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Particelle dal nulla


“[…] la distinzione tra passato, presente e futuro è soltanto un’illusione, anche se ostinata”. Einstein

Particelle dal nulla

Immaginate di sedervi accanto ad Han Solo e Chewbecca a bordo del Millennium Falcon, una delle astronavi più veloci della galassia. Avete appena il tempo di mettere la cintura di sicurezza e si parte: la navicella spaziale accelera e inizia il suo viaggio nell’iperspazio. L’ambiente buio che vi circonda diventa sempre più chiaro, con tantissimi punti luminosi che vi sfrecciano attorno.
Gli appassionati di Guerre stellari probabilmente ricordano quelle scene leggendarie che da decenni affascinano gli spettatori, ma per quanto la storia sia emozionante, ha poco a che vedere con la scienza: quei puntini luminosi che sfrecciano nello spazio dovrebbero rappresentare le stelle, ma a quelle accelerazioni l’effetto Doppler le renderebbe invisibili. Tuttavia la scena descritta all’inizio potrebbe non essere poi così lontana dalla realtà. Le luci che si vedrebbero passare non sarebbero le stelle, bensì particelle che saltano fuori dal nulla. È possibile che i fisici riescano a osservare direttamente questo fenomeno nei prossimi anni.
Si tratta di un fenomeno relativistico che, al contrario della curvatura dello spazio-tempo e delle radiazioni emesse dai buchi neri, non è granché noto al pubblico: l’effetto Unruh. Questo fenomeno descrive l’esperienza percepita da una persona in accelerazione che si muove nel vuoto: avrebbe l’impressione di volare in uno spazio pieno di particelle che producono una temperatura elevata. Un osservatore stazionario, invece, non vedrebbe nulla di tutto ciò, se non la persona che si muove. Questo fenomeno aggiunge una dimensione completamente nuova alla teoria della relatività di Albert Einstein: non sarebbero solo il tempo e la distanza a dipendere dal sistema di riferimento, ma persino l’esistenza stessa delle particelle.
Un’idea di Einstein come ispirazione
Il fenomeno fu scoperto dal fisico William Unruh a metà degli anni settanta, partendo dalle ricerche di Steve Fulling e Paul Davies. Però i lavori al riguardo sono puramente teorici e finora nessuno ha potuto osservare l’effetto direttamente, a causa delle condizioni estreme che richiede: per sperimentare un cambiamento di temperatura di appena 1 °C, il soggetto dovrebbe accelerare di 10esp20 metri al secondo quadrato, «quindi da zero al 90 per cento della velocità della luce nel giro di 10esp–12 secondi», spiega Unruh. Però nel frattempo diverse ricercatrici e ricercatori hanno sviluppato approcci ingegnosi che dovrebbero rendere possibile la dimostrazione sperimentale dell’effetto Unruh. Tra gli altri, appare molto promettente un articolo scritto da Achim Kempf e Barbara Šoda del Perimeter Institute for Theoretical Physics e dell’Università di Waterloo assieme a Vivishek Sudhir, del Massachusetts Institute of Technology, in cui gli autori descrivono un metodo per amplificare l’effetto Unruh fino a renderlo misurabile in condizioni di laboratorio realistiche. Per farlo partono da un’idea di Einstein che ha portato allo sviluppo dei laser.
L’effetto Unruh è particolarmente appassionante per gli esperti perché è strettamente collegato con i buchi neri. Come astrofisico Stephen Hawking capì nel 1973, che questi colossi galattici non sono circondati solo da spazio vuoto, bensì emettono particelle. «L’effetto Unruh è una sorta di versione giocattolo di fenomeni più complessi come la radiazione di Hawking o l’universo in espansione», spiega Ulf Leonhardt, fisico del Weizmann Institute of Science di Rehovot.
I buchi neri sono tra gli oggetti più affascinanti del nostro universo, perché sono influenzati sia dalla teoria generale della relatività sia dalla teoria quantistica dei campi, cioè dalle due teorie fondamentali che descrivono il mondo ma sono incompatibili tra loro.
Nel 1915 Einstein scosse la nostra visione tradizionale del mondo quando, con la sua teoria generale della relatività, dimostrò che era possibile spiegare la forza di gravità in termini geometrici. Nel quadro di questa teoria, la massa deforma lo spazio-tempo e la geometria dello spazio-tempo così deformato determina, viceversa, il moto della materia al suo interno. La teoria riguarda tutto ciò che è grande, cioè quelle aree dove la gravità prevale rispetto alle altre forze fondamentali: dalle orbite planetarie all’espansione accelerata dell’universo, fino al redshift della luce proveniente da quasar lontanissimi.
La fisica quantistica, al contrario, si occupa del microcosmo, dove la forza di gravità è spesso trascurabile e prevale l’influenza delle altre tre forze: quella elettromagnetica e quelle nucleari debole e forte. Il modello standard della fisica delle particelle, che si basa sulla teoria quantistica dei campi, descrive il mondo delle particelle elementari e le loro interazioni complesse.
