Dante, Petrarca e Boccaccio hanno rese famose le donne da essi amate. Ma chi erano queste donne?
Erano persone di ceto sociale altissimo alle quali i tre poeti non potevano sperare di arrivare. Ecco allora che esse diventano angeli, la loro presenza terrena un miracolo, e per tale definizione esse sono irraggiungibili.
Sebbene non unanime, la tradizione che identifica Bice di Folco Portinari con la Beatrice di Dante è ormai radicata. Lo stesso Giovanni Boccaccio, nel commento alla Divina Commedia, fa esplicitamente riferimento alla giovane. La data di nascita di Beatrice è stata ricavata per analogia con quella presunta di Dante (coetanea o di un anno più piccola del poeta, che si crede nato nel 1265); la data di morte è ricavata dalla Vita Nuova di Dante (1290). Anche molte delle notizie biografiche provengono unicamente dalla Vita Nuova.
Beatrice, era figlia del banchiere Portinari e aveva sposato Simone Bardi, della famiglia dei banchieri più ricchi di Firenze. Importante il ritrovamento di nuovi documenti nell'archivio Bardi su Beatrice e suo marito da parte dello studioso Domenico Savini. Tra questi un atto notarile del 1280, dove Mone de' Bardi cede alcuni terreni a suo fratello Cecchino con il beneplacito della moglie Bice, che all'epoca doveva avere circa quindici anni. Un'ipotesi plausibile è che Beatrice sia morta durante il parto del suo primo figlio.
Mentre Beatrice Portinari sposata Bardi apparteneva all'alta borghesia fiorentina, Dante apparteneva agli "Alighieri" una famiglia di secondaria importanza all'interno dell'élite sociale fiorentina anche se essa godeva di una certa agiatezza economica.
Beatrice è la prima donna a lasciare una traccia indelebile nella nascente letteratura italiana, nonostante altre figure femminili siano presenti anche nei componimenti di Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti, ma non con l'incisività del personaggio dantesco. A Beatrice è dedicata la Vita Nuova, dove il poeta raccoglie entro una struttura in prosa una serie di componimenti poetici. Secondo la Vita Nuova, Beatrice fu vista da Dante per la prima volta quando aveva 9 anni e i due si conobbero quando lui aveva diciotto anni.
Quando morì, Dante, disperato, si rifuggiò nella filosofia e nella lettura di testi latini, scritti da uomini che, come lui, avevano perso una persona amata. La fine della sua crisi coincise con la composizione della Vita Nuova (intesa come "rinascita").
Nella Divina Commedia Beatrice subisce un processo di spiritualizzazione e viene riconosciuta come creatura angelica. Ella rappresenta la Fede e la Sapienza, che accompagna le persone in Paradiso.
 accompagnata dall'amica Vanna (con il vestito rosso), sul Ponte Santa Trinita in Firenze (1883).jpg)
Henry Holiday, l'incontro immaginario fra Dante e Beatrice (con il vestito bianco) accompagnata dall'amica Vanna (con il vestito rosso), sul Ponte Santa Trinita in Firenze (1883).
Il pittore mostra Vanna, amata da Cavalcanti, che sembra osservare Dante che forse conosceva.
E' famoso il sonetto tratto dalla Vita Nuova nel quale viene divinizzata la donna che "par che sia cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare".
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
[Vita Nova XVII]
***
La Laura del Petrarca sembra sia stata, Laura de Noves, anche nota come Laura de Novalis, Laura de Noyes e Madame de Sale (1310 – 6 aprile 1348), una nobildonna francese, sposa del marchese Ugo di Sade e quindi di una delle famiglie più aristocratiche di Francia. Francesco era figlio di Ser Petracco, notaio originario di Incisa, appartenente alla fazione dei guelfi bianchi e amico di Dante Alighieri; esiliato da Firenze nel 1302 per l'arrivo di Carlo di Valois, apparentemente entrato nella città toscana quale paciere di papa Bonifacio VIII, ma in realtà inviato per sostenere i guelfi neri contro quelli bianchi. Laura, nata nel 1310 da Audiberto ed Ermessenda de Noves in Avignone, si unì in matrimonio il 16 gennaio 1325 con il marchese Ugo di Sade, col quale generò undici figli.
