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Cercare la materia oscura attraverso un ipotetico fotone oscuro


“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”. Einstein
Ipotetiche particelle elementari chiamate fotoni oscuri potrebbero collegare il mondo della materia oscura con quello della materia ordinaria di Matteo Serra

Nel 1933 l’astronomo svizzero Fritz Zwicky si era già da tempo trasferito negli Stati Uniti, per lavorare al prestigioso California Institute of Technology (Caltech) di Pasadena (istituto famoso anche per aver ospitato lo sceneggiato big-bang). La sua curiosità scientifica lo aveva portato a studiare con grande dettaglio (per le possibilità dell’epoca) alcuni ammassi di galassie: in particolare, aveva attratto la sua attenzione l’ammasso della Chioma, un gruppo di oltre 1000 galassie distante più di 300 milioni di anni luce dalla Terra. Nel calcolare parametri fondamentali dell’ammasso, come la sua massa totale e le velocità delle galassie componenti, Zwicky si rese conto che qualcosa non tornava: secondo le leggi della gravità di Isaac Newton, in base al valore misurato della massa dell’ammasso, la velocità delle galassie avrebbe dovuto essere molto inferiore rispetto a quanto osservato. L’unica spiegazione possibile
– escludendo un’improbabile violazione delle leggi gravitazionali
– era ammettere l’esistenza di una forma di materia non visibile, il cui contributo, sommato a quello della materia ordinaria, avrebbe giustificato il valore osservato della velocità delle galassie.
Zwicky fu insomma un pioniere, il primo ad avanzare l’ipotesi della «materia oscura» (termine da lui stesso coniato in quell’occasione), che sarebbe tuttavia diventata popolare nella comunità scientifica solo a partire dagli anni settanta, quando gli astronomi statunitensi Vera Rubin e Kent Ford osservarono il medesimo comportamento nella rotazione di stelle e gas nella vicina galassia di Andromeda.

oscura

Stima della distribuzione della massa -energia nell'universo: materia oscura, energia oscura e materia ordinaria


Un portale tra due mondi
Nei decenni scorsi, le prove indirette dell’esistenza della materia oscura si sono moltiplicate, andando ben oltre il solo problema della velocità di rotazione delle galassie, mentre è stata calcolata in modo preciso la sua abbondanza attesa: sarebbe pari a circa l’85 per cento della massa complessiva dell’universo. Parallelamente, è iniziata la caccia alla prima prova sperimentale della materia oscura, diventata ben presto quasi un’ossessione per generazioni di fisici: sia per i teorici, che hanno formulato negli anni un gran numero di modelli sulla natura delle ipotetiche particelle di materia oscura, sia per gli sperimentali, che hanno ideato e realizzato numerosi esperimenti per mettere alla prova i tanti modelli teorici proposti.
Tuttavia, nonostante il progresso continuo nella sensibilità sperimentale, finora gli esperimenti hanno prodotto al massimo solo alcune osservazioni «sospette», mai confermate in modo indipendente da più esperimenti. Secondo molti addetti ai lavori, la mancanza di riscontri sperimentali solidi all’ipotesi della materia oscura sta cominciando a diventare un problema serio, suggerendo la necessità di valutare ipotesi alternative. Le più radicali sostengono persino la non esistenza della materia oscura (appartengono a questo filone le teorie MOND, che postulano la non universalità su larga scala delle teorie della gravità), mentre altre propongono un cambio profondo di paradigma, sia teorico che sperimentale, soprattutto in riferimento al modo in cui la materia oscura è stata cercata fino a oggi.