Ormai la scienza capisce abbastanza bene il molto grande e il molto piccolo, ma appena si affronta una situazione in cui la forza di gravità e le altre tre forze fondamentali entrano in gioco in ugual misura, ci si trova di fronte a un rebus. Finora è stato impossibile conciliare la relatività generale e la fisica quantistica, anche se le menti più acute della scienza ci sbattono la testa da decenni. Ci sono tuttavia fenomeni che necessitano di una teoria della gravità quantistica. È il caso, per esempio, dei buchi neri o del big bang, due situazioni in cui la materia è estremamente compressa in uno spazio, per cui entrano in campo tutte e quattro le forze fondamentali. Per studiare questi problemi bisognerebbe capire come i campi quantistici deformino lo spazio-tempo e, viceversa, come la deformazione influisca sui campi stessi. Finora mancano le basi teoriche per fare i calcoli necessari. Eppure, esperti come Hawking hanno sviluppato i primi metodi per descrivere questi fenomeni, almeno in modo approssimativo. Di solito per farlo si lascia fuori metà del problema, per esempio concentrandosi sul modo in cui si comportano i campi quantistici in uno spazio-tempo deformato e ignorando invece l’effetto dei campi sulla geometria dello spazio-tempo. Con questo approccio Hawking riuscì a calcolare che i buchi neri emettono la radiazione che porta il suo nome e quindi «evaporano» lentamente.
Insomma, sia nella radiazione di Hawking sia nell’effetto Unruh sembra che ci siano particelle che emergono dal nulla, dando al vuoto una temperatura definita. La ragione di questa sorprendente materializzazione è una particolarità della teoria della relatività. Nello stesso anno in cui Einstein aveva pubblicato le sue equazioni, l’astronomo Karl Schwarzschild capì che quelle formule ammettono soluzioni strane quando c’è una massa enorme concentrata in uno spazio relativamente minuscolo. In questo caso, la gravità aumenta moltissimo e questo può portare a una situazione in cui, entro una certa distanza dal corpo stesso, la velocità di fuga supera la velocità della luce. In altre parole, all’interno di quel confine (noto come orizzonte degli eventi) bisogna andare più veloci della luce per sfuggire all’enorme forza di gravità. Appena un oggetto, sia pure un fotone privo di massa, supera l’orizzonte degli eventi, non può più sfuggire all’attrazione. E proprio perché neanche la luce riesce a fuggire, questi corpi celesti estremamente densi sono stati chiamati buchi neri. Quindi gli orizzonti degli eventi isolano una parte dello spazio-tempo dal resto. Quello che succede dentro l’orizzonte degli eventi non importa, perché stando alla teoria della relatività non ha effetto sul resto dell’universo, non potendo raggiungere l’esterno. Ciò solleva molte questioni, anche di natura fisica e filosofica. Gli orizzonti degli eventi sono particolarmente affascinanti quando sono studiati sotto l’aspetto della fisica quantistica.
Una nuova visione del mondo cambia tutto
All’inizio del XX secolo non fu solo Einstein a rivoluzionare la nostra visione del mondo. Negli anni venti anche i fisici quantistici rovesciarono quello che credevamo di sapere su onde e particelle, al punto che i due concetti non si possono più separare chiaramente l’uno dall’altro. Negli anni successivi gli esperti svilupparono ulteriormente la meccanica quantistica e riuscirono a conciliarla con la teoria speciale della relatività. Nasceva così la teoria quantistica dei campi, che rimane fino a oggi il modello dominante per descrivere la forza elettromagnetica e le due forze nucleari. Secondo questa teoria, lo spazio-tempo non è vuoto, bensì è attraversato da campi quantistici che riempiono ogni angolo del nostro universo. Come una membrana in tensione, in questi campi possono avvenire oscillazioni, chiamate fluttuazioni, e l’oscillazione di un determinato punto della membrana corrisponde a una particella elementare.
Anche nel vuoto, i campi quantistici non sono mai completamente statici, bensì tremolano costantemente attorno allo stato di energia minima. Per questo il vuoto non è vacuo e noioso, è piuttosto un luogo affascinante. Con le oscillazioni della membrana, le «fluttuazioni quantistiche» generano continuamente particelle «virtuali» che poi si annientano immediatamente. Queste particelle sono dette virtuali perché sono diverse dalle normali particelle durevoli e non si possono misurare direttamente; però è possibile misurarne l’effetto.
È il caso per esempio dell’effetto Casimir, che descrive due piastre di metallo che si attraggono come per magia, non a causa del minimo effetto gravitazionale che esercitano l’una sull’altra. La spiegazione si ricollega alle fluttuazioni quantistiche. Tra le due piastre le oscillazioni dei campi elettromagnetici sono limitate (per esempio, i fotoni virtuali possono rientrare o meno nell’intervallo a seconda della loro lunghezza d’onda), perciò è limitato il numero di fluttuazioni che possono avvenire nello spazio interposto. Al di fuori delle due piastre di metallo, invece, può esistere ogni genere di oscillazione possibile e quindi ogni genere di particelle virtuali. Dato che nello spazio interposto tra loro il vuoto è «più vuoto», le due piastre sono spinte l’una verso l’altra.
