Quello che tu chiami schiavo pensa che è nato come te, gode dello stesso cielo, respira la stessa aria, vive e muore, come viviamo e moriamo noi. Puoi vederlo libero cittadino ed egli può vederti schiavo. 
Seneca
 INTRODUZIONE
 
  
""Egli è usanza di molti, che pubblicano le lor fatiche, il dar conto della strada, che credettero dover tenere; e massimamente, ove trattisi di traduzioni, rispetto alle quali son varie non poco le strade, che tenere si possono. Avendo io parlato di quella, ch’io prender credetti, nella Prefazione ai due primi libri dell’Odissea di Omero da me già pubblicati, parmi superfluo il ripetere ora le stesse cose, ponendo in luce tradotto l’intero Poema. Sarebbe più presto da considerarsi, se con fiducia d’esser letto con piacere da molti presentar si possa oggidì un Poema antichissimo, le cui bellezze son diverse oltremodo da quelle, che oggidì piacciono comunemente; in cui frequenti son que’ racconti, che or sembrano inutili, frequenti quelle ripetizioni, che or pajono soprabbondanti; ed ove si discende spesso alle particolarità più [p. iv]minute della domestica vita, nelle quali è assai difficile non riuscir triviale ai nostri dì, e in lingua nostra: lingua certo bellissima tra le moderne, ma che non toglie, che di lei eziandio si dica, avere i Greci innalzate le lor fabbriche in marmo, e i traduttori copiarle in mattoni; comechè usciti fossero questi dalla migliore, per dir così, delle fornaci d’Europa. È vero, che, oltre la maestà, e l’armonia della Greca favella, l’antichità sua medesima conferisce non poco alla elevatezza, e nobiltà della narrazione, atteso che ogni cosa, quanto è più fuori dell’uso, tanto più dalla volgarità s’allontana; e però, supponendo ancora, che le parole del nostro idioma fossero egualmente rotonde, e sonore in sè, apparirebbero meno illustri, e poetiche per questa ragione soltanto, che si trovano continuamente sopra ogni bocca. Comunque sia, la difficoltà, sotto cui affaticasi un moderno volgarizzatore, rimane la stessa; e ch’io non l’esagero ad arte, ne chiamo in testimonio tutti coloro, che leggono il Greco, e quelli tra loro principalmente, che, facendo Italiano l’un passo, o l’altro dell’Odissea, assaggiato avessero le lor forze in sì fatto arringo, e tentato anch’essi di tendere quest’arco d’Ulisse. Ma perchè dunque tradur l’Odissea, domanderanno alcuni, e perchè, soggiungeranno, stamparla? Quanto al tradurla, traslatati da me, come per una certa prova, i due primi libri, piacquemi far lo stesso di alcuni altri, traducendo a salti or questo, ed or quello, e non sapendo bene, se volgarizzati tutti gli avrei, finchè mi trovai averli quasi tutti a poco a poco volgarizzati. Non era egli cosa naturale, ch’io compiessi l’opera totalmente? Si levò intanto, ed or vengo alla ragione dello stamparla, una espettazion favorevolissima, per cui non mi fu più lecito di lasciar nelle tenebre il mio lavoro; espettazione nel resto, di cui altri forse compiacerebbesi, e che in me produce una confusione grandissima, veggendo io chiaro, non potersi da me corrispondere a quella, e non bastandomi l’indulgenza, con cui furono ricevuti i due [p. vi]primi libri, perchè io debba sperare, che tutti i ventiquattro con pari indulgenza sien ricevuti. Potrei anche aggiungere, essermi andato per la mente questo pensiero, che opportuno fosse il richiamare in qualche maniera l’attenzione sovra un Poema, nel qual s’imita sì scrupolosamente, e con tanto di maestria la natura, in un tempo, che alcuni dipingono, e con grande applauso, ne’ versi, non già l’uomo di lei, ma quello bensì, che lor piace più, della fantasia loro: sì che par quasi, che dove i poeti si contentavano di rappresentar la più nobile delle creature, come la natura sin qui formolla, questi volessero, che la natura formassela da ora innanzi, com’ eglino la rappresentano. È probabile, che la prima non cangerà stile; e che non anderà dietro ai secondi chiunque brama ottenere un seggio stabile sul Parnaso. "". Mi spiace che nella traduzione Pindemonte abbia usato nomi latini e non greci pur avendo una grande padronanza del greco antico. 
Ippolito Pindemonte

 Testa di Ulisse rinvenuta nella Villa di Tiberio
RIASSUNTO LIBRO XXII  
 Odisseo, dopo aver brillantemente superato la prova, affiancato dal figlio in armi, e liberatosi dai cenci del suo travestimento, dà inizio alla strage dei pretendenti, colpendo per primo Antinoo, il più tracotante e insolente, che uccide colpendolo alla gola. Gli altri, ancora increduli, ma convinti che egli abbia sbagliato e colpito per caso uno di loro, lo insultano violentemente, finché non si rendono conto che è proprio lui l’antico padrone, ritornato per vendicarsi. Eurimaco allora gli propone un risarcimento dei beni dilapidati, ma viene anch’egli ucciso; gli altri cercano di reagire sguainando le spade; mentre Telemaco corre a prendere altre armi, Melanzio, a sua volta, fornisce armi ai Proci, prendendole da una sala che Telemaco non ha richiuso; ma, presto scoperto, viene catturato e appeso per i piedi fuori della sala. Nella lotta interviene anche Atena che, prima sotto le spoglie di Mentore, poi trasformatasi in rondine, rende vani i colpi dei pretendenti.
