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Istat - Sintesi del rapporto annuale 2007

Il denaro è come il concime: non serve se non è sparso.

Francis Bacon


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Nel 2007 l’economia mondiale ha mantenuto un ritmo di crescita molto sostenuto, con la prosecuzione della fase di robusta espansione in corso da ormai un quadriennio. Nella seconda parte dell’anno, l’emergere di squilibri sui mercati finanziari – di cui tuttavia l’economia mondiale ha risentito in misura complessivamente limitata – e le tensioni sui prezzi delle materie prime hanno intaccato la robustezza della congiuntura internazionale.
I prodotti energetici hanno registrato un aumento pressoché continuo, accentuatosi ulteriormente nei primi mesi del 2008, seguendo l’evoluzione delle quotazioni del petrolio che hanno superato recentemente il limite di 130 dollari/barile. Analoga situazione si è registrata per le materie prime alimentari, e in particolare per i cereali. Questi rialzi hanno generato spinte inflazionistiche di rilievo, che si sono diffuse in tutte le economie. Per i paesi dell’Eurozona le pressioni sono state in parte attutite dal forte apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro.
Le economie dell’Eurozona (Uem) hanno mantenuto nella media del 2007 un ritmo di espansione piuttosto robusto (2,6 per cento), lievemente inferiore a quello dell’anno precedente ma, soprattutto, più discontinuo. In rallentamento nell’ultima parte del 2007, la crescita è tornata vivace nel primo scorcio del 2008, riflettendo così il forte aumento registrato in Germania.
Nel 2007 il prodotto interno lordo dell’Italia è cresciuto dell’1,5 per cento, con un risultato meno favorevole dell’anno precedente (1,8 per cento). Il differenziale negativo di crescita dell’Italia rispetto alla media Uem è rimasto nell’ordine di un punto percentuale.
Il Pil trimestrale mette in luce una secca caduta dell’attività nel quarto trimestre (-0,4 per cento in termini congiunturali) seguita, tuttavia, da un recupero di analoga ampiezza nel primo trimestre del 2008. Sulla base di questa evoluzione, la variazione del Pil nel 2008 acquisita al primo trimestre è positiva ma molto contenuta (+0,2 per cento).
Nel 2007 è proseguita, con un indebolimento nella parte finale dell’anno, la fase di moderata espansione dell’attività produttiva che aveva già caratterizzato l’anno precedente. Tutti i principali settori hanno realizzato incrementi del valore aggiunto, eccetto quello agricolo. Il settore dei servizi e quello delle costruzioni hanno continuato a espandersi a ritmi moderati ma regolari; la dinamica del valore aggiunto dell’industria in senso stretto è rimasta positiva seppure molto attenuata rispetto all’anno precedente.
Il maggiore contributo alla prosecuzione dell’espansione dell’economia italiana è giunto dal lieve rafforzamento della dinamica dai consumi delle famiglie, aumentati in termini reali dell’1,4 per cento.
Questa positiva evoluzione è stata favorita, oltre che da una lieve risalita della propensione al consumo, dal discreto aumento del reddito disponibile, cresciuto in termini reali dell’1 per cento, dovuto alla spinta dei redditi da lavoro indipendente e di quelli derivanti da attività finanziarie.
La componente di reddito associata al lavoro dipendente ha mantenuto una dinamica più contenuta, a causa del rallentamento delle retribuzioni lorde per unità di lavoro.
Il processo di accumulazione del capitale ha subito nel 2007 gli effetti del rallentamento del ciclo economico e del peggioramento delle aspettative, registrando una significativa decelerazione. La crescita è stata dell’1,2 per cento, sostenuta essenzialmente dal rafforzamento, pur moderato, della dinamica della componente delle costruzioni, in particolare di quelle residenziali. Per il comparto dei mezzi di trasporto e per quello dei beni immateriali vi è stato un rallentamento rispetto al 2006, mentre gli investimenti in macchine e attrezzature hanno registrato una lieve contrazione (-0,3 per cento) che ha interrotto la tendenza espansiva del triennio 2004-2006.