Se due piastre di metallo bastano già a generare disordine nel vuoto, qual è l’effetto di un orizzonte degli eventi invalicabile? È una domanda che forse lo stesso Stephen Hawking si era posto quando aveva studiato i campi quantistici nelle vicinanze dei buchi neri. Gli orizzonti degli eventi rappresentano una frattura, un confine chiaro che le informazioni non possono superare. Il vuoto della fisica quantistica sotto l’influenza di una forte gravità con un orizzonte degli eventi è ben diverso da quello esteso in modo quasi indefinito e relativamente piatto che percepiamo come spazio-tempo. È come se la membrana fluttuante fosse tenuta ferma sull’orizzonte degli eventi: quell’area non oscilla più ed è schermata rispetto al resto della superficie. Questo blocco fa sì che alcune onde di oscillazione siano rimandate indietro, mentre altre mancano del tutto.
Le conseguenze sono drastiche: per esempio, alcune fluttuazioni non riescono più a neutralizzarsi a vicenda, motivo per cui nelle vicinanze di un orizzonte degli eventi appaiono improvvisamente particelle che non ci sono nello spazio-tempo piatto. La situazione è quindi il contrario di quello che avviene nell’effetto Casimir: se le due piastre di metallo portavano il vuoto a diventare più vuoto, gli orizzonti degli eventi aumentano il numero di particelle.
In questo modo, Hawking capì che i buchi neri evaporano, perché come un corpo nero emettono ogni genere di radiazioni in modo uniforme in tutte le direzioni. Perciò è possibile assegnare una temperatura a questi colossi galattici; però finora non è stato possibile misurarla. «Nei dintorni dei buchi neri c’è di tutto, dai dischi di accrescimento ai getti cosmici», spiega il fisico teorico Kempf. «In mezzo a tutto ciò è difficile identificare la radiazione di Hawking». Inoltre, la lunghezza d’onda della radiazione emessa corrisponde più o meno al suo raggio di Schwarzschild [una distanza associata e proporzionale alla massa di un corpo celeste; nel caso di un buco nero può essere considerato come il raggio che determina il suo orizzonte degli eventi, N.d.R.], che va da circa dieci chilometri a milioni di chilometri. «Di conseguenza sono estremamente freddi. È impensabile misurarne la temperatura», continua Kempf. Anche per i fisici sperimentali i buchi neri restano fuori portata: «Dopotutto avremmo un problemino se riuscissimo a crearli in laboratorio», commenta Sudhir. Per questo, assieme a Šoda e Kempf, il ricercatore ha cercato altri sistemi per studiare i fenomeni di fisica quantistica nelle vicinanze degli orizzonti degli eventi. E, a quanto si è scoperto, i buchi neri non sono gli unici oggetti oggetti con un orizzonte degli eventi. Questi confini invalicabili sono in realtà molto più diffusi di quanto si pensi: basta alzarsi dalla sedia per produrre un orizzonte degli eventi. Davvero: se ne crea uno in ogni caso in cui c’è accelerazione, indipendentemente da quanto sia forte. Nel quotidiano, però, quando ci mettiamo in movimento o rallentiamo non notiamo né un aumento della temperatura né un affollamento di particelle, perché l’effetto Unruh è molto debole. Comunque, dal momento che esistono sistemi accelerati molto più vicini dei buchi neri, molti ricercatrici e ricercatori in fisica si sono posti l’obiettivo di dimostrare l’effetto Unruh in laboratorio.
Ogni accelerazione crea un orizzonte degli eventi
Per farlo, bisogna in primo luogo capire perché l’accelerazione genera un orizzonte degli eventi. Una prima indicazione ci viene dal principio di equivalenza, secondo il quale almeno a livello locale non c’è differenza tra accelerazione e gravità. Un ascensore che sale dà l’impressione che l’attrazione gravitazionale della Terra sia più forte. Se la forza di gravità può creare un orizzonte degli eventi, altrettanto può fare anche l’accelerazione.
Immaginiamo una persona che da lontano corre verso di noi ad altissima velocità (quasi alla velocità della luce), rallenta gradualmente fino a fermarsi presso di noi e poi riparte tornando indietro a velocità sempre più alta. Se consideriamo il rallentamento come un’accelerazione negativa, quella persona ha accelerato in modo uniforme per tutto il tempo. Per illustrare eventi come questo si usa il cosiddetto diagramma di Minkowski, un semplice sistema di coordinate a due dimensioni come quello che conosciamo dai tempi della scuola, in cui però l’asse y rappresenta la direzione del tempo (ct) e l’asse x rappresenta una singola direzione dello spazio. Su un diagramma come questo è possibile rappresentare graficamente l’insolito incontro con una persona in accelerazione che abbiamo appena descritto.