Francesco Petrarca la conobbe due anni dopo il suo matrimonio, il 6 aprile del 1327: è in questo giorno (Venerdì Santo di quell'anno) che il poeta la vide nella chiesa di Santa Chiara durante il suo soggiorno ad Avignone e se ne innamorò all'istante, tanto che continuò a celebrarla in ogni sua poesia. È, infatti, lo stesso Petrarca a indicarci le circostanza dell'innamoramento per Laura, nel sonetto Era il giorno ch'al sol si scoloraro:
« Era 'l giorno ch'al sol si scoloraro
per la pietà del suo Factore i rai,
quando i' fui preso, et non me ne guardai,
ché i be' vostr'occhi, Donna, mi legaro. »
L'identificazione della Laura petrarchesca con Laura de Noves ci viene fornita dallo stesso poeta nella Familiare II, nella quale testimonia l'esistenza della fanciulla a uno scettico Giacomo Colonna. Tutto quello che si sa di lei, immagine stilizzata dall'amore ideale, viene dalle parole dello stesso Petrarca, che nel nome di Madonna Laura scrisse il suo Canzoniere, opera composta da 263 rime in vita e 103 rime in morte di Madonna Laura, per un totale di 366 componimenti. Il poeta aretino ci rende note anche le circostanze della tragica morte, avvenuta il 6 aprile 1348 a causa della peste nera (per la quale spirarono anche gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna e Francesco degli Albizzi), in un passo del Triumphus Mortis:
« Pallida no, ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca.
Quasi un dolce dormir ne’ suoi belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso. »
Anche Petrarca come Dante ritiene che la sua donna sia un angelo e, pertanto, alla sua vista ritiene d'essere in cielo e non sulla terra.

Anonimo, Laura e il Poeta, Casa di Francesco Petrarca, Arquà
Nella Canzone Chiare, fresche e dolci acque, recita, infatti,
Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, e sí diviso
da l'imagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
Qui come venn'io, o quando?;
credendo d'esser in ciel, non là dov'era.
***
Se Beatrice era una riccona e Laura una grande aristocratica la Fiammetta di Boccaccio era addirittura una principessa regale.
Boccaccio nella sua vita corteggiò e conobbe moltissime donne, ma solo di una si innamorò, la donna si chiamava Maria e faceva parte della famiglia d'Aquino: era la figlia naturale del re ed era sposata con un gentiluomo di corte. Boccaccio la incontrò il Sabato Santo del 1336 e subito ne rimase affascinato. Boccaccio la ricordò sempre con il nome di Fiammetta e anche nei suoi poemi la cita con questo nome.
Il poeta, a causa di dissesti finanziari da parte del padre, fu costretto a tornare a Firenze, dove condusse una vita poco allegra e solitaria.
Si trovava a Firenze nel 1345, quando gli fu annunciate la morte di Fiammetta.
Per lei scrisse un poema intitolato:
"Elegia di Madonna Fiammetta"
Il prologo alla Elegia di Madonna Fiammetta è un ottimo esempio della prevalenza della tematica amorosa e della capacità di penetrazione psicologica che caratterizza tutta l’opera di Boccaccio. L'Elegia si presenta come un lungo monologo, che vede al centro la narrazione in prima persona di Fiammetta, immagine femminile ricorrente nella penna di Boccaccio. La donna rivolge qui un appello esplicito alle donne innamorate sue lettrici, appello dal quale traspaiono bene le sue finalità: “...mi piace, o nobili donne, ne’ cuori delle quali amore più che nel mio forse felicemente dimora, narrando i casi miei, di farvi, s’io posso, pietose”. Non si tratta di uno sfogo sincero e appassionato, di una trascrizione spontanea e immediata dei sentimenti: siamo invece di fronte a un'opera tutta letteraria, interamente strutturata secondo i dettami e i procedimenti della retorica. Non stupisce quindi la complessa e costante trama di riferimenti a fonti svariate, classiche e medievali. Interessante è notare che il Boccaccio, a molti secoli di distanza dalle Heroides ovidiane, pone una donna come narratrice in prima persona. Fiammetta infatti non è rappresentata come oggetto d'amore, cosa che accadeva di norma nella lirica stilnovistica e trecentesca, ma come persona dotata di volontà ed emotività proprie, attraverso le quali parla alle altre donne per suscitarne la compassione e consolarsi così della propria sofferenza.
