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Omero, Odissea, Libro XII. Le Sirene, Scilla e Cariddi.

Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo.
Seneca

INTRODUZIONE

""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "".
Ippolito Pindemonte

ulisse 5

Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio


RIASSUNTO LIBRO XII
Ritornati all’isola di Circe, i superstiti seppelliscono il cadavere di Elpenore, poi vengono accolti dalla maga che offre loro cibo e ristoro; quindi essa, chiesto a Odisseo di narrarle il suo dialogo con Tiresia, aggiunge alcuni suoi consigli sulla rotta futura: innanzitutto Odisseo passerà davanti alle Sirene, ma non dovrà cedere al loro canto ammaliatore:infatti esse seducono gli uomini con i loro racconti e li lasciano poi marcire sul lido; egli, perciò, turate le orecchie dei compagni con la cera, si farà legare all’albero della nave per poter godere del canto senza perdersi nei loro incantesimi. Incontrerà le rupi erranti e poi Scilla e Cariddi , terribili mostri marini: Scilla agguanta i marinai che le passano vicino e li divora, Cariddi distrugge le navi risucchiando l’acqua sotto di esse. Odisseo dovrà perciò passare vicino a Scilla rassegnandosi a perdere sei dei suoi compagni, poi navigare oltre. Giungerà quindi all’isola Trinacria, l’isola del Sole (identificata con la Sicilia in età omerica) , come già ha profetizzato Tiresia; li dovrà astenersi dal toccare le vacche di Helios (dio del Sole), per non incorrere in un tragico destino. Circe era veramente innammorata di Ulisse e il suo aiuto e i suoi consigli saranno più preziosi di quelli della stessa Pallade.
All’aurora, accompagnati da un vento propizio inviato da Circe, i naviganti salpano: tutte le profezie della maga si avverano e Odisseo segue scrupolosamente i suoi consigli trasgredendoli solo quando cerca di affrontare Scilla in armi: a nulla vale il suo tentativo e il mostro ingoia sei compagni. Dopo questa sciagura viene avvistata l’isola di Helios: Odisseo consapevole del rischio di un approdo, vorrebbe andare oltre, ma i compagni, stanchi e affamati, lo convincono a sbarcare per non navigare nella notte. Da quel momento Zeus scatena una tempesta e per tutto il mese successivo fa soffiare venti maligni che impediscono la navigazione.
Esaurite le provviste fornite da Circe gli uomini si dànno alla caccia; infine Odisseo, disperato per la penuria di cibo, si allontana dai compagni per andare a pregare gli dei, che però lo ingannano e lo fanno dormire profondamente; quando si sveglia e torna dagli amici, li trova intenti a cuocere le vacche che hanno ucciso, dopo aver offerto un empio sacrificio agli dei. Questo sacrificio attira su di loro l’ira di Elios, che ottiene da Zeus una promessa di vendetta. Dopo sette giorni la nave salpa nuovamente, ma ben presto Zeus scatena una tempesta che la distrugge e disperde tutti i compagni di Odisseo; egli, solo sui resti dello scafo, viene riportato verso Cariddi, cui scampa fortunosamente; dopo dieci giorni di pene e di fatiche, gli dei lo gettano sull’isola di Calipso.
Così si conclude il racconto di Odisseo presso la corte dei Feaci.