minkosky

Il diagramma di Minkowski , noto anche come diagramma dello spaziotempo , è stato sviluppato nel 1908 da Hermann Minkowski e fornisce un'illustrazione delle proprietà dello spazio e del tempo nella teoria della relatività speciale. Permette una comprensione qualitativa dei fenomeni corrispondenti come dilatazione del tempo e contrazione della lunghezza senza equazioni matematiche. I diagrammi di Minkowski sono grafici bidimensionali che descrivono gli eventi come accadendo in un universo costituito da una dimensione spaziale e una dimensione temporale. A differenza di un normale grafico distanza-tempo, la distanza viene visualizzata sull'asse orizzontale e il tempo sull'asse verticale. Inoltre, le unità di misura del tempo e dello spazio sono scelte in modo tale da rappresentare un oggetto che si muove alla velocità della luce seguendo un angolo di 45 ° rispetto agli assi del diagramma. In questo modo, ogni oggetto, come un osservatore o un veicolo, traccia una certa linea nel diagramma, che è chiamata la sua linea mondiale. Inoltre, ogni punto nel diagramma rappresenta una determinata posizione nello spazio e nel tempo e viene chiamato evento , indipendentemente dal fatto che accada qualcosa di rilevante

casimir

Effetto Casimir. Due piastre di metallo nel vuoto si attraggono a vicenda. La causa sono le fluttuazioni nel vuoto: nello spazio tra le due piastre ci sono meno particelle virtuali che all’esterno