«Finora gli sforzi sperimentali legati alla ricerca di materia oscura si sono mossi sostanzialmente tutti in un’unica direzione: cercare interazioni tra le particelle di materia oscura e quelle di materia ordinaria, modulate dalle forze fondamentali che già conosciamo»,
sottolinea Marco Fabbrichesi, fisico teorico della sezione di Trieste dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN). Ma se invece non vi fosse alcuna interazione tra la materia oscura e la materia ordinaria? L’ipotesi è al centro di una teoria affascinante, la cui popolarità nella comunità scientifica è in crescita: secondo questo nuovo paradigma, le particelle di materia oscura costituirebbero un vero e proprio «settore oscuro», totalmente separato e parallelo al mondo «ordinario» composto dalle particelle e dalle forze fondamentali che già conosciamo.
Uno scenario del genere implicherebbe quindi l’esistenza, nel settore oscuro, di una o più nuove interazioni fondamentali, diverse dalle quattro forze ordinarie note (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare forte e nucleare debole). Il mediatore di questo nuovo tipo di forze sarebbe una particella ipotetica, battezzata dagli scienziati con il nome di «fotone oscuro»: il suo ruolo, all’interno del settore oscuro, sarebbe analogo a quello svolto dal fotone di luce (mediatore della forza elettromagnetica) nel mondo delle particelle ordinarie. Tuttavia, la comunicazione tra il mondo ordinario e il settore oscuro non sarebbe impossibile: alcuni modelli teorici prevedono infatti l’esistenza di una sorta di portale tra i due mondi, nella forma di un raro processo capace di stabilire una connessione tra le particelle di materia ordinaria e quelle del settore oscuro.
Alcuni di questi processi ipotetici coinvolgerebbero lo stesso fotone oscuro, la cui rilevazione (almeno indiretta) potrebbe costituire quindi un obiettivo sperimentale concreto.
Leggere e poco interagenti
La prima formulazione teorica del concetto di settore e fotone oscuro risale ai primi anni ottanta dello scorso secolo, su impulso soprattutto del fisico teorico francese Pierre Fayet, nell’ambito delle cosiddette teorie «supersimmetriche»: modelli teorici che prevedono l’esistenza di nuove particelle, finora mai osservate, non previste dal modello standard, la teoria che descrive tre delle quattro forze della natura e il comportamento delle particelle elementari. L’idea è rimasta però a lungo nell’ombra, perché nei decenni successivi gli sforzi degli scienziati si sono concentrati principalmente sulla ricerca delle WIMP (weakly interacting massive particles), ipotetiche particelle di materia oscura «pesante» che, per varie ragioni, hanno rappresentato a lungo il modello di materia oscura considerato più realistico, mettendo in secondo piano tutto il resto, settore oscuro incluso.
Sperimentalmente, le WIMP sono state cercate a lungo, indagando le loro eventuali interazioni (dirette o indirette) con la materia ordinaria, ma finora gli esperimenti non hanno mostrato alcun indizio della loro reale esistenza. Parallelamente, l’ipotesi del settore oscuro ha ripreso forza, non solo come paradigma teorico ma anche per una ragione sperimentale concreta: il fotone oscuro, se esiste, dovrebbe avere una massa molto piccola, o addirittura nulla, secondo alcuni modelli, e sarebbe caratterizzato da interazioni molto deboli e difficili da rilevare. A differenza delle WIMP, quindi, non ci sarebbe niente di strano se esistesse e non fosse stato ancora osservato. Più in generale, il fatto che le particelle di materia oscura possano essere più leggere di quanto ipotizzato finora è sostenuto anche da motivazioni di uniformità con la materia ordinaria.
«La quantità di materia oscura nell’universo è pari a circa cinque volte l’abbondanza di materia ordinaria, una differenza non certo abissale in termini di ordini di grandezza: di conseguenza, ci aspettiamo che le particelle di materia oscura possano avere una massa paragonabile a quella delle particelle di materia ordinaria»,
spiega Gaia Lanfranchi, ricercatrice dei Laboratori nazionali di Frascati dell’INFN.
In termini quantitativi, l’intervallo di masse a cui si fa riferimento è compreso tra 1 megaelettronvolt (MeV) e 1 gigaelettronvolt (GeV), che corrispondono agli ordini di grandezza rispettivamente delle masse dell’elettrone e del protone. La ricerca di particelle leggere e scarsamente interagenti costituisce un vero e proprio nuovo perimetro di ricerca, noto come FIP (da feebly interacting particles, ossia appunto «particelle debolmente interagenti») e oggetto di attenzione sempre più crescente da parte degli esperti del settore.
«Il paradigma FIP è molto interessante, perché può offrire una potenziale soluzione non solo al problema della materia oscura, ma anche ad altre questioni aperte della fisica delle particelle, come l’origine della massa del neutrino, l’asimmetria tra materia e antimateria e il problema dell’energia oscura», sottolinea Lanfranchi. Da un punto di vista sperimentale, riuscire a osservare queste ipotetiche particelle e in particolare il fotone oscuro non è tuttavia un’impresa semplice. «Le interazioni che coinvolgono i fotoni oscuri, se esistono, sono molto deboli e difficili da rilevare. Inoltre, ciò si accompagna a un cambio di prospettiva , perché bisogna cercare gli effetti di forze nuove, non più legate alle interazioni fondamentali note»,
aggiunge Fabbrichesi.
Esperimenti troppo grandi
Le difficoltà non spaventano i fisici sperimentali, che già da anni sono attivi nella ricerca del fotone oscuro. Inizialmente, l’attenzione degli scienziati è stata rivolta in particolare ad analizzare i dati raccolti da esperimenti concepiti per altri scopi, per verificare l’esistenza di qualche indizio interessante. Uno di questi è BaBar, esperimento attivo tra il 1999 e il 2008 allo Stanford Linear Accelerator Center (SLAC) della Stanford University, negli Stati Uniti, il cui obiettivo principale era indagare il problema dell’asimmetria tra materia e antimateria, oltre ad altri possibili fenomeni «esotici» di fisica delle particelle. Tuttavia, proprio nell’ultimo anno di presa dati BaBar è stato adattato alla ricerca del fotone oscuro: l’analisi, pur non evidenziando alcuna rilevazione, ha posto dei limiti importanti alle caratteristiche fisiche che questa particella ipotetica potrebbe avere.