circe 10

Circe saluta Ulisse

Nel libro continua la narrazione delle avventure e delle peregrinazioni di Odisseo, aiutato da Circe. In particolare, l’episodio delle Sirene è il più enigmatico dell’intero libro e forse di tutto il viaggio di ritorno: le Sirene non hanno volto, si trovano in un luogo che non è possibile identificare ed è caratterizzato solo dal biancheggiare delle ossa dei naufraghi, cantano melodie meravigliose, con voce ammaliatrice, ma nulla di preciso si dice di questo stesso canto: il poeta lascia nel mistero tutto ciò che le riguarda, come se la rivelazione fosse di per sé pericolosa. E di fatto solo Odisseo “conosce” il canto perché lo ascolta, ma non ne riferisce nulla, accenna solo al misterioso dolore che lo accompagna, il dolore che prova nell’avvertire il fascino delle voci, senza potersi abbandonare ad esse.
L’episodio è particolarmente significativo in relazione al profilo di Odisseo: ancora una volta l’eroe non si sottrae alla conoscenza, pur con i rischi che essa comporta, ma si salva perché si è messo nella condizione di resistere, di non abbandonarsi del tutto alla gioia del conoscere; al contrario, egli non nutre alcuna fiducia nei suoi compagni, che vengono esclusi da questa conoscenza superiore e diversa, riservata a lui solo. D’altra parte le Sirene, che affermano di conoscere la storia di Troia, lusingano Odisseo nel suo ruolo di eroe glorioso. Le Sirene rappresentano un mondo contrapposto a quello dei Ciclopi e di Polifemo, che ostentavano l’ignoranza di quell’evento: se tuttavia Odisseo cedesse alle lusinghe dell’ammirazione ne sarebbe inesorabilmente invischiato e dimenticherebbe il ritorno, allettato dalla malia del canto di gloria.

TESTO LIBRO XII

     Poichè la nave uscì dalle correnti
Del gran fiume Oceáno, ed all’Eéa
Isola giunse nell’immenso mare,
Là, ’ve gli alberghi dell’Aurora, e i balli
Sono, e del Sole i lucidi Levanti,5
Noi dalla nave, che fu in secco tratta,
Scesi, e corcati su la muta spiaggia,
Aspettammo dell’Alba il sacro lume.
Ma come del mattin la bella figlia
Colorò il ciel con le rosate dita,10
Di Circe andaro alla magione alcuni,
Che dell’estinto Elpenore la fredda
Spoglia ne riportassero. Troncammo
Frassini, e abeti, e all’infelice amico
Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio,15
L’esequie femmo, ove sporgea più il lido.
Nè prima il corpo, e le armi ebbe arse il foco,
Che noi, composto un tumulo, ed eretta
Sopravi una colonna, il ben formato
Remo infiggemmo della tomba in cima.20
     Mentr’eravamo al tristo ufficio intenti,
Circe, che d’Aide ci sapea tornati,
S’adornò, e venne in fretta, e con la Dea
Venner d’un passo le serventi Ninfe,
Forza di carni, e pan seco recando,25
E rosso vino, che le vene infiamma.
L’inclita tra le Dee stava nel mezzo,
E così favellava: O sventurati,
Che in carne viva nel soggiorno entraste
D’Aide, e di cui la sorte è due fïate30
Morir, quando d’ogni altro uomo è una sola.
Su via, tra i cibi scorra, ed i licori
Tutto a voi questo dì su le mie rive.
Come nel ciel rosseggerà l’Aurora,
Navigherete; ma il cammino, e quanto35
Di saper v’è mestieri, udrete in prima,
Sì che non abbia per un mal consiglio
Grave in terra, od in mare, a incorvi danno.
     Chi persuaso non sariasi? Quindi
Tra lanci piene, e coronate tazze,40
Finchè il Sol si mostrò, sedemmo a mensa.
Il Sol celato, ed imbrunito il Mondo,
Si colcaro i compagni appo la nave.
Ma Circe me prese per mano, e trasse
Da parte, e a seder pose; indi, seduta45
Di contra, interrogommi, ed io su tutto
La satisfeci pienamente. Allora
Tai parole sciogliea l’illustre Diva:
Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,
Ch’io vo’ manifestarti, e che al bisogno50
Ti torneranno nella mente i Numi.

