rogo650
Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerai nerissimo arïete,
Che della greggia tua pasca il più bello.
Compiute ai Mani le preghiere, uccidi
Pecora bruna, ed un monton, che all’Orco655
Volgan la fronte: ma converso tieni
Del fiume alla corrente in quella il viso.
Molte Ombre accorreranno. A’ tuoi compagni
Le già sgozzate vittime, e scojate
Mettere allor sovra la fiamma, e ai Numi,660
Al prepotente Pluto, e alla tremenda
Proserpina drizzar voti comanda.
E tu col brando sguainato siedi,
Nè consentir, che anzi, che parli al vate,
I Mani al sangue accostinsi. Repente665
Il profeta verrà, Duce di genti,
Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno
Pel mar pescoso alle natie contrade
Ti darà, quanto basta, indizio e lume.
     Così la Diva; e d’in su l’aureo trono670
L’Aurora comparì. Tunica e manto
Circe stessa vestimmi; a sè ravvolse
Bella, candida, fina, ed ampia gonna,
Si strinse al fianco un’aurea fascia, e un vago
Su i ben torti capei velo s’impose.675
Ma io, passando d’una in altra stanza,
Confortava i compagni, e ad uno ad uno
Con molli detti gli abbordava: Tempo
Non è più da sfiorare i dolci sonni.
Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe.680
     Si levaro, e obbediro. Ahi che nè quinci
Mi si concesse ricondurli tutti!
Un Elpenore v’era, il qual d’etate
Dopo gli altri venia, poco nell’armi
Forte, nè troppo della mente accorto.685
Caldo del buon licore, onde irrigossi,
Si divise dagli altri, ed al palagio
Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.
Udito il suon della partenza, e il moto,
Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga690
Scala di dietro scendere obbliando,
Mosse di punta sovra il tetto, e cadde
Precipite dall’alto: il collo ai nodi
Gli s’infranse, e volò l’anima a Dite.
     Ragunatisi i miei, Forse, io lor dissi,695
Alle patrie contrade andar credete.
Ma un altro pria la venerabil Diva
Ci destinò cammin, che ai foschi regni
Di Pluto, e di Proserpina conduce,
Per quivi interrogar del rinomato700
Teban Tiresia l’indovino spirto.
     Duol mortale gli assalse a questi detti.
Piangeano, e fermi rimanean lì lì,
E la chioma stracciavansi: ma indarno
Lo strazio della chioma era, ed il pianto.705
     Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse
Lagrime spargevam, Circe, che in via
Pur s’era posta, alla veloce nave
Legò la bruna pecora, e il montone.
Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,710
Con piè leggiero. Chi potria de’Numi
Scorgere alcun, che qua, o là si mova,
Quando dall’occhio uman voglion celarsi?

circe 3

John Collier, 1885. Circe con tigre

La maga Circe

La figura della maga Circe è da sempre avvolta dalla leggenda, sin da quando la sua storia divenne famosa grazie al racconto del suo incontro con Ulisse. Nell’opera omerica è indicata come una dea. Non esistono in letteratura molte fonti riguardanti la sua storia, se non quelle dello stesso Omero, di Virgilio, di Ovidio con Le Metamorfosi e alcuni altri autori greci. La figura della dea-maga è narrata anche nel ciclo degli Argonauti, in cui compare proprio nel ruolo di zia di Medea, moglie di Giasone. L’etimologia del nome Circe, dal greco kiv rko, sparviero. Secondo la tradizione, Circe sarebbe figlia di Elio, dio del sole, e della ninfa Perseide; è sorella di Eete, sovrano della Colchide e padre di Medea, e Pasifae che sposò Minosse re di Creta e che generò il Minotauro. Circe avrebbe quindi ottenuto l’immortalità e i poteri magici dal padre, mentre la voce melodiosa e umana dalla madre. Non si hanno molte notizie sulla sua infanzia, sappiamo solo che ella da adolescente si innamorò dell’umano Glauco. Il giovane, però, non la ricambiava ed era attratto della bellissima ninfa Scilla. Circe, pazza di gelosia, creò una pozione magica e trasformò la ragazza in un orrendo mostro marino che dimorò lungo le coste della Calabria diventando il terrore dei naviganti. Circe scoprì quindi di possedere alcuni poteri e di saper manipolare le erbe magiche (pharmaka), e divenne esperta nell’arte della trasfigurazione.
Non si sa molto altro di lei, se non che da adulta visse nell’isola di Eea (attualmente identificata come il promontorio del Circeo, nel basso Lazio) attirando i naviganti bisognosi di ristoro con la sua voce melodiosa. La maga viveva circondata da bestie feroci che però aveva reso mansuete; si dilettava a creare filtri e pozioni nel suo laboratorio. La figura di Circe rappresenta il fascino della natura e dell’istinto a cui i deboli soccombono diventando simili alle bestie. Simbolicamente ella rappresenta la lusinga sessuale femminile e la seduzione calcolata. Anche Ulisseche viaggiò per dieci lunghi anni attraverso il Mediterraneo, incontrò la maga Circe.
«E arrivammo all’isola Ea: vi abitava
Circe dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana»

La permanenza sull’isola durò molto più del previsto: Ulisse e Circe, infatti, vissero una appassionata storia d’amore per quasi un anno. Dalla loro unione sarebbe nato anche un figlio, di nome Telemaco, cresciuto dalla madre fino all’età adolescenziale. Egli, secondo la Telegonia (poema epico attribuito a Eugamone di Cirene), si sarebbe poi recato ad Itaca dove avrebbe ucciso suo padre per errore e sarebbe diventato il fondatore di Tuscolo o Preneste. Dopo la storia con Ulisse, Circe si sarebbe occupata del figlio avuto da lui, dedicandosi ad una nuova vita. Le leggende narrano che la maga avrebbe poi sposato Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope, per vivere insieme a lui la sua vita immortale.
Molte sono le rappresentazioni pittoriche del mito della maga Circe e del suo incontro con Ulisse; alcuni frammenti e vasi sono conservati al Museo Archeologico Nazionale di Atene e al Metropolitan Museum of Art di New York. La figura della dea è ritornata alla ribalta nel 2018 quando la scrittrice americana Madeline Miller le ha dedicato un romanzo di grande successo (dal titolo Circe): in esso, la storia di Circe viene raccontata con straordinaria umanità dalla sua infanzia fino alla maturità, facendo emergere il contrasto tra il suo essere dea e donna allo stesso tempo. Circe nel racconto prova quindi le emozioni di una donna, piena di contraddizioni, alla ricerca della sua felicità terrena. "Nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero. Mi chiamarono ninfa, presumendo che sarei stata come mia madre, le zie e le migliaia di cugine. Ultime fra le dee minori, i nostri poteri erano così modesti da garantirci a malapena l’immortalità. Parlavamo ai pesci e coltivavamo fiori, distillavamo la pioggia dalle nubi e il sale dalle onde. Quella parola, ninfa, misurava l’estensione e l’ampiezza del nostro futuro. Nella nostra lingua significa non solo dea, ma sposa." Incipit del libro di Madeline Miller
A Circe è dedicato un cratere su Teti, satellite di Saturno, e anche un asteroide.

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Eugenio Caruso - 12- 03- 2022

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www.impresaoggi.com