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Infanticidio: sindrome e complesso di Medea


Discendi nel cuore dell'ira, svegliati dal torpore, Medea, fa che sgorghino dal fondo del tuo petto i tuoi impulsi di un tempo.
Seneca, Medea

Nella società odierna non è infrequente imbattersi in casi di madri che uccidono i propri figli. Gli psicologi hanno individuato una serie di cause scatenanti questo gesto.
L'infanticidio altruistico. La madre compie l’omicidio per sottrarre il/i figli ai mali del mondo, per salvarlo dalla sofferenza di esistere, per preservarlo da reali o presunte difficiltà. Impulsi irrazionali e convinzioni religiose possono confluire in uno stato depressivo in cui la sofferenza interiore, l’angoscia e il mal di vivere concorrono alla messa in atto di un gesto irreversibile, forse incubato da tempo. Il fattore scatenante della dinamica omicida non è necessariamente di carattere patologico o psicotico, anche se può essere ascritto a una malattia mentale pregressa. Esistono, anche da parte degli studiosi del fenomeno, considerazioni di adattamento sociale: un cedimento nervoso, una malattia fisica, l’abuso di medicinali, l’insonnia cronica, la frustrazione esistenziale possono essere fra i detonatori di questo terribile atto, spesso, privo di segni premonitori.
Figlicidio a elevata componente psicotica Il figlicidio a elevata componente psicotica si verifica quando il genitore uccide in preda a un raptus, ad allucinazioni imperative in forma di comando, sdoppiamento della personalità, turbe sociali, demonizzazione del figlio, depressione post-partum, scompensi ormonali, malinconia psichica, frustrazione individuale.
Figlicidio di un figlio indesiderato In questi casi la madre si ritrae dal bambino perché frutto di una relazione extraconiugale o per immaturità, in quanto ancora adolescente. Si tratta di madri che negano la gravidanza.
Altre non li accettano per motivi economico-sociali, di “onore” personale e familiare. Inoltre il rifiuto materno può aver luogo perché i figli non sono accettati, o al contrario desiderati dai loro mariti o conviventi.

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Medea (1866-1868), opera di Anthony Frederick Augustus Sandys

Non mancano episodi di madri che odiano i figli poiché li ritengono responsabili del loro abbruttimento fisico, o della costrizione di un ruolo frustrante.
Figlicidio per vendetta e gelosia contro il marito o il compagno Questo omicidio anche plurimo dei figli, perpetrato per motivi sentimentali, psicologici, di rado a causa di interesse, viene attribuito alla madre abbandonata o tradita che si vendica del marito o del compagno uccidendone la prole.
Eros e Thanatos, amore e morte si saldano in questo dramma, definito “Complesso di Medea”, che come spesso capita ha per epilogo una strage di innocenti. Oltre al desiderio di vendetta, nella “Sindrome di Medea” agiscono anche sentimenti quali la gelosia e l’invidia.
Nel mondo antico le varie culture che si sono succedute hanno avuto un personale ed esclusivo rapporto per quanto concerne il rapporto tra i genitori e i figli. Lo storico greco Diodoro Siculo narra che gli egiziani ritenevano che i genitori, donando la vita ai figli non commettono alcun delitto se gliela tolgono, o ancora che Greci e Spartani assegnavano il diritto di vita e di morte sui neonati agli anziani della tribù.
Il mondo romano riprese molte consuetudini del mondo greco: Cicerone, Tacito e Seneca, ad esempio, hanno spesso lodato le leggi che ordinavano di uccidere i bambini malformati e solo nel IV sec. d.c. gli imperatori romani ordinarono di allevare e nutrire i propri figli, condannando a pene severe l’infanticidio.
Il mondo greco e romano è accomunato, per quanto riguarda il rapporto tra genitori e figli, dalla figura di Medea, figlia del Sole, sacerdotessa e maga.
Medea, la straniera, preferisce uccidere, piuttosto che sopportare l’idea di essere abbandonata. La rabbia e il desiderio di vendetta nei confronti di Giasone coinvolge i figli che decide di uccidere.
“E’ fatale che muoiano, e se debbono morire, sarò io che darò loro la morte, io stessa, che li ho partoriti” (Euripide).
La figura di Medea, come di altre donne della tragedia greca, è stata portata nel mondo romano da Seneca, attraverso la tragedia. La Medea di Seneca fu rappresentata tra il 61 e il 62 d. C. La tragedia presenta l'innovazione tecnica dell'uccisione dei figli da parte della protagonista sulla scena e davanti agli occhi degli spettatori, contrariamente a quanto si usava nel dramma antico, in cui i fatti luttuosi, anziché essere rappresentati, venivano narrati da un nunzio. Già nel prologo la figura della protagonista è delineata, non molto come una donna tradita, abbandonata dallo sposo, quanto come una maga dal carattere demoniaco, desiderosa di una tremenda vendetta. È questa una differenza tra la Medea di Seneca e quella di Euripide. Quest'ultimo infatti la descrive come una donna disperata nel suo dolore. Ma diverso è anche l'atteggiamento di Giasone, il marito. Infatti mentre in Euripide Giasone è convinto delle sue azioni e disprezza Medea supplice, in Seneca invece, l'eroe è in preda all'angoscia e si dichiara costretto a prendere tale decisione, per amore dei figli.

