I perchè dell'attuale crisi finanziaria. Il futuro si presenta cupo.

Dopo oltre un anno vissuto nella più impegnativa crisi finanziaria dei nostri tempi, ci troviamo oggi a dover fronteggiare una complessa e intrecciata combinazione di inflazione crescente, calo della crescita, restrizioni delle condizioni del credito, diffuse tensioni di liquidità che pervadono l’industria mondiale dei servizi finanziari.
Le autorità stanno utilizzando una gamma di strumenti a loro disposizione per affrontare tali sfide. Ma la crisi ha mostrato, insieme con la mancanza di autodisciplina del settore privato e con debolezze nel contesto regolamentare, alcune nuove interrelazioni che richiedono un’azione simultanea su tutti questi fronti. E questo complica ulteriormente il compito
Tuttavia, mentre vengono elaborate le risposte a queste sfide, abbiamo anche bisogno di fare un passo indietro ed esaminare come siamo giunti alla situazione attuale.
In linea generale, sta ormai diventando evidente che la trasformazione subita negli ultimi anni dall’industria dei servizi finanziari non è stata valutata appieno, come meritava, nelle sue implicazioni per l’attività di politica monetaria e di regolamentazione. Come è stato detto giustamente da altri studiosi, questa è stata la prima crisi dell’era delle cartolarizzazioni. Per un lungo periodo di tempo, bassi tassi di interesse e bassa volatilità hanno gonfiato i bilanci e la leva finanziaria, sia delle istituzioni finanziarie regolamentate, sia di quelle non regolamentate. Ma non tutte, ovviamente, sono state in grado di reggere l’improvviso cambiamento delle condizioni finanziarie, amplificato dalla leva finanziaria che avevano accumulato.
Gli operatori non hanno saputo gestire, misurare e rendere noti al pubblico i rischi in maniera adeguata (come sempre accade, poi, ignoranza, ingordigia o arroganza hanno fatto la loro parte). Ma sono proprio quelli i campi in cui, col senno di poi, le autorità di regolamentazione sarebbero dovute intervenire, rispondendo alle esternalità negative inflitte all’intero sistema finanziario da intermediari deboli, da problemi di agenzia che inducevano istituzioni finanziarie e investitori a un’eccessiva assunzione di rischi, da problemi di azione collettiva in aree quali quella degli investimenti.
In termini ancora più generali, quello che colpisce, se si passa in rassegna la nostra esperienza degli ultimi due o tre decenni, è la tendenza reiterata  del sistema finanziario ad accumulare rischi e leva finanziaria per una serie di anni, per poi di colpo invertire la rotta e liberarsi dei rischi in maniera repentina e indiscriminata. Benché le attività finanziarie e i protagonisti coinvolti differiscano tra un ciclo e l’altro, così come i meccanismi scatenanti, i cicli finanziari hanno mostrato la tendenza comune a produrre distorsioni e perdite notevoli nell’economia reale, sia nelle fasi di espansione, sia nelle successive fasi di restrizione. E ciò è avvenuto in maniera tanto più rilevante quanto maggiore era il grado di leva del sistema finanziario. Anche se non possiamo - né vorremmo - eliminare gli eccessi di ottimismo e di pessimismo che fanno parte della natura umana, dobbiamo affrontare alcune delle conseguenze pro-cicliche delle nostre stesse politiche.
 Il convincimento del FSF (Financial Stability Forum), chiamato un anno fa dal G7 a stilare il primo rapporto in risposta alla crisi, è che - anche a causa di un insieme di incentivi perversi - la leva finanziaria abbia raggiunto un livello rivelatosi eccessivo in termini sia di capacità di gestione del rischio da parte di molte istituzioni, sia di capacità di apprezzamento della sua reale entità.
Questi, di conseguenza, sono divenuti i capisaldi del nostro programma di lavoro: migliorare gli incentivi nel sistema, in modo tale che i rischi siano adeguatamente gestiti e le strutture di controllo del rischio tengano il passo con l’innovazione finanziaria; rafforzare la solidità del sistema agli shock, qualunque sia la loro provenienza; introdurre schemi per limitare la ciclicità dell’assunzione di rischio.
Il nostro scopo deve essere quello di realizzare un sistema che sia più immune dagli incentivi perversi che abbiamo visto in azione, nel quale la leva finanziaria sia minore, e dove le fonti della leva finanziaria e i rischi associati siano individuati e affrontati in maniera più efficace. I mutamenti regolamentari e di vigilanza devono andare di pari passo con l’accresciuta trasparenza delle esposizioni e delle valutazioni di rischio dell’intero sistema.