sirene 9

Le Sirene

Alle Sirene giungerai da prima,
Che affascinan chiunque i lidi loro
Con la sua prora veleggiando tocca.
Chiunque i lidi incautamente afferra55
Delle Sirene, e n’ode il canto, a lui
Nè la sposa fedel, nè i cari figli
Verranno incontro su le soglie in festa.
Le Sirene, sedendo in un bel prato,
Mandano un canto dalle argute labbra,60
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D’ossa d’umani putrefatti corpi,
E di pelli marcite, un monte s’alza.
Tu veloce oltrepassa, e con mollita
Cera de’ tuoi così l’orecchio tura,65
Che non vi possa penetrar la voce.
Odila tu, se vuoi; sol che diritto
Te della nave all’albero i compagni
Leghino, e i piedi stringanti, e le mani:
Perchè il diletto di sentir la voce70
Delle Sirene tu non perda. E dove
Pregassi, o comandassi a’ tuoi di sciorti,
Le ritorte raddoppino, ed i lacci.
Poichè trascorso tu sarai, due vie
Ti s’apriranno innanzi; ed io non dico,75
Qual più giovi pigliar, ma, come d’ambo
Ragionato t’avrò, tu stesso il pensa.
     Vedrai da un lato discoscese rupi
Sovra l’onde pendenti, a cui rimbomba
Dell’azzurra Anfitrite il salso fiotto.80
Gl’Iddj beati nella lor favella
Chiamanle Erranti. Non che ogni altro augello,
Trasvolarle non sanno impunemente
Nè le colombe pur, che al padre Giove
Recan l’ambrosia: la polita pietra85
Sempre alcuna ne fura, e della spenta
Surroga in vece altra colomba il padre.
Nave non iscampò dal periglioso
Varco sin qui: chè de’ navigli tutti
Le tavole del pari, e i naviganti90
Sen porta il vincitor flutto, e la pregna
Di mortifero foco atra procella.
Sola quell’Argo, che solcava il mare,
Degli uomini pensiero, e degli Dei,
Trapassar valse, navigando a Colco:95
E se non che Giunon, cui molto a cuore
Giasone stava, di sua man la spinse,
Quella non meno avrian contra le vaste
Rupi cacciata i tempestosi flutti.

