Il denaro è come il concime: non serve se non è sparso. 
Francis Bacon 
 
Nel  2007 l’economia mondiale ha mantenuto un ritmo di crescita molto sostenuto, con  la prosecuzione della fase di robusta espansione in corso da ormai un  quadriennio. Nella seconda parte dell’anno, l’emergere di squilibri sui mercati  finanziari – di cui tuttavia l’economia mondiale ha risentito in misura  complessivamente limitata – e le tensioni sui prezzi delle materie prime hanno  intaccato la robustezza della congiuntura internazionale. 
  I prodotti energetici hanno registrato  un aumento pressoché continuo, accentuatosi ulteriormente nei primi mesi del 2008,  seguendo l’evoluzione delle quotazioni del petrolio che hanno superato  recentemente il limite di 130 dollari/barile. Analoga situazione si è  registrata per le materie prime alimentari, e in particolare per i cereali.  Questi rialzi hanno generato spinte inflazionistiche di rilievo, che si sono  diffuse in tutte le economie. Per i paesi dell’Eurozona le pressioni sono state  in parte attutite dal forte apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro.
  Le  economie dell’Eurozona (Uem) hanno mantenuto nella media del 2007 un ritmo di  espansione piuttosto robusto (2,6 per cento), lievemente inferiore a quello  dell’anno precedente ma, soprattutto, più discontinuo. In rallentamento nell’ultima parte del 2007, la crescita è tornata  vivace nel primo scorcio del 2008, riflettendo così il forte aumento registrato in Germania.
  Nel  2007 il prodotto interno lordo dell’Italia è cresciuto dell’1,5 per cento, con un  risultato meno favorevole dell’anno precedente (1,8 per cento). Il  differenziale negativo di crescita dell’Italia rispetto alla media Uem è  rimasto nell’ordine di un punto percentuale.
  Il Pil trimestrale mette in luce una  secca caduta dell’attività nel quarto trimestre (-0,4 per cento in termini  congiunturali) seguita, tuttavia, da un recupero di analoga ampiezza nel primo  trimestre del 2008. Sulla base di questa evoluzione, la variazione del Pil nel  2008 acquisita al primo trimestre è positiva ma molto contenuta (+0,2 per  cento).
  Nel 2007 è proseguita, con un  indebolimento nella parte finale dell’anno, la fase di moderata espansione  dell’attività produttiva che aveva già caratterizzato l’anno precedente. Tutti  i principali settori hanno realizzato incrementi del valore aggiunto, eccetto  quello agricolo. Il settore dei servizi e quello delle costruzioni hanno continuato  a espandersi a ritmi moderati ma regolari; la dinamica del valore aggiunto  dell’industria in senso stretto è rimasta positiva seppure molto attenuata rispetto  all’anno precedente.
  Il  maggiore contributo alla prosecuzione dell’espansione dell’economia italiana è  giunto dal lieve rafforzamento della dinamica dai consumi delle famiglie,  aumentati in termini reali dell’1,4 per cento. 
  Questa positiva evoluzione è stata  favorita, oltre che da una lieve  risalita della propensione al consumo, dal discreto aumento del reddito disponibile, cresciuto in termini reali dell’1 per  cento, dovuto alla spinta dei  redditi da lavoro indipendente e di quelli derivanti da attività finanziarie.
  La componente di reddito associata al  lavoro dipendente ha mantenuto una dinamica più contenuta, a causa del  rallentamento delle retribuzioni lorde per unità di lavoro.
  Il processo di accumulazione del  capitale ha subito nel 2007 gli effetti del rallentamento del ciclo economico e  del peggioramento delle aspettative, registrando una significativa  decelerazione. La crescita è stata dell’1,2 per cento, sostenuta essenzialmente  dal rafforzamento, pur moderato, della dinamica della componente delle costruzioni,  in particolare di quelle residenziali. Per il comparto dei mezzi di trasporto e  per quello dei beni immateriali vi è stato un rallentamento rispetto al 2006,  mentre gli investimenti in macchine e attrezzature hanno registrato una lieve  contrazione (-0,3 per cento) che ha interrotto la tendenza espansiva del  triennio 2004-2006.