Fiammetta non incarna più la donna oggetto d’amore spirituale ereditata dalla cultura stilnovista, ma è figura attiva e dotata di una forte sensibilità, che condivide del resto con coloro che l'ascoltano, e che sono le uniche in grado di capire il suo stato d’animo e la sua triste vicenda. Così Fiammetta si confida al suo pubblico eletto: “Né m’è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga, anzi, in quanto io posso, del tutto il niego loro, però che sì miseramente in me l’acerbità d’alcuno si discuopre, che gli altri simili imaginando, piuttosto schernevole riso che pietose lagrime ne vedrei. Voi sole, le quali io per me medesima conosco pieghevoli e agl’infortunii pie, priego che leggiate...”.
Qui Boccaccio non indorerà la pillola delle sofferenze d’amore adornandola e confondendola con ambientazioni epiche o favole greche; anzi, l’elegia di Fiammetta è un’opera fortemente introspettiva, che mette in primo piano l’animo ferito della donna e l’isteria suicida che deriva dal tradimento dell'amato: un vero romanzo psicologico, composto da lunghi monologhi della ‘malata d’amore’, e dalle risposte della paziente e saggia balia: “voi, leggendo, non troverete favole greche ornate di molte bugie, né troiane battaglie sozze per molto sangue, ma amorose, stimolate da molti disiri, nelle quali davanti agli occhi vostri appariranno le misere lagrime, gl’impetuosi sospiri, le dolenti voci e li tempestosi pensieri, li quali, con istimolo continuo molestandomi, insieme il cibo, il sonno, i lieti tempi e l’amata bellezza hanno da me tolta via”.
 di Dante Gabriel Rossetti.jpg)
Una visione di Fiammetta (1878) di Dante Gabriel Rossetti
Tuttavia, se anche la vicenda di Fiammetta ha una forte componente patetica, non viene mai meno l'elaborazione letteraria; la vicenda è sempre filtrata dallo stile letterario di Boccaccio, attento a conservare una forma raffinatamente elevata, costruita a partire dal modello delle Heroides di Ovidio.
In Boccaccio non manca un po' di stilnovismo e in questo sonetto ritorna il concetto del paradiso, dell'angelo e del miracolo.
Su la poppa sedea d’una barchetta,
Che ’l mar segando presta era tirata,
La donna mia con altre acompagnata,
Cantando or una or altra canzonetta.
Or questo lito et or quest’isoletta,
Et ora questa et or quella brigata
Di donne visitando, era mirata
Qual discesa dal cielo una angioletta.
Io che, seguendo lei, vedeva farsi
Da tutte parti incontro a rimirarla
Gente, vedea come miracol nuovo.
Ogni spirito [mio] in me destarsi
Sentiva, et con amor di commendarla
Sazio non vedea mai il ben ch’io provo.
***
Queste tre donne morirono lasciando i loro poeti, ma la loro morte fu vissuta dai tre in modo diverso.
BEATRICE viene immortalata come espressione della grazia divina. Nella Divina Commedia Beatrice subisce un processo di spiritualizzazione, e viene riconosciuta come creeatura angelica. Ella rappresenta la Fede e la Sapienza, che accompagna le persone in Paradiso. Quando ella morì, Dante, disperato, studiò filosofia e si rifugiò nella lettura di testi latini, scritti da uomini che, come lui, avevano perso una persona amata. La fine della sua crisi coincise con la composizione della Vita Nova (intesa come "rinascita").
Se a Cavalcanti Dante riconosce il ruolo di preparatore della sua poesia, a Guinizzelli il poeta riconosce che sia stato il primo a porre il tema del valore del saluto della donna, e ciò consente a Dante di porsi dentro l'alveo di una sperimentazione in corso e di una tradizione nascente e di portarla a compimento: l'equivalenza saluto=salvezza-dell'anima, avviene pienamente in Dante, quando dice che già al primo saluto di Beatrice gli parve di vedere tutti i termini della beatitudine. Quando questo saluto gli viene tolto, egli è sopraffatto dal dolore. Certo vanno compresi i codici comportamentali del tempo, fortemente codificati erano, infatti, i comportamenti degli uomini e delle donne. I luoghi degli incontri visivi erano i balconi, le strade e le chiese, dove le donne dovevano muoversi secondo codici sociali da tutti riconosciuti, luoghi aperti e sotto gli occhi di tutti, garanti di un rigido controllo sociale. Occhi bassi, mai uscire da sole, dicono i manuali del tempo, è dunque dentro questa visione della donna che lo sguardo e il saluto gratuito rivolti a Dante assumono un carattere rivoluzionario.
