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L'economia italiana negli anni '50 - '60. Le imprese italiane iniziano a correre.

Ecco l'unico bene causa e sicurezza di vita felice: avere fiducia in se stessi.

Seneca Lettere morali a Lucilio


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Il liberale Luigi Einaudi, presidente della Repubblica, garante della cosiddetta "linea Einaudi", che impone stabilità dei prezzi, pareggio di bilancio e riduzione progressiva delle restrizioni alle importazioni, Alcide De Gasperi, capo di governo, fautore della sintesi tra solidarismo e libero mercato, e il liberista Giuseppe Pella, ministro del tesoro, sono le figure di riferimento più significative della politica economica del primo dopoguerra.

Il benessere conquistato dal Paese poggia, ancora oggi, in gran parte, sugli indirizzi di questi tre uomini politici, che dovettero, peraltro, combattere contro i fautori della programmazione economica e dell'impresa pubblica. 
Il successo dell'economia italiana, negli anni cinquanta, va cercato, anche, nella riapertura dei mercati esteri, fortemente voluta da Einaudi.

Durate il fascismo, l'impresa italiana era rimasta molto arretrata, rispetto al resto dell'Europa, a causa della politica autarchica. In breve tempo, però, il sistema produttivo italiano può disporre di nuovi processi industriali, importati dall'estero, che, associati ad una lunga tradizione di capacità artigianali specializzate e alla sovrabbondanza di manodopera a basso costo, consentono, alle imprese, prodigiosi recuperi di produttività.

La prima metà degli anni '50 è ricordata, peraltro, dal movimento sindacale, come quella degli "anni duri". La Cgil vede limitata la propria libertà di organizzazione e di riunione, mentre gli imprenditori approfittano della debolezza del sindacato per procedere a drastiche riorganizzazioni. Il sindacato riesce a catalizzare la classe operaia sui grandi temi politici, ma resta, per anni, debole all'interno della fabbrica e sul piano della politica economica.
Ad esempio, alla Fiat, dove Valletta ha stabilito ottime relazioni con la Cgil (si può parlare di un consociativismo ante litteram), fino ai primi anni sessanta non ci sarà neanche un'ora di sciopero. Giova ricordare che La Stampa, sotto la direzione di Giulio De Benedetti, è fortemente orientata a sinistra; l'obiettivo è far leggere agli impiegati e agli operai della Fiat il quotidiano padronale, e non l'Unità, il quotidiano dei lavoratori.

Gli anni cinquanta vedono, all'interno della Dc, contrapporsi due anime, quella che abbraccia la causa della modernizzazione  e del liberismo e quella dell'integralismo cattolico secondo cui la società deve modellarsi sui valori cristiani e rifletterli. Se, a parole, quasi tutti i democristiani affermano di ispirarsi a questi ultimi principi, nella realtà, essi, inizialmente, non si oppongono alla politica liberista di Einaudi e Pella.

Tale politica ha successo, nei primissimi anni del post-fascismo, grazie al concorrere di tre elementi:
 

  1. in tutti i partiti serpeggia un timore inconscio: tutto ciò che sa di dirigismo e di interventi statali odora ancora di regime fascista,
  2. dagli stessi liberisti non viene negata quella dose di intervento pubblico di cui l'economia italiana ha sempre goduto (1),
  3. l'european recovery program, altrimenti noto come piano Marshall, consente la ripresa dell'industria pesante e la diffusione di tecniche e modelli organizzativi americani.

L'orientamento dei primissimi anni del dopoguerra è, però, destinato a fallire per il concorrere di un'altra serie di ragioni:

  1. la crisi dell'industria bellica accentua la "dipendenza" di tali aziende dall'Iri;
  2. le imprese del settore bellico privato chiedono il salvataggio e vengono trasferite nel Fim, il Fondo per l'industria meccanica, creato nel 1947 e trasformato in Efim nel 1962;
  3. lo sviluppo industriale del Mezzogiorno appare improbabile con le sole forze del mercato,
  4. la presenza di leader carismatici e capaci nel settore pubblico, come Enrico Mattei (fondatore dell’Eni) e Oscar Sinigaglia (che sviluppa la siderurgia in ambito Iri), sono elementi di persuasione per privilegiare la strada dell'intervento pubblico,
  5. nessuno si pone seriamente l'obiettivo di privatizzare le imprese in mano allo stato.

Gli economisti dell'epoca teorizzano un sistema di "economia mista" in cui le imprese pubbliche operano sul mercato in concorrenza con le imprese private o in quei settori strategici nei quali i privati non avrebbero la forza per operare.
Le imprese pubbliche dovrebbero competere sul libero mercato, facendo profitti e assumendo in più l'onere di obiettivi di pubblico interesse.

Nella realtà l'impegno di dover far fronte a obiettivi di pubblico interesse è, secondo i manager delle imprese di stato, talmente oneroso che viene attivato per esse il "fondo di dotazione", e cioè, un conferimento di capitale per coprire le perdite di gestione; questo modello di assistenzialismo imprenditoriale sarà una delle cause del degrado delle imprese pubbliche. Nel sistema produttivo italiano si innesca un circolo perverso: le imprese private obsolete e fuori mercato vengono acquistate dallo stato che le tiene in vita con l'ossigeno dei fondi di dotazione.
 
Il sistema politico riesce in tal modo a conseguire due risultati, l'imposizione del modello programmatorio su quello liberista e la costituzione di un canale diretto di trasmissione delle decisioni politiche verso il sistema economico.

Nel 1956 viene istituito il ministero delle partecipazioni statali, che sancisce il modello dell'economia mista, con la presenza di un ampio spettro di imprese stabilmente sotto il controllo dello stato.
Giorgio Ruffolo, uno degli ideatori della programmazione economica, ripensando agli anni sessanta, dirà, molti decenni dopo, «L'Italia era, dal punto di vista economico, un centauro, mezzo uomo e mezzo cavallo. Quando si ammalava non si sapeva mai chi chiamare, se il medico o il veterinario. Un Paese …. nel quale il suo capitalismo, non propriamente efficiente dal punto di vista della competitività e dal punto di vista della robustezza industriale, era un capitalismo fortemente sovvenzionato. In quel quadro economico irruppe lo stato e intervenne l'impresa pubblica».  Ruffolo, come tutti i fautori della programmazione economica, sostiene che l'intervento dello stato nell'economia del Paese sia stata l'unica iniezione di capacità imprenditoriali e manageriali in un mondo dominato da un «capitalismo proprietario introverso e arretrato».

Osserverà Michele Salvati, che la storia dello stato imprenditore «….comincia molto prima della programmazione economica e della nazionalizzazione dell'energia elettrica. È infatti prima che si prendono decisioni fondamentali per la storia economica del Paese, per esempio alla fine della guerra, quando lo stato si trova in mano un'enorme quantità di partecipazioni lasciate in eredità dal capitalismo privato degli anni della grande depressione.  …… È da lì che bisogna partire per capire come mai adottammo un modello di partecipazioni statali. Una cosa era certa: il capitale privato non era pronto».


(1) L'esempio più clamoroso è costituito da Mediobanca, controllata da tre banche dell'Iri, che accettano di essere controbilanciate da un esiguo numero di azioni di privati che, in realtà, fanno la politica della banca.



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