  La domanda estera netta ha fornito un  contributo quasi nullo alla crescita del Pil, derivante da un’espansione  robusta, sebbene meno vivace che nel 2006, per entrambe le componenti dell’interscambio  di beni e servizi. In volume, le  esportazioni totali e le  importazioni sono cresciute rispettivamente del 5,0 e del 4,4 per cento. Con specifico riferimento ai  flussi di merci, il valore delle esportazioni è invece aumentato dell’8 per  cento, in linea con la crescita registrata dall’insieme dell’area euro. La  dinamica delle importazioni è stata assai più contenuta e in marcato rallentamento  rispetto al 2006, a  causa della brusca frenata dei valori medi unitari delle merci acquistate (4,4  per cento). Ciò ha comportato un ampio  miglioramento della bilancia  commerciale: il deficit complessivo si è infatti ridotto da 20,5 miliardi di euro nel 2006 a 9,4 nel 2007, mentre  quello misurato al netto dei prodotti
  energetici  ha segnato un attivo di 37,1 miliardi di euro, assai maggiore di quello del  2006. La crescita  delle esportazioni italiane è stata molto più marcata (+10 per cento) per la componente destinata ai paesi extra-Uem. In  questi mercati la performance è  stata migliore di quella media dei paesi dell’euro e può essere ricondotta sia al favorevole impatto  della specializzazione settoriale, sia al miglioramento delle condizioni generali di competitività delle nostre  esportazioni sui mercati  extra-comunitari. La dinamica si è intensificata nei primi mesi del 2008. I prezzi alla produzione e quelli al  consumo hanno risentito in misura consistente delle tensioni internazionali sui prezzi delle materie prime e del  petrolio.
  La crescita dei prezzi dell’output  del complesso dell’economia (+2,4 per cento) è stata inferiore a quella  dell’anno precedente. Il rallentamento ha riguardato sia i costi degli input,  in risalita solo nella parte finale dell’anno, sia il costo del lavoro per  unità di prodotto (incrementatosi dell’1,4 per cento), che ha beneficiato  dell’andamento moderato del costo del lavoro per dipendente e di un modesto  recupero della produttività del lavoro.
  I  prezzi alla produzione dei prodotti industriali sul mercato interno hanno  registrato una rapida accelerazione a partire dall’autunno, con un tasso di  crescita tendenziale che ha raggiunto il 4,5 per cento nel quarto trimestre e  si è avvicinato al 6 per cento nei primi mesi del 2008.
  Il 2007 è stato caratterizzato da una  crescita dei prezzi al consumo contenuta nella media dell’anno, ma in netta  accelerazione dopo l’estate. La risalita, comune alle altre economie dell’Uem,  ha investito l’intera filiera dei prezzi e si è traslata sui consumatori nella  parte finale dell’anno. L’accelerazione ha riguardato soprattutto i prezzi dei  beni: nel primo trimestre del 2008 il tasso di incremento tendenziale si è  avvicinato al 5 per cento per la componente alimentare e al 9 per cento per quella  energetica. Con intensità minore le tensioni si sono estese anche al settore dei  servizi e in particolare alla componente non regolamentata.
  I forti rincari dei beni alimentari  ed energetici hanno contribuito ad allargare il differenziale tra la dinamica  dei prezzi dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto e quelli acquistati con  frequenza media o bassa. Il tasso di crescita dei primi, vicino al 3 per cento  nella media del 2007, ha  raggiunto il 4 per cento nel quarto trimestre e si è portato al 5 nei primi  mesi di quest’anno, analogamente a quanto manifestatosi per il complesso  dell’Uem, come risulta da analisi ad hoc dell’Istat.
L’evoluzione di questa componente  influenza verosimilmente il giudizio dei consumatori sulla perdita di potere  d’acquisto derivante dall’inflazione, con ulteriori impatti negativi sui  comportamenti di spesa. Inoltre, la fase di rapida accelerazione dell’inflazione  – pur interessando tutto il territorio nazionale – si è manifestata con  maggiore intensità nel Mezzogiorno, con un differenziale dell’ordine di un punto  percentuale rispetto alle regioni del Nord. Questo andamento conferma una  tendenza che ha visto, nell’ultimo quinquennio, una più forte dinamica dei prezzi  al consumo nel Sud e nelle Isole e che può essere ricondotta ai più bassi  livelli di partenza, alle inefficienze del sistema distributivo e ai  comportamenti di spesa (si vedano le elaborazioni recentemente effettuate sui  livelli dei prezzi in venti
  capoluoghi).