Permettetemi di iniziare dalle azioni per migliorare gli incentivi. Nel contesto del FSF, e in uno sforzo di collaborazione tra autorità di regolamentazione e di vigilanza nazionali e internazionali, abbiamo sollecitato la tempestiva attuazione di Basilea II, che allineerà più strettamente i requisiti patrimoniali ai rischi delle banche. Abbiamo anche raccomandato di rafforzare i criteri di Basilea II per quanto concerne l’entità dei requisiti patrimoniali per i rischi di credito nei portafogli di negoziazione, per le attività ri-cartolarizzate e per le linee di liquidità a supporto di società veicolo fuori bilancio. Abbiamo incoraggiato il Comitato di Basilea a rafforzare procedure e riserve (buffers) per la gestione della liquidità. Un ventaglio di misure è stato proposto per disciplinare i comportamenti delle agenzie di rating e per ridurre l’affidamento delle autorità di regolamentazione sui rating, affinché gli investitori si impegnino con la dovuta diligenza in una effettiva valutazione del rischio invece di fare esclusivo assegnamento sui rating.
Abbiamo inoltre stilato varie raccomandazioni per migliorare le prassi in materia di trasparenza e di valutazione. Sono state delineate le prassi più importanti in materia di informativa esterna delle società finanziarie; le istituzioni finanziarie sono state sollecitate a utilizzarle nelle loro comunicazioni al mercato a partire dalla metà del 2008. L’International Accounting Standards Board, in seguito a una proposta del FSF, ha avviato il processo per lo sviluppo di nuove linee guida sulla valutazione degli strumenti illiquidi e sulla relativa diffusione di informazioni. Abbiamo anche richiamato le autorità che hanno il compito di definire gli standard contabili affinché operino una revisione degli standard per la cancellazione contabile delle attività finanziarie (asset derecognition) e per il consolidamento dei veicoli di investimento fuori bilancio. Abbiamo infine raccomandato che le autorità di regolamentazione del mercato mobiliare affrontino la questione degli incentivi nelle varie fasi del processo di cartolarizzazione e si impegnino ad aumentare le informazioni per gli investitori sui prodotti delle cartolarizzazioni e sulle attività sottostanti. Tali misure dovrebbero migliorare la capacità degli investitori e degli altri soggetti di ricostruire i rischi assunti dalle istituzioni finanziarie, accrescendo in tal modo l’efficacia della disciplina di mercato.
Il nostro compito principale, come autorità, sarà quello di proseguire nell’impegno per la piena attuazione di queste e altre riforme, in particolare alla luce delle sfide a breve termine cui siamo esposti. I cambiamenti regolamentari dovranno essere introdotti gradualmente, in modo da evitare che gli aggiustamenti che essi comportano vadano ad aggravare quelli che il sistema già si trova a dover fronteggiare. Nessun allungamento dei tempi dovrebbe invece esservi per il rafforzamento della trasparenza informativa, compresa quella concernente le posizioni fuori bilancio, poiché esso è fondamentale per il ripristino della fiducia del mercato.
Anche se riusciremo effettivamente a porre rimedio a quei problemi di configurazione degli incentivi che hanno contribuito a generare eccessi, il nostro sistema finanziario non sarà risparmiato in futuro da insuccessi nella gestione dei rischi, da shock e da dissesti. Ciò richiede un rafforzamento della solidità del sistema, in termini sia di una migliore infrastruttura finanziaria, sia di maggiori capacità di assorbimento degli shock da parte delle istituzioni finanziarie.
A livello infrastrutturale, un sistema è solido quando è capace di sostenere gli effetti del fallimento di una grande istituzione finanziaria. Riducendo la centralità di ciascuna singola istituzione per la stabilità del sistema, una infrastruttura più robusta contribuirebbe anche a ridurre i problemi di moral hazard. È assolutamente prioritario in quest’area affrontare i punti di debolezza dell’infrastruttura operativa dei mercati dei derivati over-the-counter, e il lavoro che in questo campo ha intrapreso la Federal Reserve Bank di New York dovrebbe riscuotere ovunque l’approvazione e il sostegno delle autorità competenti.