La domanda estera netta ha fornito un contributo quasi nullo alla crescita del Pil, derivante da un’espansione robusta, sebbene meno vivace che nel 2006, per entrambe le componenti dell’interscambio di beni e servizi. In volume, le esportazioni totali e le importazioni sono cresciute rispettivamente del 5,0 e del 4,4 per cento. Con specifico riferimento ai flussi di merci, il valore delle esportazioni è invece aumentato dell’8 per cento, in linea con la crescita registrata dall’insieme dell’area euro. La dinamica delle importazioni è stata assai più contenuta e in marcato rallentamento rispetto al 2006, a causa della brusca frenata dei valori medi unitari delle merci acquistate (4,4 per cento). Ciò ha comportato un ampio miglioramento della bilancia commerciale: il deficit complessivo si è infatti ridotto da 20,5 miliardi di euro nel 2006 a 9,4 nel 2007, mentre quello misurato al netto dei prodotti
energetici ha segnato un attivo di 37,1 miliardi di euro, assai maggiore di quello del 2006. La crescita delle esportazioni italiane è stata molto più marcata (+10 per cento) per la componente destinata ai paesi extra-Uem. In questi mercati la performance è stata migliore di quella media dei paesi dell’euro e può essere ricondotta sia al favorevole impatto della specializzazione settoriale, sia al miglioramento delle condizioni generali di competitività delle nostre esportazioni sui mercati extra-comunitari. La dinamica si è intensificata nei primi mesi del 2008. I prezzi alla produzione e quelli al consumo hanno risentito in misura consistente delle tensioni internazionali sui prezzi delle materie prime e del petrolio.
La crescita dei prezzi dell’output del complesso dell’economia (+2,4 per cento) è stata inferiore a quella dell’anno precedente. Il rallentamento ha riguardato sia i costi degli input, in risalita solo nella parte finale dell’anno, sia il costo del lavoro per unità di prodotto (incrementatosi dell’1,4 per cento), che ha beneficiato dell’andamento moderato del costo del lavoro per dipendente e di un modesto recupero della produttività del lavoro.
I prezzi alla produzione dei prodotti industriali sul mercato interno hanno registrato una rapida accelerazione a partire dall’autunno, con un tasso di crescita tendenziale che ha raggiunto il 4,5 per cento nel quarto trimestre e si è avvicinato al 6 per cento nei primi mesi del 2008.
Il 2007 è stato caratterizzato da una crescita dei prezzi al consumo contenuta nella media dell’anno, ma in netta accelerazione dopo l’estate. La risalita, comune alle altre economie dell’Uem, ha investito l’intera filiera dei prezzi e si è traslata sui consumatori nella parte finale dell’anno. L’accelerazione ha riguardato soprattutto i prezzi dei beni: nel primo trimestre del 2008 il tasso di incremento tendenziale si è avvicinato al 5 per cento per la componente alimentare e al 9 per cento per quella energetica. Con intensità minore le tensioni si sono estese anche al settore dei servizi e in particolare alla componente non regolamentata.
I forti rincari dei beni alimentari ed energetici hanno contribuito ad allargare il differenziale tra la dinamica dei prezzi dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto e quelli acquistati con frequenza media o bassa. Il tasso di crescita dei primi, vicino al 3 per cento nella media del 2007, ha raggiunto il 4 per cento nel quarto trimestre e si è portato al 5 nei primi mesi di quest’anno, analogamente a quanto manifestatosi per il complesso dell’Uem, come risulta da analisi ad hoc dell’Istat.

