Sezioni   Naviga Articoli e Testi
stampa

 

        Inserisci una voce nel rettangolo "ricerca personalizzata" e premi il tasto rosso per la ricerca.

Politiche pubbliche e retributive

La crisi economica internazionale ha aggravato alcuni problemi strutturali dell’economia e della società italiana e l’uscita dalla recessione offre un’occasione per affrontare questi nodi, soprattutto attraverso riforme del sistema degli incentivi alle imprese, degli ammortizzatori sociali e, più in generale, del modello di welfare e dei servizi sociali finalizzate a migliorare l’eguaglianza dei punti di partenza e ad accrescere il capitale umano, anche grazie all’apporto degli immigrati.

I problemi aperti

Una crescita poco equilibrata
Gli squilibri del modello di crescita seguito negli ultimi vent’anni hanno finito per penalizzare il lavoro, sia dipendente che indipendente, e i profitti delle imprese non finanziarie, mentre hanno favorito in modo significativo il settore del credito e delle assicurazioni (che ha visto il risultato di gestione quasi raddoppiare rispetto al 1990, al netto dell’inflazione e degli ammortamenti) e hanno gonfiato i redditi virtuali delle famiglie che abitano in un’abitazione di proprietà.
Il modesto tasso di crescita del potere d’acquisto pro-capite ha penalizzato la dinamica dei consumi, mentre l’andamento dei profitti delle imprese non finanziarie si è accompagnato a un aumento limitato degli investimenti destinati ad ampliare ed ammodernare la base produttiva. Al netto degli ammortamenti e della variazione dei prezzi, gli investimenti delle società non finanziarie sono infatti diminuiti in media dello 0,3% l’anno tra il 1990 e il 2008.
La scarsa mobilità sociale
Nel complesso, in Italia i figli tendono a seguire le orme dei genitori. Basti osservare che la probabilità di diventare dirigente o professionista è superiore di 7,3 volte per i figli di genitori che svolgono già un’occupazione qualificata, mentre i figli degli operai hanno una probabilità 10 volte maggiore degli altri di restare operai o lavoratori privi di qualifica. Chi discende da genitori più qualificati ha salari più elevati, soprattutto perché in genere dispone di un migliore titolo di studio e ha maggiore probabilità di accedere ad alcune professioni. Anche a parità di occupazione, i figli di dirigenti e professionisti o di impiegati hanno un significativo vantaggio salariale, rispettivamente il 13% e il 4,5% in più rispetto alla media. In genere, la rete di parenti, amici e conoscenti rappresenta un meccanismo residuale per accedere al mondo del lavoro e non assicura vantaggi in termini di remunerazione; tuttavia chi ha genitori appartenenti al gruppo dei dirigenti, professionisti e imprenditori riesce ad ottenere un reddito più elevato se ricorre a queste reti informali.
L’integrazione degli immigrati
 La crisi economica ha probabilmente rallentato, e talvolta interrotto, i processi di integrazione sociale ed economica degli immigrati di prima e seconda generazione che, pure, sembrano ben avviati. L’ISAE ha esplorato la questione dell’utilizzo di servizi e godimento di prestazioni pubbliche, insieme a quella dei rapporti con il sistema creditizio, anche attraverso una specifica indagine condotta sugli immigrati presenti (residenti e non) nel comune di Roma. Tra gli appartenenti alle famiglie degli intervistati, il 53% ha un contratto di lavoro dipendente (il 39% a tempo indeterminato), il 7% un contratto “atipico”, l’11% una attività di lavoro autonomo; il 25% afferma di lavorare senza contratto. Più del 60% possiede documenti regolari, il 10% è in attesa di avere il permesso di soggiorno, il 18% ha la cittadinanza/nazionalità italiana e solo il 10% non è in regola con il permesso e non lo sta rinnovando. Gli immigrati più integrati fanno largo ricorso ai servizi della sanità e dell’istruzione, necessari a mantenere e accrescere il capitale umano proprio e dei figli, e hanno un conto corrente in banca o alla posta. Confermando i risultati di precedenti indagini, l’inchiesta ISAE indica nel 51,5% la percentuale di nuclei che utilizzano servizi finanziari. La quota oscilla tra il 73% dei residenti e il 28% dei non residenti, tra il 75% di coloro che desiderano restare in Italia e il 30% di coloro che intendono tornare presto nel proprio Paese. L’uso dei servizi finanziari è concentrato soprattutto sui prodotti di base. Il 60% degli intervistati dichiara di inviare rimesse al paese di origine. Nel complesso, proprio grazie a una progressiva integrazione nel circuito economico regolare, la presenza straniera non sembra comportare un costo netto per il bilancio pubblico, ma piuttosto una risorsa. Conviene dunque favorire i processi di inserimento nel mercato del lavoro regolare, col duplice obiettivo di disinnescare i rischi di tensioni sociali e criminalità e di assicurare l’emersione di risorse preziose per i conti pubblici. In particolare, risulta vantaggioso
rafforzare l’integrazione nel sistema di istruzione, perché il capitale umano delle seconde generazioni di immigrati sarà probabilmente reinvestito proprio nel nostro Paese.
La difficile conciliazione tra lavoro e famiglia
L’Italia è, nell’UE (eccettuata Malta), il Paese con il più basso tasso di occupazione femminile (47%) e la più elevata distanza dall’obiettivo di Lisbona del 60% entro il 2010. Mentre il Nord del Paese si colloca su livelli non lontani dal target europeo (57-58%), e il gap non appare incolmabile per il Centro (53%), il Sud e le Isole presentano un tasso di occupazione femminile appena superiore al 30%. Il miglioramento avvenuto negli ultimi otto anni è stato tuttavia rilevante, per l’Italia (7,6 punti percentuali) come per gli altri paesi europei che presentavano i maggiori ritardi. L’incremento dei tassi di
partecipazione (5,4 punti in Italia), meno soggetti alle variazioni cicliche, fa sperare che gran parte dell’aumento sia strutturale. Di recente sembra essersi accentuata la diversificazione tra i comportamenti delle donne occupate, che hanno assunto un ruolo più stabile sul mercato del lavoro, con carriere più continuative e prolungamento dell’età di ritiro, e la situazione di quelle che, invece, non lavorano. Le politiche devono essere adeguate ai due diversi gruppi, tenendo conto dei vincoli dal lato della domanda di lavoro, in particolare nel Mezzogiorno, ma anche dei comportamenti discriminatori e degli atteggiamenti culturali che ancora possono influenzare, soprattutto in alcune regioni, le scelte e le occasioni delle donne. Il part-time e la flessibilità sembrano gli strumenti più apprezzati per conciliare famiglia e lavoro, ma anche la disponibilità di servizi di cura ai bambini e ai non autosufficienti appaiono forme di sostegno rilevanti. Le stime dell’ISAE mostrano che interventi su questi aspetti potrebbero spingere le donne a entrare attivamente nel mercato del lavoro, soprattutto nel caso di quelle più motivate (ossia cercano già un lavoro, hanno seguito corsi di formazione, ecc.), e di
quelle che hanno come modello di riferimento una madre che ha lavorato.
Le condizioni dei disabili
In Italia, il fenomeno della disabilità riguarda un numero consistente di individui: la popolazione disabile è infatti stimata in circa 2,6 milioni di persone, pari a poco meno di una persona su venti oltre i sei anni di età. Di questi, ben il 44% non è in grado di muoversi da casa. Altri 6,3 milioni di persone, pari all’11,5% di quelle con più di sei anni, sono afflitti almeno da un lieve impedimento in una delle attività della vita quotidiana. Il mondo della disabilità appare molto variegato e comprende situazioni che vanno da uno stato di relativo benessere ad uno di disagio profondo. Non tutti i disabili sono anziani: il 10% ha meno di 45 anni, il 20% meno di 65. Alcuni sono ben inseriti nel mercato del lavoro, altri sono giovani, godono di uno stato di salute abbastanza buono, ma segnalano di avere problemi economici. Tra i più anziani alcuni, soprattutto donne, vivono da soli. I problemi dei disabili appaiono piuttosto differenziati: diverso è il grado di integrazione familiare e nel mondo del lavoro; talvolta la famiglia, se presente, è anche la principale fonte del sostentamento economico; in altri casi, magari proprio per l’assenza di una famiglia su cui contare, le risorse per la sussistenza non appaiono sufficienti; per altri individui il livello di disabilità e il cattivo stato di salute rendono la vita difficile anche in assenza di preoccupazioni economiche.