È indispensabile anche rafforzare gli schemi per la risoluzione di crisi nazionali e cross-border in modo da permettere che istituzioni finanziarie indebolite, comprese quelle più grandi, possano essere lasciate fallire senza mettere a repentaglio il resto del sistema. Oltre a iniziative di riforma a livello nazionale da parte di alcuni paesi, attività sono in corso nell’ambito del FSF e del Comitato di Basilea per rafforzare la cooperazione cross-border tra autorità e la predisposizione di piani di emergenza per fronteggiare situazioni di crisi.
A livello di singola istituzione, migliorare la solidità significa garantire che le riserve patrimoniali e di liquidità abbiano dimensioni tali da permettere di resistere agli shock esterni, senza rendere obbligatori livelli di riserve che ostacolino l’efficienza e incoraggino arbitraggi regolamentari. La questione è complessa, poiché l’entità effettiva e quella appropriata delle riserve variano nel tempo in funzione del contesto di mercato e del contesto sistemico. Per quanto riguarda le riserve patrimoniali, non è ancora chiaro come, nel quadro di Basilea II, i livelli patrimoniali previsti dalle norme, quelli desiderati e quelli effettivi si muoveranno nel corso di un intero ciclo di mercato, ma esiste ora uno schema che permette di seguirne e valutarne l’evoluzione.
I requisiti minimi regolamentari sono solo uno dei fattori che determinano le decisioni delle imprese in materia di dotazioni patrimoniali. Il sistema bancario ha compiuto sforzi significativi per raccogliere nuovi capitali per soddisfare le esigenze previste relativamente ai livelli minimi, così come per rispondere alla necessità di rassicurare i mercati. Le banche vedono chiaramente un beneficio nel mantenere livelli di capitalizzazione significativamente superiori ai minimi regolamentari, e i mercati (comprese le agenzie di rating) premiano il mantenimento di livelli patrimoniali robusti.
Una delle ragioni per le quali le banche mantengono questo margine è la sottostante incertezza sulle esposizioni al rischio, sulle valutazioni e sulle prospettive di profitto. Quando, come nella situazione attuale, tale incertezza aumenta, anche i margini richiesti dal mercato si accrescono. Fino a un certo punto, ciò è inevitabile. Ma per ridurre il rischio che la reazione del mercato induca le banche a innalzare i livelli di capitale (o a ridurre le esposizioni) in misura potenzialmente inefficiente durante una crisi sistemica, abbiamo bisogno ex ante di un quadro più robusto di quello attuale per la trasparenza delle esposizioni creditizie, così come per quanto concerne accantonamenti, margini e riserve per fronteggiare le incertezze di valutazione.
La dimensione adeguata delle riserve di liquidità è ancora più difficile da disciplinare o da prevedere rispetto a quella delle riserve patrimoniali, data la natura imprevedibile degli shock che possono colpire la liquidità del mercato e delle fonti di finanziamento, e la comprensibile riluttanza delle autorità monetarie a fornire certezza assoluta sui modi e sui tempi per l’erogazione della liquidità nei casi di emergenza. Come per il patrimonio, tuttavia, una più ampia trasparenza ex ante sui metodi di gestione del rischio di liquidità delle banche, sulle riserve e sugli accordi a sostegno della liquidità dovrebbe contribuire a rassicurare gli investitori e le controparti, riducendo il rischio di improvvisi drenaggi di liquidità e l’incertezza che, nel corso dell’anno passato, ha condotto ad ampi e volatili premi di liquidità nei mercati di finanziamento interbancario.
Nel considerare le modalità con cui rafforzare le riserve di liquidità, più attenzione deve essere prestata a come favorire la formazione di riserve superiori ai minimi regolamentari nei momenti favorevoli, riconoscendo, al contempo, una maggiore flessibilità al sistema per utilizzare tali riserve quando sono largamente al di sopra di tali minimi. Sia le banche stesse, sia le loro controparti dovrebbero sentirsi più sicure circa la capacità delle banche di attingere a tali riserve in tempi difficili. Le banche saranno disponibili a farlo solo a patto che non temano di essere penalizzate dal mercato (considerazione che ci riporta all’importanza dei miglioramenti in materia di trasparenza). Se le banche sono in condizione di assicurare in maniera credibile mercati e autorità di regolamentazione che i rischi nelle valutazioni dei loro attivi e nelle prospettive di profitto sono ben gestiti e controllati, allora esse possono essere in grado di superare - durante le fasi cicliche recessive - una temporanea diminuzione dei livelli di capitale, finché essi rimangono al di sopra dei minimi regolamentari.