babar

L'esperimento BaBar utilizza due acceleratori: l'acceleratore lineare di SLAC (linac) e l'anello di accumulazione PEP-II. L'acceleratore lineare viene utilizzato come iniettore: accelera i fasci di elettroni e di positroni all'energia richiesta, e li inietta negli anelli di accumulazione di PEP-II. PEP-II è costituito da due anelli di accumulazione, uno ad alta energia (High Energy Ring, HER) per il fascio di elettroni da 9.0 GeV, e uno a bassa energia (Low Energy Ring, LER) per il fascio di positroni da 3.1 GeV. I due fasci si muovono in direzioni opposte e vengono fatti collidere nel punto di interazione (Interaction Point, IP) dove è situato il rivelatore BaBar che registra gli stati finali dei prodotti della collisione. Nel riferimento del centro di massa, le energie della collisioni sono pari all'energia di risonanza della particella Upsilon(4S). Questo fa si' che le Upsilon(4S) vengano prodotte con frequenza molto elevata. Il mesone Upsilon(4S) decade istantaneamente in due mesoni B, le particelle che principalmente, ma non solo, interessano l'esperimento BaBar. La massa della Upsilon(4S) è circa il doppio della massa di un mesone, quindi nel riferimento del centro di massa, i mesoni B sono prodotti quasi fermi. Per il fatto che le energie dei fasci di positroni ed elettroni sono diverse tra loro nel riferimento solidale con il laboratorio, che differisce da quello del centro di massa, i mesoni B hanno impulso non nullo e si muovono lungo la direzione dei fasci. Questo permette ai due mesoni B di viaggiare per una distanza misurabile, prima di decadere in altre particelle. La possibilità di effettuare misure della distanza tra i punti in cui decadono i due mesoni B è molto importante in BaBar per poter effettuare misure di violazione di CP.


