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Le prime impronte di bipedi risalgono tra i 7 e i 5 milioni di anni fa.


“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”. Einstein

Molto tempo prima di evolvere grandi cervelli e il linguaggio, ancora prima di addomesticare il fuoco o costruire strumenti di pietra, i nostri antenati iniziarono a fare qualcosa che nessun mammifero aveva mai fatto prima: camminare su due zampe. Gli adattamenti dello scheletro per muoversi in posizione eretta sono evidenti nei fossili dei più antichi ominini (vedi sotto), risalenti a un periodo compreso tra 7 e 5 milioni di anni fa.

Spostarsi su due zampe, anziché su quattro, creò le condizioni per successivi cambiamenti nella nostra linea evolutiva, consentì ai nostri predecessori di espandere il proprio areale e diversificare la dieta e trasformò il modo in cui mettiamo al mondo i figli e ce ne prendiamo cura. Questa particolare modalità di locomozione gettò le basi per quasi tutte le altre caratteristiche che rendono unici gli esseri umani.
Nella classica rappresentazione visiva dell’evoluzione umana, una processione di antenati che inizia con una creatura simile a uno scimpanzé che deambula su quattro zampe lascia spazio a una serie di progenitori sempre più eretti, il cui culmine è un Homo sapiens in posizione completamente verticale che cammina su due gambe. Resa popolare per la prima volta negli anni sessanta, la marcia del progresso ha decorato innumerevoli libri, magliette, tazze e adesivi. Tuttavia, le scoperte paleoantropologiche degli ultimi vent’anni stanno costringendo gli scienziati a ridisegnare questa tradizionale visione lineare. Oggi sappiamo che varie specie di ominini che vivevano in Africa in ambienti diversi, a volte contemporaneamente, hanno evoluto modi diversi di camminare su due gambe.

masai

Masai della zona di Laetoli

L’emergere del bipedismo ha dato il via a una lunga fase di sfrenate improvvisazioni evolutive su questa forma di locomozione: la nostra andatura moderna non è stata predeterminata, con ogni antenato che marciava in modo via via più somigliante a uno specifico obiettivo finale.
Non volevano essere colpiti da un pezzo di cacca di elefante in volo. Chi lo vorrebbe? Fu così che i paleontologi Kay Behrensmeyer e Andrew Hill (oggi scomparso), in visita al sito fossilifero diretto dall’archeologa Mary Leakey nelle vicinanze di Laetoli, in Tanzania, saltarono in un canale per mettersi al riparo e raccogliere nuove munizioni per la battaglia di palle di sterco di elefante che era scoppiata estemporaneamente. Era il 24 luglio 1976, il giorno di una delle scoperte più all’insegna della serendipità nella storia della paleoantropologia