  In merito al conto economico  consolidato delle amministrazioni pubbliche, nella versione provvisoria  relativa all’anno 2007, si è registrato un miglioramento significativo:  l’incidenza dell’indebitamento netto sul Pil è scesa all’1,9 per cento, dal 3,4  dell’anno precedente. Il saldo primario (indebitamento al netto della spesa per  interessi) è risultato positivo e pari al 3,1 per cento del Pil, in forte  risalita rispetto allo 0,3 del 2005 e all’1,3 per cento del 2006. Grazie a  questi risultati lo stock di debito pubblico italiano in rapporto al Pil è  passato dal 106,5 per cento dell’anno precedente al 104,0 per cento.
Le risposte delle imprese alla globalizzazione
Oltre ai vincoli di carattere  macroeconomico che l’evoluzione ciclica recente ha riproposto, continuano a  operare quelli legati alle caratteristiche e alla performance delle strutture  produttive.
    L’economia  italiana nell’ultimo decennio è cresciuta meno delle altre maggiori economie  dell’Unione (la variazione del Pil è stata in media dell’1,4 all’anno rispetto  al 2,5 dell’Ue27). Inoltre, in Italia la crescita del prodotto è spiegata soprattutto dall’aumento dell’occupazione, mentre la produttività  del lavoro ha avuto una dinamica  particolarmente debole e in alcuni anni addirittura negativa.
  Questa combinazione ha determinato un  peggioramento della nostra capacità competitiva nel confronto con i principali  partner europei.
  Del resto, l’andamento della  produttività è stato negativo in tutti i settori fuorché nell’agricoltura, e  peggiore proprio in quelli – come le attività finanziarie e i servizi alle  imprese – cresciuti maggiormente negli ultimi anni (2001- 2006) e che spiegano  oltre metà (53 per cento) della crescita del Pil.
  Un’analisi  di lungo periodo della crisi di produttività dell’economia italiana mostra come  negli anni Novanta abbiano influito negativamente i processi di ricomposizione della  struttura produttiva nella direzione della deindustrializzazione, ma mostra  anche come gli effetti di riallocazione settoriale dell’occupazione siano ormai  sostanzialmente esauriti e non possano essere invocati, se non in minima parte,  a spiegazione della perdurante stasi della produttività.
  Tra il 2001 e il 2005 (che è stato  peraltro l’anno terminale di una fase di stagnazione), analizzando i conti  economici delle imprese nel loro complesso e in termini unitari (cioè per  addetto), il valore dell’input è aumentato più di quello dell’output. Dunque vi  sono segnali in atto di riorganizzazione diversi dalla ricomposizione settoriale  della struttura produttiva, che intervengono all’interno delle imprese, negli  stessi processi produttivi, nell’esternalizzazione (anche all’estero) di fasi  della produzione. L’effetto sulla produttività è comunque negativo, poiché  comporta il ridimensionamento del valore aggiunto per addetto (cioè della  produttività apparente del lavoro), soprattutto nelle piccole e medie imprese e  nella manifattura. Sempre nello stesso  periodo e con riferimento all’aggregato delle imprese, altri indicatori sono negativi: la competitività di  costo è caduta del 4 per cento  circa; la redditività, peraltro tra le più alte d’Europa, è in calo di circa due punti percentuali in  termini di fatturato; anche l’incidenza degli investimenti sul valore aggiunto fa registrare un calo di 2 punti  percentuali.
  D’altro canto, sul fronte delle  esportazioni, come si è già accennato, il quadro è confortante se si osservano  le tendenze successive al 2005 e tuttora in corso, con particolare riferimento  ai mercati extra-comunitari. L’Italia continua a registrare un’erosione della  propria quota del commercio mondiale, ma solo in virtù del peso crescente delle  economie emergenti, e in particolare della Cina. In termini di quote le  economie avanzate hanno tutte perso terreno. In questo contesto, l’arretramento  fatto registrare dall’Italia (0,9 punti percentuali in meno tra il 1997 e il  2006) è inferiore a quello sperimentato da Francia, Regno Unito, Stati Uniti e  Giappone. Nonostante il differenziale  negativo di produttività, la  capacità di penetrazione degli esportatori italiani è dunque stabile o in  crescita, soprattutto verso i  mercati più dinamici e ricettivi (ad esempio la Russia). Tra l’altro, tra il 2005 e il 2007 il grado di  diversificazione geografica e merceologica delle esportazioni è aumentato: il 15,5 per cento degli operatori è  stato presente su oltre dieci  mercati e il 7,7 per cento ha esportato più di dieci tipologie di prodotti.
