Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo. 
Seneca
 INTRODUZIONE
 
  
""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "". 
Ippolito Pindemonte

 Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio
RIASSUNTO LIBRO XV  
Atena si reca a Sparta, per invitare Telemaco a tornare in patria: gli consiglia di affidare i suoi beni a un’ancella fidata, lo avverte del tranello dei pretendenti suggerendogli una rotta adeguata per evitarlo; gli ordina inoltre di recarsi dapprima dal porcaio Eumeo e di inviarlo in città da Penelope ad annunciarle il ritorno. Telemaco allora si accinge a partire insieme a Pisistrato, figlio di Nestore, che lo aveva accompagnato a Sparta: dopo aver accettato doni ospitali da Menelao ed Elena e dopo un ultimo banchetto, essi partono, accompagnati da un presagio favorevole (un’aquila che stringe tra gli artigli una grossa oca). Al momento di imbarcarsi da Pilo, dove i compagni aspettavano Telemaco, egli si congeda in fretta da Pisistrato e accoglie sulla nave Teoclimeno, uno sfortunato indovino fuggiasco.
Nel frattempo, la giornata è trascorsa anche nella casupola di Eumeo: durante la cena Odisseo, per mettere alla prova il porcaio, gli comunica che il giorno seguente se ne andrà in città a mendicare; Eumeo si oppone e lo invita ad attendere il ritorno di Telemaco, che gli darà degli abiti e lo aiuterà. Odisseo allora chiede notizie della madre e del padre, e avverte nel servo un profondo affetto nei confronti dei suoi genitori, il rimpianto per la madre ormai morta, oltre al dolore per la sorte infelice di Penelope. Commosso dalle parole del porcaio, Odisseo vuole conoscere tutta la sua storia e viene a sapere che è figlio di un uomo illustre, ma, rapito da una serva complice di mercanti fenici, è giunto a Itaca dove è stato cresciuto amorevolmente dalla nutrice Anticlea ed è diventato un servo di fiducia. La sera trascorre nel racconto delle comuni sventure. Nel frattempo la nave di Telemaco è arrivata a Itaca, guidata da Atena, che fa spirare un vento favorevole, e accolta da un nuovo presagio (un falco che stringe tra gli artigli una colomba) che Teoclimeno interpreta come positivo. Mentre i compagni di Telemaco proseguono il viaggio con Teoclimeno, che sarà ospite di uno di loro, Telemaco scende dalla nave e si avvia alla casupola del porcaio.
 
 
 Ciclo troiano Penelope
  TESTO LIBRO XV 
       Nell’ampia Lacedemone Minerva
    Entrava intanto ad ammonir d’Ulisse
    L’inclita prole, che di far ritorno
    Alle patrie contrade era già tempo.
    Trovollo, che giacea di Menelao5
    Nell’atrio con Pisistrato. Ingombrava
    Un molle sonno di Nestorre il figlio:
    Ma l’Ulissíde, cui l’incerta sorte
    Del caro padre fieramente turba,
    Pensavane a ognora, e invan per lui10
    D’alto i balsami suoi spargea la notte.
         La Dea, che azzurri gli occhi in giro muove,
    Appressollo, e, Telemaco, gli disse,
    Non fa per te di rimanerti ancora
    D’Itaca fuori, e lungi dall’altera15
    Turba malnata degli arditi Proci,
    Che, divisa tra lor la tua sostanza,
    Divorinsi al fin tutto, e, non che vano,
Dannoso a te questo viaggio torni.
    Lévati, e pressa il valoroso Atride20
    Di congedarti, onde nel tuo palagio
    Trovi la madre tua, che Icario il padre
    Co’ fratelli oggimai sforza alla mano
    D’Eurimaco, il qual cresce i maritali
    Doni, e ogni suo rival d’ambito vince.25
    Guarda, non del palagio a tuo dispetto
    Parte de’ beni con la madre t’esca:
    Però che sai, qual cor s’abbia ogni donna.
    Ingrandir brama del secondo sposo
    La nuova casa; e de’ suoi primi figli,30
    E di colui, che vergin impalmolla,
    Non si rammenta più, più non ricerca,
    Quando ei nel bujo della tomba giace.
    Tu, partita la madre, a quale ancella
    Più dabbene ti sembri, e più sentita,35
    Commetti il tutto, finchè illustre sposa
    Ti presentino al guardo i Dei clementi.
    Altro dirotti, e il riporrai nel core.
    Degli amanti i più rei, che tor dal Mondo
    Prima vorrianti, che alla patria arrivi,40
    Nel mar tra la pietrosa Itaca, e Same
    Stanno in agguato. Io crederò, che indarno,
    E che la terra pria l’ossa spolpate
De’ tuoi nemici chiuderà nel seno.