Dato che siamo rimasti sempre fermi nello stesso punto, la nostra «traiettoria» segue l’asse y. Dal nostro punto di vista, un altro oggetto lascerà sul diagramma una traccia che può muoversi sia sull’asse x che sull’asse y: per esempio, se si muove a velocità costante traccerà una ripida linea retta. La scala degli assi sul diagramma di Minkowski fa sì che la velocità della luce corrisponda a una retta con pendenza 1. Di conseguenza la traiettoria dell’oggetto deve sempre essere più ripida, altrimenti vorrebbe dire che si muove a una velocità superiore a quella della luce, il che è impossibile secondo la teoria speciale della relatività. Quando una persona accelera in modo costante (come quella che è venuta di corsa verso di noi), la sua traiettoria si approssimerà sempre più a una retta con pendenza uno, senza mai raggiungerla, come un’iperbole che si stringe agli assi delle sue coordinate. Questa curva che descrive la traiettoria degli oggetti in accelerazione ha caratteristiche estremamente notevoli. Per esempio, immaginiamo che la retta con pendenza 1 a cui si approssima la curva sia un segnale che a un certo punto abbiamo inviato in direzione del movimento di quella persona (si veda il box in questa pagina). Quel segnale non raggiungerà mai la persona, né la raggiungerà qualsiasi raggio di luce inviato da una posizione a sinistra della nostra posizione nel diagramma di Minkowski. Quindi la retta a cui si approssima la curva della traiettoria segna un orizzonte degli eventi. Tutto ciò che sta oltre quella retta non raggiungerà mai l’osservatore in accelerazione, né nel passato né nel futuro. Per gli oggetti che si muovono in modo uniforme o sono fermi, le cose stanno diversamente: è sufficiente aspettare e prima o poi saranno raggiunte da qualsiasi raggio di luce proveniente da qualsiasi angolo dell’universo. Sorprendentemente, non conta quanto sia grande o piccola l’accelerazione. Anche un’azione banale come partire quando il semaforo diventa verde crea un orizzonte degli eventi.
Come nel caso dei buchi neri, questo ha conseguenze curiose. Dato che l’orizzonte degli eventi esiste solo per la persona in accelerazione, un osservatore stazionario percepisce lo spazio vuoto come un posto con fluttuazioni occasionali e nulla più. Il sistema di riferimento del soggetto accelerato è invece tagliato fuori da alcune zone dello spazio-tempo. Così entra di nuovo in azione il fenomeno che possiamo illustrare con una membrana oscillante che viene tenuta ferma: le fluttuazioni dei campi quantistici hanno una forma diversa rispetto a quella vista da una prospettiva stazionaria. La persona in accelerazione percepisce particelle dotate di una certa temperatura: si trova in una sorta di bagno caldo.
«Negli anni settanta mi dedicai alla questione di come definire una particella nella teoria quantistica dei campi», racconta lo scopritore dell’effetto, Unruh. «Le scoperte di Hawking, Fulling e Parker mi fecero giungere alla conclusione che l’esistenza delle particelle dipende dal movimento (in particolare dall’accelerazione) di un rivelatore usato per misurare le particelle stesse». I buchi neri e i sistemi accelerati sono simili Come si conciliano questi due quadri così diversi? Immaginiamo che la persona in accelerazione abbia con sé uno strumento di misurazione che fa clic ogni volta che assorbe una particella. Quando la persona ci passa accanto, anche noi sentiremmo il clic e a quanto pare in quel caso potremmo anche osservare che il rivelatore emette una particella. Il motivo è che l’apparecchio è fatto di particelle dotate di carica elettrica, come protoni ed elettroni. Quando queste accelerano nello spazio, eccitano i campi quantistici elettromagnetici e così producono fotoni; viceversa, anche il campo stesso può eccitare le particelle dotate di carica elettrica. Ciò rende possibili processi che non si verificano mai in un sistema stazionario: per esempio, le particelle sono eccitate (il rivelatore fa clic) e allo stesso tempo emettono un fotone. Di conseguenza, dalla prospettiva dell’osservatore stazionario il rivelatore in accelerazione emette radiazioni, in modo simile a quello che fa un buco nero.
Per dimostrare l’effetto Unruh, sarebbe quindi necessario accelerare un rivelatore e osservare se emette radiazioni. Per farlo servirebbero accelerazioni pari ad almeno 10esp20 metri al secondo quadrato. E naturalmente con un rivelatore macroscopico non è possibile. Però come rivelatore si può usare anche un sistema semplificato, per esempio un atomo con due stati energetici. Una particella di questo tipo può rilevare fotoni con una determinata carica di energia assorbendo una particella luminosa corrispondente e a quel punto passa dallo stato fondamentale a quello eccitato. Imprimendo a quell’atomo una rapida accelerazione, si osserverebbe l’effetto Unruh, perché l’atomo potrebbe eccitarsi ed emettere un fotone. Tuttavia una conferma sperimentale è difficile per diverse ragioni.
È anche possibile imprimere una forte accelerazione a particelle cariche come gli ioni negli acceleratori di particelle. In questo caso però potrebbe crearsi qualcos’altro che nasconde l’effetto Unruh: la già citata radiazione elettromagnetica che le particelle cariche emettono in massa appena accelerano, chiamata Bremsstrahlung, o radiazione di frenamento. Questo rende molto difficile distinguere i pochi fotoni dovuti all’effetto Unruh in mezzo ai tanti che vengono emessi da una particella carica.