  Tra le strategie e i comportamenti  virtuosi adottati dalle imprese più dinamiche assume una rilevanza crescente il  fenomeno dell’internazionalizzazione produttiva, ossia il trasferimento  strategico di funzioni aziendali in paesi che offrono condizioni più favorevoli  al loro svolgimento. Un’analisi del fenomeno è stata svolta prendendo in  considerazione sia cause ed effetti del trasferimento all’estero di attività  produttive nazionali (international sourcing), sia caratteristiche e tendenze  evolutive delle unità produttive nazionali controllate da imprese estere.
  Circa  la metà delle grandi imprese industriali italiane ha ormai trasferito  all’estero parte dei propri processi. L’impatto sulle performance generali di impresa è positivo anche per l’aumento della  capacità di vendita dei nostri prodotti sui  mercati esteri. L’effetto netto sull’occupazione invece è negativo in termini quantitativi (i posti di lavoro  soppressi sono più di quelli creati), sebbene in termini qualitativi si assista a un processo favorevole di  mutamento nella composizione occupazionale  delle imprese coinvolte, con un aumento del peso dei profili professionali più specializzati (skill upgrading).
  La presenza di multinazionali estere  in Italia resta invece piuttosto contenuta, specialmente se la si confronta con  la situazione degli altri paesi avanzati. È tuttavia in forte crescita in  alcuni comparti produttivi (petrolifero, mezzi di trasporto e  telecomunicazioni). Si attua secondo modelli diversi per le attività  manifatturiere (in cui prevale l’acquisizione di imprese esistenti) e per  quelle dei servizi (in cui è relativamente più frequente la costituzione di  nuove unità produttive – investimenti greenfield).
  In conclusione, anche se sono molte  le imprese italiane capaci di comprendere le trasformazioni in atto su scala  globale e di cogliere le opportunità di espansione sui mercati interni e  internazionali, il modesto ritmo di sviluppo complessivo dell’attività  testimonia il perdurare delle difficoltà del sistema: vincoli, inefficienze e  ritardi allontanano le prospettive di crescita e di innovazione, e fanno anzi  perdere terreno, quanto meno in termini relativi. L’approfondimento di questi  aspetti è essenziale per la formulazione di possibili politiche d’intervento.
Un sistema produttivo in evoluzione
L’analisi dinamica della  competitività del sistema è stata approfondita per il periodo 1999-2005  utilizzando i dati individuali sulle imprese, che consentono di prendere in  considerazione sottopopolazioni di imprese omogenee per settore e dimensione.
  Nella manifattura si registrano buone  performance – in termini di incremento e di livelli di competitività – nel  settore delle medie e grandi imprese petrolifere e nell’industria siderurgica.  In declino, invece, la competitività di alcuni settori di imprese di medie e  grandi dimensioni, quali cuoio e calzature, lavorazione dei minerali e chimica.  Nei servizi, le performance peggiori in termini di perdita di competitività si registrano  per le microimprese dell’informatica e della ricerca e sviluppo, per i servizi alle  imprese di grandi dimensioni e per le piccole imprese d’autotrasporto.
  I livelli medi e gli andamenti degli  indicatori di performance, anche a un dettaglio settoriale e dimensionale molto  disaggregato, nascondono ampi differenziali tra singole imprese, anche in  relazione agli obiettivi che esse perseguono. Un’immagine esauriente dei  comportamenti imprenditoriali è possibile utilizzando i dati individuali delle  indagini strutturali dell’Istat sulle imprese. Nella precedente edizione del Rapporto  annuale si erano offerti alcuni primi risultati riferiti a tutte le  imprese, classificandole sulla base di indicatori che forniscono una misura  approssimata della redditività e della produttività. In questa edizione,  l’analisi è aggiornata al 2005 e approfondita scendendo nel dettaglio  settoriale e dimensionale.
  I confronti fanno riferimento a medie  omogenee di imprese simili per settore (39 divisioni di attività economica, con  l’esclusione dei comparti estrattivo, energetico e dei servizi pubblici e alle  persone) e dimensione (4 classi).
  Il segmento delle imprese con il  comportamento più virtuoso, con livelli di produttività e di redditività  superiori a quelli medi, raggiunge il 22 per cento del totale.