Hill e Behrensmeyer esaminarono il suolo alla ricerca di sterco ma invece notarono impronte fossili di elefante e tracce di gocce di pioggia indurite in uno strato esposto di cenere vulcanica caduta 3,66 milioni di anni fa. Chiesero una tregua nella battaglia, e gli altri giocatori andarono a vedere e si stupirono di ciò che i due avevano scoperto. I fossili dicono molte cose su un organismo; le impronte fossili catturano istantanee preziose di momenti vissuti da animali estinti da lungo tempo. Nelle settimane seguenti, il gruppo di Leakey esplorò un’area che fu chiamata sito A, spazzolando via i sedimenti uno dopo l’altro fino a rivelare migliaia di orme, per lo più di piccole antilopi e lepri, ma anche di antichi elefanti, rinoceronti, giraffe, grandi felini, uccelli e persino di uno scarabeo. Nella speranza di trovare nel mucchio anche orme di ominini, Leakey disse al gruppo di fare attenzione a eventuali impronte bipedi, perché forse sarebbero stati fortunati. E a settembre lo furono davvero: Peter Jones e Philip Leakey scoprirono cinque impronte consecutive lasciate da qualcosa che si spostava su due arti anziché su quattro. Un ominino? Forse, ma le orme avevano una forma strana e ciò che le aveva lasciate, qualunque cosa fosse, aveva incrociato il passo, spostando il piede sinistro sopra il destro come un’indossatrice su una passerella, anziché camminare nel modo solito degli esseri umani.
Le tracce bipedi del sito A erano un mistero. Due anni dopo, altri due membri del gruppo di Leakey, Paul Abell e Ndibo Mbuika, scoprirono un’altra serie di impronte bipedi due chilometri a ovest del sito A, in un luogo chiamato sito G. Due, tre o forse persino quattro individui avevano camminato fianco a fianco nella cenere umida, lasciando 69 orme straordinariamente simili a quelle umane. La maggior parte degli studiosi concorda che queste tracce furono lasciate da esemplari di Australopithecus afarensis, la specie di Lucy, di cui a Laetoli erano stati rinvenuti alcuni fossili. Ma le tracce del sito G erano decisamente diverse da quelle del sito A. Se era stato un ominino a lasciare le impronte del sito G, che tipo di creatura era responsabile delle tracce bipedi del sito A?
A metà degli anni ottanta Russ Tuttle, antropologo dell’Università di Chicago, tentò di risolvere questo mistero. Dopo aver confrontato la forma delle orme del sito A con quelle lasciate da esseri umani scalzi, scimpanzé e orsi da circo addestrati a camminare su due zampe, Tuttle concluse che le impronte appartenevano a una seconda specie di ominini che viveva a Laetoli durante il Pliocene oppure a un orso con un’andatura bipede. Forse perché il paradigma dominante era una visione lineare del bipedismo umano, gli altri ricercatori abbracciarono l’ipotesi dell’orso. Come risultato, mentre le impronte di ominini del sito G furono studiate in modo esaustivo e hanno raggiunto una fama mondiale, quelle del sito A caddero nel dimenticatoio. Sarebbero trascorsi trent’anni prima che qualcuno tornasse a interessarsene. Il Dartmouth College, dove insegno antropologia, è una piccola università di stampo umanistico nello Stato del New Hampshire, annidata in una valle tra le White Mountains di questo Stato e le Green Mountains del confinante Vermont. Nonostante si trovi ad appena due ore di auto dall’area metropolitana di Boston, il suo motto è vox clamantis in deserto: «Una voce che grida nel deserto». Ampie distese di aceri assicurano sciroppo in abbondanza, il famoso Appalachian Trail (sentiero degli Appalachi) costeggia il campus e nelle foreste circostanti vivono gli orsi; molti orsi.

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Le orme fossili scoperte a Laetoli, Tanzania, nel 1976, sono state finalmente identificate. Non le ha lasciate un orso, ma una specie di ominino che condivideva l’antica savana con Australopithecus afarensis