Nel 2019 alcuni fisici guidati da Morgan H. Lynch, del Technion di Haifa, in Israele, hanno affermato di essere riusciti a fare proprio questo: ritengono di aver identificato la traccia dell’effetto Unruh nello spettro di positroni accelerati. Altri esperti rimangono scettici, incluso Ralf Schützhold, direttore dell’Istituto di fisica teorica all’Helmholtz-Zentrum Dresden-Rossendorf di Dresda. «L’idea è interessante», specifica. «Però ritengo che siano necessarie ulteriori ricerche per capire quali risultati si possano interpretare come segni dell’effetto Unruh e quali siano da attribuire ad altri fenomeni». Schützhold aggiunge anche che nell’analisi dei dati sperimentali sono state inserite molte semplificazioni. «Bisogna avere un ambiente sperimentale estremamente puro, con meno particelle possibili e che si possa controllare con precisione, per dimostrare un effetto così minuscolo», sottolinea Sudhir, che nel suo laboratorio si occupa di misurazioni di alta precisione. «Nel complesso, gran parte della comunità scientifica è concorde nel dire che l’effetto non è ancora stato osservato direttamente», afferma Leonhardt.
Il problema è il tempo proprio
Per aggirare il problema della Bremsstrahlung si possono accelerare atomi non carichi, però è più difficile che con quelli carichi, perché a differenza di questi ultimi non possono essere costretti su un’orbita circolare per mezzo di campi magnetici e se sono accelerati su una linea retta, per esempio con l’aiuto di un laser, li si può osservare solo per intervalli di tempo decisamente brevi. «Il problema è il tempo proprio della particella», afferma Leonhardt. Infatti, stando alla teoria speciale della relatività, il tempo passa più lentamente per un oggetto in moto che per un oggetto stazionario. Affinché il rivelatore dell’effetto Unruh (la particella accelerata) abbia almeno la possibilità di interagire con le particelle emerse dal «nulla» serve un intervallo di tempo più lungo. «Noi osservatori stazionari dobbiamo aspettare davvero a lungo mentre la particella attraversa distanze enormi», spiega Leonhardt.
Un indizio sull’effetto Unruh potrebbe venire dai protoni, che assieme ai neutroni sono i mattoni che formano il nucleo atomico. Però protoni e neutroni non sono particelle elementari, sono composti da tre quark ciascuno. Un neutrone libero, non vincolato a un nucleo, non è stabile: ha un tempo di dimezzamento di circa dieci minuti e poi decade in un protone, un elettrone e un antineutrino (una particella elementare estremamente leggera priva di carica elettrica). I protoni, al contrario, secondo il modello standard dovrebbero essere stabili, come confermato anche da risultati sperimentali. Finora il decadimento di un protone non è mai stato osservato. Se il modello standard non dovesse essere corretto e i protoni dovessero effettivamente avere un decadimento, la fisica ha calcolato il limite superiore del loro tempo di dimezzamento: si tratterebbe di almeno 10esp34 anni, molto più dell’età raggiunta dal nostro universo finora. Insomma, anche se i protoni dovessero davvero essere instabili, è estremamente improbabile che si possa osservare il processo in atto. Le cose potrebbero cambiare se si sottoponesse il protone a forte accelerazione. A causa dell’effetto Unruh, a quel punto non volerebbe più in uno spazio vuoto, bensì in un bagno caldo pieno di particelle e quindi sorgerebbe la possibilità che si scontri con un elettrone e un antineutrino. In quel caso si avrebbe il fenomeno opposto al decadimento del neutrone: dal protone e dalle altre due particelle potrebbe emergere un neutrone. Tuttavia le accelerazioni necessarie sarebbero estremamente elevate, e inoltre non è chiaro se la forza esercitata sui protoni non ne causerebbe il decadimento.
Anche se finora non è stato possibile ottenere una prova diretta dell’effetto Unruh, ci sono comunque misurazioni che ne suggeriscono l’esistenza. Se non altro, questo effetto potrebbe spiegare un bizzarro fenomeno osservato già dagli anni ottanta negli acceleratori circolari di elettroni. Gli acceleratori di particelle generano forti campi magnetici che influiscono sullo spin delle particelle (lo spin è una sorta di momento angolare intrinseco).
A una temperatura prossima allo zero assoluto, lo spin di tutti gli elettroni dovrebbe essere uguale. Invece negli esperimenti di laboratorio c’è sempre qualche particella con lo spin nella direzione opposta, un comportamento che ci si aspetterebbe a temperature più alte. Il fisico John Bell ha riconosciuto che l’effetto Unruh potrebbe spiegare queste osservazioni. Dal loro punto di vista, gli elettroni accelerati non stanno correndo nel vuoto a circa –273 gradi Celsius, bensì in uno spazio pieno di particelle e a una temperatura più alta, con la conseguenza che alcune particelle invertono lo spin. «Insomma in un certo senso si potrebbe anche dire che l’effetto Unruh è già stato dimostrato», afferma Sudhir. «Però in un acceleratore di particelle, dove ci sono tanti elettroni che interagiscono tra loro, non si può escludere che la causa dell’effetto osservato sia qualche altro processo».
Oltre alle misurazioni di questo tipo, si stanno portando avanti anche altri tentativi per comprendere meglio l’effetto Unruh. Una possibilità sono gli esperimenti su modelli analoghi, che si usano per studiare quei fenomeni che non si possono riprodurre in laboratorio: si crea un sistema che non ha niente a che fare con il problema in questione, ma che è molto simile dal punto di vista matematico. In questo modo sono già stati studiati i materiali quadridimensionali, i buchi neri e i wormhole. Nel frattempo vari ricercatori e ricercatrici hanno iniziato a usare modelli analoghi per mettere sotto la lente anche l’effetto Unruh.
Atomi freddi come modelli