Le autorità sorveglieranno attentamente le condizioni dell’attività bancaria raccogliendo le informazioni necessarie a decidere quale sarà il momento migliore per introdurre più stringenti requisiti patrimoniali. Non graveremo indebitamente sulle istituzioni finanziarie durante la fase di aggiustamento, ma non perderemo nemmeno l’opportunità della successiva fase di calma dei mercati per rafforzare la struttura del sistema finanziario. Scandire nel tempo le riforme regolamentari, attenendosi poi strettamente a esse, contribuirà a ridurre la possibilità che la potenziale ciclicità del sistema sia accentuata dai requisiti patrimoniali.
Non vi è certo carenza di idee su come modificare i requisiti patrimoniali per attutirne la potenziale pro-ciclicità. Alcuni hanno sostenuto che un sistema che adegua i minimi regolamentari al ciclo potrebbe contribuire a rafforzare il messaggio che le riserve devono essere costituite nei periodi favorevoli e che vanno utilizzate quando arrivano le avversità. In una certa misura, questo è già possibile nell’ambito del secondo pilastro di Basilea II. Una difformità eccessiva nell’attuazione a livello nazionale del secondo pilastro finirebbe tuttavia per creare problemi di trasparenza e di coerenza negli accordi regolamentari internazionali; ad essa andrebbero pertanto posti vincoli. Per essere credibile, un sistema discrezionale dovrebbe avere una portata limitata, essere pienamente trasparente e avere una generale coerenza tra paesi; eventuali riduzioni ad hoc e non coordinate dei requisiti minimi potrebbero apparire come forme di acquiescenza e fornire un segnale sbagliato circa la valutazione delle autorità sulla solidità complessiva del sistema.
Riserve di capitale e di liquidità più solide e migliori incentivi per valutare e gestire il rischio dovrebbero aiutare a ridurre la pro-ciclicità del sistema finanziario; ancor più nella nuova configurazione dell’industria dei servizi finanziari, dovrebbero anche aiutare la politica monetaria a conseguire i suoi tradizionali obiettivi. Ma dovrebbe essere la stessa politica monetaria a includere nella sua funzione obiettivo lo stato di salute del sistema finanziario?
Benché io condivida il giudizio sulla rilevanza del fine, dovrebbe essere chiaro che definire esattamente la funzione obiettivo è non solo analiticamente difficile, ma porrebbe anche serie sfide istituzionali. Per una banca centrale il cui mandato primario è solo quello di preservare la stabilità dei prezzi, adottare la stabilità finanziaria quale obiettivo ulteriore potrebbe introdurre un trade-off laddove oggi non esiste. In tempi di straordinaria volatilità e di repentina revisione del premio al rischio, il mantenimento della stabilità dei prezzi potrebbe in effetti essere il miglior contributo che la politica monetaria possa fornire al ritorno della stabilità finanziaria. Lo stesso resta vero in tempi di tranquillità, quando prolungati periodi di crescita a due cifre degli aggregati creditizi richiederebbero un’azione volta a proteggere la futura stabilità dei prezzi, anche in assenza di un pericolo immediato. In secondo luogo, posso solo far notare come sia difficile disporre di uno schema altrettanto chiaro e misurabile quanto quello di cui disponiamo oggi per le nostre politiche monetarie. La maggiore difficoltà che vedo, tuttavia, sta nella quantità di informazioni che sarebbero necessarie per gestire una politica monetaria che abbia tra i suoi obiettivi la stabilità finanziaria. In altre parole, dovremmo sapere dei settori regolamentati e di quelli non regolamentati dell’industria dei servizi finanziari almeno quanto sappiamo dell’inflazione e della produzione. Certo, qualora ci muovessimo in questa direzione, questa sarebbe anche l’area nella quale i benefici dell’aumentata trasparenza e delle interazioni con la politica di regolamentazione sarebbero maggiori.
Una bassa propensione al rischio e una progressiva riduzione della leva finanziaria caratterizzeranno probabilmente i prossimi anni, durante i quali le istituzioni finanziarie e le famiglie dovranno risanare i propri bilanci e gli squilibri macroeconomici interni ed esterni dovranno essere risolti. Non saranno aggiustamenti indolori. Assicurare che essi avvengano in maniera ordinata porrà importanti sfide ai policymakers: preservare la stabilità dei prezzi mentre si sostiene la crescita, e continuare a iniettare liquidità secondo le necessità di un’industria finanziaria che è ancora lontana dall’aver risolto i propri problemi, in presenza di forti pressioni inflazionistiche e di un inasprimento delle condizioni del mercato del credito.