Nel 2017 insieme a Ellison McNutt, all’epoca mia dottoranda e oggi professoressa di anatomia all’Università dell’Ohio, mi associai al locale esperto di orsi neri Ben Kilhan per raccogliere calchi di orme di cuccioli le cui zampe avevano una dimensione simile alle impronte del sito A di Laetoli. Attraendoli con sciroppo d’acero e purea di mele, convincemmo i giovani orsi ad alzarsi sulle zampe posteriori e a deambulare lungo un percorso sperimentale ricoperto di fango. Con nostra grande sorpresa, le impronte e la meccanica del loro passo non avevano alcun nesso con quelle del sito A. Le orme del tallone degli orsi sono strette e i segni lasciati dai passi sono distanti fra loro, perché l’anatomia dell’anca e del ginocchio fa sì che gli orsi, quando si muovono con andatura bipede, oscillino avanti e indietro. Cominciammo a dubitare dell’ipotesi di Tuttle.
Sono trascorsi più di quarant’anni dalla scoperta della serie di orme del sito A. In questo periodo, le piogge stagionali hanno lentamente lavato via i sedimenti dalle aride colline di Laetoli, esponendo decine di migliaia di fossili. Molti di essi sono stati recuperati da gruppi di ricerca diretti da Charles Musiba, dell’Università del Colorado a Denver, da Terry Harrison, dell’Università di New York, e da Denise Su, della Arizona State University. Sappiamo da altri siti che un orso estinto di nome Agriotherium vagava per l’Africa durante il Pliocene, ma nemmeno uno dei fossili animali rinvenuti a Laetoli dai team citati è di un orso. Bisognava dare un’altra occhiata alle tracce bipedi del sito A. Ma quelle stesse piogge stagionali che ci regalano ossa e impronte fossili hanno anche il potere di eroderle, e quindi avevamo ipotizzato che le impronte bipedi del sito A fossero ormai scomparse da tempo. Per fortuna ci sbagliavamo.
Nel 2019 andai a Laetoli insieme a Musiba e usammo i dettagliati disegni di Mary Leakey come una sorta di mappa del tesoro per individuare il luogo preciso in cui avrebbero dovuto trovarsi le misteriose impronte bipedi. Dopodiché, iniziammo a scavare. Alcuni giorni dopo, l’assistente di scavo tanzaniano Kallisti Fabian ci gridò mtu, la parola swahili per «essere umano»: aveva trovato le impronte. Le piogge non le avevano distrutte ma le avevano coperte e conservate tutte e cinque sotto un sottile strato di sedimento. Ripulimmo completamente le tracce con spatole e spazzole a setole fitte, rivelando dettagli mai visti prima dell’impronta degli alluci, che immortalammo con uno scanner laser 3D ad alta risoluzione, di cui i nostri colleghi che lavoravano negli anni settanta erano privi. Le impronte lasciate dai talloni nel sito A sono grandi e il dito dominante è l’alluce, come negli esseri umani e nelle nostre cugine, le scimmie antropomorfe. Non si trattava di un orso, quindi: queste tracce erano state lasciate da un ominino. Ma quale?
Se camminiamo lungo una spiaggia sabbiosa, di sicuro vedremo una varietà di orme di Homo sapiens: le impronte piccole e piatte di un bambino vicino a quelle lunghe e arcuate della madre, per esempio. Gli esseri umani moderni hanno forme e altezze di ogni tipo, e lo stesso vale per i piedi. E quasi sicuramente ciò era vero anche per Australopithecus afarensis. Forse le impronte ritrovate nei siti A e G erano frutto della normale variabilità interna di una singola specie di ominini. In tal caso, la dimensione contenuta delle orme del sito A avrebbe potuto indicarne l’appartenenza a un bambino della specie di Lucy. Questa, se non altro, era la mia ipotesi iniziale. Si unì a noi Kevin Hatala, esperto di impronte della Chatham University che aveva contribuito a scoprire e ad analizzare le orme di Homo erectus lasciate 1,55 milioni di anni fa a Ileret, in Kenya; insieme, confrontammo la forma delle impronte del sito A con quelle meglio preservate del sito G e con un’altra serie scoperta nel 2015 presso il sito S, e con centinaia di impronte di esseri umani e di scimpanzé. Le differenze che osservammo non rientravano nell’intervallo di variazione che caratterizza le impronte degli esseri umani moderni di ogni età. Scoprimmo che la differenza della forma delle impronte del sito A rispetto a quelle dei siti G e S era pari a quella tra le orme di uno scimpanzé e le vostre, o le mie. Non sto dicendo che le orme del sito A fossero proprio come quelle di uno scimpanzé, ma soltanto che avevano una forma molto diversa da quelle lasciate dai membri della specie di Lucy. Al confronto con le impronte dei siti G ed S (ritenute appartenere ad A. afarensis), quelle del sito A erano corte e ampie, l’alluce sporgeva un po’ in fuori e c’erano segni del fatto che chi le aveva lasciate aveva una parte centrale del piede più flessibile.
Nell’articolo in cui descriviamo queste scoperte, pubblicato nel dicembre 2021 sulla rivista «Nature», sosteniamo l’idea che non soltanto le impronte del sito A siano di un ominino, ma che siano anche la prova che a Laetoli era presente una seconda specie, oltre ad A. afarensis. Come è consueto nella scienza, non tutti i nostri colleghi hanno accettato la nostra interpretazione; alcuni pensano che abbiamo semplicemente trovato un’altra serie di impronte di A. afarensis. Vale però la pena di ribadire che le impronte del sito A erano così diverse da quelle di A. afarensis del sito G che per decenni noi paleoantropologi siamo stati convinti che fossero state lasciate da un orso. La mia idea è che poco dopo una pioggia di cenere, 3,66 milioni di anni fa, due specie di ominini, camminando su piedi leggermente diversi, in modi leggermente diversi, si spostarono a nord verso il bacino di Olduvai, in Tanzania, forse in cerca di acqua. Poiché si ritiene che lo strato di impronte di Laetoli catturi tutt’alpiù qualche giorno di attività, questa è la prova migliore che abbiamo del fatto che nel Pliocene non soltanto vissero contemporaneamente specie diverse di ominini, ma che condivisero il medesimo ambiente. Come interagissero, se interagivano, al momento è ancora tutto da capire.