Uno strumento diffuso per esperimenti di questo tipo sono gli atomi ultrafreddi. Queste particelle vengono intrappolate con complessi sistemi laser e rallentate fino a raggiungere una temperatura prossima allo zero assoluto. A quel punto gli atomi si condensano in uno stato fondamentale comune e formano un cosiddetto «condensato di Bose-Einstein». Regolando i laser e i campi magnetici circostanti è possibile generare interazioni a piacere tra gli atomi e imitare così situazioni fisiche che altrimenti sarebbero irrealizzabili. Nel caso dell’effetto Unruh, per esempio, si possono intensificare le fluttuazioni nel vuoto per imitare un oggetto accelerato.
È quello che ha fatto nel 2019 un gruppo di ricerca guidato da Cheng Chin, dell’Università di Chicago, raffreddando 60.000 atomi di cesio fino a una temperatura di appena dieci miliardesimi di grado al di sopra dello zero assoluto. Anche se si muovevano appena, grazie a sistemi laser e a campi magnetici appropriati le particelle imitavano le condizioni di un rivelatore in moto accelerato e il loro comportamento si poteva descrivere con le stesse equazioni. Un ulteriore laser era usato come modello analogo delle fluttuazioni nel vuoto. Dopo appena qualche millisecondo, i fisici hanno osservato che gli atomi di cesio venivano irradiati in tutte le direzioni, come le radiazioni termiche di un forno. «Le temperature che abbiamo misurato dalla simulazione collimano ottimamente con le previsioni di Unruh», ha commentato Chin parlando a Phys.org.
Ulf Leonhardt e colleghi avevano simulato a loro volta l’effetto Unruh già due anni prima, ma con un modello completamente diverso: le onde nell’acqua. La loro idea sfruttava un laser per illuminare una superficie d’acqua, muovendolo come un oggetto uniformemente accelerato in un diagramma di Minkowski. L’acqua nel serbatoio doveva essere eccitata in modo che il rumore delle onde lungo l’asse y (la posizione dell’osservatore stazionario) corrispondesse agli schemi delle fluttuazioni nel vuoto. I ricercatori guidati da Leonhardt hanno usato una versione un po’ semplificata dell’esperimento per studiare il movimento oscillatorio di un osservatore in accelerazione e sono riusciti a dimostrare che questo osservatore non percepisce solo il rumore, bensì l’eccitazione vera e propria, come se ci fossero particelle reali. Il problema degli esperimenti sull’effetto Unruh basati su analogie puramente matematiche, però, è che non possono confermare direttamente la teoria. Possono solo simulare le equazioni matematiche. Questi esperimenti sono molto utili per esaminare sistemi di equazioni molto complessi da calcolare, come quelli volti a prevedere il comportamento delle particelle, ma non si possono usare per verificare o falsificare il comportamento effettivo di un osservatore in accelerazione.
Perciò Silke Weinfurtner, dell’Università di Nottingham, Jörg Schmiedmayer, del Politecnico di Vienna, e William Unruh, lo scopritore dell’effetto, hanno proposto un esperimento che potrebbe dimostrarlo in un altro modo. In effetti anche nel loro esperimento le misurazioni non si fanno nel vuoto, perciò si può parlare comunque di esperimento su un modello analogo, però in questo caso ricercatrici e ricercatori vogliono effettivamente osservare un rivelatore in accelerazione. «L’idea è stata presentata da Jörg Schmiedmayer in occasione di un workshop qualche anno fa», commenta il fisico Sebastian Erne, del Politecnico di Vienna, che collabora al progetto. Schmiedmayer ha suggerito di usare come rivelatore dell’effetto Unruh un fascio laser che si muove lungo un percorso circolare, mentre il vuoto sarebbe simulato con un condensato di Bose-Einstein o con un superfluido. A quel punto le oscillazioni nella densità della nube di atomi corrisponderebbero alle fluttuazioni quantistiche. «In questo modo non otteniamo solo un analogo modello matematico, bensì un sistema effettivamente accelerato», spiega Erne.
Impegnativo, ma non inverosimile
Secondo i calcoli del gruppo di ricerca, l’intensità del fascio laser dovrebbe oscillare a causa dell’effetto Unruh. «Si tratta di effetti minuscoli. Per fortuna negli ultimi anni la sensibilità della strumentazione è già considerevolmente migliorata», continua il fisico. Le oscillazioni di densità possono muoversi nel condensato di Bose-Einstein a una velocità massima pari alla velocità del suono; quest’ultima fa le veci del limite che nell’effetto Unruh vero e proprio è rappresentato dalla velocità della luce. Ciò offre un vantaggio decisivo: rispetto a quello che succederebbe nel vuoto, il fascio laser non deve ruotare altrettanto rapidamente per raggiungere il regime relativistico, bastano pochi millimetri al secondo. «Le accelerazioni necessarie si attestano su valori circa 100 miliardi di volte inferiori rispetto alla situazione nel vuoto. Negli ultimi cinque anni è diventato evidente che un esperimento del genere rientra nella sfera del possibile», afferma Unruh.
A oggi l’esperimento si trova ancora in fase di progettazione, ma nei prossimi anni si potrebbero avere i primi risultati. Attualmente il gruppo di ricerca si sta occupando di alcune approssimazioni nei calcoli. Per esempio, i ricercatori erano partiti dall’idea che l’esperimento dovesse avvenire a una temperatura pari allo zero assoluto, tuttavia questa condizione non è raggiungibile, motivo per cui stanno studiando come cambiano le loro previsioni a temperature definite, seppur estremamente basse. Inoltre gli scienziati vogliono capire come si comporta il condensato di Bose-Einstein quando interagisce con il fascio laser tramite l’effetto Unruh. «Sono tutte questioni appassionanti, che affronteremo nei prossimi anni», afferma Erne. «Il nostro obiettivo è impegnativo, ma non inverosimile». Unruh non vede l’ora di ottenere i primi risultati: «La prima domanda a cui bisogna rispondere è se l’effetto esista davvero, anche se partiamo dal presupposto che non usi alcun aspetto nuovo della teoria quantistica dei campi. Inoltre scopriremo se le congetture che abbiamo usato per l’esperimento su modello analogo si dimostreranno corrette».

