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Gli esseri umani hanno capacità matematiche innate.


“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”. Einstein

Immaginate di dare una festa. Preparate gli stuzzichini, create una playlist e mettete in frigo svariate birre. Arriva il primo invitato e ne porta altre sei, prendendone una per sé. Arriva una seconda persona che aggiunge qualche altra birra e a sua volta ne prende una. State per bere una birra anche voi quando, aperto il frigo, vedete con sorpresa che ne restano solo otto. Non le avete contate consapevolmente, ma sapete che dovrebbero essere di più, quindi cominciate a rovistare nel frigo. E, come previsto, dietro un cespo di lattuga trovate varie bottiglie.

Come facevate a sapere che dovevano esserci delle altre birre? Non avete fatto la guardia al frigo, tenendo un conteggio preciso delle bottiglie entrate e uscite. Però stavate usando quello che gli scienziati cognitivi chiamano senso dei numeri, cioè una parte della mente che risolve inconsciamente semplici problemi matematici. Mentre conversavate con gli invitati, il senso dei numeri teneva d’occhio la quantità di birre presenti in frigo. Da moltissimo tempo, scienziati, matematici e filosofi si chiedono se questo senso dei numeri sia innato o se invece si acquisisca via via.
Nella tradizione occidentale, Platone fu tra i primi a ipotizzare che gli esseri umani abbiano capacità matematiche innate. Nel dialogo platonico Menone, con una serie di semplici domande Socrate aiuta un ragazzo non istruito a enunciare il teorema di Pitagora. Socrate conclude che il ragazzo aveva sempre avuto una conoscenza innata del teorema di Pitagora e le domande l’avevano solo aiutato a esprimerla.
Nel XVII secolo John Locke rifiutò questa idea, sostenendo che inizialmente la mente umana sia una tabula rasa e che quasi tutte le conoscenze si acquisiscano con l’esperienza. Questa concezione, il cosiddetto empirismo contrapposto all’innatismo di Platone, fu in seguito sviluppata ulteriormente da John Stuart Mill, secondo cui apprendiamo che due più tre fa cinque vedendo molti esempi in cui questo è vero: due mele più tre mele fa cinque mele, due birre più tre birre fa cinque birre e così via. In breve l’empirismo dominò la filosofia e la psicologia fino alla seconda metà del XX secolo, quando pensatori inclini all’innatismo, come Noam Chomsky, hanno riportato in auge il pensiero di Platone. Chomsky si dedicava in particolare al linguaggio, ipotizzando che nei bambini si basi su un istinto innato che permette loro di imparare la lingua madre ricevendo poche istruzioni esplicite.
In seguito altri hanno esteso l’ipotesi di Chomsky alla matematica. Verso la fine degli anni settanta gli scienziati cognitivi C.R. Gallistel e Rochel Gelman hanno sostenuto l’idea che i bambini imparino a contare grazie alla corrispondenza tra le parole che nella loro lingua indicano i numeri e un sistema innato di conteggio preverbale, presente negli esseri umani e in molti altri animali. Nel suo fondamentale libro The Number Sense, uscito nel 1997, il neuroscienziato francese Stanislas Dehaene ha attirato l’attenzione sulle sempre più numerose prove di questo sistema preverbale, aiutando i ricercatori di svariati campi – cognizione animale, psicologia dello sviluppo, psicologia cognitiva, neuroscienze, istruzione – a capire che stavano studiando tutti la stessa cosa.
Secondo il nostro articolo pubblicato nel 2021 sulla rivista «Behavioral and Brain Sciences», non esiste più un’alternativa credibile all’idea che gli esseri umani, così come molti altri animali, abbiano sviluppato nel corso dell’evoluzione una capacità di elaborare i numeri. Secondo Platone in loro è innata una conoscenza matematica, cioè una capacità di pensare ai numeri, mentre noi due sosteniamo che la caratteristica innata negli esseri umani sia la percezione matematica, cioè la capacità di vedere i numeri o percepirli.
Quando avete aperto il frigorifero, vedendo le bottiglie di birra non ne avete dedotto il numero nel modo in cui, vedendo per esempio la scritta «Heineken», avete dedotto che qualcuno avesse portato una birra chiara olandese. Invece ne avete visto il numero, proprio come ne avete percepito la forma e il colore.
Sul tema tuttavia il consenso non è unanime e nell’ultimo decennio è emersa una nuova ondata di empirismo. Chi nega l’esistenza di una capacità innata di percepire i numeri mette in evidenza un’importante difficoltà scientifica più generale: come faremmo a sapere che cosa ha in mente un bambino molto piccolo, oppure un altro animale?
Da filosofi della scienza cognitiva integriamo millenni di pensiero filosofico su questo argomento con una montagna di prove sperimentali che non erano disponibili ai pensatori del passato.