Un ruolo importante nella revisione di dati già acquisiti è poi svolto dai grandi esperimenti in corso al Large Hadron Collider (LHC) del CERN di Ginevra. Negli ultimi anni i ricercatori degli esperimenti ATLAS e CMS, per esempio, hanno analizzato i dati raccolti durante il Run 2 di LHC (svoltosi tra il 2015 e il 2018) per indagare un processo ipotetico, in cui un bosone di Higgs decade in una coppia formata da un fotone ordinario e da un fotone oscuro. La collaborazione LHCb ha invece rivolto l’attenzione a un altro decadimento teorizzato, in cui un fotone oscuro si converte in un fotone ordinario, che a sua volta decade in una coppia di particelle cariche (una particella e la sua antiparticella), che potrebbero essere rilevate. Anche in questo caso l’analisi non ha finora prodotto indizi rilevanti, ma proseguirà in futuro anche con i nuovi dati del Run 3 di LHC, attualmente in corso. Uno sforzo simile riguarderà anche l’esperimento Belle II, ospitato all’acceleratore SuperKEKB di Tsukuba, in Giappone. Tuttavia, a dispetto degli importanti mezzi a disposizione, questi grandi esperimenti potrebbero essere paradossalmente poco adatti a rilevare particelle leggere e debolmente interagenti come i fotoni oscuri. «I grandi acceleratori spingono verso masse ed energie sempre più alte, per rilevare particelle altamente interagenti», riprende Lanfranchi.
«Le particelle FIP, come quelle del settore oscuro, hanno invece caratteristiche opposte: sono leggere e hanno vite medie molto lunghe, dal momento che interagiscono assai poco. La conseguenza è che, se esistono, possono evadere molto facilmente gli attuali rivelatori dei grandi esperimenti, che sono stati pensati per particelle con vite medie estremamente brevi».
Piccoli e intensi
Ecco che quindi, nella caccia al fotone oscuro, entrano in gioco anche altri esperimenti, più piccoli e in alcuni casi concepiti ad hoc per questo tipo di ricerca.
«Mentre esperimenti come ATLAS e CMS puntano tutto sull’alta energia, per andare a caccia delle particelle del settore oscuro è importante puntare soprattutto sull’intensità, che deve essere molto elevata»,
spiega Marco Battaglieri, ricercatore della sezione di Genova dell’INFN e responsabile dell’esperimento BDX (Beam Dump eXperiment) per la ricerca del fotone oscuro, che dovrebbe vedere la luce nei prossimi anni al Jefferson Lab, negli Stati Uniti.
Così, a differenza dei grandi esperimenti di LHC, che sfruttano le collisioni tra due fasci di ioni accelerati in direzioni opposte, all’interno di un grande anello circolare, lo schema degli esperimenti che cercano il fotone oscuro prevede tipicamente l’invio di un fascio di particelle ad alta intensità contro un bersaglio fisso: l’interazione tra il fascio e il bersaglio può dare luogo a processi (ipotetici) che coinvolgono fotoni oscuri. BDX, per esempio, userà un fascio di elettroni, la cui interazione con uno spesso bersaglio può produrre, secondo un modello teorico, nuove particelle «oscure», che possono a loro volta essere osservate in seguito alla loro interazione con un rivelatore posto a circa 20 metri dal bersaglio.
«L’eventuale produzione di queste particelle e la loro interazione con il rivelatore sono entrambi processi molto rari: per questo motivo, è fondamentale avere fasci di intensità particolarmente elevata»,
specifica Battaglieri. Oltre a esperimenti proposti per il futuro, come BDX, ce ne sono alcuni in corso già da tempo: uno dei più importanti è NA64, attivo al CERN dal 2016 e ideato con lo scopo principale di cercare indizi dell’esistenza del fotone oscuro, oltre ad altri fenomeni esotici associati a potenziale «nuova fisica».