E S

Emissione stimolata. Se una particella eccitata è colpita da un fotone carico della giusta quantità di energia, allora la stessa particella può tornare allo stato fondamentale ed emettere un fotone identico.


C’è anche un secondo esperimento ai blocchi di partenza. Si basa su un approccio leggermente diverso, presentato da Kempf, Šoda e Sudhir nel lavoro pubblicato nel 2022, e prevede l’uso di un campo laser per intensificare le fluttuazioni quantistiche. L’idea di base non è nuova, bensì si ricollega al fenomeno dell’emissione stimolata (vedi sopra) scoperto da Einstein nel 1916, che costituisce la base dei laser. Un atomo in uno stato eccitato tornerà prima o poi allo stato fondamentale, energeticamente più stabile, emettendo un fotone corrispondente alla differenza di energia. È impossibile prevedere quando avverrà questo processo, noto come emissione spontanea: può volerci qualche millisecondo, ma anche diversi giorni. Se vogliamo usare un laser che emetta numerose particelle luminose con la stessa lunghezza d’onda, questa incertezza è sicuramente un limite, perché è necessario che molti fotoni siano emessi il più rapidamente possibile. Einstein capì che era possibile stimolare il processo: irraggiando un atomo eccitato con fotoni che corrispondano alla differenza di energia, lo si spinge a tornare allo stato fondamentale, emettendo un fotone aggiuntivo rispetto a quello già esistente. Un rivelatore in accelerazione come quello descritto da Unruh può essere rappresentato in un modello come una particella con due stati energetici. Dal punto di vista dell’osservatore stazionario, ronza nello spazio vuoto e si può eccitare spontaneamente, emettendo contemporaneamente un fotone. Da tempo Kempf, assieme al fisico sperimentale Sudhir, cerca di capire come si possa dimostrare sperimentalmente l’effetto Unruh. «Vivishek aveva iniziato da poco a lavorare al Massachusetts Institute of Technology e il suo laboratorio non era ancora allestito», racconta Kempf. «Così ha sfruttato quel periodo trasformandosi temporaneamente in un fisico teorico per collaborare con me al progetto». La difficoltà è che raramente una particella in accelerazione nel vuoto diventa eccitata. «Si potrebbe pensare che basti accelerare un miliardo di atomi per aumentare la probabilità di ottenere l’effetto Unruh», spiega Sudhir. «Però serve un ambiente sperimentale estremamente controllato. Quando le particelle sono tante si influenzano a vicenda, e quindi diventa impossibile fare misurazioni abbastanza precise».
Di conseguenza i fisici erano alla ricerca di un modo per aumentare la probabilità dell’effetto Unruh su una singola particella, e l’emissione stimolata sembrava adatta: dopotutto, nei sistemi stazionari aumenta la probabilità dell’emissione di un fotone.
Assieme alla dottoranda Šoda, Kempf e Sudhir hanno dimostrato che la probabilità dell’effetto Unruh aumenta effettivamente quando si irraggia il sistema con fotoni. Insomma, invece di accelerare una particella nel vuoto, bisognerebbe cercare di misurare l’effetto Unruh in un forte campo elettromagnetico. I tre fisici sono riusciti a dimostrare che la probabilità aumenta con l’intensità del laser. «I fotoni costano poco. Si possono generare fasci laser con 10esp16 particelle luminose e così si aumenta dello stesso fattore la probabilità che si verifichi il processo». In questo modo la prova sperimentale diventa realizzabile. Tuttavia, come hanno scoperto gli esperti, il campo elettromagnetico non intensifica solo l’effetto Unruh, ma anche altri processi normalissimi, come il fatto che un atomo sia eccitato dall’assorbimento di un fotone. «Di conseguenza non saremmo riusciti affatto a osservare l’effetto Unruh», racconta Kempf. «Ma poi Barbara ha avuto l’ispirazione decisiva». Šoda si era accorta che il tipo di accelerazione influisce fortemente sui vari processi; la dottoranda ha ipotizzato che gli effetti indesiderati si potessero sopprimere scegliendo accuratamente la traiettoria e ha avuto ragione. Per esempio, se prima si accelera una particella in modo costante, poi si attenua un po’ l’accelerazione e infine la si aumenta di nuovo, aumenta solo la probabilità dell’effetto Unruh mentre, stando ai calcoli, gli altri effetti praticamente non si verificano più. Una forza enormemente più piccola della forza più debole mai misurata «Comunque l’esecuzione non sarà facile», afferma Sudhir, che sta già progettando l’esperimento nel suo laboratorio al Massachusetts Institute of Technology. Ed è uno che sa di che cosa parla: è esperto in misurazioni di alta precisione e ha effettuato le misurazioni di movimento più precise mai realizzate finora, tra cui quelle con il rivelatore di onde gravitazionali LIGO.
La sua idea sperimentale consiste nell’imprimere una forte accelerazione a una particella su un’orbita circolare per poi irraggiarla con un laser. Però l’obiettivo non è cercare di misurare i fotoni che vengono emessi per l’effetto Unruh, perché esiste un altro segnale che forse è più facile da rilevare. «Questo è un punto che Unruh non ha mai affrontato nel suo lavoro originale. Quando una particella emette un fotone, registra una sorta di contraccolpo, come quando si spara con un’arma da fuoco». Ed è proprio la forza di questo contraccolpo che Sudhir intende misurare. «Comunque, è circa 10.000 volte più piccola della forza più debole che sia mai stata misurata finora», precisa. «Sarà un esperimento estremamente complesso, che richiederà diverse generazioni di dottorandi prima di vedere la fine. Penso che potremo avere i primi risultati tra una decina d’anni».

di Manon Bischoff


L'effetto Unruh,

Scoperto nel 1976 da William Unruh della University of British Columbia, è la predizione che un osservatore accelerato osserverà una radiazione di corpo nero dove un osservatore inerziale non ne osserverebbe. In altre parole il fondo apparirebbe più caldo da un sistema di riferimento accelerato. Lo stato quantistico visto come stato fondamentale da osservatori in sistemi di riferimento inerziali è visto come un equilibrio termodinamico dall'osservatore uniformemente accelerato. Unruh ha dimostrato che il concetto di vuoto dipende dal percorso dell'osservatore nello spaziotempo. Dal punto di vista di un osservatore accelerato il vuoto dell'osservatore inerziale apparirà come uno stato contenente molte particelle in equilibrio termodinamico, ossia un gas caldo. Sebbene l'effetto Unruh sembri controintuitivo, diventa intuitivo se la parola vuoto è interpretata correttamente, come segue. In termini moderni, il concetto di "vuoto" non è lo stesso di "spazio vuoto", dato che tutto lo spazio è riempito dai campi quantizzati che costituiscono l'universo. Il vuoto è semplicemente lo stato di più bassa energia possibile di questi campi, un concetto molto differente da quello di "spazio vuoto". Gli stati energetici di qualsiasi campo quantizzato sono definiti dalla Hamiltoniana, basata su condizioni locali, inclusa la coordinata tempo. In accordo con la relatività ristretta, due osservatori in moto relativo l'uno rispetto all'altro devono usare differenti coordinate temporali. Se questi osservatori stanno accelerando, potrebbe non esserci un sistema di coordinate condiviso. In questo caso gli osservatori vedranno differenti stati quantistici e quindi differenti vuoti.

 

Eugenio Caruso - 5 settembre 2023



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