numeri nei piccoli


Prove emergenti
Immaginate di vedere due gruppi di pallini che lampeggiano in rapida successione sullo schermo di un computer. Non avete il tempo di contarli, ma se siete come le migliaia di persone che hanno svolto questo esercizio negli esperimenti saprete dire quale dei due gruppi ha più pallini, purché la differenza sia abbastanza consistente. Potreste avere difficoltà a distinguere 50 pallini da 51, ma non avrete problemi ad accorgervi che 40 sono meno numerosi di 50. Questa capacità è innata o deriva da anni di istruzione in matematica? Nel 2004 un gruppo di ricercatori francesi, guidato da Dehaene e Pierre Pica, ha cercato una risposta addentrandosi nell’Amazzonia brasiliana. Usando un computer portatile a energia solare, Pica ha eseguito lo stesso esperimento dei pallini lampeggianti con le popolazioni indigene in villaggi isolati. Queste persone avevano la stessa capacità di distinguere numeri di pallini abbastanza diversi tra loro; eppure erano pressoché privi di un’istruzione matematica e nella loro lingua non esistevano parole per indicare numeri precisi superiori a cinque.
Circa nello stesso periodo un altro gruppo di ricerca, che includeva le psicologhe dello sviluppo Elizabeth S. Spelke e Hilary Barth, all’epoca entrambe alla Harvard University, ha condotto in Massachusetts, un’altra versione dell’esperimento con i pallini lampeggianti, per dimostrare l’esistenza di questa capacità anche nei bambini di cinque anni. Una spiegazione possibile è che i soggetti non controllassero effettivamente il numero dei pallini, ma osservassero invece qualche altro aspetto, per esempio l’area complessiva che occupavano sullo schermo o il perimetro totale del gruppo. Quando però un gruppo di pallini è stato sostituito da una sequenza rapida di segnali acustici, i bambini sono stati altrettanto bravi a determinare la quantità maggiore, cioè se fossero più numerosi i suoni sentiti o i pallini visti. Non avevano potuto fare un confronto in base alla superficie o al perimetro, dato che i suoni non avevano queste caratteristiche, e d’altro canto i pallini non avevano una rumorosità né un timbro. I bambini non si erano neanche basati sulla durata del suono: i segnali acustici si sentivano in sequenza per un tempo variabile, mentre i pallini si vedevano tutti insieme per un tempo costante. Tutto faceva ritenere che i bambini di cinque anni avessero effettivamente un senso del numero di pallini e segnali acustici.
In seguito Barth e colleghi hanno dimostrato che queste capacità numeriche permettono forme rudimentali di aritmetica. In un altro esperimento i bambini di cinque anni hanno osservato due gruppi di pallini azzurri che, uno dopo l’altro, sono andati a finire dietro un blocco opaco. Da quel momento in poi i pallini azzurri non si sono più visti. Quindi accanto al blocco ne sono comparsi di rossi. I ricercatori hanno chiesto se in totale fossero più numerosi gli azzurri o i rossi. I bambini hanno dato la risposta giusta, indice del fatto che siano riusciti a sommare i due gruppi di pallini azzurri, pur non vedendoli più, e a confrontarne il numero totale con quello dei pallini rossi. Nel 2021 Chuyan Qu e i suoi colleghi del laboratorio di Elizabeth Brannon all’Università della Pennsylvania sono andati oltre, dimostrando che a soli cinque anni i bambini sono in grado di eseguire moltiplicazioni approssimative: negli Stati Uniti questa operazione non si insegna prima della terza elementare.