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Il sito di Laetoli in Tanzania


La riscoperta delle impronte del sito A di Laetoli e la nostra conclusione che furono lasciate da una seconda specie di ominino sono le ultime aggiunte a una crescente mole di prove che l’evoluzione della postura eretta è stata molto meno lineare, più complessa e più interessante di quanto pensassimo un tempo. Altre prove provengono non da impronte, ma da resti fossili degli ominini stessi. Anche solo le ossa del piede isolate sono rare nella documentazione fossile umana, e gli scheletri di un piede sono ancora più elusivi. Per questo è entusiasmante che negli ultimi vent’anni i paleoantropologi al lavoro in Africa nella Great Rift Valley e nelle grotte sudafricane abbiano quadruplicato il numero di ritrovamenti fossili dell’unica parte del corpo di un bipede che di solito è a diretto contatto con il terreno. Molte di queste nuove scoperte riguardano un periodo critico dell’evoluzione umana, tra 5 e 3 milioni di anni fa, quando i nostri antenati erano sempre più inclini a camminare in posizione eretta. Nel 2017, insieme a McNutt, mi unii a Bernhard Zipfel, un ex podologo diventato paleoantropologo presso l’Università del Witwatersrand, in Sudafrica, per capire cosa significavano di queste scoperte. Nello specifico, cercammo di valutare l’opinione invalsa sull’evoluzione del bipedismo alla luce delle nuove testimonianze fossili. Secondo la visione tradizionale, gli ominini all’inizio avevano un piede simile a quello degli scimpanzé, fatto per afferrare i rami degli alberi. Questo piede si evolvette in un piede di transizione, capace sia di afferrare sia di camminare, come si può vedere nel fossile noto come Ardi, un membro di Ardipithecus ramidus che visse ad Aramis, in Etiopia, 4,4 milioni di anni fa. Facciamo un balzo in avanti fino a Lucy, l’esemplare di Australopithecus afarensis che visse ad Hadar, in Etiopia, circa 3,2 milioni di anni fa, il cui piede aveva un grande tallone e un mesopiede rigido, meglio adattati alla vita a terra. Con la comparsa del genere Homo, a cui noi apparteniamo, circa un milione di anni dopo, il piede diventò ancora più adatto alla locomozione terrestre, con l’evoluzione di dita più corte e di un arco plantare pronunciato.
Dopo aver studiato tutti i piedi fossili conservati con cura nei vari musei africani, notammo che dai nostri dati emergeva uno schema molto diverso. Durante l’evoluzione del bipedismo nei nostri antenati più antichi, ci fu un’esplosione di esperimenti evolutivi: il risultato fu che ominini diversi avevano forme del piede diverse. Nell’intervallo di 2 milioni di anni oggetto dei nostri studi identificammo cinque morfologie differenti, potenzialmente indicative di cinque modi distinti di camminare in posizione eretta. Tra i due estremi cronologici di Ardi e Lucy ci sono altri tre piedi dalla forma unica. Il primo appartiene a una creatura simile ad Ardi, circa della stessa età, proveniente da Gona, in Etiopia; il secondo a un ominino vissuto 3,67 milioni di anni fa a Sterkfontein, in Sudafrica, soprannominato «Little Foot» (piccolo piede); il terzo, infine, è un piede sorprendentemente primitivo ritrovato in un sito chiamato Burtele a Woranso-Mille, in Etiopia, e risalente a 3,4 milioni di anni fa. Per quanto tutti e cinque questi piedi di ominini abbiano alcune caratteristiche tipiche dell’uomo e altre tipiche delle scimmie antropomorfe, sono tratti che compaiono in combinazioni diverse in ciascun piede e che non seguono lo schema previsto, ossia non diventano sempre meno scimmieschi e più umani nel corso del tempo.