Odisseo, affiancato da Telemaco, Eumeo e Filezio, dopo una sanguinosa lotta, riesce a uccidere tutti i nemici, ma su consiglio di Telemaco risparmia il cantore Femio e l’araldo Medonte, che erano rimasti fedeli all’antico signore, pur essendo costretti a servire i pretendenti.
Quando ormai tutti giacciono a terra esangui, Odisseo manda a chiamare Euriclea e, dopo aver frenato la sua gioia, che sarebbe empia di fronte alla tragica scena di morte, le chiede chi fra le ancelle lo abbia tradito; quindi fa portare le infedeli nella sala e ordina loro di ripulirla dell’orrenda lordura del sangue sparso ovunque; ordina poi di giustiziarle uccidendole con la spada, anche se Telemaco deciderà invece di impiccarle; anche Melanzio viene orrendamente mutilato. Odisseo, quindi, chiede alla nutrice di portargli del fuoco e dello zolfo, per purificare la sala, e di chiamare le ancelle fedeli, prima di svegliare Penelope, che ancora giace addormentata.
Odisseo riconosce con gioia le ancelle, sciogliendo alla fine la tensione e le angosce in un pianto liberatore.
I temi
Il libro si apre con la scena della strage: senza soluzione di continuità, se non la divisione (artificiosa) fra i libri, Odisseo passa dalla prova vittoriosa dell’arco, con la quale di fatto si riappropria della sua arma prediletta e rivela la sua identità, alla vendetta, portata a termine con lo stesso arco. Tutto il canto è sotto il segno della vendetta, presentata come una giusta reazione di Odisseo, nonostante l’eroe stesso sia consapevole di commettere un atto estremo; è affiancato da pochi fedeli compagni, primo tra tutti il figlio, che gli sta accanto come un uomo ormai adulto, alla pari. Benché Odisseo giustifichi la sua vendetta e rifiuti le offerte di compromesso dei pretendenti, alla fine del libro non si lascia andare all’euforia, anzi, esorta Euriclea alla pietà, perché è consapevole di aver compiuto un gesto grave, ancorché necessario: Odisseo ha fatto sua la riflessione di Achille, che conclude l’Iliade (libro 22): la sorte degli uomini è ugualmente difficile e dolorosa, si tratti di vincitori o di vinti. Il rispetto per la morte e il timore degli dei rappresentano la nuova ‘frontiera’ dell’eroe: sono sentimenti ispirati da un nuovo senso del limite, acquisito nel corso di tante vicende, che, incrinando la sicurezza dell’eroe, lo hanno costretto a controllarsi. Da vittorie sofferte nasce il profilo di un uomo nuovo, lontano dalla smisurata fiducia in sé che nutre il Pelide all’inizio dell’Iliade e segnata da una nuova cautela verso gli altri e gli dei.
Il narratore
La narrazione colloca i diversi personaggi in un’ampia scena, nella quale il narratore esterno onnisciente descrive le varie fasi della lotta quasi assistesse direttamente alla scena; con altrettanta precisione sono riportate le reazioni dei pretendenti, ormai accerchiati e prossimi a soccombere, e di cui il poeta, in alcuni concitati discorsi, esprime la paura e i tentativi vani di mediazione.
Lo spazio
La scena si svolge ancora nella sala centrale del trono, trasformata in campo di battaglia si tratta della più grave profanazione del luogo del banchetto, già teatro di una ripetuta trasgressione: alla fine di questo bagno di sangue sarà necessaria una purificazione rituale per riportare la casa di Odisseo all’antica sacralità, dopo la contaminazione.
Il tempo
La strage dei pretendenti avviene nel 34° giorno, da quando è iniziata la narrazione, nella serata del quarto giorno di permanenza di Odisseo, momento in cui inizia la narrazione del ventiduesimo libro, cioè da quando comincia la strage, cadenzata dalle frecce scagliate una per ogni pretendente.
L'ordine della narrazione
Il racconto è lineare, interrotto solo dalle preghiere dei pretendenti che scongiurano Odisseo di risparmiarli, mentre si compie la profezia contenuta alla fine del libro XX. 
I personaggi
Il modo con cui Odisseo attua la sua vendetta è caratterizzante: anziché lanciarsi in un duello, che potrebbe essere rovinoso, attende l’occasione propizia: non si getta contro l’avversario, come farebbe Achille, il guerriero tradizionale, ma, come già ha fatto con Polifemo, aspetta il momento che gli offre maggiori possibilità di successo. Negli scontri sanguinosi Odisseo è aiutato dai servi fedeli, fra i quali Eumeo e Filezio; sullo stesso piano si pone Telemaco, che, riconosciuto il padre, è diventato un adulto a pieno titolo, in grado di affrontare il combattimento, prova di forza per eccellenza.
 
  
  Gli dei
  La dea Atena interviene in un’atmosfera di magia: addormenta Penelope, che si sveglierà solo quando la strage sarà compiuta: è un felice risveglio, che ricorda quello di Odisseo nel tredicesimo libro; aiuta i combattenti, sempre camuffandosi, ora come il fedele Mentore, ora addirittura trasformandosi in rondine. Tuttavia il suo aiuto non toglie valore né alla prova di Odisseo, né a quella di Telemaco: per Odisseo questa rappresenta la riconquista del suo potere nella casa, per il figlio, dopo le iniziazioni al coraggio, sancisce il definitivo ingresso nell’età adulta. 