Viene spontaneo chiedersi se questi bambini di cinque anni avessero imparato qualcosa sui numeri frequentando adulti con un’istruzione in matematica. Tuttavia si è osservata la stessa tendenza in diverse specie animali. Per esempio, i lupi prima di andare a caccia considerano le dimensioni del branco: preferiscono un gruppo tra due e sei individui per attaccare un grosso cervo, ma di almeno nove se si tratta di un bisonte. I ratti imparano a premere una leva un certo numero di volte per ottenere da mangiare. E tra due persone in riva a un laghetto le anatre decidono a quale avvicinarsi in base a quanti pezzetti di cibo getta in acqua ciascuna. Questo comportamento porta a ritenere che il senso dei numeri sia antico sotto l’aspetto evolutivo, analogamente alla capacità di vedere i colori o di sentire il caldo o il freddo.
Questi esempi però non arrivano a chiarire se il senso dei numeri sia innato. Forse permettono solo di ipotizzare che gli esseri umani e gli animali possano imparare a contare anche senza un’istruzione formale. Per verificare se il senso dei numeri sia innato i soggetti ideali sono i neonati, dato che non hanno avuto il tempo di imparare pressoché niente. Ovviamente non sono in grado di parlare, e quindi non possiamo chiedere loro quale tra due gruppi sia il più numeroso. E non riescono nemmeno a strisciare verso un oggetto o ad avvicinarsi con una mano. Però sanno fare qualcosa di più semplice: guardare. Valutando dove guardano i neonati, e per quanto tempo, gli scienziati hanno aperto una finestra sulla loro mente.
Nel 2009 Spelke ha collaborato con un gruppo di ricerca francese, guidato da Véronique Izard e Arlette Streri, per un esperimento in un ospedale di Parigi: hanno fatto ascoltare per due minuti a un gruppo di neonati, tutti minori di cinque giorni, sequenze di quattro suoni («tuuu tuuu tuuu tuuu») oppure di 12. Quindi hanno mostrato ai neonati uno schermo contenente quattro oggetti o 12. Sappiamo che ai neonati piace guardare immagini familiari, per esempio il viso della madre. Secondo l’ipotesi del gruppo di Izard, se i neonati ricavavano i numeri dagli stimoli uditivi avrebbero preferito guardare uno schermo con lo stesso numero di oggetti, cioè quattro o 12 oggetti subito dopo avere sentito sequenze rispettivamente di quattro o 12 suoni. In altre parole, avrebbero dovuto guardare più a lungo lo schermo in caso di corrispondenza tra il numero degli oggetti e quello dei suoni. Ed è proprio quello che hanno osservato Izard e il suo gruppo.
Per inciso, l’azione di guardare, così come quella di sorridere, non ha sempre lo stesso significato: qui i neonati si soffermavano di più sui numeri uguali – indice di una corrispondenza – mentre i bambini di sei mesi guardavano più a lungo in caso di numeri diversi, indice di sorpresa per qualcosa di inaspettato. In entrambi i casi le differenze di comportamento erano abbastanza nette da indicare una sensibilità dei bambini piccoli per i numeri.
Secondo alcuni critici, come Tali Leibovich, dell’Università di Haifa, e Avishai Henik, della Ben-Gurion University of the Negev, in Israele, dato che i neonati hanno una vista scarsa è meglio non sbilanciarsi nell’interpretare l’esito di questo test. Tuttavia, tra i neonati che hanno concluso il test senza addormentarsi né mettersi a piangere, ben 15 su 16 hanno ottenuto questo risultato, ed è senz’altro un fatto significativo.
Numeri e numerali
Ripensate a quando abbiamo scritto che alla festa, aprendo il frigorifero, avete visto il numero delle birre presenti proprio come ne avete percepito la forma e il colore. Abbiamo usato questa espressione consapevolmente: non avete visto le bottiglie di birra per poi valutarne il numero. È invece il senso dei numeri che vi ha permesso di vederne il numero nel modo in cui vedete i colori e le forme. Per chiarire questa idea bisogna prima distinguere i numeri dai numerali. I numerali sono simboli usati per indicare i numeri. I numerali «7» e «VII» sono diversi tra loro, ma entrambi indicano lo stesso numero. Vedere i numeri e i numerali sono due concetti che non vanno confusi. Vedere la parola «rosso» non significa vedere il colore rosso, e vale altrettanto per il numerale «7» e il numero sette. Inoltre, se vedere le dimensioni di una bottiglia di birra non significa che