  Si tratta di imprese relativamente  più presenti nel Nord-est, nelle produzioni a medio- bassa tecnologia e nei  servizi tecnologici, caratterizzate da un costo del lavoro per dipendente e una  spesa per la formazione del personale più elevati della media.
  Quelle con produttività sensibilmente  al di sopra della media, ma bassa redditività, sono poco meno dell’8 per cento  del totale. Esse sono imprese più orientate ai mercati internazionali,  relativamente più presenti nel Nord, che (come le precedenti) sopportano un  costo del lavoro per dipendente e una spesa per la formazione del personale più  elevati.
  Per contro, poco meno di un’impresa  su due, pur con una produttività del lavoro inferiore alla media, consegue  livelli di redditività superiori. Queste imprese, di piccolissime dimensioni  (2,4 addetti in media), sono relativamente più presentinelle regioni del Centro,  nel settore delle costruzioni e mostrano livelli di costo del lavoro per  dipendente, di investimenti e di spese per servizi inferiori a quelli medi.
  Infine, circa un’impresa su quattro  consegue livelli di redditività e di produttività inferiori a quelli medi.  Queste imprese sono relativamente più presenti nel Mezzogiorno e mostrano un  indice di competitività particolarmente basso.
  Nel valutare questi risultati, è  tuttavia opportuna qualche cautela. L’esistenza di imprese con bassa  redditività che tuttavia continuano a operare (sono circa un terzo del totale)  non è necessariamente indice di scarsa efficienza dei mercati; si vedrà tra breve,  infatti, che la demografia d’impresa, attraverso meccanismi di selezione,  contribuisce anche nel nostro Paese ad accrescere la performance del sistema.  D’altro canto, soprattutto nel segmento delle imprese fino a 10 addetti –  particolarmente rilevante in Italia – in molti settori manifatturieri e dei  servizi la remunerazione delle attività imprenditoriali e lavorative degli  addetti indipendenti risulta eguale o inferiore a quella dei lavoratori  dipendenti dei medesimi settori di appartenenza.
Tra i fattori che, soprattutto nel  nostro Paese, spiegano l’evoluzione della competitività, della produttività e  della capacità di esportare vi sono la localizzazione delle imprese e il  contesto di riferimento. I risvolti territoriali della distribuzione dei  profili delle imprese mettono in luce aspetti relativamente meno esplorati del divario  tra Centro-Nord e Mezzogiorno.
  Il tessuto produttivo meridionale è  meno denso di quello delle altre ripartizioni:per mille residenti in età di  lavoro (15-64 anni), si contano rispettivamente oltre 125 imprese al  Centro-Nord a fronte di 88 nel Mezzogiorno. Anche il numero di posti di lavoro  nel settore privato al Nord (545) è due volte quello del Mezzogiorno (274),  anche se in questa ripartizione le dinamiche delle imprese mettono in evidenza  una netta espansione. Alla luce degli indicatori strutturali più recenti, il  sistema produttivo meridionale, infatti, presenta alcuni comportamenti virtuosi,  anche se a partire da livelli iniziali molto bassi e in un quadro di grande fragilità.  Tra il 1999 e il 2005, la crescita delle imprese e soprattutto degli addetti è  stata nel Mezzogiorno più vivace che nel resto del Paese. Nel quadro di un  bilancio demografico delle imprese nettamente in attivo, il sistema produttivo  meridionale appare però particolarmente instabile, con bassi valori del tasso  di sopravvivenza a cinque anni ed elevati valori di natalità e mortalità.  All’opposto nel Nord-est la popolazione di imprese, anche qui in crescita, si  caratterizza per una maggiore regolarità dei flussi demografici.
  La distribuzione territoriale delle  variazioni del fatturato per addetto disegna, invece, una separazione più netta  tra Mezzogiorno e resto del Paese. Nella ripartizione meridionale, infatti, le  imprese sono cresciute molto più in termini di occupazione che non di  dimensione economica, soprattutto per effetto della specializzazione in settori  a bassa produttività.
  A livello territoriale più  dettagliato, quello dei sistemi locali del lavoro raggruppati per  specializzazione prevalente, l’aumento del fatturato per addetto realizzato tra  il 1999 e il 2005 può essere ricondotto a tre meccanismi principali.