Intervento di Mario Draghi  al Simposio della Federal Reserve Bank di Kansas City  Jackson Hole, 22 agosto 2008


Draghi: le banche europee resisteranno

«La crisi finanziaria che stiamo affrontando è una delle più dure e complesse dei nostri tempi». Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi non usa mezzi termini a Berlino in occasione di un incontro organizzato dalla Bundesbank, commentando le notizie che arrivano dagli Stati Uniti con il fallimento della Lehman Brothers e la crisi di Aig e Goldman Sachs. «Le sfide - ha spiegato il governatore - saranno sostanziali: restaurare la stabilità dei prezzi per sostenere la crescita e garantire che i necessari aggiustamenti nei bilanci bancari e in quelli delle famiglie, oltre che la correzione degli squilibri mondiali, avvengano in modo ordinato». Secondo Draghi ciò richiederà «un'azione sul fronte monetario, su quello fiscale e su quello normativo», oltre che un'azione decisiva sul fronte privato.
«CAPITALE SUFFICIENTE» - «Il capitale del sistema bancario a livello aggregato - ha assicurato però il numero uno di via Nazionale - è sufficiente, in uno scenario ragionevole, a preservare il sistema nel suo complesso da un crollo sotto le soglie dei requisiti patrimoniali richiesti, anche se «la distribuzione del capitale - ha sottolineato Draghi - ovviamente ha rilevanza». «La situazione delle banche nell'area Euro è fino a questo momento migliore di quella cui stiamo assistendo negli Stati Uniti e altrove» ha aggiunto il governatore. «Fino ad ora - ha spiegato - non abbiamo riscontrato segnali di effetti aggiuntivi dovuti a tensioni finanziarie, e finora la situazione del capitale dell'insieme delle banche dell'area dell'euro rimane solida. Naturalmente, qualora la crisi dovesse diventare sistemica, i rischi di controparte potrebbero sempre diffondersi in tutto il mondo».
«SERVONO COOPERAZIONE E TRASPARENZA» - Per affrontare le crisi finanziarie serve, secondo il numero uno di Bankitalia, «una più forte cooperazione e la condivisione delle informazioni tra le autorità sia nazionali sia transfrontaliere». Necessari per Draghi sono «una maggiore trasparenza e un miglioramento dei processi informativi da parte del settore privato per permettere di valutare pienamente le condizioni del sistema finanziario e per formulare una politica
Berlino 16 settembre 2008


Commento di IMPRESA OGGI


Dall’inizio dell’anno negli USA sono fallite ben nove banche, due del calibro di Lehman Brothers, e Indymac, la FED e il Tesoro sono intervenuti per salvare dal fallimento, sia le rooseveltiane Fanny Mae e Freddy Mac,  le due più importanti istituzioni erogatrici di mutui alle famiglie, sia il colosso assicurativo AIG, con l’immissione di 85 miliardi di dollari e l’acquisizione dell’80% delle azioni.
Dove nasce la crisi? Dall’abuso della cosiddetta leva finanziaria in chiave moderna.
La chiamano l’innovazione tecnologica nel settore finanziario. Una Banca concede dei mutui alla gente e quando ne ha fatto un bel pacchetto realizza una cartolarizzazione che inserisce in un fondo obbligazionario che vende agli sportelli a investitori rassicurati dalla “serietà” della propria banca.
Ricostituito il capitale la stessa banca concede altri prestiti e mutui che finiscono anch’essi in un altro fondo obbligazionario da rifilare ai soliti ignari, in un circolo perverso che alle prime difficoltà del sistema finanziario mondiale si sbriciola miseramente.
Se poi i mutui sono del tipo subprime e i soldi delle cartolarizzazione finiscono in “titoli spazzatura” il castello di carte “false” si sbriciola al primo alito di vento.

Le drammatiche convulsioni dei mercati finanziari del 2008 segnano la fine di un'epoca: la fine del capitalismo americano come lo abbiamo sempre conosciuto. La nazionalizzazione della più grande compagnia assicurativa mondiale, è stata un gesto estremo. Non ha precedenti in un secolo di vita della Federal Reserve. A malincuore l'autorità monetaria ha dovuto allargare il proprio campo d'intervento, sobbarcandosi addirittura il controllo diretto di un gigante assicurativo, al termine di dieci giorni che hanno sconvolto le regole del gioco e ridisegnato la geografia dell'economia di mercato. Gli Usa diventano la patria di un nuovo capitalismo pubblico, dettato da uno stato di necessità. E' l'epilogo drammatico di un decennio di eccessi della finanza e del credito facile.
 