 
Ulisse uccide Antinoo
  TESTO LIBRO XXII 
    Surse, e spogliossi de’ suoi cenci Ulisse,
    E sul gran limitare andò d’un salto,
    L’arco tenendo, e la faretra. I ratti
    Strali, onde gravida era, ivi gittossi
    Davante ai piedi, e ai Proci disse: A fine5
    Questa difficil prova è già condotta.
    Ora io vedrò, se altro bersaglio, in cui
    Nessun diede sin qui, toccar m’avviene,
    E se me tanto privilegia Apollo.
         Così dicendo, ei dirigea l’amaro10
    Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra
    Stava per innalzar coppa di vino
    Colma, a due orecchie, e d’oro; ed alle labbra
    Già l’appressava: nè pensier di morte
    Nel cor gli si volgea. Chi avria creduto,15
    Che fra cotanti a lieta mensa assisi
    Un sol, quantunque di gran forze, il nero
    Fabbricar gli dovesse ultimo fato?
Nella gola il trovò col dardo Ulisse,
    E sì colpillo, che dall’altra banda20
    Pel collo delicato uscì la punta.
    Ei piegò da una parte, e dalle mani
    La coppa gli cadè: tosto una grossa
    Vena di sangue mandò fuor pel naso;
    Percosse colle piante, e da sè il desco25
    Respinse; sparse le vivande a terra;
    Ed i pani imbrattavansi, e le carni.
    Visto Antinoo cader, tumulto i Proci
    Fer nella sala, e dai lor seggi alzaro,
    Turbati raggirandosi, e guardando30
    Alle pareti qua e là: ma lancia
    Dalle pareti non pendea, nè scudo.
    Allor con voci di grand’ira Ulisse
    Metteansi a improverare: Ospite, il dardo
    Ne’ petti umani malamante scocchi.35
    Parte non avrai più ne’ giuochi nostri:
    Anzi grave ruina a te sovrasta.
    Sai tu, che un uomo trafiggesti, ch’era
    Dell’Itacense gioventude il fiore?
    Però degli avvoltoi sarai qui pasto.40
         Così, pensando involontario il colpo,
    Dicean: nè s’avvedean folli, che posto
    Ne’ confini di Morte avean già il piede.
Ma torvo riguardolli, e in questa guisa
    Favellò Ulisse: Credevate, o cani,45
    Che d’Ilio io più non ritornassi, e intanto
    La casa disertar, stuprar le ancelle,
    E la consorte mia, me vivo, ambire
    Costumavate, non temendo punto
    Nè degli Dei la grave ira, nè il biasmo50
    Permanente degli uomini. Ma venne
    La fatal per voi tutti ultima sera.
         Tutti inverdiro del timore, e gli occhi,
    Uno scampo a cercar, volsero intorno.
    Solo, e in tal forma, Eurimaco rispose:55
    Quando il vero tu sii d’Itaca Ulisse
    Fra noi rinato, di molt’opre ingiuste,
    Che sì nel tuo palagio, e sì ne’ campi
    Commesse furo, ti quereli a dritto.
    Ma costui, che di tutto era cagione,60
    Eccolo in terra, Antinoo. Ei dell’ingiuste
    Opre fu l’autor primo: e non già tanto
    Pel desiderio delle altere nozze,
    Quanto per quel del regno, a cui tendea,
    Insidïando il tuo figliuolo: occulte65
    Macchine, che il Saturnio in man gli ruppe.
    Poichè morto egli giace, alla tua gente
    Perdona tu. Pubblica emenda farti
Noi promettiamo: promettiam con venti
    Tauri ciascuno, e con oro, e con bronzo,70
    Quel vôto riempir, che ne’ tuoi beni
    Gozzovigliando aprimmo; in sin che il core
    Alla letizia ti si schiuda, e sgombri
    L’ira, onde a gran ragione arse da prima.
         Bieco mirollo, e replicògli Ulisse:75
    Dove, Eurimaco, tutte ancor mi deste
    L’eredità vostre paterne, e molti
    Beni stranieri vi poneste accanto,
    Io questa man non riterrei dal sangue,
    Che la vendetta mia piena non fosse.80
    Or, qual de’ due vi piacerà, scegliete,
    Combattere, o fuggir, se pur v’ha fuga
    Per un solo di voi: ciò, ch’io non credo.
         Ciascun de’ Proci il cor dentro mancarsi
    Sentì, e piegarsi le ginocchia sotto.85
    Ed Eurimaco ad essi: Amici, indarno
    Sperate, che le braccia egli non muova.
    L’arco una volta, ed il turcasso assunti,
    Disfrenerà dal limitare i dardi,
    Finchè tutti ci atterri. Alla battaglia90
    Dunque si pensi: distringiam le spade,
    E, delle mense alle letali frecce
    Scudo facendo a noi, piombiamgli sopra
Tutti in un groppo. Se da quella porta
    Scacciarlo ne riesce, e la cittade95
    Scorrere, alzando al ciel subite voci,
    Dal saettar si rimarrà per sempre.
         Disse, e l’acuto di temprato rame
    Brando a due tagli strinse, e su lui corse
    Con terribili grida. In quella Ulisse,100
    Vôtato l’arco, al petto il colse, e il pronto
    Nel fegato gl’infisse acerbo strale.