Anche NA64 sfrutta un fascio di elettroni, prodotti al Super Proton Synchrotron (SPS) del CERN e di energia pari a circa 100 GeV, «sparati» verso un bersaglio fisso. In questo caso, la ricerca di fotoni oscuri avviene principalmente attraverso due canali: la rilevazione di elettroni o altre particelle ordinarie, prodotte dal decadimento di fotoni oscuri eventualmente generati nell’interazione tra il fascio e il bersaglio, oppure con la tecnica del calcolo dell’«energia mancante», nell’ipotesi che il fotone oscuro prodotto non venga rilevato e non decada, portando con sé una parte dell’energia associata alla collisione, che può essere dedotta per semplice sottrazione tra l’energia attesa e quella osservata.
«Nel corso del primo giro di presa dati, nel periodo del Run 2 di LHC, non abbiamo rilevato segnali interessanti, ponendo nuovi limiti alla possibile esistenza del fotone oscuro», sottolinea Paolo Crivelli, docente al Politecnico Federale (ETH) di Zurigo e vice portavoce dell’esperimento. «Con il Run 3, che durerà fino al 2026, abbiamo aumentato l’intensità, con 1000 miliardi di elettroni nel fascio, e puntiamo a ottenere limiti ancora più stringenti. L’obiettivo è usare nel fascio primario non solo elettroni ma anche muoni, per testare regioni di massa maggiore e indagare l’esistenza anche di altre ipotetiche particelle oscure».
L’esperimento dovrebbe proseguire anche durante il Run 4 di LHC, previsto tra il 2029 e il 2032, anche se non è in programma un ulteriore aumento dell’intensità del fascio. Un salto di qualità da questo punto di vista potrà arrivare invece da LDMX (Light Dark Matter eXperiment), un nuovo esperimento che dovrebbe partire nei prossimi anni ai laboratori SLAC di Stanford, negli Stati Uniti, puntando a un aumento fino a tre ordini di grandezza (rispetto a NA64) dell’intensità.
La ricerca di PADME
Nella molteplicità di esperimenti che indagano l’esistenza del fotone oscuro c’è spazio anche per il PADME (Positron Annihilation into Dark Matter Experiment), ospitato ai Laboratori di Frascati dell’INFN e attivo dal 2018, in collaborazione con diverse istituzioni di ricerca nazionali e internazionali. PADME sfrutta un fascio di positroni, prodotti dall’acceleratore lineare LINAC dei Laboratori di Frascati e accelerati fino a energie dell’ordine di 500 MeV verso un sottile bersaglio di diamante. L’interazione tra i positroni e gli elettroni del bersaglio produce la cosiddetta «annichilazione», ossia la trasformazione di ciascuna coppia elettrone-positrone in energia, che a sua volta dà poi origine, nella maggior parte dei casi, a due fotoni ordinari.
«Un’ipotesi teorica prevede che l’annichilazione possa produrre una coppia formata da un fotone ordinario e un fotone oscuro: la nostra attenzione è quindi rivolta in particolare verso eventi rari in cui viene generato un solo fotone ordinario, che costituirebbe un indizio della produzione contemporanea di un fotone oscuro»,
spiega Paola Gianotti, ricercatrice dell’INFN e referente di PADME per i Laboratori di Frascati. I primi due Run di PADME si sono svolti tra 2019 e il 2020, con l’obiettivo soprattutto di fissare nuovi limiti per i valori permessi della massa e di alcune proprietà del fotone oscuro, mentre il terzo Run si è concluso nel dicembre 2022. Quest’ultimo ciclo di presa dati è stato focalizzato in particolare sulla ricerca di una particella ipotetica di massa pari a 17 MeV (nota come «particella X17»), la cui esistenza è stata postulata in seguito all’osservazione di anomalie, ossia eccessi di eventi, da parte di un esperimento di fisica nucleare in corso all’istituto di ricerca ATOMKI di Debrecen, in Ungheria, dal 2016. A distanza di sette anni dalla prima osservazione dell’anomalia, la questione resta ancora aperta, e tra le ipotesi in campo sulla natura dell’eventuale particella c’è anche quella secondo cui possa trattarsi proprio del fotone oscuro. «Abbiamo acquisito un gran numero di eventi e l’analisi dei dati è in corso. Speriamo di avere un primo risultato preliminare entro il 2023», dice Gianotti.