scilla 5

Scilla
     Dall’altra parte havvi due scogli: l’uno100
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Nè su l’acuto vertice, l’estate
Corra, o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse, e venti piedi:105
Sì liscio è il sasso, e la costa superba.
Nel mezzo volta all’Occidente, e all’Orco
S’apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar: giovane arciero,
Che dalla nave disfrenasse il dardo,110
Non toccherebbe l’incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par, che un guajolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce115
Mostro, e sino a un Dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche120
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sè nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno,125
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior, che a mille a mille
Chiude Anfitrite ne' suoi gorghi, e nutre.
Nè mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poichè quante apre disoneste bocche,130
Tanti dal cavo legno uomini invola.
Men l’altro s’alza contrapposto scoglio,
E il dardo tuo ne colpiria la cima.
Grande verdeggia in questo, e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe135
La temuta Cariddi il negro mare.
Tre fïate il rigetta, e tre nel giorno
L’assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi
Non t’accostar, mentre il mar negro inghiotte:
Chè mal sapria dalla ruina estrema140
Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla
Tienti vicino, e rapido trascorri.
Perder sei de’ compagni entro la nave
Torna più assai, che perir tutti a un tempo.
     Tal ragionava; ed io: Quando m’avvegna145
Schivare, o Circe, la fatal Cariddi,
Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,
Che gli amici a distruggermi s’avventa?
     O sventurato, rispondea la Diva,
Dunque le pugne in mente, e i travagli150
Rivolgi ancor, nè ceder pensi ai Numi?
Cosa mortal credi tu Scilla? Eterno
Credila, e duro, e faticoso, e immenso
Male, e inespugnabile, da cui
Schermo non havvi, e cui fuggir fia il meglio.155
Se indugi, e vesti appo lo scoglio l’armi,
Sbucherà, temo, a un secondo assalto,
E tanti de’ compagni un’altra volta
Ti rapirà, quante spalanca bocche.
Vola dunque sul pelago, e la madre160
Cratéi, che al Mondo generò tal peste,
E ritenerla, che a novella preda
Non si slanci, potrà, nel corso invoca.
     Allora incontro ti verran le belle
Spiagge della Trinacria isola, dove165
Pasce il gregge del Sol, pasce l’armento.
Sette branchi di buoi, d’agnelle tanti,
E di teste cinquanta i branchi tutti.
Non cresce, o scema, per natale, o morte,
Branco; e le Dive sono i lor pastori,170
Faetusa, e Lampezie il crin ricciute,
Che partorì d’Iperïone al figlio,
Ninfe leggiadre, la immortal Neera.
Come l’augusta madre ambo le Ninfe
Dopo il felice parto ebbe nodrite,175
A soggiornar lungi da sè mandolle
Nella Trinacria; e le paterne vacche
Dalla fronte lunata, e i paterni
Monton lucenti a custodir lor diede.
Pascoleranno intatti, e a voi soltanto180
Calerà del ritorno? il suol nativo,
Non però senza guai, fiavi concesso.
Ma se giovenca molestaste, o agna,
Sterminio a te predico, e al legno, e a’ tuoi.
E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,185
Riederai tardi, e a gran fatica, e solo.
Disse; e sul trono d’òr l’Aurora apparve.
     Circe, non molto poi, da me rivolse
Per l’isola i suoi passi; ed io, trovata
La nave, a entrarvi, e a disnodar la fune,190
Confortava i compagni; ed i compagni
V’entraro, e s’assidean su i banchi, e assisi
Fean co’ remi nel mar spume d’argento.
La Dea possente ci spedì un amico
Vento di vela gonfiator, che fido195
Per l’ondoso cammin ne accompagnava:
Sì che, deposti nella negra nave
Dalla prora cerulea i lunghi remi,
Sedevamo, di spingerci, e guidarci
Lasciando al timonier la cura, e al vento.200
     Qui, turbato del core, Amici, io dissi,
Degno mi par, che a tutti voi sia conto
Quel, che predisse a me l’inclita Circe.