    Non pertanto la nave indi lontana45
    Tieni, e notturno naviga: un amico
    Vento t’invierà quel tra gli Eterni,
    Chiunque sia, che ti difende, e guarda.
    Come d’Itaca giunto alla più estrema
    Riva sarai, lascia ir la nave, e tutti50
    Alla città i compagni; e tu il custode
    Cerca de’ verri, che un gran ben ti vuole.
    Seco passa la notte, ed in sull’Alba
    Mandal significando alla Regina,
    Che a lei da Pilo ritornasti illeso.55
    Ciò detto, in un balen salse all’Olimpo.
         Egli l’amico dal suo dolce sonno,
    Urtandolo del piè, subito scosse,
    E gli drizzò queste parole: Sorgi,
    Pisistrato, ed al cocchio i corridori60
    Solidounghiati sottoponi, e accoppia,
    Se anche il viaggio nostro aver dee fine.
         Telemaco, il Nestoride rispose,
    Benchè ci tardi di partir, non lice
    Dell’atra notte carreggiar per l’ombre.65
    Poco l’Aurora tarderà. Sostieni
    Tanto almen, che il di lancia esperto Atride
    Ponga nel cocchio gli ospitali doni,
E gentilmente ti licenzj. Eterna
    L’ospite rimembranza in petto serba70
    Di chi un bel pegno d’amistà gli porse.
    Disse; e nel trono d’òr l’Aurora apparve.
         Il prode Menelao di letto allora
    Sorto, e d’allato della bella Eléna,
    Venne alla volta lor; nè prima il caro75
    Figliuol d’Ulisse l’avvisò, che in fretta
    Della lucente tunica le membra
    Cinse, e gittò il gran manto a sé d’intorno,
    Ed uscì fuori, e l’abbordò, e gli disse:
    Figlio d’Atréo, di Giove alunno, Duce80
    Di genti, me rimanda oggi al diletto
    Nativo ciel, cui già con l’alma io volo.
         Telemaco, rispose il forte Atride,
    Io ritenerti qui lunga stagione
    Non voglio a tuo mal cuore. Odio chi suole85
    Gli ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo
    Spregiarli: il meglio sempre è star nel mezzo.
    Certo peccan del par chi discortese
    L’ospite caccia di restar bramoso,
    E chi bramoso di partir l’arresta.90
    Carezzalo indugiante, e quando scorgi,
    Che levarsi desia, dàgli commiato.
    Tanto dimora sol, ch’io non vulgari
Doni nel cocchio, te presente, ponga;
    E comandi alle femmine, che un pronto95
    Conforto largo di serbate dapi
    T’apprestin nella sala. È glorïoso
    Del par, che utile, a te dell’infinita
    Terra su i campi non passar digiuno.
    Vuoi tu aggirarti per la Grecia, e l’Argo?100
    Giungerò i miei destrieri, e alle diverse
    Città ti condurrò: treppiede, o conca
    Di bronzo, o due bene appajati muli,
    O vaga d’oro effigïata tazza,
    Ci donerà ciascuno, e senza doni105
    Cittade non sarà, che ci accommiati.
         Telemaco a rincontro: Menelao,
    Di Giove alunno, Condottier di genti,
    Nel mio palagio, ove nessun, che il guardi,
    Partendone, io lasciai, rieder mi giova,110
    Acciocchè, mentre il padre indarno io cerco,
    Tutti io non perda i suoi tesori, e miei.
         Udito questo, ad Elena, e alle fanti,
    L’Atride comandò, s’apparecchiasse
    Subita, e lauta mensa. Eteonéo,115
    Che poco lungi dal suo Re dormia,
    Sorto appena di letto, a lui sen venne;
    E il foco suscitar, cuocer le carni,
Gl’impose Menelao: nè ad ubbidirgli
    Tardò un istante di Boete il figlio.120
    Nell’odorata solitaria stanza
    Menelao scese, e non già sol: chè seco
    Scesero Eléna, e Megapente. Giunti
    Là, ’ve la ricca suppellettil giace,
    Tolse l’Atride biondo una ritonda125
    Gemina coppa, e di levare un’urna
    D’argento al figlio Megapente ingiunse.
    Ma la donna fermossi all’arche innanzi,
    Ove i pepli giacean che da lei stessa
    Travagliati già furo, e varïati130
    Con ogni sorta d’artificio. Eléna
    Il più ampio traeane, ed il più bello
    Per molteplici fregi: era nel fondo
    Dell’arca, e sì rilusse in quel, che alzollo,
    Che stella parve, che dai flutti emerga.135
    Con tai doni le stanze attraversaro,
    Finchè furo a Telemaco davante,
    Cui questi accenti Menelao converse:
    Fortunato così, come tu il brami,
    Ti consenta, o Telemaco, il ritorno140
    L’altitonante di Giunon marito.