    Lasciò Eurimaco il brando, e dopo alquanti
    Giri curvato su la mensa cadde,
    E i cibi riversaronsi, e la coppa.105
    Ma ei batté sopra la terra il capo,
    Nell’alma tapinandosi, ed il seggio,
    Che già premer solea, con ambo i piedi
    Forte springando, scosse: al fine un’atra
    Tutto il coverse sempiterna notte.110
         Ma d’altra parte Anfinomo avventossi
    Col brando in man contra l’eroe, se mai
    Dalla soglia disvellerlo potesse.
    Il prevenne Telemaco, e da tergo
    Tra le spalle il ferì con la pungente115
    Lancia, che fuor gli riuscì del petto.
    Quell’infelice rimbombò caduto,
    E con tutta la fronte il suol percosse.
Ma il garzon sottraeasi, abbandonando
    La lancia entro d’Anfinomo: temea,120
    Non alcun degli Achei, mentr’egli chino
    Stariasi l’asta a sconficcare intento,
    Di furto il martellasse, o con la spada
    Sopra mano il ferisse alla scoperta.
    Quindi ricovrò ratto, e in un baleno125
    Al caro padre fu vicino, e a lui,
    Padre, disse, uno scudo, e lance due,
    E un adatto alle tempie elmo lucente
    Ti recherò, m’armerò io stesso, ed armi
    A Filezio darò, darò ad Euméo.130
    De’ consigli il miglior sembrami questo.
         Sì, corri, Ulisse gli rispose, e riedi,
    Finchè restano a me dardi a difesa:
    Ma riedi prestamente, onde gli Achei
    Me, che son solo, non ismuovan quinci.135
         Ubbidì il figlio, e alla superna stanza,
    Dove l’armi giaceano, andò di passo
    Lanciato, e targhe quattro, ed otto lance
    Prese, e quattro lucenti elmi di chioma
    Equina folti, e in brevi istanti al caro140
    Genitor si rendè. Qui del metallo
    Munì egli primo la persona, e i servi
    Parimente le belle armi vestiro,
Ed all’accorto eroe stettero intorno.
    Questi, finchè le frecce a lui bastaro,145
    Togliea la mira, ed imbroccava ognora,
    E cadean l’un su l’altro i suoi nemici.
    Ma poichè le infallibili saette
    Gli fur venute men, l’arco ei depose,
    E l’appoggiò del ben fondato albergo150
    Al nitido parete. Indi le spalle
    Si carcò d’uno scudo a quattro doppj,
    L’elmo dedaleo con l’equina chioma
    Piantossi in capo, e due possenti lance
    Nella man si recò: sovra la testa155
    Gli ondeggiava il cimier terribilmente.
         Era in capo alla sala, e nel parete
    Del ben fondato albergo una seconda
    Di congiunte assi rinforzata porta,
    Che in pubblico mettea non largo calle.160
    Di questa, per cui sol s’apriva un passo,
    Ulisse volle il fido Euméo per guardia.
    Agelao v’ebbe l’occhio, e disse: Amici,
    Non ci sarà chi quella porta sforzi,
    E sparga voce, o il popolo a romore165
    Levi, perchè costui cessi dai colpi?
         Ciò, rispose Melanzio, ad alcun patto
    Non possiamo, Agelao di Giove alunno.
Le porte del cortil troppo vicine
    Sono, ed angusta è quell’uscita, e un solo,170
    Cui non manchi valor, cento respinge.
    Pur non temete. Io porterò a voi l’armi
    Dalla stanza superna, in cui riposte
Da Ulisse, e dal figliuol senz’altro furo.
   
  La strage dei Proci
 
    
       Detto, andar su e giù per l’alta scala,175
    Entrar, pigliar dodici targhe, e lance
    Tante, e tanti criniti elmi, ed il tutto
    Mettere in man de’ palpitanti Proci,
    Fu di pochi momenti opra felice.
       Turbar l’animo Ulisse, e le ginocchia180
    Languir sentì, ratto che ai Proci vide
    Prender gli elmi, e gli scudi, e le lunghe aste
    Ir con la destra palleggiando; e allora
    L’arduo conobbe dell’assunta impresa.
    Si converse al figliuol tosto, e, Telemaco,185
    Con dolenti gli disse alate voci,
    Certo il caprajo, o delle donne alcuna,
    Raccende contro noi quest’aspra guerra.
       E Telemaco a lui, Padre, rispose,
    Io sol peccai, non altri, io, che la salda190
    Porta lasciai mezzo tra chiusa, e aperta;
    Ed un esplorator di me più astuto
    Si giovò intanto del mio fallo. Or vanne
    Tu, prode Euméo, chiudi la porta, e sappi,
    Se ciò vien da un’ancella, o dalla trista,195
    Come parmi più ver, di Dolio prole.
       Mentre tali correan voci tra loro,
    Melanzio per le belle armi di nuovo
    Salse. Adocchiollo Euméo, nè a dir tardava
    Così ad Ulisse, che lontan non gli era:200
    Laerziade divin, quella rea peste,
    Di cui noi sospettiam, sale di nuovo.
    Parlami chiaro: degg’io porlo a morte,
    Se rimangogli sopra, o qua condurlo,
    Perchè a te innanzi d’ogni suo delitto205
    Meritamente il fio paghi una volta?
       E il saggio Ulisse: A sostenere i Proci,
    Come che ardenti, io col mio figlio basto.
