Quando penso alla sintesi penso ad Hegel e al suo ragionamento intorno alla dialettica. Per Hegel la sintesi è infatti il risultato di due fasi contrapposte: la tesi, o proposizione, l’antitesi, o contrapposizione. Da qui la sintesi.
Nella sua visione del mondo Hegel identifica la sintesi come il risultato di una contrapposizione solo apparente, che non determina un conflitto o almeno non lo determina nel senso più tradizionale del termine, come opposizione di parti avverse inconciliabili. Per Hegel invece la tesi e l’antitesi fanno parte di un processo poietico indispensabile per produrre la sintesi, che avviene a un livello superiore. Questo modello filosofico ha influito molto nella mia formazione. Mi ha insegnato, una volta individuata una convinzione, un pensiero, a operare con freddezza alla ricerca di tutte le antitesi possibili (anche alla falsificazione alla Popper), allo scopo di giungere a una sintesi più alta, più avanzata. Il pensiero dialettico per me è essenzialmente questo, ovvero la composizione di tesi opposte che ne producono una nuova, una sintesi, la magica compenetrazione degli opposti, una nuova realtà. La sintesi dunque comincia con il mettere a fuoco un concetto, un’opinione, un bisogno: la tesi. In seguito ne individuiamo le possibili contrapposizioni, gli opposti, che ci aiutino a guardare le cose dal punto di vista specularmente opposto al nostro: le antitesi. Poi proviamo a tenere insieme queste due angolazioni per produrre una terza proposizione, nuova perché inesplorata: la sintesi.

Hegel raffigurato in un ritratto del 1831 di Jakob Schlesinger.
Per rafforzare il cocetto di sintesi mi sono rifatto a due grandi della letteratura Omero e Dante.
Mi sono ricordato infatti che nella lettura dell'Odissea ebbi modo di notare come Omero nelle prime venti righe del suo poema fosse riuscito a esporre una sintesi straordinaria di tutto il poema. Giova notare che sia presso i greci che i romani l'arte oratoria non prevedeva la sintesi, anzi l'analisi.
L'uomo ricco d'astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch'ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patì in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, tanto volesse,
per loro propria follia si perdettero, pazzi!
che mangiarono i bovi del Sole Iperione,
e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Anche a noi dì qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.
Allora tutti gli altri, quanti evitarono l’abisso di morte,
erano a casa, scampati dalla guerra e dal mare;
lui solo, che sospirava il ritorno e la sposa,
la veneranda Calipso, la splendida dea, tratteneva
negli antri profondi, volendo che le fosse marito.
E quando anche l’anno arrivò, nel girare del tempo,
in cui gli filarono i numi che in patria tornasse,
in Itaca, neppure là doveva sfuggire alle prove,
neppure fra i suoi. Tutti gli dèi ne avevan pietà,
ma non Poseidone; questi serbava rancore violento
contro il divino Odisseo, prima che in patria arrivasse.
"Raccontami, o Musa Calliope, le avventure dell’astuto Odisseo, che per molto tempo andò vagando dopo che cadde Troia e vide le terre di molte persone, conobbe le caratteristiche dell’animo umano e viaggiando per mare soffrì molto perché voleva tornare a Itaca con i suoi compagni. Ma non poté fare niente per mantenerli in vita a causa del loro sacrilegio, poiché mangiarono i buoi del dio Sole, che tolse loro la vita impedendo di tornare a casa. O Musa, figlia di Zeus, raccontami queste avventure e iniziando dal punto che preferisci.
Già tutti gli altri greci scampati alla morte erano a casa, lontani dalla guerra e dal mare: solo lui, che desiderava tornare e rivedere la sua donna, era trattenuto nelle grotte profonde dalla ninfa Calipso, splendida fra le dee, che desiderava averlo come sposo. (Odisseo, scampato al vortice di Cariddi, approdò sull'isola Ogigia e Calipso se ne innamorò. Ella lo amò e lo tenne con sé, secondo Omero, per sette anni offrendogli invano l'immortalità, che l'eroe rifiutò. In realtà, la separazione non fu merito di Odisseo, perchè Calipso era stata punita dagli dei per essersi schierata dalla parte del padre Atlante nella Titanomachia. Era stata costretta a rimanere sull'isola di Ogigia, dove le Moire mandavano uomini bellissimi ed eroici di cui non faceva che innamorarsi, ma che poi dovevano partire). E quando, dopo lunghissimi anni, arrivò il tempo del suo ritorno ad Itaca, anche là, fra i suoi cari, in patria, non finirono le sofferenze. Gi dei provavano pietà per lui, e solo Poseidone restò fermo nell'ira contro il divino Odisseo, fino al giorno del suo arrivo in patria."