    Io di quel, che possiedo, a te dar voglio
    Ciò, che mi sembra più leggiadro e raro:
Un’urna effigïata, argento tutta,
    Se non quanto su i labbri oro gialleggia,145
    Di Vulcano fattura. Il generoso
    Re di Sidone, Fedìmo, donolla
    A me, che d’Ilio ritornava, e cui
    Ricettò ne’ suoi tetti; e a te io la dono.
         L’Atride in mano gli mettea la tonda150
    Gemina coppa: Megapente ai piedi
    Gli recò l’urna sfolgorante; e poi
    Elena, bella guancia, a lui di contra
    Stette col peplo su le braccia, e disse:
    Ricevi anco da me, figlio diletto,155
    Quest’altro dono, e per memoria tienlo
    Delle mani d’Eléna. Alla tua sposa
    Nel sospirato dì delle sue nozze
    Le membra coprirà. Rimanga intanto
    Della prudente genitrice in guardia;160
    E tu alla patria terra, e alle superbe
    Case de’ padri tuoi, giungi felice.
    Ei con gioja sel prese; e i doni tutti,
    Poichè ammirata la materia, e l’arte
    N’ebbe, allogò Pisistrato nel carro.165
    Quindi l’Atride dalla bionda testa
    Ambi condusse nella reggia, dove
    Sovra i troni sedettero. L’ancella
Subitamente da bel vaso d’oro
    Nell’argenteo bacile acqua lucente170
    Spandea, stendea desco polito, in cui
    La veneranda dispensiera i bianchi
    Pani venne ad imporre, e non già poche
    Delle dapi serbate, ond’è custode.
    Eteonéo partia le carni, e il vino175
    Megapente versava; e i due stranieri
    La mano all’uno, e all’altre ivan porgendo.
    Ma come sazj della mensa furo,
    Aggiogaro i cavalli, e la vergata
    Biga pronti saliro, e l’agitaro180
    Fuor dell’atrio, e del portico sonante.
    Uscì con essi Menelao, spumosa,
    Perchè libasser pria, ciottola d’oro
    Nella destra tenendo, e de’ cavalli
    Fermossi a fronte, e, propinando, disse:185
    Salute, o prodi giovanetti, a voi,
    Ed al pastor de’ popoli salute
    Per vostra bocca, a Nestore, che fummi
    Dolce, qual padre, sotto i Teucri muri.
         Ed il saggio Telemaco a rincontro:190
    Tutto, non dubitar, di Giove alunno,
    Saprà il buon vecchio. Oh potess’io non manco,
    Tosto ch’io sarò in Itaca, ad Ulisse
Mostrare i tanti, e così ricchi doni,
    Ch’io da te ricevetti, e raccontargli,195
    Quale accoglienza io n’ebbi, e qual commiato!
         Tal favellava; e a lui di sopra, e a destra,
    Un’aquila volò, che bianca, e grande
    Domestica oca con gli adunchi artigli
    Dalla corte rapia. Dietro gridando200
    Uomini, e donne le correan: ma quella
    S’accostò, pur da destra, ai due garzoni,
    E davanti ai destrier rivolò in alto.
    Tutti gioiro a cotal vista, e primo
    Fu Pisistrato a dir: Nobile Atride,205
    Pensa in te stesso, se a te forse, o a noi
    Tal prodigio inviaro i Sempiterni.
         Ei la risposta entro da sè cercava,
    Ma l’antivenne la divina Eléna,
    Dicendo, Udite me. Quel, ch’io indovino,210
    Certo avverrà: chè me l’inspira un Nume.
    Come questa volante aquila scesa
    Dal natio monte, che i suoi parti guarda,
    Si rapì l’oca nel cortil nodrita,
    Non altrimenti Ulisse, alle paterne215
    Case venuto da lontani lidi,
    Su i Proci piomberà; se pur non venne,
    E lor non apparecchia orrida morte.
     E Telemaco allor: Così ciò voglia
    L’altitonante di Giunon marito,220
    Come voti da me tu avrai, qual Diva!
    Disse, e i destrieri flagellò, che ratti
    Mosser per la cittade, e ai campi usciro.
    Correan l’intero dì, squassando il giogo,
    Che ad ambi stava sul robusto collo.225
    Tramontò il Sole, ed imbrunian le strade;
    E i due giovani a Fera, e alla magione
    Di Diócle arrivâr, del prode figlio
    D’Orsiloco d’Alféo, dove riposi
    Ebber tranquilli, ed ospitali doni.230
    Ma come al Sole con le man rosate
    L’Aurora aperse le celesti porte,
    I cavalli aggiogaro, e risaliro
    La vergolata biga, e l’agitaro
    Fuor dell’atrio, e del portico sonante.235
    Sferzò i destrier Pisistrato, e i destrieri
    Di buon grado volavano: nè molto
    Stetter di Pilo ad apparir le torri.