Scoltate adunque, acciocchè tristo, o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato.205
Sfuggire in pria delle Sirene il verde
Prato, e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole, ch’io l’oda io sol: ma voi diritto
Me della nave all’albero legate
Con fune sì, ch’io dar non possa un crollo;210
E dove di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi, ed i lacci.
     Mentre ciò loro io discopria, la nave,
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo215
Delle Sirene all’isola pervenne.
Là il vento cadde, e agguagliossi il mare,
E l’onde assonnò un Demone. I compagni
Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,
E nella nave collocârle: quindi220
Sedean su i banchi, e imbiancavan l’onde
Co’ forti remi di polito abete.
Io la duttile cera, onde una tonda
Tenea gran massa, sminuzzai con destro
Rame affilato; e i frammenti n’iva225
Rivoltando, e premendo in fra le dita.
Nè a scaldarsi tardò la molle pasta:
Perocchè lucidissimi dall’alto
Scoccava i rai d’Iperïone il figlio.
De’ compagni incerai senza dimora230
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della nave all’albero legaro
Con fune, i piè stringendomi, e le mani.
Poi su i banchi adagiavansi, e co’ remi
Batteano il mar, che ne tornava bianco.235
Già, vogando di forza, eravam, quanto
Corre un grido dell’uomo, alle Sirene
Vicini. Udito il flagellar de’ remi,
E non lontana omai vista la nave,
Un dolce canto cominciaro a sciorre:240
O molto illustre Ulisse, o degli Achéi
Somma gloria immortal, su via, qua vieni,
Ferma la nave, e il nostro canto ascolta.
Nessun passò di qua su negro legno,
Che non udisse pria questa, che noi245
Dalle labbra mandiam, voce soave:
Voce, che innonda di diletto il core,
E di molto saver la mente abbella.
Chè non pur ciò, che sopportaro a Troja
Per celeste voler Teucri, ed Argivi,250
Noi conosciam, ma non avvien su tutta
La delle vite serbatrice terra
Nulla, che ignoto, o scuro a noi rimanga.
     Così cantaro. Ed io, porger volendo
Più da vicino il dilettato orecchio,255
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.260
Come trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle Sirene aggiungerci, coloro
A sè la cera dall’orecchie tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci.265
     Già rimanea l’isola indietro; ed ecco
Denso apparirmi un fumo, e vasti flutti,
E gli orecchi intronarmi alto fragore.
Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi
Remi di man lor caddero, e la nave,270
Che de’ fidi suoi remi era tarpata,
Là immantinente s’arrestò. Ma io
Di su, di giù per la corsia movendo,
E con blanda favella or questo, or quello
De’ compagni abbordando, O, dissi, meco275
Sin qua passati per cotanti affanni,
Non ci sovrasta un maggior mal, che quando
L’infinito vigor di Polifemo
Nell’antro ci chiudea. Pur quinci ancora
Col valor mio vi trassi, e col mio senno,280
E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.
Via, dunque, via, ciò, ch’io comando, tutti
Facciam: voi, stando sovra i banchi, l’onde
Percotete co’ remi, e Giove, io spero,
Concederà dalle correnti scampo.285
Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente
Questo, nè l’obbliar: guida il naviglio
Fuor del fumo, e del fiotto, ed all’opposta
Rupe ognor mira, e ad essa tienti, o noi
Getterai nell’orribile vorago.290
     Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.
Se non ch’io Scilla, immedicabil piaga,
Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,
L’un sovra l’altro per soverchia tema
Della nave cacciassersi nel fondo.295
E qui, di Circe, che vietommi l’arme,
Negletto il disamabile comando,
Io dell’arme vestiami, e con due lunghe
Nell’impavida mano aste lucenti
Salia sul palco della nave in prua,300
Attendendo colà, che l’efferata
Abitatrice dell’infame scoglio
Indi, gli amici a m’involar, sbalzasse:
Nè, perchè del ficcarli in tutto il bruno
Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,305
Da parte alcuna rimirarla io valsi.