    Filezio dunque, e tu, poichè l’avrete
    Entro la stanza rovesciato a terra,210
    Ambo i piedi stringetegli, e le mani
    Sul tergo, chiusa dietro a voi la porta;
    E lui d’una insolubile catena
    Cinto tirate sino all’alte travi
    Lungo una gran colonna, acciocchè il tutto215
    Sconti con morte dolorosa, e lunga.
       Pronti i servi ubbidiro. Alla sublime
    Camera s’affrettâr, da lui, che dentro
    Era, e cercava nel più interno l’arme,
    Non visti, e non sentiti; e si piantaro220
    Quinci, e quindi alla porta. Ei per la soglia
    Passava ratto, in una man portando
    Luminosa celata, ed un vetusto
    Nell’altra, e largo, e arrugginito scudo,
    Che gli omeri gravò del buon Laerte225
    Sul primo fior dell’età sua: deposto
    Poscia, e dimenticato, e da cui rotte
    Le corregge pendevano. Veloci
    L’assaltâr, l’abbrancâr, lo strascinaro
    Dentro pel ciuffo, e l’atterrâr dolente:230
    Indi ambo i piedi gli legaro, ed ambo
    Sovra il tergo le man, qual di Laerte
    Comandò il figlio; e lui d’una catena
    Insolubile cinto in sino all’alte
    Travi tirâr lungo una gran colonna.235
    E così allor tu il deridesti, Euméo:
    Melanzio, or certo vegghierai la notte
    Su letto molle, come a te s’addice,
    Corcato; nè uscirà dalle correnti
    Dell’Oceàn, che tu non la vagheggi,240
    L’Aurora in trono d’òr, quando le pingui
    Capre alla mensa condurrai de’ Proci.
       Tal fu Melanzio fra legami acerbi
    Sospeso, e abbandonato; e quei con l’arme
    Sceser, la porta risplendente chiusa;245
    E presso al ricco di consigli Ulisse,
    Forza spiranti, e ardire, il piè fermaro.
    Così quattro guerrieri in su la soglia
    Erano; e nella sala un numeroso
    Drappello, e non ignobile. Ma Palla,250
    L’armipotente del Saturnio figlia,
    Con la faccia di Mentore, e la voce,
    Tra le due parti d’improvviso apparve.
    Gioì a vederla il Laerziade, e disse:
    Mentore, mi seconda, e ti rammenta255
    Del tuo dolce compagno, onde a lodarti
    Non raro avesti, e a cui sei d’anni eguale.
    Così l’eroe: ma non gli tace il core,
    Che la sua Diva in Mentore s’asconde.
       Dall’altra parte la garriano i Proci,260
    E primo il Damastoride Agelao
    A minacciarla fu: Mentore, bada,
    Che a pugnare in suo pro contra gli Achivi
    Non ti seduca favellando Ulisse.
    Però che quando per man nostra uccisi265
    Giaceran, come ho fede, il padre, e il figlio,
    Morrai tu ancora, e il sangue tuo darai
    Per ciò, che oprar nella magione or pensi.
    Che più? Te fatto cenere, co’ beni
    D’Ulisse in monte andrà quant’or possiedi270
    Nel tuo palagio, e fuor; nè a figli, o a figlie
    Menare i dì sotto il natio lor tetto
    Consentirem, nè alla tua casta donna
    D’Itaca soggiornar nella cittade.
       Vie più s’accende a così fatte voci275
    L’ira di Palla, ed in rimbrotti scoppia
    Contra Ulisse lanciati: Io nulla, Ulisse,
    Di quel fermo vigor, nulla più veggio
    Di quell’ardire in te, che allor mostrasti,
    Che innanzi a Troja per le bianche braccia280
    Della nata di Giove inclita Eléna
    Combattesti un decennio. Entro il lor sangue
    Molti stendesti de’ nemici, e prima
    S’ascrive a te, se la dall’ampie strade
    Città di Priamo in cenere fu volta.285
    Ed or, che giunto alle paterne case
    La tua donna difendi, e i beni tuoi,
    Mollemente t’adopri? Orsù, vicino
    Stammi, ed osserva, quale il figlio d’Alcimo,
    Mentore, fra una gente a te nemica290
    De’ beneficj tuoi merto ti rende.
       Tal favellava: ma perchè l’innata
    Virtù del padre, e del figliuol volea
    Provare ancor, per alcun tempo incerta
    La vittoria lasciò tra loro, e i Proci.295
    Quindi, montando rapida, su trave
    Lucido, ed alto, a rimirar la pugna,
    Di rondine in sembianza, ella s’assise.
       Frattanto il Damastoride Agelao,
    Anfimedonte, Eurinomo, e il prudente300
    Polibo, e Demoptolemo, e Pisandro,
    Di Polittore il figlio, alla coorte
    Spirti aggiungean, come color, che i primi
    Eran di forza tra i rimasti in piede,
    E l’alma difendean: gli altri avea domi305
    L’arco famoso, e le frequenti frecce.
       Parlò a tutti Agelao: Compagni, io penso,
    Che le indomite man frenare un tratto
    Costui dovrà. Già Mentore disparve
    Dopo il bravar suo vano, e su la soglia310
    Quattro sono, e non più. Voi non lanciate
    Tutti, io ven priego, unitamente: sei
    Aste volino in prima; e il vanto Giove
    Di colpire in Ulisse a noi conceda.
    Caduto lui, nulla del resto io curo.315
       Sei, com’egli bramava, aste volaro,
    E tutte andar le feo Pallade a vôto.