Quel gesto è altrettanto rivoluzionario quanto lo è lo sguardo del Cristo sul mondo, il saluto/salvezza di Beatrice è già nella Vita Nova una promessa di salvezza, ancora non universale, come sarà nella Commedia, ma tale da far salire la poesia dal livello della personale esperienza a quello del simbolo. È, infatti, dalla mancanza del saluto, come dalla mancanza del corpo alla morte di Beatrice, cioè dall'interruzione di ogni rapporto materiale, che nasce la poesia della lode, poesia che consente all'amore di perpetuarsi oltre la morte. Dal punto di vista letterario questa idea di Beatrice beata, si traduce nell'ultimo capitolo della Vita nova in questa promessa:
«Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei (La Commedia). E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.»
(Dante Alighieri, Vita Nova, cap. XLII)
***
LAURA Dopo la morte di Laura, la vicenda sentimentale di Petrarca subisce una svolta violenta. Inizialmente il poeta reagisce al fatto disperandosi (si pensi al sonetto solo et pensoso); successivamente però, Petrarca rielabora tutta la vicenda alla luce della morte di Laura.
- Innanzitutto vediamo scorgere una sorta di paradosso: da morta Laura appare più vicina all’Autore, la sua presenza più costante, regolare e benevola nei confronti dell’amante.
- A poco a poco Laura (morta) diventa colei che indica al poeta la via del pentimento e della redenzione.
Riconsiderazione di un amore: in che modo Petrarca riconsidera la sua vicenda amorosa? Innanzitutto il rifiuto di Laura non è più visto come fonte di dolore, ma come opportunità di salvezza: Laura, rifiutando Petrarca, teneva sia se stessa che l’amante lontani dalla possibilità di vivere una relazione amorosa moralmente sconveniente.
- Le rime in morte di Laura sono il racconto della lenta ricomposizione dell’animo del poeta, che nella prima parte appariva lacerato: se prima l’animo del poeta appariva turbato, e lacerato da forze e desideri contrapposti, ora man mano va ricomponendosi: vengono man mano ricostruiti i frammenti d’anima.
- Laura, d’altra parte, cambia carattere: da capricciosa e imprevedibile, diventa materna, disposta a guidare l’amante in questo nuovo percorso (Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansüeta, e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno
volga la vista disïosa e lieta,
cercandomi; e, o pietà!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m'impetre,
e faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo).
Memoria.
È fondamentale il tema della memoria. Dopo la morte di Laura, tutta la vicenda si gioca nell’ambito del ricordo e della memoria:
- il presente modifica le convinzioni e i sentimenti del passato;
- il passato, a sua volta, modifica il presente.
In questo la scrittura poetica è un mezzo necessario e non eliminabile per questo percorso di ricomposizione: è attraverso la scrittura che ricordo e memoria agiscono sulla mente del poeta.
In generale, il linguaggio poetico cambia: diventa più armonioso, perde quelle durezze espressive che avevano caratterizzato le rime con Laura in vita, quando il poeta si lagnava del suo amore impossibile.
Trasfigurazione di Laura
Cambiamenti di Laura. De Sanctis usa questo termine per indicare i cambiamenti della figura di Laura dopo la morte:
1) Da viva Laura era caratterizzata da un carattere complesso, ambiguo, capriccioso, per certi versi non comprensibile da parte del poeta;
2) Da morta Laura sembra dare spiegazioni circa i suoi comportamenti sulla terra, e i conti cominciano a quadrare. Inoltre La figura di Laura diventa attiva: di sua iniziativa conforta il poeta, lo consola, lo incoraggia ad attendere un futuro ricongiungimento in cielo.
Cambiamenti nell’io lirico.