cariddi

Cariddi


Navigavamo addolorati intanto
Per l’angusto sentier: Scilla da un lato,
Dall’altro era l’orribile Cariddi,
Che del mare inghiottia l’onde spumose.310
Sempre che rigettavale, siccome
Caldaja in molto rilucente foco,
Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,
Che andavan sino al cielo, in vetta d’ambo
Gli scogli ricadevano. Ma quando315
I salsi flutti ringhiottiva, tutta
Commoveasi di dentro, e alla rupe
Terribilmente rimbombava intorno,
E, l’onda il seno aprendo, un’azzurrigna
Sabbia parea nell’imo fondo: verdi320
Le guance di paura a tutti io scôrsi.
Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,
Una morte temendone vicina,
Sei de’ compagni, i più di man gagliardi,
Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi325
Torsi, e li vidi, che levati in alto
Braccia, e piedi agitavano, e Ulisse
Chiamavan, lassi! per l’estrema volta.
Qual pescator, che su pendente rupe
Tuffa di bue silvestre in mare il corno330
Con lunghissima canna, un’infedele
Esca ai minuti abitatori offrendo,
E fuor li trae dall’onda, e palpitanti
Scagliali sul terren: non altrimenti
Scilla i compagni dal naviglio alzava,335
E innanzi divoravali allo speco,
Che dolenti mettean grida, e le mani
Nel gran disastro mi stendeano indarno.
Fra i molti acerbi casi, ond’io sostenni,
Solcando il mar, la vista, oggetto mai340
Di cotanta pietà non mi s’offerse.
     Scilla, e Cariddi oltrepassate, in faccia
La feconda ci apparve isola amena,
Ove il gregge del Sol pasce, e l’armento;
E ne giungean dall’ampie stalle a noi345
I belati su l’aure, e i muggiti.
Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente
Del Teban vate, e della maga Circe,
Ch’io l’isola schivar del Sol dovessi,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.350
Ond’io, Compagni, lor dicea, per quanto
Siate angosciati, la sentenza udite
Del Teban vate, e della maga Circe,
Ch’io l’isola schivar debba del Sole,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.355
Circe affermava, che il maggior de’ guai
Quivi c’incoglieria. Lasciarla indietro
Ci convien dunque con la negra nave.
     Colpo tai detti fu quasi mortale.
Nè a molestarmi Euriloco in tal guisa360
Tardava: Ulisse, un barbaro io ti chiamo.
Perchè di forze abbondi, e mai non cedi,
Nè fibra è in te, che non sia ferro, a’ tuoi
Contendi il toccar terra, e di non parca
Cena sul lido ristorarsi. Esigi,365
Che in mezzo le notturne ombre su questo
Pelago a caso erriam, benchè la notte
Gravi produca disastrosi venti.
Or chi fuggir potrà l’ultimo danno,
Dove repente un procelloso fiato370
Di mezzodì ci assalga, o di Ponente,
Che, de’ Numi anco ad onta, il legno sperda?
S’obbedisca oggi alla divina notte,
E la cena nell’isola s’appresti.
Come il dì spunti, salirem di nuovo375
La nave, e nell’immensa onda entreremo.
     Questa favella con applauso accolta
Fu dai compagni a una; e io ben m’avvidi,
Che mali un Genio prepotente ordia.
Euriloco, io risposi, oggimai troppa,380
Tutti contro a un sol, forza mi fate.
Giurate almeno, e col più saldo giuro,
Che, se greggi troviam, troviamo armenti,
Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,
Giovenca uccida, o pecorella offenda:385
Ma tranquilli di ciò pasteggerete,
Che in don vi porse la benigna Circe.
Quelli giuraro, e non sì tosto a fine
L’invïolabil giuro ebber condotto,
Che la nave nel porto appo una fonte390
Fermaro, e ne smontaro, e lauta cena
Solertemente apparecchiâr sul lido.
Paga delle vivande, e de’ licori
La naturale avidità pungente,
Risovveniansi di color, che Scilla395
Dalla misera nave alto rapiti
Vorossi, e li piangean, finchè discese
Su gli occhi lagrimosi il dolce sonno.
     Già corsi avea del suo cammin due terzi
La notte, e dechinavano le stelle,400
Quando il cinto di nembi Olimpio Giove