padme

L'esperimento PADME (Positron Annihilation into Dark Matter Experiment) è un esperimento dedicato alla ricerca della materia oscura e in particolare del fotone oscuro. Alcuni modelli teorici ammettono l’esistenza di una forza che collega il nostro mondo alla materia oscura. Questa cosiddetta “quinta forza” sarebbe associata a una particella mediatrice chiamata appunto fotone oscuro, una particella simile al fotone ordinario mediatore della forza elettromagnetica, ma con massa non nulla. Per produrlo PADME utilizza gli eventi di annichilazione tra i positroni prodotti ed accelerati dal LINAC a un’energia di 450 MeV e gli elettroni di un sottile bersaglio di diamante (dello spessore di 1/10 di mm), tramite la tecnica della massa mancante: misurando con precisione l’energia e la posizione del fotone prodotte nell’interazione e+ e- è possibile ricostruire la presenza di un’ulteriore particella invisibile. Questo è possibile grazie alle prestazioni del principale rivelatore, un calorimetro a cristalli scintillanti, realizzato a partire dagli elementi di BGO recuperati dall’esperimento L3 al LEP di Ginevra, oramai concluso. La costruzione dell’esperimento è terminata alla fine del 2018 e nel corso del 2019 e 2020 sono state effettuate due prese dati che hanno permesso di accumulare 5 x 1012 positroni sul bersaglio con fascio secondario (a 545 MeV) e altrettanti con il fascio primario (di energia pari a 450 MeV). Molti di questi positroni hanno attraversato il bersaglio senza interazioni mentre una parte si è scontrata con gli elettroni degli atomi di carbonio che costituiscono il diamante producendo elettroni, positroni e fotoni. Ed è proprio tra queste interazioni che potrebbero nascondersi il fotone oscuro. L’esperimento è attualmente in fase di analisi dei dati, con l’obbiettivo di avere indicazione sull’evidenza (o esclusione) dell’esistenza del fotone oscuro a queste energie. In particolare i dati consentiranno di definire i limiti sui valori della massa del fotone oscuro e della sua capacità di interagire con le particelle e le forze note. Per il futuro è stato proposto l’uso di uno degli anelli del collisore DAFNE allo scopo di allungare gli impulsi di fascio di positroni e aumentare la statistica dell’esperimento di un fattore 1000 (tramite l’estrazione risonante, progetto POSEYDON, e tramite l’uso di effetti di channeling in cristalli piegati, progetto SHERPA). I risultati di PADME andranno ad arricchire i dati presenti in letteratura in questo intervallo di energie che derivano da metodi alternativi usati in altri esperimenti per produrre il fotone oscuro ovvero tramite la collisione di fasci di elettroni e positroni e tramite i decadimenti di mesoni.