    L’un de’ pungenti frassini la porta
    Percosse, un altro su la soglia cadde,
    Ed un terzo investì nella parete.320
    Scansati i colpi, di Laerte il figlio,
    Amici, disse, nello stuol de’ Proci,
    Che, non contenti alle passate offese,
    Della vita spogliar voglionci ancora,
    Io crederei, che saettar si debba.325
       Ciascun la mira di rincontro tolse,
    E trasse d’una lancia. Il divo Ulisse
    Demoptolemo uccise, e scagliò Morte
    Telemaco ad Euriade, a Elato Euméo,
    Ed a Pisandro il buon Filezio: tutti330
    Del pavimento morsero la polve.
    Gli altri nel fondo della sala il piede
    Tiraro indietro: Ulisse, e i tre compagni,
    Corsero, e svelser dagli estinti l’aste.
    Allor lanciaro nuovamente i Proci335
    Di tutta forza, e tutti quasi i colpi
    Nuovamente sviò Pallade amica.
    La gran soglia, la porta, e la parete
    Li ricevette, o li respinse: solo
    Anfimedonte tanto o quanto lese340
    La destra di Telemaco nel polso,
    E appena ne graffiò la somma cute;
    E la lung’asta di Ctesippo, a Euméo
    Lo scudo rasentando, e lievemente
    Solcandogli la spalla, il suo tenore345
    Seguì, e ricadde sovra il palco morta.
       Ma non così dall’altra parte spinte
    Fur contra i Proci le pungenti travi.
    Quella del distruttor de’ muri Ulisse
    Fulminò Euridamante, Anfimedonte350
    Per quella giacque del suo figlio: Euméo
    Scontrò con la sua Polibo, e Filezio
    Ctesippo colse con la sua nel petto,
    E su lui stette alteramente, e disse:
    Politersíde, degli oltraggi amante,355
    Cessa dal secondar la tua stoltezza,
    Con vana pompa favellando, e ai Numi
    Cedi, che di te son molto più forti.
    Questo è il dono ospital di quello in merto,
    Che al nostro Re, che mendicava, festi.360
    Alla zampa del bue l’asta rispose.
    Così d’Ulisse l’armentario illustre.
       In questo mezzo di Laerte il figlio
    Conquise il Damastoride da presso
    Di profonda ferita; e a Leocríto365
    Telemaco piantò nel ventre il telo,
    Che delle reni fuor gli ricomparve.
    L’Evenoríde stramazzò boccone,
    E la terra battè con tutto il fronte.
    Pallade allor, che rivestì la Diva,370
    Alto levò dalla soffitta eccelsa
    La funesta ai mortali Egida, e infuse
    Ne’ superstiti Proci immensa tema.
    Saltavan qua e là, come le agresti
    Madri talvolta del cornuto armento,375
    Se allo scaldarsi, ed allungar de’ giorni,
    Le punge il fiero assillo, e le scompiglia.
    Ma in quella guisa, che avvoltori il rostro
    Ricurvi, e l’unghia, piombano, calando
    Dalla montagna, su i minori augelli,380
    Che trepidi vorriano ir ver le nubi;
    E quei su lor ripiombano, e ne fanno,
    Quando difesa non rimane, o scampo,
    Strazio, e rapina del villano agli occhi,
    Che di tale spettacolo si pasce:385
    Non altrimenti Ulisse, e i tre compagni
    Si scagliavan su i Proci, e tale strage
    Ne menavan, che fronte omai non v’era,
    Che non s’aprisse sotto i gran fendenti,
    E un gemer tetro alzavasi, e di nero390
    Sangue ondeggiava il pavimento tutto.
       Leode le ginocchia a prender corse
    Del figliuol di Laerte, e in supplice atto
    Gli drizzò tali accenti: Eccomi, Ulisse,
    Alle ginocchia tue, che di te imploro395
    Gli sguardi, e la pietade. Io delle donne
    In fatto, o in detto non offesi alcuna:
    Anzi gli altri alle sozze opre rivolti
    Di ritenere io fea. Non m’obbediro:
    Però una morte subitana, e acerba400
    Delle sozze opre lor fu la mercede.
    Ma io, io, che indovin tra i Proci vissi,
    Io, che nulla commisi unqua di male,
    Qui spento giacerò degli altri al paro?
  È questo il pregio, che a virtù si serba?405
       E Ulisse, torvi in lui gli occhi fissando:
    Poichè tra i Proci indovinar ti piacque,
    Spesso chiedesti nel palagio ai Numi,
    Che del ritorno il dì non mi splendesse;
    Che te seguisse, e procreasse figli410
    La mia consorte a te: quindi e tu al grave
    Sonno perpetuo chiuderai le ciglia.
    Così dicendo, con la man gagliarda
    Dal suol raccolse la tagliente spada,
    Che Agelao su la morte avea perduto;415
    E di percossa tal diede al profeta
    Pel collo, che di lui, che ancor parlava,
    Rotolò nella polvere la testa.