         Allor così Telemaco si volse
    Al figliuol di Nestorre: O di Nestorre240
    Figliuol, non desti a me fede, che sempre
    Ciò tu faresti, che mi fosse gioja?
    Paterni ospiti siam, siam d’un’etade,
E più ancor ci unirà questo viaggio.
    Non mi guidare oltra il naviglio mio,245
    Colà mi lascia: ritenermi il vecchio
    Mal mio grado appo sè, di carezzarmi
    Desioso, potrebbe; e a me bisogna
    Toccare in breve la natia contrada.
         Mentre così l’un favellava, all’altro,250
    Che d’attener la sua promessa i modi
    Discorrea con la mente, in questo parve
    Dover fermarsi. Ripiegò i destrieri
    Verso il mare, e il naviglio; e i bei presenti,
    Onde ornato il compagno aveva l’Atride,255
    Scaricò su la poppa. Indi, Su via,
    Monta, disse, di fretta, e a’ tuoi comanda
    Pria la nave salir, che me il mio tetto
    Riceva, e il tutto al genitore io narri.
    So, qual chiuda nel petto alma sdegnosa:260
    Ti negherà il congedo, in su la riva
    Verrà egli stesso, e benchè senza doni
    Da lui, cred’io, tu non partissi, un forte
    Della collera sua scoppio io preveggo.
         Dette tai cose, alla città de’ Pilj265
    Spinse i destrieri dal leggiadro crine,
    E all’eccelsa magion rapido giunse.
         E Telemaco a’ suoi: Pronti la nave,
Compagni, armate, e su montiamvi, e andiamo.
    L’ascoltaro, e ubbidiro. Immantinente270
    Montava, e s’assidea ciascun su i banchi.
    Ei, la partenza accelerando, a Palla
    Prieghi alla poppa, e sagrifici offria;
    Quando esul dalla verde Argo ferace
    Per non voluta uccisïone ignoto275
    Vïandante appressollo: era indovino,
    E di Melampo dalla stirpe sceso.
    Nella madre di greggi inclita Pilo
    Melampo prima soggiornava, e, come
    Ricco uom, superbo vi abitava ostello:280
    Poi, fuggendo la patria, ed il più illustre
    Tra gli uomini Neléo, che i suoi tesori
    Un anno intero riteneagli a forza,
    Capitò ad altre genti, e duri lacci
    Nell’albergo di Filaco, e dolori285
    Gravi sostenne per la vaga figlia
    Di Neleo, e per l’audace opra, cui messa
    Gli aveva nel capo la tremenda Erinni.
    Ma scampò dalla morte, e a Pilo addusse
    Le contrastate altomugghianti vacche,290
    Si vendicò dell’infedel Neléo,
    E consorte al fratel la vaga Pero
    Da Filace menò. Quindi all’altrice
Di nobili destrieri Argo sen venne,
    Volendo il fato, che su i molti Argivi295
    Regnasse; sposa quivi scelse; al cielo
    Levò le pietre della sua dimora;
    E i forti generò Mantio, e Antifáte.
    Di questo il grande Oicléo nacque, e d’Oicléo
    Il salvator di genti Anfiarao,300
    Cui tanto amor Febo portava, e Giove.
    Pur di vecchiezza non toccò la soglia:
    Che, generati Anfiloco e Alcmeóne,
    Sotto Tebe perì dalla più avara
    Donna tradito. Ma da Mantio al giorno305
    Clito usciro, e Polifide. L’Aurora
    Per la beltà, che in Clito alta splendea,
    Rapillo, e il collocò tra gl’Immortali;
    E Febo, spento Anfiarao, concesse
    Più, che ad altr’uom, de’ vaticinj il dono310
    A Polifide, il qual, crucciato al padre,
    Trapassò in Iperesia, ove a ciascuno
    Del futuro squarciar solea il velame.
         Figlio a questo era il pellegrin, che stette
    Di Telemaco al fianco, e si chiamava315
    Teocliméno; appo la negra nave,
    Mentr’ei libava, e supplicava, il colse,
    E a lui con voci alate, Amico, disse,
Poich’io ti trovo a questi uffici intento,
    Pe’ sagrifizj tuoi, pel Dio, cui gli offri,320
    Per lo tuo capo stesso, e per cotesti
    Compagni tuoi, non mi nasconder nulla
    Di quanto io chiederò. Chi, e donde sei?
    Dove i parenti a te? e la patria dove?
         Stranier, così Telemaco rispose,325
    Su i labbri miei non sonerà, che il vero.