L’evoluzione di questa componente influenza verosimilmente il giudizio dei consumatori sulla perdita di potere d’acquisto derivante dall’inflazione, con ulteriori impatti negativi sui comportamenti di spesa. Inoltre, la fase di rapida accelerazione dell’inflazione – pur interessando tutto il territorio nazionale – si è manifestata con maggiore intensità nel Mezzogiorno, con un differenziale dell’ordine di un punto percentuale rispetto alle regioni del Nord. Questo andamento conferma una tendenza che ha visto, nell’ultimo quinquennio, una più forte dinamica dei prezzi al consumo nel Sud e nelle Isole e che può essere ricondotta ai più bassi livelli di partenza, alle inefficienze del sistema distributivo e ai comportamenti di spesa (si vedano le elaborazioni recentemente effettuate sui livelli dei prezzi in venti
capoluoghi).
In merito al conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche, nella versione provvisoria relativa all’anno 2007, si è registrato un miglioramento significativo: l’incidenza dell’indebitamento netto sul Pil è scesa all’1,9 per cento, dal 3,4 dell’anno precedente. Il saldo primario (indebitamento al netto della spesa per interessi) è risultato positivo e pari al 3,1 per cento del Pil, in forte risalita rispetto allo 0,3 del 2005 e all’1,3 per cento del 2006. Grazie a questi risultati lo stock di debito pubblico italiano in rapporto al Pil è passato dal 106,5 per cento dell’anno precedente al 104,0 per cento.