   La crescita interna a ogni impresa e il  guadagno di quote di mercato delle imprese più efficienti a scapito di quelle  meno produttive contribuiscono per poco meno del 60 per cento dell’aumento  complessivo. Il contributo del turnover demografico è meno rilevante perché,  anche se sono positivi gli effetti delle uscite dal mercato delle imprese più  inefficienti, quelle che nascono hanno ancora una bassa produttività. La  componente di crescita individuale è molto forte in alcuni sistemi come quelli  urbani a bassa specializzazione, agroalimentari, della meccanica, dei materiali  da costruzione e del tessile. 
  Il ruolo delle nuove imprese è  relativamente più importante nei sistemi dell’occhialeria, dell’abbigliamento e  della meccanica, nonché in altri comparti a crescita più lenta, come quelli  turistici, del cuoio e del legno.
  Le esportazioni delle imprese  manifatturiere, tra il 1995 e il 2006, sono aumentate in termini nominali del  34 per cento, ma si deve sottolineare come il Mezzogiorno nel suo complesso  registri una performance quasi doppia (63,6 per cento) grazie soprattutto  all’Abruzzo e alla Sicilia (dove però il dato è influenzato dalla presenza  delle attività petrolchimiche). Gran parte della crescita delle esportazioni è  comunque attribuibile alle ripartizioni settentrionali, che spiegano circa l’80  per cento della variazione complessiva, con incrementi superiori al 40 per cento  in Lombardia ed Emilia-Romagna. Molto buona la performance dei sistemi locali  della meccanica, i quali incidono per poco meno del 20 per cento sulla crescita  complessiva dell’export nazionale.
L’analisi del sistema produttivo  condotta per sistema locale restituisce quindi un quadro di grande ricchezza e  complessità, in cui il tradizionale divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno trova  conferme, ma anche qualificazioni: nella ripartizione meridionale si  concentrano le situazioni più difficili quanto ai livelli, ma anche le più  dinamiche. Sotto il profilo delle configurazioni produttive prevalenti, trova  ulteriore conferma la constatazione che i modelli di specializzazione del “made  in Italy” seguono in realtà percorsi evolutivi differenti, a seconda che si  tratti delle produzioni più tradizionali e meno dinamiche (tessile e  abbigliamento, pelli e calzature), o di quelle a contenuto tecnologico  relativamente più elevato (il comparto della meccanica in primis).  Emergono inoltre alcuni segnali (ad esempio, nella performance  all’esportazione) che una ristrutturazione organizzativa e produttiva è stata  portata a compimento con risultati apprezzabili, e coinvolge gli stessi settori  più tradizionali (ad esempio, il tessile).
  In realtà, lo sviluppo spaziale delle  attività economiche continua a operare secondo le modalità e nelle direzioni in  atto dall’inizio degli anni Settanta: nella maggior parte dei settori  manifatturieri la crescita trova origine in poli di sviluppo e si diffonde  nelle aree contermini per contiguità o per contagio, grazie alla presenza di legami  economici sul versante dei fattori della produzione o delle componenti della domanda  intermedia e finale. I percorsi di localizzazione trasformano con gradualità la  geografia produttiva del Paese, generando vincoli ma anche nuove opportunità.
  A seguire queste traiettorie di  sviluppo sono i settori della manifattura leggera che caratterizzano il  “modello distrettuale” italiano (le industrie alimentari, quelle editoriali, il  vasto comparto dei prodotti in metallo e della meccanica, incluse le macchine  per ufficio e gli strumenti ottici), ma anche alcune industrie “pesanti” in cui  prevalgono impianti di maggiori dimensioni e forti investimenti in capitale (industrie  della raffinazione, della chimica e dei mezzi di trasporto).
  Il permanere di queste disparità –  quella tra Centro-Nord e Mezzogiorno, che continua a essere determinante, ma  soprattutto quella tra sistemi locali e vocazioni territoriali differenti, più  frazionata ma non meno importante – condiziona i comportamenti sul mercato del  lavoro, le condizioni economiche delle famiglie e le abitudini di consumo.  D’altro canto, il persistere delle tendenze di lungo periodo offre un segnale  chiaro per gli individui e le famiglie, anche di immigrati: tra le molte  ragioni che motivano gli spostamenti di residenza tra sistemi locali, quelli legati  alla vivacità economica dei sistemi territoriali, e dunque alle prospettive  occupazionali, hanno un peso importante, soprattutto negli spostamenti a lungo  e a medio raggio.