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Medea, un dipinto di Henri Klagmann (Nancy, Musée des Beaux-Arts)

Giasone ripudia Medea, che per amor suo aveva tradito il padre e la patria e ucciso il fratello e che a lui aveva dato due figli; ripudiando Medea, Giasone può sposare Creusa, figlia di Creonte re di Corinto. Folle di rabbia e di gelosia, Medea ricorre alle sue arti magiche e provoca la morte di Creonte e della figlia. Poi, per punire Giasone nel modo più efferato, uccide i figli, prima di scomparire in cielo, su un cocchio trainato da draghi alati.
La Medea di Seneca non poteva prescindere dal modello euripideo, ma doveva fare i conti anche con la Medea di Ovidio. Purtroppo la perdita totale dell’unica tragedia ovidiana ci impedisce di valutare la portata del suo influsso su quella di Seneca.
In ogni caso, dalla Medea di Euripide quella di Seneca prende nettamente le distanze. Euripide aveva esaltato l’humanitas di Medea, la sua dignità di madre e di moglie tradita, il suo ruolo di vittima, prima, di carnefice, poi: per Seneca, invece, Medea è la maga tessala, che la natura demoniaca ha posto in stretto contatto con gli spiriti del male. Sin dall’inizio del dramma, di Medea balza in primo piano il furore, che la rende implacabile nel suo desiderio di vendetta, perseguito con lucida follia.
Parimenti stravolto risulta il personaggio di Giasone, che in Euripide contrapponeva alla disperata umanità di Medea l’arroganza e il disprezzo dell’uomo convinto di aver preso la decisione giusta e rinfacciava all’eroina tragica i vantaggi da lei ottenuti grazie all’aiuto offerto nella conquista del vello d’oro. Di fronte al mutevole atteggiamento dei protagonisti, anche il coro finisce per assumere posizioni antitetiche: quello euripideo biasima Giasone per il tradimento, che non può considerare come un atto improntato a giustizia; quello di Seneca si schiera contro Medea, le rinfaccia la sua condizione di donna straniera, ne condivide la condanna all’esilio, che, solo, potrà allontanarla da Giasone.
Io dalla lettura dei due splendidi capolavori della letteratura mondiale sono più vicino alla Medea di Euripide, perchè più donna, più umana; la Medea di Seneca nasce dalla cultura stoica e appare più come un demone furioso guidato da spiriti del male, anche se, la cronaca di infanticidi porta l'analisi ad optare più per questo secondo caso.