Naturalmente tutte queste sono proiezioni di Petrarca: a cambiare, in realtà, è l’io lirico, che, come si è detto, riconsidera il suo rapporto con Laura, e quindi anche Laura stessa, sotto una nuova ottica. La morte di Laura fa in modo che Petrarca diventi più risoluto nel perseguire il desiderio di perfezione cristiana.
In Particolare:
1) Il rifiuto di laura, che tanto faceva soffrire Petrarca, in realtà lo ha salvato dalla perdizione: tutta la vicenda è quindi riletta in chiave provvidenzialistica
2) La tensione erotica, il desiderio sessuale di Petrarca scompare, e viene sostituito da una tensione unicamente religiosa. Laura morta è colei che è in grado di accompagnare Petrarca in questo nuovo percorso religioso.
***
FIAMMETTA. Boccaccio nella Elegia di Madonna Fiammetta ci ha lasciato molte rime sulla sua morte, ne riprendo tre.
XXII
Amor, che con sua forza e virtù regna,
nel summo cielo ardendo sempre vive
e l’anima gentil di lui fa degna,
regge mia vita e quel che la man scrive,
dimostra el cuor divoto a sua deitade
e del suo regno el fa ministro e cive.
Amor vol fede e con lui son legade
speranza con timor e gelosia,
e sempre con leanza umanitade.
Unde sovente per Rachele a Lia
fa star suggetta l’anima servendo
con dolce voglia e con la mente pia.
Così si pasce, di sua fiamma ardendo,
il cuor che onestamente Amor nutrica,
con sua vaghezza nei suspir languendo.
Supporta angoscia in pace e gran fatica
per conservar della sua cara amata
el digno onor e la sua fiamma antica.
Amor è come gemma in or legata,
che mai non perde sua gentil natura,
ma più lucente è sempre e più pregiata.
Non è, come altrui pingesua figura,
crudele, iniusto, faretrato e nudo,
né ha de’ suoi suggetti poca cura;
anzi è di vera pace eterno scudo,
vestito di virtute e gentilezza,
ma contra ogni lascivo, alpestro e crudo;
né senza il suo bel lume alcuna altezza
in ciel fia degna o nel terrestre mondo,
né val di donna, senza lui, baldezza.
Amor fa con audacia l’uom facondo
cortese, umano, e di costumi ornato,
e ’l cuor dov’el si possa fa iocondo.
Premio non cerca, regni o alto stato,
ma sol bontate ed un disio amoroso,
con pura fede, l’uno o l’altro amato.
Onesta leggiadria, un cuor vezzoso,
un parlar dolce, un animo sincero,
un vago remirar tutto piatoso
son le catene und’el si fa maniero;
nel foco ardente e’ con dolcezza abrusa
temprando sue saette e l’arco fiero.
De lui presumo in questa mia confusa
e bassa rima le sue laude alzare,
se ’l suo favor alla mia debil musa,
porgendo, mi fara di lui cantare.
LXII
Toccami ’l viso zephiro tal volta
Più che l’usato alquanto impetuoso,
Quasi se stesso allora avesse schiuso
Dal cuoi’ d’Ulixe, et la catena sciolta.
Et poi ch’à l’alma tutta in sé racolta,
Par ch’e’ mi dica: leva il volto suso;
Mira la gioia ch’io, da Baia effuso,
Ti porto in questa nuvola rinvolta.
Io lievo gli occhi, et parmi tanto bella
Veder madonna entr’a quell’aura starse,
Che ’l cor vien men sol nel maravigliarse.
Et com’io veggio lei più presso farse,
Lievomi per pigliarla et per tenella:
E ’l vento fugge, et essa spare in quella.
XC
Era ’l tuo ingegno divenuto tardo,
Et la memoria confusa et smarrita,
Et l’anima gentil quas’invilita
Driet’al riposo del mondo bugiardo;
Quando t’accese ’l mio vago riguardo
Et suscitò la virtù tramortita,
Tanto ch’io t’ò condocto ove s’invita
Al glorioso fin ciascun gagliardo.
In te sta el venir, se l’intellecto
Aggiungi, driet’a me, che la corona
Ti serbo delle frondi tanto amate.
Che farai? vienne! — mi dice nel pecto
La donna per la quale Amor mi sprona:
Et io mi sto, tant’è la mia viltate.
Eugenio Caruso - 24 maggio 2025

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