Se doveva arginare il panico delle Borse, la nazionalizzazione dell'Aig sembra un fiasco: l'onda di paura non si è placata. Ma non si può sapere che cosa sarebbe accaduto in assenza di questo inaudito salvataggio statale. Aig ha 116.000 dipendenti, quasi cinque volte quelli della banca d'affari Lehman lasciata fallire appena 48 ore prima. Aig emette polizze vita e gestisce fondi pensione per decine di milioni di famiglie; l'impatto sociale di una sua bancarotta avrebbe aperto una falla inquietante nel sistema del Welfare privatistico. Infine e soprattutto, l'Aig, a sua rovina,  si era "diversificata" in nuovi mestieri finanziari, come l'emissione di complessi contratti di assicurazione contro il rischio-fallimento (Credit Default Swaps).


Il banchiere centrale che a marzo aveva dovuto dare un "aiutino" di 30 miliardi a JP Morgan Chase per farle comprare la Bear Stearns, e che due weekend fa aveva scaricato sul contribuente americano i colossi dei mutui Fannie e Freddie (costo minimo 120 miliardi), domenica scorsa aveva finalmente opposto un secco no alle richieste di salvataggio della Lehman. Il presidente della Fed sentiva di dover scrivere la parola stop, tracciare un limite alla catena di salvataggi. Sentiva montare l'insofferenza contro l'establishment di Wall Street, la cui ingordigia e i cui errori micidiali vengono ora "abbuonati" con la socializzazione delle perdite. Ma i principii severi non hanno retto alla prova dello choc.
 
Bernanke ha dovuto rinnegare la sua linea del rigore di fronte all'evidenza: era semplicemente inconcepibile affrontare una bancarotta dell'Aig. E tuttavia dopo la nazionalizzazione dell'Aig la reazione dei mercati è stata quell'incubo che Bernanke sperava di evitare. Gli investitori si sono subito chiesti quale sarà il prossimo crac. Morgan Stanley, Goldman Sachs - le due ultime merchant bank sopravvissute alla carneficina - sono finite nel vortice delle speculazioni ribassiste. E se Bernanke scoprisse che anche loro sono "troppo grandi e troppo interconnesse" per lasciarle fallire?

Si può ironizzare sul fatto che queste spregiudicate nazionalizzazioni vengono dalla patria del liberismo e da un'amministrazione repubblicana che venerava lo "Stato minimo". Oppure ci si può inchinare di fronte a una qualità che caratterizza una certa classe dirigente americana, di cui Bernanke è un perfetto esponente: il pragmatismo. Se siamo di fronte a una crisi di proporzioni storiche, come sostengono Alan Greenspan e Mario Draghi, non serve più a nulla invocare i principii. Perfino la coerenza passa in secondo piano. Bernanke e il ministro del Tesoro Henry Paulson procedono a tentoni, con una visibilità nulla sul futuro. Se ce la faranno a uscirne, le nuove regole del gioco le stanno scrivendo loro in queste ore. Altrimenti il giudizio storico sarà pesantissimo.

E' proprio la dimensione inusitata, quella che fa sorgere un dubbio tremendo: che l'ampiezza della metastasi superi perfino i mezzi della più potente banca centrale e della nazione più ricca del pianeta. Ieri non è sfuggito ai mercati un provvedimento eccezionale: il Tesoro di Washington ha dovuto varare in fretta e furia delle emissioni speciali di titoli per rifinanziare la stessa Federal Reserve. L'autorità monetaria americana - pur essendo per definizione il creditore di ultima istanza, dotato della facoltà di stampar moneta - deve farsi rifinanziare con un nuovo canale di debito pubblico. Dunque ecco il Tesoro che "presta" alla Fed. Ma chi presta al Tesoro? E chi finanzierà il maxi-trust - l'Iri made in Usa - se il Congresso sarà costretto a varare il piano delle nazionalizzazioni bancarie a tappeto?

Certo le famiglie americane dovranno subìre un ridimensionamento del loro tenore di vita, e per generazioni ripianeranno questi debiti con le loro tasse.
Giova, peraltro, ticordare che i Treasury Bonds (i Bot americani) li abbiamo comprati anche noi, ne sono strapieni i portafogli di tutte le istituzioni finanziarie del mondo: le assicurazioni europee e asiatiche, i fondi comuni italiani, la banca centrale di Pechino. L'effetto-contagio è appena agli inizi.

(18 settembre 2008)
Per un approfondimento del linguaggio tecnico riguardante fatti, azioni e strumenti che hanno portato alle odierne difficoltà finanziarie si rimanda al Glossario finanziario.

Viene riportato nel seguito un ironico articolo del premio nobel 2008 per l'economia, André Glucksmann, che voglio ricordare essere stato l'unico economista del pianeta ad aver preannunciato la crisi finanziaria di inizio millennio.


