Ogni mattina lo trovavo lì, immobile, come una presenza silenziosa che il tempo sembrava aver dimenticato.
Non miagolava, non cercava di entrare con insistenza. Appoggiava solo una zampina contro il vetro, come se volesse dire piano: “Ehi, sono ancora qui…”
All’inizio pensavo fosse di qualcuno del quartiere. Un gatto curioso, magari abituato a farsi un giro e poi tornare a casa. Ma giorno dopo giorno tornava sempre. Stesso angolo, stessa posizione, stessi occhi pieni di speranza. Ho cominciato a farmi domande, a chiedere in giro.
E così ho scoperto la verità.
Abitava con una famiglia nella casa all’angolo. Poi, un trasloco improvviso. E lui… lasciato indietro. Come un oggetto dimenticato. Da allora, è rimasto fedele a quel luogo, convinto – forse – che prima o poi li avrebbe rivisti. Ogni giorno tornava, come se il tempo potesse riportarglieli indietro.
E invece trovava solo silenzio. E un vetro freddo.
Oggi ho aperto la porta.
Perché gli animali ricordano. Ricordano ogni voce, ogni carezza, ogni gesto d’amore. Ma soprattutto, hanno un dono immenso: sanno ancora credere nell’essere umano. Sanno dare fiducia, anche dopo un dolore così grande.
Lui è entrato piano. Mi ha guardato. E poi ha appoggiato la testa sulla mia gamba. In quel gesto c’era tutto. La fine dell’attesa. Il bisogno di sentirsi di nuovo a casa.
Da oggi questa è la sua casa.
Non ci sarà più pioggia, né notti fredde passate a guardare una finestra vuota. Solo coccole, riparo, e la certezza che nessuno lo lascerà mai più.
Perché a volte basta un cuore aperto per guarirne uno spezzato.
E in quel piccolo gesto nasce una nuova famiglia.
Benvenuto a casa, piccolo mio. Ora non sei più solo.


È caduto dal quinto piano.
Il mio gatto. Il mio compagno silenzioso.
L’impatto gli ha lasciato ferite profonde: un’emorragia interna, una frattura all’avambraccio, una lussazione alla spalla.
A volte gemeva. Spesso piangeva. Il resto del tempo lo passava in silenzio, a soffrire.
Mi fissava. A lungo. Come se volesse raccontarmi qualcosa che solo lui poteva capire.
E io?
Io ho chiesto un congedo.
Non potevo lasciarlo solo.
Non riusciva a mangiare, a bere, a muoversi. Nemmeno a usare la lettiera.
Prima, era un piccolo universo: miagolii buffi, zampate curiose, morsi affettuosi.
Poi, il silenzio.
Ma nei suoi occhi c’era ancora vita.
Così abbiamo imparato a capirci di nuovo. Con lo sguardo.
Io lo nutrivo, lo pulivo, lo cullavo.
E lui si addormentava accanto a me, il cuore un po’ più sereno.
Io non dormivo. Vivevo seguendo il battito del suo respiro e il tempo delle sue medicine.
Le persone dicevano:
“È solo un gatto, esageri.”
“Beato lui, vorrei essere al suo posto.”
“O poverino, avresti dovuto sopprimerlo.”
Ma chi sono loro per decidere?
Perché facciamo fatica ad accettare che un animale possa diventare parte della nostra anima?
Chi è capace di amare un animale… sa amare davvero.
Poi un giorno… un miagolio.
Un richiamo.
Un piccolo passo.
Un altro.
Un mattino l’ho trovato in piedi, barcollante come un ubriaco tenerissimo.
Poi ha camminato.
Poi ha corso.
Poi ha saltato.
Era tornato. Alla vita.
E io ho pensato:
Se avessi ascoltato chi mi diceva di lasciarlo andare?
Se gli avessi tolto il respiro proprio mentre stava tornando?
Finché nei suoi occhi c’era quella scintilla, io sono rimasta.
L’ho vegliato.
L’ho amato.
Lui mi ha capita.
Perché a volte, non è un farmaco che salva.
Ma l’amore, la pazienza, la presenza.
E io c’ero.
E lui è tornato.
Perché in fondo, restare… è l’atto d’amore più potente che esista.

17 agosto 2025
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