nel vostro campo visivo compaia un simbolo come «33 cl», allo stesso modo vedere il numero delle birre in frigo non significa vedere un numerale come «7». Quando vedete le sue dimensioni, una birra ha un certo aspetto, che cambierebbe se la bottiglia fosse più grande o più piccola. Vi basta guardare due bottiglie per capire che una è più grande dell’altra. Analogamente, quando vedete quante ce ne sono, le birre hanno un determinato aspetto che sarebbe diverso se fossero più o meno numerose. Così vi basta guardare per capire da che parte ci sono più birre. Naturalmente, anche una volta che i numeri sono distinti dai numerali, l’idea di vederli può comunque sembrare strana. D’altronde sono un concetto astratto: non potete indicare i numeri perché non hanno una posizione nello spazio e chiaramente non riflettono una luce che possiate rilevare con gli occhi.
Ma in fondo l’idea di vedere i numeri non è poi molto diversa da quella di vedere le forme. Anche se vedete che la vela di una barca è triangolare, non potete vedere un triangolo di per sé, separato da qualsiasi oggetto fisico. Allo stesso modo riuscite a vedere che le birre sono circa sette, ma non vedete il numero sette da solo. Potete vedere forme e numeri, ma solo come caratteristiche di uno o più oggetti che riflettono la luce verso di voi. Allora come facciamo a dire che vediamo una certa cosa? Se in un test COVID compaiono due linee, potreste dire che «vedete» di avere il COVID. Ma è un’espressione imprecisa: senza dubbio vedete le linee, ma quella sul COVID è solo una deduzione. Come è possibile definire questa distinzione in termini scientifici? È una domanda con molte risposte possibili, ma una delle più utili chiama in causa il cosiddetto adattamento sensoriale.
Facciamo un esempio: durante un’escursione in una giornata luminosa, gli occhi finiscono per abituarsi alla luce solare. Quando più tardi si entra in una stanza, questa appare poco illuminata anche con tutte le luci accese. Dopo che gli occhi si sono adattati a una luce forte, una stanza dall’illuminazione normale sembra buia. L’adattamento è un tratto distintivo della percezione. Se riuscite a percepire una cosa, probabilmente potete anche adattarvi alle sue caratteristiche, per esempio luminosità, colore, orientamento, forma e movimento. Quindi dovrebbe essere possibile adattarsi anche ai numeri, se si è in grado di percepirli. È proprio quello che hanno scritto in un articolo del 2008 gli studiosi della visione David Burr, dell’Università di Firenze, e il compianto John Ross, della University of Western Australia.
Burr e Ross hanno dimostrato che, se una persona fissa un gruppo di moltissimi pallini, un gruppo successivo che ne comprende una quantità moderata appare meno numeroso di quanto apparirebbe altrimenti. Per esempio hanno rilevato che un soggetto, dopo avere fissato 400 pallini per 30 secondi, vedeva un ruppo di 100 pallini ma aveva l’impressione che fossero solo 30. Così, proprio come si adattano alla luce solare, i nostri occhi possono adattarsi anche ai grandi numeri, determinando effetti visivi sorprendenti.
Altri ricercatori, tra cui Frank Durgin, dello Swarthmore College, si sono chiesti se l’adattamento riguardasse il numero o invece la densità (cioè la frequenza con cui gli oggetti compaiono in una determinata area). Se il numero di pallini aumenta e l’area che coprono resta costante, aumenta anche la loro densità. Tuttavia, un esperimento condotto nel 2020 dagli studiosi della visione Kevin DeSimone, Minjung Kim e Richard Murray ha distinto queste diverse possibilità, dimostrando che gli osservatori si adattano ai numeri a prescindere dalla densità. Per quanto strano possa sembrare, gli esseri umani vedono i numeri.
Un po’ di scetticismo