Il post-moderno debutta in economia

 

Inutile consultare i grandi economisti classici per capire la crisi attuale. Basta rileggere Il tulipano nero di Alexandre Dumas e lo spirito del capitalismo scenderà su di noi. L’alfa e l’omega è la speculazione, dinamica conquistatrice e opzione su un avvenire prospero da un lato. Dall'altro spirale perversa di speranze, accumulo di crediti ottenuti in base a pronostici ultra-ottimistici, castelli di carta spazzati via al sopraggiungere del primo fallimento. Prima una speculazione trasformata in molla positiva, venti anni di globalizzazione, un arricchimento non solo di alcuni ma della maggioranza del pianeta — vedi la Cina — poi patatrac, ecco la minaccia di un crollo proporzionale al successo precedente. Su scala un po' diversa, la logica dell'euforia speculativa sui tulipani evocata da Dumas annuncia quelle piramidi di crediti fittizi che sono i subprime.
Il capitalismo è la mutualizzazione dei pericoli e delle speranze. Da cui nascono il dinamismo e simultaneamente la speculazione sulla speculazione; la regolamentazione prudente e la trasgressione imprudente delle vecchie regole; la condivisione dei rischi e l'audacia di rischiare meglio di altri. Da cui nascono i fallimenti individuali o collettivi, che punteggiano un'espansione impossibile da controllare in anticipo, ma che da tre secoli è inaffondabile, malgrado successivi e giganteschi soprusi. Inutile contrapporre un capitalismo industriale ritenuto saggio e una sfera finanziaria destinata alla follia. Lo stesso progresso industriale, che certo non somiglia a un fiume tranquillo, alterna continuamente creazione e distruzione, abbandono delle vecchie forze produttive ed esplosione di nuove fonti di ricchezza. La finanza incoraggia questo movimento di distruzione creatrice, che definisce secolo dopo secolo l'occidentalizzazione del mondo.
Nulla di originale dunque nelle bolle che minacciano d'implosione l'economia planetaria, se non nell'incuria con la quale le si è lasciate gonfiare. Eppure, gli avvertimenti non sono mancati. Negli Stati Uniti (Enron) come in Francia (Crédit Lyonnais, Bnp), fenomeni di euforia finanziaria locali ma rovinosi hanno messo allo scoperto, non importa se ai vertici di imprese pubbliche o private, dirigenti napoleonici che credevano potersi permettere di tutto. E alcuni funzionari hanno lanciato le proprie imprese all'assalto di Hollywood, senza tuttavia trascurare i vantaggi personali, e già allora il contribuente dovette pagare i cocci rotti. Il problema non è tanto il tipo di tecnica finanziaria, che ormai ci promettono sarà controllata, quanto lo stato d'animo generale che ne ha consentito la fioritura sfrenata. Nei consigli di amministrazione ritroviamo il leitmotiv postmoderno: non c'è rischio, niente di male, come dimostrano i paracadute dorati.
Dalla fine della guerra fredda, la promessa di un mondo placato diffonde, urbi et orbi, l'annuncio di una storia senza sfide, senza conflitti, senza tragedie, che autorizza tutto e qualsiasi cosa. Una bolla speculativa si regge su una scommessa che si conferma da sé. È «performativa », secondo il linguista Austin. Per lo speculatore, accordare crediti significa far esistere. «La seduta è aperta!», proclama il presidente di un' assemblea—è vero per il solo fatto che lo dice —: la realtà si regola sul dire, mentre nei casi ordinari il dire, che non è più performativo ma indicativo, si regola sulla realtà. La bolla finanziaria accumula crediti su crediti e si arricchisce della propria auto-affermazione. Si rinchiude in un rapporto autoreferenziale e progressivamente abolisce il principio di realtà: sono effettivi soltanto i prodotti finanziari che i miei investimenti inventano.
Simile fantasma di onnipotenza napoleonica non anima solamente i trader, ma anche coloro che li lasciano rischiare; non solamente i titolari degli istituti finanziari,ma le autorità politiche, universitarie e mediatiche, che non si preoccupano di nulla. L'ideologia performativa — una cosa diventa vera per il solo fatto che la diciamo — governa l'occidentalizzazione del pianeta dalla fine della guerra fredda: poiché il campo avverso si è disgregato, l'avvenire ci appartiene e i pericoli fondamentali sono svaniti. Si può riconoscere nel diniego «performativo» di ogni riferimento al reale la follia chiusa dell'«immaginazione».  Il postmoderno, che si istituisce «al di là del bene e del male» e se ne infischia della distinzione tra vero e falso, presunto idolo del passato, dà libero sfogo alla propria immaginazione e abita una bolla cosmica. L'euforia non è minore in materia politica che in manipolazione borsistica.
Ci sono voluti quasi dieci anni perché Bush, Condoleezza Rice, Blair e il quai d'Orsay scoprissero che Putin non è il good guy e il democratico in erba di cui si erano infatuati. Probabilmente, ci vorranno altri dieci anni prima che si proceda a una fredda valutazione delle due svolte decisive che hanno segnato la fine del XX secolo: la riunificazione di una grande parte d'Europa che, dalle rivoluzioni democratiche di Georgia e Ucraina, inquieta oltremodo il Cremlino. E l'emergere della Cina, che modifica da cima a fondo l'equilibrio mondiale. Da un lato, il «miracolo economico» suscitato dalla riforma di Deng Xiao Ping relega in maniera definitiva l'economismo collettivista marxista nel museo delle cere: il vantaggio dell'economia di mercato oggi salta agli occhi.