Come in una versione ante litteram della favola di Cenerentola, forse uno di questi piedi da poco scoperti calzerà alla perfezione le misteriose impronte di ominino del sito A di Laetoli e rivelerà l’identità di chi ha lasciato quelle tracce. Lo scopriremo man mano che continuiamo a esplorare questi primi stadi della nostra storia evolutiva. Una diversità costante La questione ha un aspetto intrigante: la varietà dei modi di locomozione tra specie coeve non si limita a questi primi capitoli dell’evoluzione umana. Prendiamo, per esempio, Australopithecus sediba. Rivaleggiando con la battaglia di palle di sterco di elefante nella tradizione delle scoperte paleoantropologiche fortuite, questo ominino vecchio di quasi 2 milioni di anni fu scoperto nel 2008 da Matthew Berger, che all’epoca aveva nove anni. Il bambino inciampò letteralmente in una roccia che conteneva la clavicola e la mandibola di un ominino mentre era alla ricerca di fossili nel sito di Malapa Cave, nella Culla dell’Umanità, in Sudafrica, insieme al padre Lee Berger, paleoantropologo dell’Università del Witwatersrand. Nei mesi successivi il gruppo di Berger si mise a scavare le pareti della grotta che conteneva il fossile e scoprì due scheletri parziali di una nuova specie, che fu battezzata Australopithecus sediba. Berger mi invitò a studiare il piede e la gamba fossili di questo ominino poco dopo la fine del mio dottorato. Quello che vidi mi sconvolse: le forme delle ossa erano completamente sbagliate. Per un ominino di questo periodo, l’osso del tallone era troppo scimmiesco e in entrambi gli scheletri il mesopiede, la caviglia, il ginocchio, l’anca e la parte inferiore della schiena avevano tratti strani. Viste da sole, queste ossa erano bizzarre. Ma tutte insieme raccontavano la storia di un ominino con un modo peculiare di camminare, un modo che era simile a quello di persone oggi soggette a iperpronazione, ossia che fanno gravare un peso eccessivo sull’interno del piede. Questa andatura può portare gli uomini moderni a patologie articolari, ma Berger, io e i nostri colleghi interpretammo la forma peculiare delle ossa di A. sediba come soluzioni anatomiche ai problemi che affrontano gli iperpronatori di oggi.
In altre parole, pensiamo che questa specie fosse adattata a camminare così. Perché? Le spalle e le braccia di A. sediba indicano che si arrampicava sugli alberi; inoltre, i suoi denti conservano tracce microscopiche di cellule vegetali che derivano da foglie, frutti e corteccia, prove del fatto che questa specie si nutriva spesso tra le fronde. Questo modo di camminare era il compromesso di un ominino ben adattato alla vita in entrambi i mondi, che navigava tra i rami e il terreno, e lo faceva molto tempo dopo che altre specie di ominini erano passate completamente alla vita a terra.
Australopithecus sediba non era l’unico ominino che camminava nell’Africa meridionale di 2 milioni di anni fa. Nel 2020 un gruppo di ricercatori con a capo Andy Herries, della La Trobe University, in Australia, ha riferito la scoperta di nuovi fossili nel sistema di grotte Drimolen, anch’esso nell’area della Culla dell’Umanità. Questi fossili provenivano da altre due specie di ominini: Paranthropus robustus, dai grossi denti, e Homo erectus, molto più simile all’uomo anatomicamente moderno. In altre parole, all’epoca coesistevano tre diversi tipi di ominini, appartenenti a tre generi diversi: Homo, Paranthropus e Australopithecus. Sappiamo da uno scheletro parziale scoperto negli anni ottanta nel lato occidentale del lago Turkana, in Kenya, che la forma del corpo di Homo erectus era quasi identica a quella degli uomini moderni. Impronte sul lato orientale del lago confermano che questi ominini camminavano come noi.