       Ma di Terpio il figliuol, l’inclito Femio,
    Che tra i Proci sciogliea per forza il canto,420
    Morte schivò. Della seconda porta
    Con la sonante in man cetra d’argento
    Vicino erasi fatto, e in due pensieri
    Dividea la sua mente: o fuori uscito
    Sedersi all’ara del gran Giove Ercéo,425
    Dove Laerte, e il suo diletto figlio
    Molte solean bruciar cosce taurine,
    O ad Ulisse prostrarsi, e le ginocchia
    Stringergli, e supplicarlo; e delle due
    Questa gli parve la miglior sentenza.430
    Prima tra una capace urna, e un distinto
    D’argentei chiovi travagliato seggio
    Depose a terra l’incavata cetra:
    Poi ver l’eroe si mosse, e le ginocchia
    Stringeagli, e gli dicea con voci alate:435
    Ulisse, ascolta queste mie preghiere,
    E di Femio pietà l’alma ti punga.
    Doglia tu stesso indi ne avrai, se uccidi
    Uom, che agli uomini canta, ed agli Dei.
    Dotto io son da me solo, e non già l’arte,440
    Ma un Dio mi seminò canti infiniti
    Nell’intelletto. Gioirai, qual Nume,
    Della mia voce al suono. E tu la mano
    Insanguinar ti vuoi nel corpo mio?
    Ne domanda Telemaco, il tuo dolce445
    Figlio, ed ei ti dirà, che nè vaghezza
    Di plauso mai, nè scarsità di vitto,
    Tra i Proci alteri a musicar m’indusse.
    Ma co’ molti, co’ giovani, co’ forti,
    Uom che potea debile, vecchio, e solo?450
       Tal favellava; e la sacrata possa
    Di Telemaco udillo, e ratto al padre,
    Che non gli era lontan, T’arresta, disse,
    E di questo innocente i dì rispetta.
    Medonte ancor, che de’ miei giorni primi455
    Cura prendea, noi serberemo in vita:
    Sol ch’ei non sia per man d’un de’ pastori
    Caduto, e in te dato non abbia, mentre
    Per la sala menavi in furia i colpi.
       L’udì Medonte, il banditor solerte,460
    Che sdrajato giacea sotto un sedile,
    E, l’atro fato declinando, s’era
    D’una fresca di bue pelle coverto.
    Surse da sotto il seggio, e il bovin cuojo
    Svestissi, e andò a Telemaco, e, gittate465
    A’ suoi ginocchj ambe le braccia, Caro,
    Gridava, eccomi qua: salvami, e al padre
    Di’, che irato co’ Proci, onde scemati
    Gli erano i beni, e vilipeso il figlio,
    Non s’inaspri in me ancora, e non m’uccida.470
       Sorrise Ulisse, e a lui: Sta di buon core.
    Già di rischio Telemaco ti trasse,
    E in salvo pose, acciocchè sappi, e il narri,
    Quanto più del far male il ben far torna.
    Tu, araldo, intanto, e tu, vate immortale,475
    Fuor del palagio, e della strage usciti,
    Sedete nel cortil, finch’io di dentro
    Tutta l’impresa mia conduco a riva.
       Tacque; ed usciro, e appo l’altar del sommo
    Giove sedean, guardandosi all’intorno,480
    Qual se ad ogni momento, e in ogni loco,
    Dovesse lor sopravvenir la Parca.
       Lo sguardo allora per la casa in giro
    L’eroe mandò, se mai de’ Proci alcuno
    Fuggito avesse della morte il fato.485
    Non rimanea di tanti un, che nel sangue
    Steso non fosse, e nella polve. Come
    Gli abitatori del canuto mare,
    Che il pescator con rete a molti vani
    Su dall’onda tirò nel curvo lido,490
    Giaccion, bramando le native spume,
    Per l’arena odïata, e loro il Sole
    Con gl’infiammati rai le anime fura:
    Così giacean l’un presso l’altro i Proci.
       Subitamente Ulisse in questa forma495
    Si converse a Telemaco: Telemaco,
    La nutrice Euricléa, su via, mi chiama,
    Ciò per udir, che a me di dirle è in grado.
       Ubbidì egli, e incamminossi, e, dato
    D’urto alla porta, O d’anni carca, disse,500
    Sorgi, Euricléa, che nella nostra casa
    Vegli sovra le ancelle. Il padre mio,
    Che desia favellarti, a sè ti vuole.
       Non sen portava le parole il vento.
    Aprì Euricléa le porte, e in via con lui,505
    Che precedeala, entrò veloce, e brutto
    Di polve tra i cadaveri, e di sangue
    Ulisse ritrovò. Qual par leone,
    Che vien da divorar nel campo un toro,
    E il vasto petto, e l’una guancia e l’altra510
    Ne riporta cruenta, e dalle ciglia
    Spira terror: tale insozzati Ulisse
    Mostrava i piedi, e delle mani i dossi.
       Quella, come i cadaveri, ed il molto
    Sangue mirò, volle gridar di gioja515
    A spettacolo tal: ma ei frenolla,
    Benchè anelante, e con parole alate,
    Godi dentro di te, disse, ma in voci,
    Vecchia, non dar di giubbilo: chè vampo
    Menar non lice sovra gente uccisa.520
    Questi domò il destino, e morte a loro
    Le stesse lor malvagitadi furo:
    Quando non rispettaro alcun giammai,
    Buon fosse, o reo, che in Itaca giungesse.
    Dunque a dritto periro. Or tu, nutrice,525
    Di’ delle donne a me, quai nel palagio
    Son macchiate di colpa, e quali intatte.
       E la diletta a lui vecchia Euricléa:
    Figliuol, da me tu non avrai, che il vero.
    Cinquanta chiude il tuo palagio, a cui530
    Le lane pettinar, tesser le tele,
    E sostener con animo tranquillo
    La servitute, io stessa un giorno appresi.