L'etimologia del nome "Odisseo" è ignota. Lo stesso Omero cerca di spiegarla nel libro XIX connettendola al verbo greco, il cui significato è "essere odiato". Odisseo, quindi, sarebbe "colui che odia" (in questo caso i Proci, che approfittano della sua assenza per regnare su Itaca) oppure "colui che è odiato" (in questo caso da tutti coloro che ostacolano il suo ritorno a Itaca). L'origine del nome, però, non viene dalla Grecia, ma da una regione dell'Asia Minore, la Caria. In questa regione, Odisseo era il nome di un dio marino, il quale, in seguito all'invasione delle popolazioni indoeuropee, è stato assimilato nella figura di Poseidone. Ciò, dunque, fa intuire che l'Odissea trae le sue radici in antichi racconti marinari.
Il nome, in definitiva, può avere il significato di "Colui che odia ed è odiato". Il nome Odisseo presenta tuttavia assonanze interessanti con altri concetti: "odos" che significa "viaggio" e "outheis" che significa "nessuno" (che si collega con il passo in cui Odisseo, per ingannare Polifemo, gli dice di chiamarsi appunto nessuno. Il nome Ulisse (Ulixes in latino, Ulixe in etrusco e Oulixes in siculo), datogli da Livio Andronico nella sua traduzione dell'opera, la prima in assoluto al di fuori dal greco, significa "Irritato" ed è stato scelto dal traduttore perché era abbastanza diffuso nel mondo latino e per l'assonanza con l'originale, a differenza di Odysseus che suonava tipicamente straniero. Altri teorici però ritengono che "Ulisse" sia un soprannome e significhi, al pari dell'etrusco Clausus da cui Claudio, "Zoppo", e sia più antico dell'opera di Andronico, in riferimento ad una ferita alla gamba riportata da Odisseo.
Ritratto immaginario di Omero, copia romana del II secolo d.C. di un'opera greca del II secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli.
Nel rileggermi il capitolo sesto dell'Inferno di Dante mi sono soffermato sulla capacità di sintesi del poeta quando chiede a Ciacco ragguagli sulla situazione di Firenze.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».
Dante pone a Ciacco tre domande riguardanti Firenze: Dante vuol sapere quale sarà l'esito delle lotte politiche, se vi sono cittadini giusti, quali sono le ragioni delle discordie intestine.
Ciacco risponde alla prima domanda, affermando che dopo una lunga contesa i due partiti (Guelfi Bianchi e Neri) verranno allo scontro fisico (la cosiddetta zuffa di Calendimaggio del 1300) e i Bianchi, sotto la guida della famiglia dei Cerchi, cacceranno i Neri con grave danno. Prima che passino tre anni, però, i Neri avranno il sopravvento grazie all'aiuto di un personaggio che si tiene in bilico tra i due partiti (Bonifacio VIII). I Neri conserveranno il potere per lungo tempo, infliggendo gravi pene alla parte avversa (condanne ed esili).
La risposta alla seconda domanda è che i giusti a Firenze sono solo in due, ma nessuno li ascolta.
Alla terza domanda Ciacco risponde che superbia, invidia ed avarizia sono le tre scintille che hanno i cuori acceso.
Il nome di Ciacco lascia spazio a numerose interpretazioni, come ad esempio quella di Francesco da Buti, uno dei più antichi commentatori della Commedia, che suggerisce una natura dispregiativa di questo nome: "Ciacco dicono alquanti che è nome di porco, onde costui era così chiamato per la golosità sua". In realtà l'uso della parola Ciacco come sinonimo di porco non è documentata prima del testo dantesco. Dalle parole di Dante sappiamo solo che egli era ancora in vita quando Dante era nato, per cui si può presumere che sia un personaggio della generazione precedente a quella del poeta.
Giova notare che quando Dante incontra, virtualmente, Omero non si dilunga in vuote parole ma è fulminante nella sua ammirazione.
Lo buon maestro cominciò a dire:
"Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano...
.
......
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.

Dipinto di Botticelli
Eugenio Casruso 23 maggio 2025