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Giasone e Medea (1907), opera di John William Waterhouse

La Medea di Euripide
Sono passati dieci anni, Creonte, re della città di Corinto, vuole dare la sua giovane figlia Glauce in sposa a Giasone, offrendo così a quest'ultimo la possibilità di successione al trono. Giasone accetta e cerca inutilmente di far accettare la cosa a Medea, che triste si dispera per l'abbandono e il nuovo esilio, imposto da Creonte, timoroso di sue vendette. Medea manda a chiamare Giasone, gli ricorda il loro passato e le volte che gli era venuta in aiuto, ma di fronte all'ingratitudine e all'indifferenza di Giasone, si adira e medita una tremenda vendetta. Fingendosi rassegnata, fa credere di volersi rappacificare con la nuova famiglia del marito per il bene dei figli e manda come dono nuziale una veste finissima e una corona d'oro alla giovane Glauce, la quale, non sapendo che i doni sono intrisi di un potente veleno, li indossa, per poi morire fra fiamme e dolori strazianti. Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello, e muore atrocemente. Ma la vendetta di Medea non finisce qui. Secondo Euripide, per assicurarsi che Giasone soffra e non abbia discendenza, dopo un'angosciosa incertezza vince la sua natura di madre e uccide i loro piccoli figli (Mermero e Fere) avuti da lui. Secondo Diodoro Siculo i figli che Medea aveva avuto da Giasone erano però tre: i due gemelli Tessalo e Alcimene e Tisandro. Fuggita ad Atene, a bordo del carro del Sole trainato da draghi alati, Medea sposa il re Egeo, dal quale ha un figlio, Medo; Egeo aveva precedentemente concepito con Etra un figlio, Teseo. Medea vuole lasciare il trono di Atene a Medo, ma Teseo giunge in città. Egeo ignora che Teseo sia suo figlio, e Medea, che vede ostacolati i suoi piani per Medo, suggerisce al marito di uccidere il nuovo venuto durante un banchetto. Ma all'ultimo istante Egeo riconosce Teseo come suo figlio e Medea è costretta a fuggire di nuovo. Torna nella Colchide, dove si ricongiunge e si riappacifica con il padre Eete.

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Sarcofago che raffigura il mito di Medea secondo Euripide (Museo archeologico nazionale delle Marche)


La Medea di Ovidio
Ovidio tratta del mito di Medea in tre distinte opere: le Heroides, le Metamorfosi e la tragedia Medea, andata perduta. Nel primo testo è la donna a parlare cercando di commuovere il marito, ma il racconto si interrompe prima del compimento della tragedia e il suo completamento è possibile al lettore solo attraverso la memoria letteraria. La Medea delle Metamorfosi è ben diversa: essa oscilla tra ratio e furor, mens e cupido, riprendendo, almeno in parte, la giovane tormentata dai rimorsi di Apollonio Rodio, divisa tra il padre e Giasone. Medea si dilania tra incertezza, paura, commozione e compassione. La metamorfosi avviene in modo repentino ed è possibile rintracciarla attraverso il confronto tra la scena dell'incontro con Giasone nel bosco sacro e il ringiovanimento del padre dell'amato: se nel primo caso appare come un medico antico, nel secondo utilizza esplicitamente la parola "arte" (vv.171-179) mostrandosi come una vera strega. Anche Ovidio riprende la scena del carro, presente già in Euripide e successivamente in Seneca, ma se in questi due casi l'episodio è inserito alla fine del racconto, Ovidio lo colloca a metà della narrazione: in tal modo Medea perde le sue qualità umane e il mondo reale cede il posto a quello fantastico. All'inizio della Metamorfosi, Medea è la protagonista assoluta, ma pian piano cessa di essere un'eroina in cui il lettore può identificarsi e diviene un personaggio che appare e scompare come per magia. Il pathos del finale non è sfruttato al massimo: Medea è divenuta una vera strega e quindi non soffre dell'infanticidio commesso né potrebbe soffrire di un'ipotetica punizione.
La Medea di Draconzio
Nella parte introduttiva Draconzio afferma di voler fondere tutti i motivi tipici del mito di Medea; lo fa invocando la Musa Melpomene e la Musa Calliope. Medea e Giasone appaiono tutti mossi dal destino e dalla volontà degli dei, legati come sono agli scontri tra Venere e Diana. Infatti la dea della caccia, sentendosi tradita per il matrimonio della sua sacerdotessa, scaglia una maledizione contro di lei. Maledizione che, alla fine, darà luogo alla morte del marito e dei figli. All'inizio Medea è descritta come una "virgo cruenta", ma viene definita maga solo al verso 343. Caratteristica di questo racconto è che è la donna a rubare il vello d'oro donandolo poi a Giasone, che appare per tutta la narrazione una figura passiva. Anche quando entra in scena Glauce l'eroe è semplice oggetto del desiderio, che la giovane otterrà anche a costo di rompere il legame matrimoniale che lo vincola. Entrambe le donne trasgrediscono così le norme morali: da un lato Medea tradisce la dea Diana, dall'altro Glauce porta al tradimento Giasone. Durante le nozze l'attenzione si concentra sulla coppia mentre Medea prepara la vendetta: sarà lei a donare a Glauce la corona da cui prenderà fuoco l'intero palazzo. Ma il punto culminante della tragedia è il sacrificio che Medea offre a Diana: i suoi figli, sicché l'infanticidio non è più condotto per vendetta, ma come richiesta di perdono. Nella scena finale l'autore riprende l'episodio del carro, ma questa volta il volo della donna ha valore semantico e non narrativo: Medea si riunisce a Diana e ritorna la "virgo cruenta" dell'inizio della narrazione, lasciando a terra tutto ciò che era ancora legato a Giasone.