Le risposte delle imprese alla globalizzazione

Oltre ai vincoli di carattere macroeconomico che l’evoluzione ciclica recente ha riproposto, continuano a operare quelli legati alle caratteristiche e alla performance delle strutture produttive.
L’economia italiana nell’ultimo decennio è cresciuta meno delle altre maggiori economie dell’Unione (la variazione del Pil è stata in media dell’1,4 all’anno rispetto al 2,5 dell’Ue27). Inoltre, in Italia la crescita del prodotto è spiegata soprattutto dall’aumento dell’occupazione, mentre la produttività del lavoro ha avuto una dinamica particolarmente debole e in alcuni anni addirittura negativa.
Questa combinazione ha determinato un peggioramento della nostra capacità competitiva nel confronto con i principali partner europei.
Del resto, l’andamento della produttività è stato negativo in tutti i settori fuorché nell’agricoltura, e peggiore proprio in quelli – come le attività finanziarie e i servizi alle imprese – cresciuti maggiormente negli ultimi anni (2001- 2006) e che spiegano oltre metà (53 per cento) della crescita del Pil.
Un’analisi di lungo periodo della crisi di produttività dell’economia italiana mostra come negli anni Novanta abbiano influito negativamente i processi di ricomposizione della struttura produttiva nella direzione della deindustrializzazione, ma mostra anche come gli effetti di riallocazione settoriale dell’occupazione siano ormai sostanzialmente esauriti e non possano essere invocati, se non in minima parte, a spiegazione della perdurante stasi della produttività.
Tra il 2001 e il 2005 (che è stato peraltro l’anno terminale di una fase di stagnazione), analizzando i conti economici delle imprese nel loro complesso e in termini unitari (cioè per addetto), il valore dell’input è aumentato più di quello dell’output. Dunque vi sono segnali in atto di riorganizzazione diversi dalla ricomposizione settoriale della struttura produttiva, che intervengono all’interno delle imprese, negli stessi processi produttivi, nell’esternalizzazione (anche all’estero) di fasi della produzione. L’effetto sulla produttività è comunque negativo, poiché comporta il ridimensionamento del valore aggiunto per addetto (cioè della produttività apparente del lavoro), soprattutto nelle piccole e medie imprese e nella manifattura. Sempre nello stesso periodo e con riferimento all’aggregato delle imprese, altri indicatori sono negativi: la competitività di costo è caduta del 4 per cento circa; la redditività, peraltro tra le più alte d’Europa, è in calo di circa due punti percentuali in termini di fatturato; anche l’incidenza degli investimenti sul valore aggiunto fa registrare un calo di 2 punti percentuali.
D’altro canto, sul fronte delle esportazioni, come si è già accennato, il quadro è confortante se si osservano le tendenze successive al 2005 e tuttora in corso, con particolare riferimento ai mercati extra-comunitari. L’Italia continua a registrare un’erosione della propria quota del commercio mondiale, ma solo in virtù del peso crescente delle economie emergenti, e in particolare della Cina. In termini di quote le economie avanzate hanno tutte perso terreno. In questo contesto, l’arretramento fatto registrare dall’Italia (0,9 punti percentuali in meno tra il 1997 e il 2006) è inferiore a quello sperimentato da Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. Nonostante il differenziale negativo di produttività, la capacità di penetrazione degli esportatori italiani è dunque stabile o in crescita, soprattutto verso i mercati più dinamici e ricettivi (ad esempio la Russia). Tra l’altro, tra il 2005 e il 2007 il grado di diversificazione geografica e merceologica delle esportazioni è aumentato: il 15,5 per cento degli operatori è stato presente su oltre dieci mercati e il 7,7 per cento ha esportato più di dieci tipologie di prodotti.
Tra le strategie e i comportamenti virtuosi adottati dalle imprese più dinamiche assume una rilevanza crescente il fenomeno dell’internazionalizzazione produttiva, ossia il trasferimento strategico di funzioni aziendali in paesi che offrono condizioni più favorevoli al loro svolgimento. Un’analisi del fenomeno è stata svolta prendendo in considerazione sia cause ed effetti del trasferimento all’estero di attività produttive nazionali (international sourcing), sia caratteristiche e tendenze evolutive delle unità produttive nazionali controllate da imprese estere.
Circa la metà delle grandi imprese industriali italiane ha ormai trasferito all’estero parte dei propri processi. L’impatto sulle performance generali di impresa è positivo anche per l’aumento della capacità di vendita dei nostri prodotti sui mercati esteri. L’effetto netto sull’occupazione invece è negativo in termini quantitativi (i posti di lavoro soppressi sono più di quelli creati), sebbene in termini qualitativi si assista a un processo favorevole di mutamento nella composizione occupazionale delle imprese coinvolte, con un aumento del peso dei profili professionali più specializzati (skill upgrading).
La presenza di multinazionali estere in Italia resta invece piuttosto contenuta, specialmente se la si confronta con la situazione degli altri paesi avanzati. È tuttavia in forte crescita in alcuni comparti produttivi (petrolifero, mezzi di trasporto e telecomunicazioni). Si attua secondo modelli diversi per le attività manifatturiere (in cui prevale l’acquisizione di imprese esistenti) e per quelle dei servizi (in cui è relativamente più frequente la costituzione di nuove unità produttive – investimenti greenfield).
In conclusione, anche se sono molte le imprese italiane capaci di comprendere le trasformazioni in atto su scala globale e di cogliere le opportunità di espansione sui mercati interni e internazionali, il modesto ritmo di sviluppo complessivo dell’attività testimonia il perdurare delle difficoltà del sistema: vincoli, inefficienze e ritardi allontanano le prospettive di crescita e di innovazione, e fanno anzi perdere terreno, quanto meno in termini relativi. L’approfondimento di questi aspetti è essenziale per la formulazione di possibili politiche d’intervento.