Facendo vagare lo sguardo nel suo territorio, Homo erectus (il probabile progenitore della linea evolutiva che ha portato alla nostra specie, Homo sapiens) poteva vedere altri due bipedi di due generi diversi, Australopithecus e Paranthropus. Date le diverse forme delle ossa dei loro piedi e dei loro arti inferiori, penso che questi ominini camminassero ciascuno in un modo differente. Stili diversi di camminata persistettero anche dopo che Australopithecus e Paranthropus si estinsero. Appena 60.000 anni fa, quando Homo sapiens si era ormai affermato, la piccola specie umana Homo floresiensis girovagava per la sua isola natale, Flores in Indonesia, su piedi piatti giganteschi in rapporto al corpo, e gambe corte con piccole articolazioni. Mi chiedo se l’andatura risultante consistesse in passi corti e ginocchia alte come quella di chi oggi cammina indossando scarponi da sci. Forse le differenze di andatura aiutavano gli ominini a stabilire se un gruppo, avvistato in lontananza in cerca di cibo, appartenesse o meno alla propria specie. E se l’andatura rivelava davvero che i lontani raccoglitori erano della stessa specie, gli osservatori erano in grado di capire se gli altri individui erano amici e familiari, oppure estranei?
Conoscere la risposta avrebbe potuto fare la differenza tra evitare il conflitto e scatenarlo. Sembra proprio che l’andatura sia qualcosa di più che il mero muoversi dal punto A al punto B. Restano molte domande senza risposta sull’evoluzione del bipedismo. Ancora non sappiamo perché l’andatura in posizione eretta abbia portato vantaggi selettivi ai nostri più antichi antenati e parenti estinti. Le ipotesi abbondano. Nel 1809 il naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck speculò che gli esseri umani avessero evoluto la camminata in posizione eretta per vedere al di là dell’erba alta. Sessant’anni più tardi, Charles Darwin suppose che camminare su due gambe lasciasse le mani libere di usare strumenti. Altri studiosi, da allora, hanno proposto che consentisse ai nostri antenati di raccogliere e trasportare il cibo o di spostarsi in acque poco profonde. Altri ancora sostengono che offrisse un mezzo più efficiente dal punto di vista energetico per spostarsi tra risorse sparpagliate nel territorio. Mi sembra, tuttavia, che gli sforzi di identificare la ragione per cui si è evoluto il bipedismo siano un’impresa inutile. Credo piuttosto che sia possibile, forse addirittura probabile, che la camminata su due gambe si sia evoluta più volte alla base dell’albero genealogico degli ominini, forse per ragioni differenti, in ominini diversi che vivevano in Africa in ambienti leggermente diversi tra loro. La diversità delle forme dei piedi riscontrata nei siti fossili del Pleistocene in tutto il continente corrobora questo scenario.
Le testimonianze fossili di scimmie antropomorfe del periodo del Miocene (da 23 milioni a 5,3 milioni di anni fa) evidenziano altre incognite. I paleoantropologi che lavorano in Africa hanno faticato a trovare fossili di scimmie antropomorfe di questo periodo cruciale, quando il ramo degli ominini si è separato dalle altre scimmie. I loro colleghi in Europa meridionale, invece, hanno rinvenuto una notevole raccolta di ossa di scimmie antropomorfe che vivevano in Spagna, in Francia, in Germania, in Grecia, in Italia, in Ungheria e in Turchia. A giudicare dalle loro mani, dalle schiene, dalle anche e dagli arti inferiori e superiori, queste scimmie europee non camminavano sulle nocche delle dita come uno scimpanzé: al contrario, alcune potrebbero essere state capaci di spostarsi su due gambe più spesso e con maggiore efficienza delle scimmie antropomorfe africane moderne.