Sonia Ruggieri

Psicologa ad indirizzo clinico, psicoterapeuta sistemico relazionale e terapeuta EMDR, specialista in Psicologia giuridica e forense, professionista della Rete di Psicologia in Tribunale.

Nessuno stato è cosi simile alla pazzia da un lato e al divino dall’altro quanto l’essere incinta. La madre è raddoppiata, poi divisa a metà e mai più sarà intera (Erica Jong)

Nell’ambito degli atti criminosi commessi dal genere femminile, il figlicidio, nella rilevanza perturbante che assume per l’immaginario collettivo, si configura come un fenomeno incomprensibile e difficilmente mentalizzabile. 

Un recente e particolarmente drammatico fatto di cronaca, ossia l’arresto di una giovane madre, accusata di duplice infanticidio, tramite soffocamento, dei due figli di 2 e 4 mesi, atto reiterato  in un breve arco di tempo, poco più di un anno, la quale avrebbe agito nella piena capacità di intendere e di volere, appare particolarmente rappresentativo di un fenomeno che, pur nella sua apparente incomprensibilità, è nei fatti trasversale e antico, descritto da Rascovsky (1974) nella sua esaustiva monografia sul tema, come una caratteristica della specie umana che si ritrova in tutti i gruppi sociali e in tutte le culture, primitive e attuali.

Nella più ampia categoria delle donne omicide, il focus sul sottogruppo delle donne che agiscono l’atto criminoso nei confronti dei propri figli, è stato posto per  la prima volta da Resnick (1969), che nella sua ampia revisione della letteratura pubblicata in merito tra il 1751 e il 1967, è pervenuto a una classificazione del figlicidio in cinque categorie, in funzione del movente: altruistico, psicotico, del bambino non voluto, accidentale, vendicativo

Mastronardi (2007) ha proposto una tipizzazione criminologica delle madre figlicide in almeno venti categorie, delle quali solo le prime dieci comportano la franca imputabilità.

Sotto il profilo statistico, il fenomeno dell’infanticidio materno appare abbastanza contenuto, in Italia, dal 2006 al 2017, secondo i dati Istat, si sono verificati 34 omicidi di neonati per opera delle loro madri. 

Una specificazione appare però necessaria rispetto i dati statistici ufficiali, i quali non quantificano i numerosi casi di figlicidi interpretati come eventi sfortunati e accidentali, ma che in realtà rappresentano l’esito di un progetto omicidiario più o meno consapevole e strutturato.

Appare inoltre rilevante il dato statistico secondo il quale, se nella maggior parte dei casi l’autore dei figlicidi è il padre, nella fascia 0-5 anni, le madri sono le autrici prevalenti; nello specifico dei neonaticidi, le madri sono le responsabili della quasi totalità dei figlicidi censiti. 