    Itaca è la mia patria, il padre è Ulisse,
    Se un padre ho ancor: quel, di cui forte io temo.
    Però con negra nave, e gente fida,
    Partii, cercando per diversi lochi330
    Novelle di quel misero, cui lunge
    Tien dalla patria sua gran tempo il fato.
   
  Calipso riceve Telemaco e Mentore, William Hamilton, XVIII secolo.
  
       E il pari ai Dei Teocliméno: Anch’io
    Lungi erro dalla mia, dacchè v’uccisi
    Uom della mia tribù, che lasciò molti335
    Parenti, e amici prepossenti in Argo.
    Delle lor man vendicatrici uscito,
    Fuggo, e sieguo il destin, che l’ampia terra
    Con pie’ ramingo a calpestar mi tragge.
    Deh su la nave tua me supplicante340
    Ricovra, e da color, che vengon forse
    Su i miei vestigi, tu, che il puoi, mi salva.
       Il prudente Telemaco di nuovo:
    Dalla mia nave, in cui salir tu brami,
    Esser non potrà mai ch’io ti respinga.345
    Seguimi pur: non mancheranti in nave
    Quei, che di darti è in me, doni ospitali.
       Ciò detto, l’asta dalla man gli prese,
    E della nave stesela sul palco.
    Poscia montovvi, e sedè in poppa, e al fianco350
    Seder si feo Teocliméno. Sciolte
    Dai compagni le funi, ei lor impose
    Di correre agli attrezzi, ed i compagni
    Ratti ubbidiro: il grosso abete in alto
    Drizzaro, e l’impiantaro entro la cava355
    Base, di corda l’annodaro al piede,
    E le candide vele in su tiraro
    Con bene attorti cuoi. La Dea, che in giro
    Pupille tinte d’azzurrino muove,
    Precipite mandò dal cielo un vento360
    Destro, gagliardo, perchè in brevi istanti
    Misurasse del mar l’onde il naviglio.
    Crune passò il buon legno, e la di belle
    Acque irrigata Calcide, che il Sole
    Già tramontava, ed imbrunian le strade;365
    E, spinto sempre da quel vento amico,
    Cui governava un Dio, sopra Fea sorse,
    E di là costeggiò l’Elide, dove
    Regnan gli Epei. Quinci il figliuol d’Ulisse
    Tra le scoscese Echinadi si mise,370
    Pur rivolgendo nel suo cor, se i lacci
    Schiverebbe de’ Proci, o vi cadrebbe.
       Ma in altra parte Ulisse, e il buon custode
    Sedean sott’esso il padiglione a cena,
    E non lunge sedean gli altri pastori.375
    Pago de’ cibi il natural talento,
    Ulisse favellò, tentando Euméo,
    S’ei, non cessando dalle cure amiche,
    Ritenerlo appo sè nella sua cara
    Stalla intendesse, o alla città mandarlo.380
    Euméo, disse, m’ascolta; e voi pur tutti.
    Tosto che il ciel s’inalbi, alla cittade,
    Ond’io te non consumi, ed i compagni,
    Condurmi io voglio a mendicar la vita.
    Ma tu d’utili avvisi, e d’una scorta385
    Fidata mi provvedi. Andrò vagando
    Di porta in porta, e ricercando, come
    Sforzami rea necessità, chi un pane
    Mi porga, ed una ciottola. D’Ulisse
    Mi farò ai tetti, e alla sua donna saggia390
    Novelle recheronne, e avvolgerommi
    Tra i Proci alteri, che lasciarmi forse
    Nella lor copia non vorran digiuno.
    Io, che che piaccia lor, subito, e bene,
    Eseguirò; poichè saper t’è d’uopo,395
    Che per favor del messaggiero Ermete,
    Da cui grazia, ed onore acquista ogni opra,
    Tal son, che ne’ servigi, o il foco sparso
    Raccor convenga, o le risecche legna
    Fendere, o cuocer le tagliate carni,400
    O il vin d’alto versare, uffici tutti,
    Che i minori prestar sogliono ai grandi,
    Me nessun vince su l’immensa terra.
       Sdegnato assai gli rispondesti, Euméo:
    Ahi! qual pensier ti cadde, ospite, in capo?405
    Brami perir, se raggirarti pensi
    Tra i Proci, la cui folle oltracotanza
    Sale del ciel sino alla ferrea volta.
    Credi a te somigliare i lor donzelli?
    Giovani in bella vestimenta, ed unti410
    La chioma sempre, e la leggiadra faccia,
    Ministrano ai superbi; e sempre carche
    Delle carni, de’ pani, e de’ licori
    Splendono agli occhi le polite mense.
    Rimani: chè nè a me, nè de’ compagni415
    Grave ad alcun la tua presenza torna.