Destò un gagliardo, turbinoso vento,
Che la terra coverse, e il mar di nubi,
E la notte di cielo a piombo cadde.
Ma come poi l’oricrinita Aurora405
Colorò il ciel con le rosate dita,
Tirammo a terra il legno, e in cavo speco
De’ seggi ornato delle Ninfe, ch’ivi
I lor balli tessean, l’introducemmo.
Subito io tutti mi raccolsi intorno,410
E, Compagni, diss’io, cibo e bevanda
Restanci ancor nella veloce nave.
Se non vogliam perir, lungi, vedete
La man dal gregge, e dall’armento; al Sole,
Terribil dio, che tutto vede, ed ode,415
Pascono i monton pingui, e i bianchi tori.
Dissi; e acchetârsi i generosi petti.
     Per un intero mese Austro giammai
Di spirar non restava, e poscia fiato
Non sorgea mai, che di Levante, o d’Austro.420
Finchè il pan non fallì loro, e il vino,
Ubbidïenti, e della vita avari,
Rispettavan l’armento. E già la nave
Nulla contenea più. Gìvano adunque,
Come il bisogno li pungea, dispersi425
Per l’isola, d’augelli, e pesci in traccia,
Con archi, e ami, o di quale altra preda
Lor venisse alle man: però che forte
Rodeali dentro l’importuna fame.
Io, dai compagni scevro, una remota430
Cercai del piede solitaria piaggia,
Gli Eterni a supplicar, se alcun la via
Mi dimostrasse del ritorno; e in parte
Giunto, che d’aura non sentiasi colpo,
Sparsi di limpid’onda, e a tutti alzai 435
Gli abitanti del cielo ambo le palme.
Nè guari andò, che d’un tranquillo sonno
Gli occhi, e il petto riempiêrmi i Numi.
     Euriloco frattanto un mal consiglio
Pose innanzi ai compagni: O da sì acerbe 440
Sciagure oppressi, la mia voce udite.
Tutte odïose certo a uom le morti:
Ma nulla tanto, che il perir di fame.
Che più si tarda? Meniam via le belle
Giovenche, e sagrifici ai Numi offriamo.445
Chè se afferrar ci sarà dato i lidi
Nativi, al Sole Iperïone un ricco
Tempio illustre alzeremo, appenderemo
Molti alle mura prezïosi doni.
E dov’ei, per li buoi dalla superba450
Testa crucciato, sperder voglia il legno,
Nè alcun Dio gli contrasti, io tolgo l’alma
Pria tra i flutti esalar, che, su deserta
Isola stando, intisichir più a lungo.
     Disse; e tutti assentiano. Incontanente,455
Del Sol cacciate le più belle vacche
Di fronte larga, e con le corna in arco,
Che dalla nave non pascean lontane,
Stavano a esse intorno; e, côlte prima,
Per difetto, che avean di candid’orzo,460
Tenere foglie di sublime quercia,
Voti feano agli Dei. Compiuti i voti,
Le vittime sgozzaro, e le scojaro,
E, le cosce tagliatone, di zirbo
Le copriro doppiate, e i crudi brani465
Sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso
Vino scusasse, onde patian disagio,
Versavan poi su i sagrifici ardenti,
E abbrostian tutti gl’intestini. Quindi,
Le cosce omai combuste, e assaggiate470
Le interïora, tutto l’altro in pezzi
Fu messo, e infitto negli acuti spiedi.
E a me uscì delle ciglia il dolce sonno.
Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.
Ma vicina del tutto ancor non m’era,475
Ch’io mi sentii dall’avvampate carni
Muovere incontro un odoroso vento,
E gridai, lamentando, ai Numi eterni:
O Giove padre, e voi, Dei sempre stanti,
Certo in un crudo, e fatal sonno voi480
Mi seppelliste, se doveasi intanto
Compier da cotestoro un tal misfatto.
     Nunzia non tarda dell’ucciso armento,
Lampezie al Sole andò di lungo peplo
Coperta. Il Sole, in grande ira montato,485
Si volse ai Numi, e, Giove, disse, e voi
Tutti, immortali Dei, paghino il fio
Del Laerziade Ulisse i rei compagni,
Che le giovenche trucidarmi osaro,
Della cui vista, o ch’io per la stellata490
Volta salissi, o discendessi, nuovo
Diletto ciascun dì prendea il mio core.
Colpa, e pena in lor sia d’una misura:
O calerò nella magion di Pluto,
E al popol morto porterò mia luce.495
     E il nimbifero Giove a lui rispose:
Tra gl’Immortali, o Sole, e i mortali