Significativo infine il dato statistico secondo il quale solo in circa un terzo degli infanticidi materni l’atto criminoso appare riconducibile ad un disturbo psichico conclamato della madre, di matrice depressiva o psicotica.

Contrariamente a ciò che intuitivamente sembrerebbe evidente al senso comune, solo un terzo dei casi di figlicidio appare dunque riconducibile nell’ambito della patologia psichiatrica; in termini di criminogenesi e criminodinamica del figlicidio l’esperienza clinica e forense insegnano infatti che non esiste un nesso causale obbligato tra disturbo mentale e comportamento materno omicida.

Tuttavia, nell’immaginario collettivo, il genitore omicida, in particolate la madre omicida, tende ad essere categorizzato come un malato mentale, quale unica spiegazione plausibile dell’efferatezza di un gesto, a maggior ragione se l’omicida è appunto la madre, ritenuto incompatibile ed estraneo alla “normalità” del funzionamento mentale. Lo stigma rassicurante della psicopatologia protegge dall’identificazione con il genitore omicida, con il quale, in quanto malato mentale, il genitore “sano” non può identificarsi.

Le evidenze clinico-forensi ci pongono di fronte alla drammatica realtà che tali incomprensibili condotte umane non necessariamente e solo in una percentuale minore di casi, sono espressione di una patologia psichiatrica maggiore, potendo trovare una loro valida spiegazione scientifica in motivazioni psicodinamiche di diversa natura e complessità.

Il falso mito della maternità quale funzione umana protettiva e amorevole per eccellenza mostra dunque, di fronte all’evidenza statistica dei dati, la sua fragilità, rischiando inoltre di interferire con la comprensione di un fenomeno che si allarga ben oltre i confini dell’eventuale psicopatologia materna e della diade madre figlicida-figlio vittima, includendo la famiglia nucleare, quella allargata e l’intero contesto sociale e culturale di riferimento della donna. L’assenza di una rete familiare e sociale in grado di supportare la madre che vive una fase di fragilità, l’incapacità di quest’ultima di comunicare il proprio disagio e in particolare una storia familiare connotata da esperienze sfavorevoli infantili, rappresentano significativi fattori di rischio rispetto la condotta figlicida.

La tematica della solitudine compare di frequente nel racconto delle madri che uccidono i propri figli, nel senso del sentirsi sole, non capite, non sufficientemente supportate dagli altri significativi, da cui non si sentono accudite. Il tema della solitudine rinvia alla necessità di ampliare il focus di osservazione, oltre la diade madre-bambino, fino ad includere l’intero contesto di riferimento familiare, relazionale e socio sanitario della donna. L’esperienza della maternità rappresenta un compito evolutivo intriso di significati simbolici sia per la madre, sia per il suo entourage, un punto di svolta irreversibile nel ciclo vitale di una donna, tale da configurarsi come crisi trasformativa che rischia di trasformarsi in passaggio evolutivo critico, destabilizzante il senso della propria identità e tale da slatentizzare un’estrema vulnerabilità.

Significativo in tal senso, che il nostro stesso ordinamento penale preveda per il reato di infanticidio a opera della madre un trattamento penale “particolare”, in quanto considerato una fattispecie criminosa in cui la colpevolezza della madre è considerata in maniera attenuata, attribuendo alla condotta criminosa classificabile come infanticida il limite temporale relativo a quello stato di turbamento emotivo successivo al parto.

Il nostro ordinamento penale, in effetti, non contempla il reato di figlicidio, ma distingue due condotte criminose: l’infanticidio (art. 578 c.p) e l’omicidio commesso con l’aggravante della genitorialità (art. 577 c.p.). L’infanticidio si riferisce all’uccisione del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morali connessi al parto; si applica solo alla madre e prevede una pena da quattro a dodici anni di reclusione. Il figlicidio fa rifermento all’uccisione del proprio figlio, includendo anche quello commesso dal padre, in tutti i casi di età  del bambino successiva all’immediatezza della nascita e prevede la pena dell’ergastolo.