    Ma come giunto sia d’Ulisse il figlio,
    Da lui tunica, e manto, e da lui scorta
    Riceverai, dove che andar t’aggradi.
       Euméo, rispose il pazïente Ulisse,420
    possa Giove amar te, siccome io t’amo,
    Te, che al vagar mio lungo, ed all’inopia
    Ponesti fine! Io non so peggio vita:
    Ma il famelico stomaco latrante
    Gl’inopi a errar, per acchetarlo, sforza,425
    E que’ mali a soffrir, che ad una vita
    Povera s’accompagnano, e raminga.
    Or, quando vuoi, ch’io teco resti, e aspetti
    Telemaco, su via, della canuta
    Madre d’Ulisse parlami e del padre,430
    Che al tempo, che il figliuol sciolse per Troja,
    Della vecchiezza il limitar toccava.
    Veggon del Sole in qualche parte i rai?
    O d’Aide la magion freddi gli accolse?
       Ospite, ripigliò l’inclito Euméo,435
    Altro da me tu non udrai, che il vero.
    Laerte vive ancora, e Giove prega,
    Che la stanca dal corpo alma gli tragga:
    Tanto del figlio per l’assenza, tanto
    Per la morte si duol della prudente440
    Moglie, che intatta disposollo, e in trista
    Morendo il collocò vecchiezza cruda.
    La lontananza del suo figlio illustre
    A poco a poco, ed infelicemente,
    Sotterra la condusse. Ah tolga Giove,445
    Che qual m’è amico, e con amor mi tratta,
    Per una símil via discenda a Dite!
    Finch’ella visse, m’era dolce cosa,
    Sebben dolente si mostrasse in faccia,
    L’interrogarla, e il ricercarla spesso:450
    Poich’ella mi nutrì con la de’ pepli
    Vaga Ctimene, sua figliuola egregia,
    E de’ suoi parti l’ultimo. Con questa
    Cresceami, e quasi m’onorava al pari.
    Ma come fummo della nostra etade455
    Ambi sul primo invidïabil fiore,
    Sposa lei fero in Same, e ricchi doni
    N’ebbero, ed infiniti; e me con vesti
    Leggiadre in dosso, e bei calzari ai piedi,
    Mandò i campi abitar la mia Signora,460
    Che di cor ciascun dì vie più m’amava.
    Quanto seco io perdetti! È ver, che queste
    Fatiche dure, in che la vita io spendo,
    Mi fortunano i Numi, e ch’io gli estrani
    Finor ne alimentai, non che me stesso.465
    Ma di fatti conforto, o di parole
    Sperare or da Penelope non lice:
    Chè tutta in preda di superba gente
  È la magion; nè alla Regina ponno
    Rappresentarsi, e far domande i servi,470
    Pigliar cibo, e bevanda al suo cospetto,
    E poi di quello ancor, che l’alma loro
    Sempre rallegra, riportare ai campi.
       Euméo, rispose l’avveduto Ulisse,
    Te dalla patria lungi, e da’ parenti475
    Pargoletto sbalzò dunque il tuo fato?
    Orsù, ciò dimmi, e schiettamente: venne
    La città disertata, in cui soggiorno
    Avea la madre veneranda, e il padre?
    O incautamente abbandonato fosti480
    Presso le agnelle, o i tori, e gente ostile
    Ti rapì su le navi, e ai tetti addusse
    Di questo Re, che ti comprò a gran prezzo?
       Ed a rincontro Eumèo, d’uomini Capo:
    Quando a te risaperlo, Ospite, cale,485
    Tacito ascolta, e goditi, e alle labbra
    Metti, assiso, la tazza. Or così lunghe
    Le notti van, che trapassar si ponno
    Parte dormendo, e novellando parte.
    Nè corcarti t’è d’uopo innanzi al tempo:490
    Anco il gran sonno nuoce. Ove degli altri
    Ciò piacesse ad alcuno, esca, e s’addorma:
    Ma, fatto bianco l’Orïente, siegua,
    Non digiuno però, gl’ispidi verri.
    E noi sediam nel padiglione a mensa,495
    Ambi a vicenda delle nostre doglie
    Diletto, rimembrandole, prendendo:
    Poichè de’ mali ancora uom, che sofferse
    Molto, e molto vagò, prende diletto.
       Cert’isola, se mai parlar ne udisti,500
    Giace a Delo di sopra, e Siria è detta,
    Dove segnati del corrente Sole
    I ritorni si veggono. Già grande
    Non è troppo, ma buona: armenti, e greggi
    Produce in copia, e ogni speranza vince505
    Col frumento, e col vino. Ivi la fame
    Non entra mai, nè alcun funesto morbo
    Consuma lento i miseri mortali:
    Ma come il crine agli abitanti imbianca,
    Cala, portando in man l’arco d’argento,510
    Apollo con Artemide, e gli uccide
    Di saetta non vista un dolce colpo.