A seconda di che posto occupino nell’albero genealogico di famiglia questi antichi primati (come l’esemplare tedesco Danuvius guggenmosi, risalente a 11,6 milioni di anni fa, la cui scoperta è stata divulgata nel 2019), è anche possibile che la scimmia antropomorfa da cui si sono separati gli antenati di esseri umani, scimpanzé e gorilla non fosse affatto una camminatrice su nocche, ma avesse un’andatura più eretta, e sfruttasse un bipedismo aiutato dalle mani per «camminare» sugli alberi. In quel caso, l’adattamento specifico degli ominini non sarebbe il bipedismo di per sé quanto, piuttosto, la camminata bipede al suolo. Se altri fossili rafforzeranno questa ipotesi, potrebbe emergere che il bipedismo rudimentale non è stato affatto una nuova forma di locomozione: potrebbe essere stato piuttosto una cooptazione di una tecnica vecchia per un ambiente nuovo, quando i nostri antenati passarono da un’esistenza arboricola a una terrestre. Questa idea è controversa e necessita di ulteriori prove. Il problema è che, in Africa, i paleoantropologi non hanno ancora dissotterrato fossili di ossa del piede o della gamba del periodo chiave (tra 12 e 7 milioni di anni fa) in cui le linee di discendenza che avrebbero portato agli esseri umani, agli scimpanzé e ai gorilla iniziavano a divergere. Per colmare questa lacuna, ci basiamo sull’anatomia delle antiche scimmie antropomorfe dell’Europa meridionale, di cui ho parlato prima. In un certo senso, è come cercare di capire che aspetto aveva la vostra bisnonna studiando sgualcite fotografie in bianco e nero di vostri cugini di tre generazioni fa, vissuti nel XIX secolo: vi daranno qualche indizio, ma non il quadro completo.
Vedremo quanto reggerà questa ipotesi nei prossimi decenni, man mano che altri fossili saranno recuperati in siti del bacino del Mediterraneo e di tutta l’Africa. Per ora, tuttavia, gli albori della camminata in posizione eretta restano avvolti nel mistero. Una volta che i nostri antenati ebbero iniziato a muoversi su due gambe, poi continuarono a camminare, e questo viaggio è proseguito fino a oggi. Nell’arco della sua vita, in media una persona compie 150 milioni di passi, abbastanza da circumnavigare la Terra tre volte. Passeggiamo, marciamo, girovaghiamo, procediamo, andiamo a spasso, avanziamo, incediamo, vagabondiamo, deambuliamo, zoppichiamo, ci trasciniamo, arranchiamo, brancoliamo e sgambettiamo. Dopo aver imparato a camminare sulle nostre gambe, potremmo trovarci a camminare sulle uova. C’è chi diventa una vera e propria enciclopedia ambulante, ma riuscirci non è certo una passeggiata. Eppure è raro che noi umani pensiamo davvero all’atto del camminare, o che ne parliamo in modo esplicito: potrebbe sembrare un discorso pedestre. I fossili, per contro, rivelano qualcosa di completamente diverso. Camminare è tutto fuorché banale: è un esperimento evolutivo complesso e convoluto, avviato da alcune scimmie antropomorfe che, con semplicità, mossero i primi passi nelle foreste del Miocene, finendo per far imboccare agli ominini una strada che li ha portati ai quattro angoli del mondo.