Vibra su l’alma terra, e in cielo, i raggi.
Io senza indugio d’un sol tocco lieve
Del fulmine affocato il lor naviglio500
Sfracellerò del negro mar nel seno.
     Queste cose Calipso un giorno udia
Dal messaggier Mercurio, e a me narrolle
La ricciuta il bel crin Ninfa Calipso.
     Giunto alla nave, io rampognava or questo505
De’ compagni, e or quel: ma vïolato
L’armento fu, nè avea compenso il male.
Strani prodigi intanto agl’infelici
Mostravano gl’Iddj: le fresche pelli
Strisciavan sul terren, muggian le incotte510
Carni, e le crude, agli schidoni intorno,
E de’ buoi lor sembrava udir la voce.
Pur del fior dell’armento ancor sei giorni
Si cibaro i colpevoli. Comparsa
La settim’Alba, il turbinoso vento515
Stancossi; e noi ci rimbarcammo, e, alzato
L’albero prontamente, e dispiegate
Le bianche vele, ci mettemmo in mare.
     Di vista già della Trinacria usciti,
Altro non ci apparia, che il cielo, e l’onda,520
Quando il Saturnio sul veloce legno
Sospese in alto una cerulea nube,
Sotto cui tutte intenebrârsi l’acque.
La nave non correa, che un tempo breve:
Poichè ratto uno stridulo Ponente,525
Infurïando, imperversando, venne
Di contra, e ruppe con tremenda buffa
Le due funi dell’albero, che a poppa
Cadde; ed antenne in uno, e vele, e sarte
Nella sentina scesero. Percosse530
L’alber, cadendo, al timoniere in capo,
E l’ossa fracassògli; ed ei da poppa
Saltò nel mar, di palombaro in guisa,
E cacciata volò dal corpo l’alma.
Ma Giove, che tonato avea più volte,535
Scagliò il fulmine suo contra la nave,
Che si girò, dal fulmine colpita
Del Saturnio, e s’empieo di zolfo tutta.
Tutti fuor ne cascarono i compagni,
E ad essa intorno l’ondeggiante sale,540
Quai corvi, li portava; e così Giove
Il ritorno togliea loro, e la vita.
Io pel naviglio su e giù movea,
Finchè gli sciolse la tempesta i fianchi
Dalla carena, che rimase inerme.545
Poi la base dell’albero l’irata
Onda schiantò: ma di taurino cuojo
Rivestialo una striscia, ed io con questa
L’albero, e la carena in un legai,
E sopra mi v’assisi; e tale i venti550
Esizïali mi spingean su l’onde.
Zefiro a un tratto rallentò la rabbia:
Senonchè sopraggiunse un Austro in fretta,
Che, nojandomi forte, in ver Cariddi
Ricondur mi volea. L’intera notte555
Scorsi su i flutti; e col novello Sole
Tra la grotta di Scilla, e la corrente
Mi ritrovai della fatal vorago,
Che in quel punto inghiottia le salse spume.
Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio560
M’aggrappai fico eccelso, e mi v’attenni,
Qual pipistrello: chè nè dove i piedi
Fermar, nè come ascendere, io sapea,
Tanto eran lungi le radici, e tanto
Remoti dalla mano i lunghi, immensi565
Rami, che d’ombra ricoprian Cariddi.
Là dunque io m’attenea, bramando sempre,
Che rigettati dall’orrendo abisso
Fosser gli avanzi della nave. Al fine
Dopo un lungo desio vennero a galla.570
Nella stagion, che il giudicante, sciolte
Varie di caldi giovani contese,
Sorge dal foro, e per cenar s’avvia,
Dell’onde usciro i sospirati avanzi.
Le braccia apersi allora, e mi lasciai575
Giù piombar con gran tonfo all’onde in mezzo,
Non lunge da que’ legni; a cui m’assisi
Di sopra, e delle man remi io mi feci.
Ma degli uomini il padre, e de’ Celesti
Di rivedermi non permise a Scilla:580
Chè toccata sariami orrida morte.
Per nove dì mi trabalzava il fiotto,
E la decima notte i Dei sul lido
Mi gettâr dell’Ogigia isola, dove
Calipso alberga, la divina Ninfa,585
Che raccoglieami amica, e in molte guise
Mi confortava. Perchè ciò ti narro?
Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,
Le udia con teco la tua casta donna,
E ciò ridir, ch’io dissi, a me non torna.

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Calipso

Eugenio Caruso - 22- 03- 2022

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www.impresaoggi.com