    Dodici tra costor tutta spogliaro
    La verecondia, e, non che me, la stessa535
    Dispregiaro Penelope. Non era
    Troppo innanzi venuto ancor negli anni
    Il figlio tuo, nè su le donne alcuno
    Gli consentia la saggia madre impero.
    Ma che fo io, che alle lucenti stanze540
    Non salgo di Penelope, che giace
    Da un Dio sepolta in un profondo sonno?
       Non la destare ancor, rispose Ulisse:
    Bensì alle donne, il cui peccar t’è noto,
    Che a me si rappresentino, dirai.545
       La balia senza indugio a invitar mosse
    Le peccatrici, e ad esortarle tutte,
    Che si rappresentassero all’eroe.
    E intanto egli, Telemaco a sè avuto,
    E il custode de’ verri, e quel de’ tori,550
    Tai parole lor feo: Le morte salme
    Più non si tardi a trasportare altrove,
    E dell’infide ancelle opra sia questa.
    Poi con l’acqua, e le spugne a molte bocche,
    I bei sedili tergeransi, e i deschi.555
    Tutta rimessa la magione in punto,
    Le ancelle ne trarrete, e poste in mezzo
    Tra la picciola torre, ed il superbo
    Recinto del cortil, tanto co’ lunghi
    Le cercherete feritori bandi,560
    Che si disciolga dai lor corpi l’alma,
    E dalle menti lor fugga l’immonda
    Venere, onde s’unian di furto ai Proci.
  
       Ciò detto appena, ecco venire a un corpo
    Le grame, sollevando alti lamenti,565
    E una pioggia di lagrime versando.
    Pria trasportâr gl’inanimati corpi,
    Che del cortile, aitandosi a vicenda,
    Sotto alla loggia collocaro. Instava
    Co’ suoi comandi Ulisse; e quelle il tristo570
    Ministero compiean, benchè a mal cuore.
    Poi con l’acqua, e le spugne a molte bocche,
    I bei sedili si tergeano, e i deschi.
    Ma Telemaco, e seco i due pastori,
    Con rigide scorrean pungenti scope575
    Sul pavimento del ben fatto albergo;
    E la bruttura raccogliean le afflitte
    Donne, e fuori recavanla. Nè prima
    Rimessa fu la magion tutta in punto,
    Che fra la torre, ed il recinto poste580
    Le malvage si videro, e in tal guisa
    Serrate là, che del fuggir nulla era.
   
  La strage dei Proci da un cratere magnogreco.  Capua, 330 a.C. circa, conservato al Louvre. 
  
       E Telemaco: Io, no, con morte onesta
    Non torrò l’alma da coteste donne,
    Che a me sul capo, ed alla madre, scherni585
    Versaro; e che s’unian d’amor co’ Proci.
       Disse; e di nave alla cerulea prora
    Canape, che partia da un gran pilastro,
    Gittò alla torre a tale altezza intorno,
    Che le ancelle, per cui gittarlo piacque,590
    Non potesser del piè toccar la terra.
    E come incontra, che o colombe, o torde,
    Che al verde chiuso d’una selva entraro,
    Van con ali spiegate a dar di petto
    Nelle pendule reti, ove ciascuna595
    Trova un letto feral: tali a mirarle
    Eran le donne con le teste in fila,
    E con avvinto ad ogni collo un laccio,
    Di morte infelicissima strumento.
    Guizzan co’ piedi alquanto, e più non sono.600
       Telemaco indi, e i due pastori seco,
    Nella corte per l’atrio il mal caprajo
    Conducean: recideangli orecchie, e nari,
    E i genitali, da buttarsi crudi
    Ai can voraci, gli svelleano, e i piedi605
    Mozzavangli, e le man; tanta fu l’ira.
    Punito al fine ogni misfatto, e mani
    Con pura onda di fonte, e piè lavati,
    Ritorno fer nella magione a Ulisse.
       Questi allor tai parole alla diletta610
    Nutrice rivolgea: Portami, o vecchia,
    Il zolfo salutifero, ed il fuoco,
    Perchè l’albergo vaporare io possa.
    E Penelope a me con le fedeli
    Sue donne venga; e tu l’altre per casa615
    Femmine tutte a qua venir conforta.
       Ed ella: Figlio mio, quanto dicesti,
    Io lodo assai. Ma non vuoi tu, che prima
    Manto a coprirti, e tunica, io ti rechi?
    Indegno fora con tai cenci in dosso620
    Nel tuo palagio rimaner più a lungo.
       Prima il zolfo, ed il fuoco, ad Euricléa
    Rispose il pien d’accorgimenti eroe.
       La nutrice, ubbidendo, il sacro zolfo
    Portògli, e il fuoco prestamente; e Ulisse625
    La sala, ed il vestibolo, e il cortile
    Più volte vaporò. Salì frattanto
    Colei le ancelle a confortar, che franche
    Vedere omai si fessero. Le ancelle
    Delle camere usciro, in man tenendo630
    Lucide faci: poscia intorno a lui
    Si spargeano, e abbracciavanlo, ed il capo
    Baciavangli, stringendolo, e le spalle,
    E l’afferravan nelle mani. Ulisse
    Tutte le riconobbe ad una ad una635
    Nel consapevol petto, e un dolce il prese
    Di sospiri, e di lagrime desio. 
  
  
  
  
    La cattura delle ancelle infedeli 
AUDIO
    
    
Eugenio Caruso -  25 - 06 - 2022 
  
  