Jeremy DeSilva è paleoantropologo al Dartmouth College, negli Stati Uniti. Le sue ricerche si concentrano sull’evoluzione del bipedismo. È autore di I primi passi. Perché la posizione eretta è stata la chiave dell’evoluzione umana (Harper Collins Italia, 2022, tr. it. di L.M. Sponzilli).

Le orme più antiche di bambino

Il recente ritrovamento in Etiopia delle orme più antiche di bambino mai scoperte prima ci racconta di come i piccoli ominini del passato avessero abitudini simili a quelle dei bimbi di oggi. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Quaternary Science Reviews effettuato sugli strati archeologici della gola di Gombore, nei pressi di Melka Kunture, 50 km a sud di Addis Abeba, ci regala un’istantanea dell’infanzia durante la preistoria più profonda. Nell’area di studio della gola, Flavio Altamura e Margherita Mussi della Sapienza, con la collaborazione di studiosi dell’Università di Cagliari, della Bournemouth University (UK) e del Urweltmuseum GEOSKOP (Germania), hanno portato alla luce, ai margini di quello che era un fiume preistorico, nuove impronte di bambini, le più antiche mai rinvenute e risalenti alla fine del Pleistocene antico (tra 1,2 milioni e 850.000 anni fa). In quello che doveva essere un antico ambiente fluviale e paludoso, sono state rinvenute 18 superfici fossili con varie impronte tra cui quelle riferibili a bambini e adolescenti delle specie umane preistoriche Homo erectus/ergaster o forse già Homo heidelbergensis arcaico. Nell’area sono state individuate anche impronte lasciate da ippopotami, iene, erbivori simili agli gnu, gazzelle e uccelli. «Queste impronte – spiega Margherita Mussi, direttore della Missione archeologica a Melka Kunture – sono tra le più antiche al mondo e le prime in assoluto riferibili a bambini. Ulteriore prova della presenza umana nei pressi del fiume sono i numerosi strumenti di pietra ritrovati: alcune schegge di ossidiana sono state probabilmente calpestate dagli ippopotami, che le hanno fatto sprofondare nel fango sul fondo delle loro impronte, indicando la compresenza dell’uomo e di questo pericoloso pachiderma». In molti livelli sono state trovate anche tracce di molluschi bivalvi simili alle cozze di acqua dolce la cui presenza permette di ricostruire il paleo-ambiente dell’epoca, nel quale erano presenti sicuramente anche i pesci. Le impronte dei bambini a pochi passi dalla riva ci dicono che entravano nell’acqua bassa esattamente come fanno oggi. “Probabilmente, anche un milione di anni fa – spiega Flavio Altamura, che ha condotto gli scavi – i bambini entravano in acqua per ragioni molto simili a quelle che potremmo aspettarci oggi: per bere, per lavarsi o per cercare di catturare a mani nude pesci e molluschi da mangiare. Oppure più semplicemente per giocare». «I risultati di questo studio, conclude Mussi – restituiscono un’istantanea dell’infanzia nella preistoria e confermano che l’attrazione dei bambini per gli ambienti umidi e gli specchi d’acqua – pozzanghere incluse! – ha radici antichissime nel comportamento umano. Si tratta, in un certo senso, dei primi “bagni” fatti da bambini di cui si abbia una prova scientifica diretta». Un sito eccezionale Il sito di Melka Kunture è situato lungo il bacino superiore del fiume Awash, sull’altopiano etiopico. Si tratta di un importante complesso di affioramenti archeologici oggetto di studio da 50 anni. Dal 2011 vi opera la missione italiana guidata da Margherita Mussi e dal suo team che ha rinvenuto decine di affioramenti archeologici, soprattutto lungo le gole scavate dai torrenti. Numerose impronte umane di adulti e bambini, insieme a strumenti realizzati con pietre vulcaniche (come ossidiana e basalto) e resti di ippopotami macellati dall’uomo erano già stati scoperti dal team nel 2018 nella gola di Gombore. Sigillate da un tufo risalente a 700.000 anni fa formatosi con le ceneri eruttate da vulcani distanti alcune decine di chilometri, le tracce e i reperti hanno consentito di ricostruire la vita delle comunità umane del passato. Scene di vita nelle quali i bambini assistevano gli adulti nella scheggiatura della pietra e nella macellazione degli animali, apprendendo sin dalla più tenera età gesti e tecniche utili alla sopravvivenza.

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Il recente ritrovamento in Etiopia delle orme più antiche di bambino

Nuova classificazione dell'uomo

In base alle nuove scoperte l’uomo è classificato in questo modo:
Famiglia: Hominidae (comprende l’uomo moderno, i gorilla e gli oranghi)
Sottofamiglia: Homininae (comprende gorilla, scimpanzè e umani)
Tribù: Hominini (umani e progenitori estinti. Quelli che nella vecchia classificazione erano Hominidae)
Genere: Homo
Specie: Sapiens


IMPRESA OGGI - 10 febbraio 2023



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www.impresaoggi.com