La criminologia introduce un’ulteriore distinzione, in funzione dell’età del figlio vittima, definendo neonaticidio l’omicidio commesso entro 24 ore dalla nascita, infanticidio quello commesso dal primo giorno di vita al compimento del primo anno, figlicidio infine dal primo anno di vita in poi.

Volendo tracciare un profilo della madre figlicida, quale emerge dalla letteratura specialistica, l’età media varia dai 25 ai 30 anni; il quoziente intellettivo è tendenzialmente basso, anche a causa del più basso livello di istruzione; la maggioranza è coniugata o con una relazione in corso al momento del figlicidio, ma con un partner descritto come inadeguato e dipendente, vissuto in modo molto ambivalente, e con un’elevata conflittualità di coppia, di frequente connotata anche da violenza domestica; la condizione socio-economica è precaria e difficile. Nell’anamnesi personale e  familiare risultano prevalenti esperienze di abuso e maltrattamento nell’infanzia; familiarità per disturbi psichiatrici; violenza domestica al momento del figlicidio. 

Bramante (2004) in uno studio condotto su 80 perizie effettuate dal 1967 al 2003 sull’intero territorio nazionale, ha rilevato come nel 35% dei casi di figlicidio le madri nel periodo precedente al delitto avessero subito ospedalizzazioni o ricevuto cure psichiatriche per tentato suicidio o tentato omicidio del figlio.

Il primo anno di vita del bambino, rappresenta dunque, secondo la letteratura specialistica, la fase di maggior rischio per l’agito omicidiario materno, diventa pertanto necessario focalizzarsi, a fini preventivi, sui fattori di rischio connessi ai disturbi puerperali, il cui sviluppo e decorso è risultata essere  influenzata  da fattori di rischio altamente predittivi quali: il livello di accudimento ricevuto dai genitori durante l’infanzia; la presenza e gravità di pregressi disturbi depressivi nella madre e la qualità del supporto sociale disponibile.

Una visione realistica della maternità presuppone dunque di considerare la gravidanza e il post partum come un momento critico, che richiede una riorganizzazione identitaria, che integri nell’assetto identitario pregresso quella materna. Diventare madri richiede lo specifico lavoro della maternità, (Benvenuti et al, 1981) ossia l’attuazione di una serie di compiti psicologici, relazionali e pratici, rispetto la cui efficace realizzazione un contesto familiare e sociale supportivo e capace di un ascolto attivo rappresenta un importante fattore protettivo per la diade madre-bambino, garantendo loro l’inserimento in un contesto relazionale idoneo al soddisfacimento dei bisogno intrapsichici e relazionali della madre, rilevanti quanto quelli connessi alla salvaguardia della sua salute fisica.

L’innegabile turbamento emotivo  e ormonale che accompagnano il travaglio e il parto, le eventuali complicanze mediche, la mancanza di un adeguato supporto, anche di natura psicologica, sono fattori che in diverse combinazioni tra loro possono sottendere i vissuti che precedono e caratterizzano questi omicidi, in cui l’elemento di scompenso può essere rintracciato nella comparsa di disturbi depressivi. La depressione vissuta in gravidanza e nel post partum tendono ad essere sottovalutate, in quanto associate alla nuova condizione di maternità, soprattutto nelle primipare, e quindi all’erronea convinzione che un tale cambiamento dello stile di vita giustifichi tali sbalzi emotivi ed umorali.

Per concludere, fornire del figlicidio spiegazioni che lo collochino in un’ottica di “psicologia del comprensibile”, quale espressione di un deficit della funzione e dell’identità materna, pur non escludendo la dimensione strettamente psicopatologica, nei casi in cui essa è effettivamente presente, appare necessario ai fini di una reale comprensione del fenomeno, quale evenienza possibile all’interno di un rapporto che l’immaginario collettivo tende a rappresentarsi come la massima espressione della capacità di amare dell’essere umano. Appare altresì necessario per conoscere, riconoscere e prevenire un fenomeno di tale sconcertante complessità, senza incorrere nel rischio di una semplificazione, nel senso di una trasposizione sic et simpliciter delle motivazioni psicologiche alla base della condotta omicida di un disturbo mentale che rischi di conferire automaticamente significato di infermità al grave reato commesso, che nella prevalenza dei casi è il risultato di alterazioni psichiche transitorie, tali da limitare solo blandamente la capacità di intendere e volere, senza eliminare la conseguente responsabilità penale.