Nonostante l’abbondanza di prove, gli empiristi contemporanei – gli eredi della tradizione di Locke e Mill, secondo cui tutta la conoscenza matematica si acquisisce con l’esperienza – sono ancora scettici sull’esistenza del senso dei numeri. D’altronde, la capacità di fare calcoli è considerata tradizionalmente una conquista culturale faticosa. Adesso dovremmo credere che i bambini piccoli ne siano capaci? La storia della psicologia ha i suoi alti e bassi quanto all’interpretazione delle capacità numeriche negli animali non umani. Chi studia psicologia all’università è messo in guardia dall’«effetto Hans l’intelligente», che prende il nome da un cavallo a cui erano state attribuite prematuramente doti matematiche sofisticate (e perfino altre capacità, come dire l’ora e sapere l’ortografia di parole lunghe in tedesco). Come si scoprì in seguito, non faceva altro che reagire a leggeri segnali nel comportamento del suo addestratore. Oggi i ricercatori stanno molto attenti a non farsi sfuggire simili segnali, ma non basta a evitare tutti i problemi. Per esempio, secondo Rafael Núñez, dell’Università della California a San Diego, il senso dei numeri non è proprio in grado di rappresentare i numeri, perché sono precisi: 30 è esattamente uno più di 29 ed esattamente uno meno di 31. Il senso dei numeri invece è impreciso: se vedete 30 pallini lampeggiare su uno schermo, avete un’idea approssimativa di quanti siano, ma non sapete che sono esattamente 30. La conclusione di Núñez è che, qualunque cosa rappresenti il senso dei numeri, non possono essere i numeri. Come ha scritto in un articolo su «Trends in Cognitive Sciences» nel 2017, «una competenza di base che comprenda per esempio il numero “otto” dovrebbe portare a considerare questa quantità categoricamente diversa da “sette”, non solo qualcosa di spesso, o molto probabilmente, diverso».
Nel nostro articolo pubblicato nel 2021 su «Behavioral and Brain Sciences» rispondiamo che simili preoccupazioni sono ingiustificate, perché tutte le grandezze si possono rappresentare approssimativamente. La statura di una persona si può rappresentare in modo preciso, per esempio 1,90 metri, ma anche impreciso, cioè quasi due metri. Analogamente, se avete in tasca cinque monete potete rappresentarne il numero con precisione, ma anche in modo approssimato, per esempio «poche». In questi due casi rappresentate due grandezze, rispettivamente la statura e il numero: cambia solo il modo di farlo, preciso o impreciso. Quindi non vediamo perché l’imprecisione nel senso dei numeri debba significare che rappresenta qualche altra caratteristica invece del numero.
Contatori nati
Si potrebbe pensare che la questione sia puramente semantica, ma ha una conseguenza sostanziale. Se seguiamo il ragionamento di Núñez e supponiamo che il senso dei numeri non rappresenti i numeri, allora dovremmo dire che cosa rappresenta. Su questo punto però nessuno sembra avere le idee chiare. Molti studi sul senso dei numeri hanno tenuto sotto controllo altre variabili, come densità, area, durata, altezza, peso, volume, luminosità e così via. Un altro motivo per pensare che il senso dei numeri riguardi appunto i numeri (invece di altezza, peso, volume o altre grandezze) fu indicato da Gottlob Frege, filosofo e logico tedesco vissuto nel tardo XIX secolo. Nella sua opera sui fondamenti dell’aritmetica, Frege osservò che i numeri hanno una caratteristica unica: presuppongono un certo modo di descrivere quello che quantificano. Immaginate di indicare un mazzo di carte e chiedere che quantità rappresenta. Non c’è una sola risposta possibile: prima dobbiamo decidere se contare il numero dei mazzi (uno) o quello delle carte (52), anche se le 52 carte e il mazzo sono la stessa cosa.