Un sistema produttivo in evoluzione

L’analisi dinamica della competitività del sistema è stata approfondita per il periodo 1999-2005 utilizzando i dati individuali sulle imprese, che consentono di prendere in considerazione sottopopolazioni di imprese omogenee per settore e dimensione.
Nella manifattura si registrano buone performance – in termini di incremento e di livelli di competitività – nel settore delle medie e grandi imprese petrolifere e nell’industria siderurgica. In declino, invece, la competitività di alcuni settori di imprese di medie e grandi dimensioni, quali cuoio e calzature, lavorazione dei minerali e chimica. Nei servizi, le performance peggiori in termini di perdita di competitività si registrano per le microimprese dell’informatica e della ricerca e sviluppo, per i servizi alle imprese di grandi dimensioni e per le piccole imprese d’autotrasporto.
I livelli medi e gli andamenti degli indicatori di performance, anche a un dettaglio settoriale e dimensionale molto disaggregato, nascondono ampi differenziali tra singole imprese, anche in relazione agli obiettivi che esse perseguono. Un’immagine esauriente dei comportamenti imprenditoriali è possibile utilizzando i dati individuali delle indagini strutturali dell’Istat sulle imprese. Nella precedente edizione del Rapporto annuale si erano offerti alcuni primi risultati riferiti a tutte le imprese, classificandole sulla base di indicatori che forniscono una misura approssimata della redditività e della produttività. In questa edizione, l’analisi è aggiornata al 2005 e approfondita scendendo nel dettaglio settoriale e dimensionale.
I confronti fanno riferimento a medie omogenee di imprese simili per settore (39 divisioni di attività economica, con l’esclusione dei comparti estrattivo, energetico e dei servizi pubblici e alle persone) e dimensione (4 classi).
Il segmento delle imprese con il comportamento più virtuoso, con livelli di produttività e di redditività superiori a quelli medi, raggiunge il 22 per cento del totale.
Si tratta di imprese relativamente più presenti nel Nord-est, nelle produzioni a medio- bassa tecnologia e nei servizi tecnologici, caratterizzate da un costo del lavoro per dipendente e una spesa per la formazione del personale più elevati della media.
Quelle con produttività sensibilmente al di sopra della media, ma bassa redditività, sono poco meno dell’8 per cento del totale. Esse sono imprese più orientate ai mercati internazionali, relativamente più presenti nel Nord, che (come le precedenti) sopportano un costo del lavoro per dipendente e una spesa per la formazione del personale più elevati.
Per contro, poco meno di un’impresa su due, pur con una produttività del lavoro inferiore alla media, consegue livelli di redditività superiori. Queste imprese, di piccolissime dimensioni (2,4 addetti in media), sono relativamente più presentinelle regioni del Centro, nel settore delle costruzioni e mostrano livelli di costo del lavoro per dipendente, di investimenti e di spese per servizi inferiori a quelli medi.
Infine, circa un’impresa su quattro consegue livelli di redditività e di produttività inferiori a quelli medi. Queste imprese sono relativamente più presenti nel Mezzogiorno e mostrano un indice di competitività particolarmente basso.
Nel valutare questi risultati, è tuttavia opportuna qualche cautela. L’esistenza di imprese con bassa redditività che tuttavia continuano a operare (sono circa un terzo del totale) non è necessariamente indice di scarsa efficienza dei mercati; si vedrà tra breve, infatti, che la demografia d’impresa, attraverso meccanismi di selezione, contribuisce anche nel nostro Paese ad accrescere la performance del sistema. D’altro canto, soprattutto nel segmento delle imprese fino a 10 addetti – particolarmente rilevante in Italia – in molti settori manifatturieri e dei servizi la remunerazione delle attività imprenditoriali e lavorative degli addetti indipendenti risulta eguale o inferiore a quella dei lavoratori dipendenti dei medesimi settori di appartenenza.

Tra i fattori che, soprattutto nel nostro Paese, spiegano l’evoluzione della competitività, della produttività e della capacità di esportare vi sono la localizzazione delle imprese e il contesto di riferimento. I risvolti territoriali della distribuzione dei profili delle imprese mettono in luce aspetti relativamente meno esplorati del divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno.
Il tessuto produttivo meridionale è meno denso di quello delle altre ripartizioni:per mille residenti in età di lavoro (15-64 anni), si contano rispettivamente oltre 125 imprese al Centro-Nord a fronte di 88 nel Mezzogiorno. Anche il numero di posti di lavoro nel settore privato al Nord (545) è due volte quello del Mezzogiorno (274), anche se in questa ripartizione le dinamiche delle imprese mettono in evidenza una netta espansione. Alla luce degli indicatori strutturali più recenti, il sistema produttivo meridionale, infatti, presenta alcuni comportamenti virtuosi, anche se a partire da livelli iniziali molto bassi e in un quadro di grande fragilità. Tra il 1999 e il 2005, la crescita delle imprese e soprattutto degli addetti è stata nel Mezzogiorno più vivace che nel resto del Paese. Nel quadro di un bilancio demografico delle imprese nettamente in attivo, il sistema produttivo meridionale appare però particolarmente instabile, con bassi valori del tasso di sopravvivenza a cinque anni ed elevati valori di natalità e mortalità. All’opposto nel Nord-est la popolazione di imprese, anche qui in crescita, si caratterizza per una maggiore regolarità dei flussi demografici.
La distribuzione territoriale delle variazioni del fatturato per addetto disegna, invece, una separazione più netta tra Mezzogiorno e resto del Paese. Nella ripartizione meridionale, infatti, le imprese sono cresciute molto più in termini di occupazione che non di dimensione economica, soprattutto per effetto della specializzazione in settori a bassa produttività.
A livello territoriale più dettagliato, quello dei sistemi locali del lavoro raggruppati per specializzazione prevalente, l’aumento del fatturato per addetto realizzato tra il 1999 e il 2005 può essere ricondotto a tre meccanismi principali.
 La crescita interna a ogni impresa e il guadagno di quote di mercato delle imprese più efficienti a scapito di quelle meno produttive contribuiscono per poco meno del 60 per cento dell’aumento complessivo. Il contributo del turnover demografico è meno rilevante perché, anche se sono positivi gli effetti delle uscite dal mercato delle imprese più inefficienti, quelle che nascono hanno ancora una bassa produttività. La componente di crescita individuale è molto forte in alcuni sistemi come quelli urbani a bassa specializzazione, agroalimentari, della meccanica, dei materiali da costruzione e del tessile.
Il ruolo delle nuove imprese è relativamente più importante nei sistemi dell’occhialeria, dell’abbigliamento e della meccanica, nonché in altri comparti a crescita più lenta, come quelli turistici, del cuoio e del legno.
Le esportazioni delle imprese manifatturiere, tra il 1995 e il 2006, sono aumentate in termini nominali del 34 per cento, ma si deve sottolineare come il Mezzogiorno nel suo complesso registri una performance quasi doppia (63,6 per cento) grazie soprattutto all’Abruzzo e alla Sicilia (dove però il dato è influenzato dalla presenza delle attività petrolchimiche). Gran parte della crescita delle esportazioni è comunque attribuibile alle ripartizioni settentrionali, che spiegano circa l’80 per cento della variazione complessiva, con incrementi superiori al 40 per cento in Lombardia ed Emilia-Romagna. Molto buona la performance dei sistemi locali della meccanica, i quali incidono per poco meno del 20 per cento sulla crescita complessiva dell’export nazionale.