Dall’altro un miracolo economico così enorme  non garantisce affatto democrazia e coesistenza politica. Non dimentichiamo che i due miracoli economici più importanti del XX secolo, Germania e Giappone, sono all'origine dei 50 milioni di morti della Seconda guerra mondiale. Auguriamoci che il brivido anticipatore di una crisi universale ci offra l'occasione di uscire dalla bolla mentale post moderna, di raffreddare l'euforia dei nostri pii desideri e di osare finalmente guardare la verità in faccia. Ma temo così di enunciare un pio desiderio in più.
André Glucksmann
30 settembre 2008


Il piano di soccorso messo a punto dall'amministrazione Bush.

Il maxi-piano di soccorso messo a punto dall'amministrazione Bush, che porta il nome del segretario al Tesoro Henry Paulson, «non includerà l'acquisto di asset tossici». A rivelarlo è stato proprio Paulson durante una conferenza stampa a Washington. «Considerando la gravità della situazione, rilevare asset tossici legati ai prestiti immobiliari non sarà sufficiente e non è il modo più efficace per utilizzare i fondi messi a disposizione dal Tarp», ha detto il segretario Usa riferendosi al Troubled asset relief program, il piano da 700 miliardi di dollari. «L'acquisto diretto di azioni nelle istituzioni finanziarie è il modo più rapido ed efficace di usare i nostri nuovi poteri per stabilizzare il sistema finanziario» ha aggiunto. Non solo: il Tesoro sta valutando come allargare il rubinetto degli aiuti anche ai gruppi non bancari. Il riferimento sembra evidente: nel mirino ci sarebbero Gm e Ford. Almeno questa è la convizione della Borsa americana, visto che dopo le parole di Paulson gli indici di Wall Street hanno accentuato le perdite, in particolare Goldman Sachs e Morgan Stanley, mentre Ford e General Motors hanno iniziato a correre.

Economia reale. La sterzata è dunque dalla finanza all'economia reale, visto che il segretario ha aggiunto: «Passeremo al setaccio le strategie destinate a sostenere l'accesso al credito dei consumatori», e «continueremo a esaminare le modalità con cui ridurre i rischi di pignoramenti». Mentre le autorità restano impegnate «a prevenire i fallimenti che rappresenterebbero un rischio per il sistema finanziario nel suo insieme».

Le turbolenze andranno avanti. La crisi dei mercati proseguirà fino a quando la correzione sul mercato finanziario non sarà completata, ha aggiunto Paulson, sottolineando come le misure adottate in ottobre da Tesoro, Fed e Fdic hanno «chiaramente aiutato a stabilizzare il nostro sistema finanziario». «Il nostro sistema è ora più forte e più stabile rispetto ad alcune settimane fa. Ma ci sono ancora molte sfide e cambiamenti davanti a noi. Il nostro sistema finanziario resta fragile in un contesto di rallentamento economico e nei bilanci delle istituzioni finanziarie ci sono ancora significativi asset non liquidi», constata Paulson.

Il piano Paulson. Finora, l'amministrazione Bush aveva annunciato che dei 700 miliardi di finanziamenti approvati dal Congresso, 250 miliardi sarebbero stati utilizzati per l'acquisto di partecipazioni nel capitale delle banche. Di questa somma, il governo ha investito già 163 miliardi di dollari su alcuni dei principali colossi bancari, come Goldman Sachs e Bank of America. Sulle mosse successive c'era molta attesa sul risultato delle elezioni Usa, per capire come sarebbero stati utilizzati i 450 miliardi di dollari rimanenti. E le parole di Paulson ricordano da vicino alcuni punti del programma di Obama.
12 novembre 2008


Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda a
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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