Guardare allo spazio
La ricerca del fotone oscuro non coinvolge solo esperimenti terrestri (come quelli condotti negli acceleratori di particelle), che tentano di osservare nei rivelatori tracce dirette o indirette di questa particella. Un altro filone molto importante è rappresentato dalla cosmologia, che combinando dati osservativi e modelli computazionali sull’evoluzione dell’universo può trarre indicazioni spesso molto preziose sulla possibile esistenza di fenomeni e particelle esotiche, come il fotone oscuro.
«In molti casi le ricerche di questo tipo sono guidate dalla cosmologia, che spesso ha la capacità di indagare regimi di masse e fenomeni difficilmente accessibili agli esperimenti terrestri», sottolinea Matteo Viel, docente di fisica astroparticellare alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste. Tipicamente, l’approccio è sfruttare la potenza dei supercomputer per simulare l’universo. «Partiamo dalle condizioni iniziali del cosmo e simuliamo la formazione delle varie strutture cosmiche con diversi modelli possibili, i cui ingredienti principali sono i processi astrofisici e la materia oscura», prosegue Viel. «Confrontando le nostre simulazioni con i dati osservativi, possiamo capire quali modelli descrivono meglio l’evoluzione del cosmo, e quali invece vanno esclusi».
Nel solco di queste ricerche, nel novembre 2022 un gruppo di ricerca di cui fa parte lo stesso Viel ha pubblicato su «Physical Review Letters» uno studio che chiama in causa proprio il fotone oscuro per spiegare un comportamento inatteso di alcuni filamenti intergalattici, le enormi strutture cosmiche che «collegano» tra loro le galassie: in particolare, le osservazioni del telescopio spaziale Hubble hanno evidenziato che i filamenti sono più caldi di quanto previsto dai modelli astrofisici.
«Una possibile spiegazione è ammettere l’esistenza di fotoni oscuri che si convertono in fotoni ordinari, i quali a loro volta interagiscono con il mezzo interstellare producendo un aumento della temperatura del filamento», spiega Viel.
La simulazione di Viel e colleghi ha mostrato che questo processo può spiegare efficacemente la temperatura osservata, a patto che il fotone oscuro abbia una massa compresa in un ben preciso intervallo e che la conversione da fotoni oscuri a fotoni ordinari avvenga con una data efficienza.
Naturalmente, lo stesso effetto potrebbe essere prodotto anche da altri processi ipotetici, tuttavia alcuni sviluppi futuri del modello potrebbero fornire previsioni osservabili, almeno sulla carta. «L’obiettivo è provare a simulare questo meccanismo anche in relazione ad altre osservabili, con eventuali impatti per esempio sulla formazione stellare e di supernove», riprende Viel. «Inoltre, c’è una forte sinergia con i buchi neri: se la materia oscura esiste in questa forma, intorno ai buchi neri potrebbero verificarsi risonanze “patologiche”, tali da estrarre energia dai buchi neri stessi e produrre eventi molto violenti, che potrebbero essere osservati».
Oltre alla cosmologia, anche alcuni esperimenti di astronomia possono offrire una piattaforma utile per indagare l’esistenza del fotone oscuro. In questo filone, una delle novità recenti più interessanti è arrivata da uno studio condotto da un gruppo dell’Università di Pechino, guidato da Haipeng An, che ha considerato le eventuali interazioni tra i fotoni oscuri e gli elettroni liberi presenti nei radiotelescopi. Tipicamente, le oscillazioni degli elettroni nel «piatto» di un radiotelescopio, prodotte dalle onde radio in arrivo, generano un segnale elettromagnetico che può essere osservato: se i fotoni oscuri interagiscono con gli elettroni liberi, ci si aspetta che anch’essi possano generare onde elettromagnetiche rilevabili, la cui frequenza dipende dal valore della massa dei fotoni oscuri stessi. An e colleghi, che hanno pubblicato i risultati nel maggio 2023 su «Physical Review Letters», hanno cercato segnali di questa interazione nei dati raccolti dal radiotelescopio cinese FAST, in uno specifico intervallo di frequenze: la ricerca non ha prodotto l’osservazione di segnali interessanti, ponendo anche in questo caso un limite superiore al valore del tasso di accoppiamento dei fotoni oscuri con la materia ordinaria. Ma lo studio potrà aprire la strada a test analoghi con altri radiotelescopi terrestri e spaziali, sensibili a un più ampio intervallo di frequenze.
Un cambiamento radicale
Ma le frontiere della ricerca non finiscono qui. Gran parte degli esperimenti in corso e futuri, sia terrestri sia cosmologici, va a caccia di fotoni oscuri dotati di massa (per quanto piccola), tuttavia esistono diversi modelli teorici che ipotizzano un fotone oscuro con massa nulla (proprio come il suo «omologo» ordinario, il fotone elettromagnetico). Un’ipotesi che pone alcuni vincoli importanti: «Se il fotone oscuro non ha massa, non può essere materia oscura, inoltre il suo accoppiamento con la materia ordinaria sarebbe ancora più soppresso», ricorda Fabbrichesi. Mentre il primo aspetto costituisce forse un freno alla motivazione di cercare fotoni oscuri di massa nulla, il secondo è un forte ostacolo alla possibilità concreta di osservarlo sperimentalmente (impresa peraltro già molto complicata per fotoni oscuri dotati di massa). In ogni caso, alcuni esperimenti futuri potrebbero avere qualche chance anche in questa direzione.
In definitiva, la ricerca del fotone oscuro sembra oggi più viva che mai, costituendo la punta di un iceberg che mira a ridefinire la caccia alla materia oscura in termini molto diversi rispetto al passato. E dove trovano spazio anche altre idee alternative alle «storiche», ma ormai improbabili, WIMP: per citarne solo alcune, gli assioni e i buchi neri primordiali rappresentano ulteriori piste di ricerca promettenti su cui si sta concentrando l’attenzione degli scienziati. Inoltre, al di là degli obiettivi scientifici concreti, secondo alcuni la presenza di tanti esperimenti che vanno a caccia di materia oscura leggera potrebbe costituire una vera svolta radicale, capace di riformare in senso più inclusivo la fisica delle particelle sperimentale. «La ricerca di nuova fisica ad accoppiamenti deboli porta con sé una visione geopolitica della fisica completamente diversa», sottolinea Lanfranchi.
«In precedenza, la spinta verso le altissime energie tendeva a far convergere le risorse verso un unico laboratorio, il CERN, con l’obiettivo di fare esperimenti sempre più grandi. Questo nuovo paradigma promuove invece un approccio molto più diversificato, con il coinvolgimento di tanti laboratori sparsi in tutto il mondo: la conseguenza è una ricerca più sostenibile, democratica e inclusiva, con molto più spazio per proporre idee nuove».
E chissà che tra queste idee non ci sia finalmente quella giusta, in grado di risolvere un enigma che attende una soluzione da ormai novant’anni. (Ritengo che vi siamo più probabilità di sapere di più sulla materia oscura grazie al telescopio Euclid. NDR).

Eugenio Caruso - 5 settembre 2023



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