Frege osservava che non è così per altre grandezze. Se vogliamo sapere quanto pesano le carte, basta appoggiarle su una bilancia e leggere la risposta. Per il peso non fa differenza se le consideriamo un solo mazzo o una serie di singole carte. E vale altrettanto per il volume: che le definiamo come un mazzo o come 52 carte, lo spazio occupato è sempre uguale. Naturalmente se togliamo una carta dal mazzo avrà un peso e un volume diversi rispetto al mazzo intero, ma in questo caso cambiamo l’oggetto descritto, non il modo di descriverlo. Se il senso dei numeri è influenzato da come si descrive un oggetto, possiamo supporre che rappresenti effettivamente i numeri, non altre grandezze.
È proprio ciò che si scopre applicando le idee di Frege, come illustra chiaramente il lavoro di un gruppo di ricerca guidato da Steven Franconeri, della Northwestern University. In uno studio del 2009, i ricercatori hanno mostrato ai partecipanti una sequenza di due schermate con cerchi e linee sottili. Analogamente a molti esperimenti già citati, è stato chiesto loro quale schermata contenesse più cerchi. Inoltre hanno ricevuto l’indicazione di ignorare del tutto le linee sottili. Quando però queste collegavano due cerchi, trasformandoli in un solo oggetto a forma di piccolo peso da palestra, o manubrio, i volontri sottovalutavano il numero di cerchi presenti. Evidentemente non riuscivano a evitare di vedere un peso da palestra come un unico oggetto, perfino quando cercavano di concentrarsi solo sui cerchi e ignorare le linee che li collegavano. Gli osservatori non stavano solo controllando qualche altra grandezza, come l’area complessiva degli oggetti o il numero totale di pixel sullo schermo. D’altronde, il fatto che due cerchi e una linea siano collegati formando un peso non influisce sull’area o sul numero di pixel totale. Ma ciò su cui potrebbe influire – come sembra sia effettivamente accaduto – è la percezione del numero di oggetti sullo schermo. Come nel caso del mazzo di carte, in cui il conteggio cambia se si considera un unico mazzo oppure una serie di carte singole, interpretare visivamente un oggetto come un solo peso o una coppia di cerchi influenza il numero di oggetti che sembra di vedere, proprio come previsto da Frege per un sistema visivo che controlla i numeri.
Con questo non intendiamo certo negare che le capacità matematiche offerte dal senso dei numeri siano estremamente diverse da quelle più mature di cui dispone la maggior parte delle persone adulte.Se chiedete ai bambini esattamente 15 caramelle, possono darvele solo quelle che hanno imparato a contare con le parole. Ma non per questo bisogna supporre che il loro senso dei numeri non rappresenti per l’appunto i numeri. Così come sono in grado di percepire e distinguere le distanze molto prima di riuscire a considerarle con precisione, i bambini hanno la capacità di rappresentare i numeri prima di saper contare con le parole e pensare a numeri precisi. Queste capacità matematiche innate di percepire i numeri, aggiungerli, sottrarli e usarli per altre operazioni sono di per sé limitate. Ma per capire come dai bambini piccoli nascono degli Einstein non dobbiamo sottovalutare come iniziano a comprendere il mondo. Per imparare dobbiamo basarci su qualcosa di concreto, e il senso dei numeri contribuisce a offrire ai bambini piccoli le basi da cui possono nascere nuove capacità numeriche, per esempio tenere traccia delle monete e creare economie monetarie, sviluppare la matematica moderna o, più prosaicamente, trovare in qualche angolo del frigo quelle birre mancanti.

clarke

Foto di Sam Clarke

LE SCIENZE.IT. Autori:

Sam Clarke è MindCORE research fellow all’Università della Pennsylvania, dove si dedica a filosofia e psicologia. Dall’estate del 2023 sarà assistant professor di filosofia alla University of Southern California.
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Jacob Beck è York Research Chair in filosofia della percezione visiva e professore associato al Dipartimento di filosofia della York University a Toronto.

IMPRESA OGGI - 30 giugno 2023



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www.impresaoggi.com