    Due cittadi ivi son di nerbo eguale;
    E l’Ormenide Ctesio, il mio divino
    Padre, dell’una e l’altra il fren reggea.515
    Capitò un giorno di Fenicj, scaltra
    Gente, e del mar misuratrice illustre,
    Rapida nave negra, che infinite
    Chiudea in se stessa bagattelle industri.
    Sedusser questi una Fenicia donna,520
    Che il padre schiava nel palagio avea,
    Bella, di gran persona, e di leggiadri
    Lavori esperta. I maculati panni
    Lavava al fonte presso il cavo legno,
    Quando un dì que’ ribaldi a ciò la trasse,525
    Che alle femmine incaute, ancor che vôte
    Non sien d’ogni virtude, il senno invola.
    Poscia chi fosse, richiedeale, e donde
    Venuta; ed ella senza indugio l’alte
    Del padre mio case additògli, e disse:530
    Io cittadina della chiara al Mondo
    Sidone metallifera, e del ricco
    Aribante figliuola esser mi vanto.
    Tafj ladroni mi rapiro un giorno,
    Che dai campi tornava, e mi vendero,535
    Trasportata sul mare, a quel Signore,
    Che ben degno di me prezzo lor diede.
       Non ti saria, colui rispose allora,
    Caro dunque il seguirci, ed il superbo
    De’ tuoi parenti rivedere albergo?540
    Riveder lor, che pur son vivi, e in fama
    Di dovizia tra noi? Certo mi fora,
    La donna ripigliò, sol che voi tutti
    Di ricondurmi al natio suol giuriate
    Salva sul mar navigero, e sicura.545
    Disse; e tutti giuravano. E in tal guisa
    Tra lor di nuovo favellò la donna:
    Statevi or cheti, e o per trovarmi al fonte,
    E incontrarmi tra via, nessun mi parli.
    Risaprebbelo il vecchio, e di catene550
    Me graverebbe, sospettando, e a voi
    Morte, cred’io, macchineria. La cosa
    Tenete dunque in seno, e a provvedervi
    Di quanto v’è mestier, pensate intanto.
    La nave appien vettovagliata, e carca,555
    Giungane a me l’annunzio in tutta fretta,
    Ed io, non che altro, recherò con meco
    Quanto sotto alle man verrammi d’oro.
    Altra mercè vi darò ancora: un figlio
    Di quest’ottimo Re nel suo palagio560
    Rallevo, un vispo tal, che ad ogn’istante
    Fuor mi scappa di casa. Io vi prometto
    Alla nave condurlovi; nè voi
    Picciol tesor ne ritrarrete, ovunque
    Per venderlo il meniate a estranie genti.565
       Disse, e alla reggia ritornò. Coloro,
    Nel paese restando un anno intero,
    Fean di vitto, e di merci immenso acquisto.
    Fornito il carco, e di salpare in punto,
    Un messaggio alla femmina spediro,570
    Uomo spedîr d’accorgimenti mastro,
    Che con un bello, aureo monile, e d’ambra
    Vagamente intrecciato, a noi sen venne.
    Madre, ed ancelle il rivolgean tra mano,
    Prezzo non lieve promettendo, e a gara575
    Gli occhi vi tenean su. Tacitamente
    Quegli ammiccò alla donna: indi alla nave
    Drizzava i passi. Ella per mano allora
    Presemi, e fuori uscì: trovò le mense
    Nell’atrio, e i nappi, in che bevean del padre580
    I commensali al parlamento andati
    Con esso il padre caro; e di que’ nappi
    Tre, che in grembo celò, via ne portava;
    Ed io seguiala nella mia stoltezza.
    Già tramontava il Sole, e di tenébre585
    Ricopriasi ogni strada; e noi veloci
    Giungemmo al porto, e alla Fenicia nave.
    Tutti saliti, le campagne acquose
    Fendevam lieti con un vento in poppa,
    Che da Giove spiccavasi. Sei giorni590
    Le fendevamo, e notti sei: ma Giove
    Il settimo non ebbe agli altri aggiunto,
    Che dalla Dea d’avventar dardi amante
    Colpita fu la nequitosa donna.
    Nella sentina con rimbombo cadde,595
    Quasi trafitta folaga. Tra l’acque
    La scagliaro i Fenici, esca futura
    Ai marini vitelli; e nella nave
    Solo io rimasi, abbandonato, e mesto.
    Poi l’onda, e il vento li sospinse ai lidi600
    D’Itaca, dove me comprò Laerte.
    E così questa terra, ospite, io vidi.