L’analisi del sistema produttivo condotta per sistema locale restituisce quindi un quadro di grande ricchezza e complessità, in cui il tradizionale divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno trova conferme, ma anche qualificazioni: nella ripartizione meridionale si concentrano le situazioni più difficili quanto ai livelli, ma anche le più dinamiche. Sotto il profilo delle configurazioni produttive prevalenti, trova ulteriore conferma la constatazione che i modelli di specializzazione del “made in Italy” seguono in realtà percorsi evolutivi differenti, a seconda che si tratti delle produzioni più tradizionali e meno dinamiche (tessile e abbigliamento, pelli e calzature), o di quelle a contenuto tecnologico relativamente più elevato (il comparto della meccanica in primis). Emergono inoltre alcuni segnali (ad esempio, nella performance all’esportazione) che una ristrutturazione organizzativa e produttiva è stata portata a compimento con risultati apprezzabili, e coinvolge gli stessi settori più tradizionali (ad esempio, il tessile).
In realtà, lo sviluppo spaziale delle attività economiche continua a operare secondo le modalità e nelle direzioni in atto dall’inizio degli anni Settanta: nella maggior parte dei settori manifatturieri la crescita trova origine in poli di sviluppo e si diffonde nelle aree contermini per contiguità o per contagio, grazie alla presenza di legami economici sul versante dei fattori della produzione o delle componenti della domanda intermedia e finale. I percorsi di localizzazione trasformano con gradualità la geografia produttiva del Paese, generando vincoli ma anche nuove opportunità.
A seguire queste traiettorie di sviluppo sono i settori della manifattura leggera che caratterizzano il “modello distrettuale” italiano (le industrie alimentari, quelle editoriali, il vasto comparto dei prodotti in metallo e della meccanica, incluse le macchine per ufficio e gli strumenti ottici), ma anche alcune industrie “pesanti” in cui prevalgono impianti di maggiori dimensioni e forti investimenti in capitale (industrie della raffinazione, della chimica e dei mezzi di trasporto).
Il permanere di queste disparità – quella tra Centro-Nord e Mezzogiorno, che continua a essere determinante, ma soprattutto quella tra sistemi locali e vocazioni territoriali differenti, più frazionata ma non meno importante – condiziona i comportamenti sul mercato del lavoro, le condizioni economiche delle famiglie e le abitudini di consumo. D’altro canto, il persistere delle tendenze di lungo periodo offre un segnale chiaro per gli individui e le famiglie, anche di immigrati: tra le molte ragioni che motivano gli spostamenti di residenza tra sistemi locali, quelli legati alla vivacità economica dei sistemi territoriali, e dunque alle prospettive occupazionali, hanno un peso importante, soprattutto negli spostamenti a lungo e a medio raggio.


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