Il figlicidio materno va dunque concettualizzato come un fenomeno multidimensionale e multifattoriale, non necessariamente riconducibile a una conclamata psicopatologia materna, ipotesi con funzione certamente più rassicurante per l’immaginario collettivo.

I disturbi più frequentemente diagnosticati alle madri figlicide sono i disturbi psicotici, dell’umore, di personalità, dell’adattamento, oltre all’abuso o dipendenza da sostanze.

Secondo Fornari (2009), nei casi meno gravi sotto il profilo psicopatologico e nei casi nei quali una psicopatologia in senso stretto è assente, la dinamica motivazionale che più frequentemente sottende alla condotta figlicida è da ricercarsi in un vissuto di inadeguatezza o conflittuale rispetto la maternità, legato ad un vissuto di deprivazione affettiva rispetto la propria madre, che ha determinato nella figlia un importante deficit di identificazione con la figura materna, che si traduce in un sentimento inadeguato della maternità, il quale può rappresentare un fattore di vulnerabilità che può slantentizzarsi in risposta a life events di natura stressante. L’esperienza clinico-forense individua inoltre tra le determinanti del figlicido il vissuto di incapacità di far fronte ai compiti materni, vissuto che non necessariamente coincide con un’incapacità oggettiva, ma che produce nella madre confusione, abbassandone l’autostima, amplificandone i timori, il senso di inadeguatezza, di inettitudine e l’ambivalenza nei confronti del figlio. La madre “immatura” non riesce ad integrare l’inevitabile ambivalenza verso il figlio, le contraddizioni della stessa affettività materna, che ha insite in sé amore e odio, e ad accettare le parti più cattive di sé. Non avendo sperimentato da bambine un accudimento sufficientemente buono queste madri anche da adulte tendono a farsi accudire dai “grandi” e faticano a prendersi cura del figlio quando diventa fonte di frustrazione, quando diventa difficile da gestire, in sintesi faticano a reggere emotivamente il richiamo concreto alle responsabilità di madre accudente.

Secondo Fornari (2009) anche il comportamento post delitto delle madri figlicide è connotato di caso in caso da dinamiche psicologiche peculiari e differenti, la cui tempestiva comprensione appare rilevante ai fini sia dell’accertamento delle verità in sede giudiziaria, sia dell’intervento terapeutico, stante l’elevato rischio suicidario nell’immediato e di reiterazione del delitto nel futuro, in assenza di un’adeguata riabilitazione. 

Il comportamento post delitto appare differente anche in merito all’ammissione della responsabilità dell’atto: alcune madri rendono una confessione esaustiva e veritiera immediatamente dopo il delitto, altre continuano a negare anche a distanza di tempo. Nel caso delle donne che continuano a sostenere la loro estraneità con il reato, particolare attenzione va posta al fenomeno della simulazione inconscia, che fa si che al termine di un lungo processo di autoconvicimento la madre si persuada di dire il vero, trasformando la bugia iniziale consapevole in una verità anche per se stessa, mutando per difesa psicologica e inconsciamente, la propria immagine di madre crudele in madre disperata.

Ciascun figlicidio rappresenta dunque una realtà a sé e richiede uno studio accurato e scevro da pregiudizi, anche da parte degli addetti ai lavori, al fine di garantire, anche tramite un’adeguata valutazione clinico-forense del profilo della madre omicida, tanto la giusta pena, quanto l’appropriato intervento terapeutico-riabilitativo. 

L’atto criminoso della madre che uccide il proprio figlio é senz’altro disumano, ma la madre non lo è, anzi esprime in maniera drammatica, con un gesto estremo e terribile, la propria richiesta di aiuto.

 


Eugenio Caruso - 04-05-2025

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www.impresaoggi.com