       Euméo, rispose il pazïente Ulisse,
    Molto a me l’alma commovesti in petto,
    Narrando i casi tuoi. Ma Giove almeno605
    Vicin tosto ti pose al male il bene,
    Poichè venisti ad un signor cortese,
    Che quanto a rallegrar, non che a serbare,
    La vita è d’uopo, non ti niega. Ed io
    Sol dopo lunghi, e incommodi viaggi610
    Di terra in terra, a queste rive approdo.
       Tali fra lor correan parole alterne.
    Dormiro al fin, ma non un lungo sonno:
    Chè in seggio a comparir d’oro la bella
    Già non tardò ditirosata Aurora.615
       Frattanto di Telemaco i compagni
    Presso alla riva raccogliean le vele.
    L’albero dechinâr, lanciaro a remi
    La nave in porto, l’ancore gittaro,
    Ed i canapi avvinsero. Ciò fatto,620
    Sul lido usciano, ed allestian la cena.
    Rintuzzata la fame, e spenta in loro
    La sete, Voi, così d’Ulisse il figlio,
    Alla città guidatemi la nave,
    Mentre a’ miei campi, ed ai pastori io movo.625
    Del cielo all’imbrunir, visti i lavori,
    Io pure inurberommi, e in premio a voi
    Lauto domane imbandirò convito.
       Ed io dove ne andrò, figlio diletto?
    Teocliméno disse. A chi tra quelli,630
    Che nella discoscesa Itaca sono
    Più potenti, offrirommi? Alla tua madre
    Dritto ir dovronne, e alla magion tua bella?
       Il prudente Telemaco riprese:
    Io stesso in miglior tempo al mio palagio635
    T’invierei, dove cortese ospizio
    Tu non avresti a desiare. Or male
    Capiteresti: io non sarei con teco,
    Nè te vedria Penelope, che scevra
    Dai Proci, a cui raro si mostra, tele640
    Nelle più alte stanze a oprare intende.
    Un uom bensì t’additerò, cui franco
    Puoi presentarti: Eurimaco, del saggio
    Polibo il figlio, che di Nume in guisa
    Onoran gl’Itacesi. Egli è il più prode,645
    E il regno più, che gli altri, e la consorte
    D’Ulisse affetta. Ma se pria, che questo
    Maritaggio si compia, i Proci tutti
    Non scenderanno ad abitar con Pluto,
    L’Olimpio il sa, benchè sì alto alberghi.650
       Tal favellava; ed un augello a destra
    Gli volò sovra il capo, uno sparviere,
    Ratto nunzio d’Apollo: avea nell’ugne
    Bianca colomba, e la spennava, e a terra
    Fra lo stesso Telemaco, e la nave655
    Le piume ne spargea. Teocliméno
    Ciò vide appena, che il garzon per mano
    Prese, e il trasse in disparte, e sì gli disse:
    Senza un Nume, o Telemaco, l’augello
    Non volò a destra. Io, che di contra il vidi,660
    Per augurale il riconobbi. Stirpe
    Più regia della tua qui non si trova,
    Qui possente ad ognor fia la tua casa.
       Così questo, Telemaco rispose,
    S’avveri, o forestier, com’io tai pegni665
    Ti darei d’amistà, che te chiunque
    Ti riscontrasse, chiameria beato.
    Quindi si volse in cotal guisa al fido
    Suo compagno Piréo: Figlio di Clito,
    Tu, che le voglie mie festi mai sempre670
    Tra quanti a Pilo mi seguiro, e a Sparta,
    Condurmi il forestiero in tua magione
    Piacciati, e usargli, finchè io vengo, onore.
       Per tardi, gli rispose il buon Piréo,
    Che tu venissi, io ne avrò cura, e nulla675
    D’ospitale sarà, che nel mio tetto,
    Dove il condurrò tosto, ei non riceva.
       Detto, salse il naviglio, e dopo lui
    Gli altri salianlo, e s’assidean su i banchi.
    Telemaco s’avvinse i bei calzari680
    Sotto i piè molli, e la sua valid’asta
    Rameappuntata, che giacea sul palco
    Della nave, in man tolse; e quei le funi
    Sciolsero. Si spingean su con la nave
    Ver la città, come il garzone ingiunse;685
    Ed ei studiava il passo, in sin che innanzi
    Gli s’aperse il cortile, ove le molte
    S’accovacciavan setolose scrofe,
    Tra cui vivea l’inclito Euméo, che o fosse
    Nella veglia, o nel sonno, i suoi padroni690
    Dormendo ancor, non che vegliando, amava.
   
  Disputa tra Atena e Afrodite, con Telemaco addormentato.
   
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    Eugenio Caruso -  04- 04- 2022 
    
  
  