Le politiche

I limiti del credito d’imposta sugli investimenti
Il credito d’imposta per gli investimenti nelle aree sottoutilizzate non sembra lo strumento più efficiente per il rilancio del Mezzogiorno e per sostenerne il potenziale di crescita nel lungo periodo. Le agevolazioni, infatti, pur offrendo un importante sostegno alle imprese più indebitate e a quelle meno efficienti, non sembrano tali da consentire un recupero di competitività. Per ciascun euro di mancato gettito dovuto ai crediti di imposta, si stima un investimento aggiuntivo di 86 centesimi rispetto al livello che le imprese avrebbero comunque realizzato. Inoltre la reazione delle imprese è in parte sopravvalutata a causa della anticipazione degli investimenti incoraggiata dalla natura temporanea dell’incentivo. Poiché la possibilità di modificare rapidamente la tecnologia di produzione è piuttosto limitata, il credito di imposta finisce per avere un impatto modesto sul processo di accumulazione del capitale nel lungo periodo. In assenza dell’incentivo il valore aggiunto nelle imprese agevolate sarebbe stato inferiore di circa l'1,3% negli anni 2001-05; tuttavia, la differenza risulta più elevata nelle imprese poco produttive (3%) e minima in quelle più efficienti (0,5%). L'incremento annuo dei livelli produttivi indotti dall'agevolazione può essere stimato in appena il 48% dell'ammontare delle risorse pubbliche utilizzate. Potrebbero rivelarsi più utili misure di promozione dell’innovazione e delle attività di ricerca e sviluppo, di sostegno alla internazionalizzazione, di miglioramento dell'accesso al credito, nonché il potenziamento delle infrastrutture e della logistica e la rimozione degli ostacoli alla creazione di nuove imprese, oppure misure di fiscalità di vantaggio per le aree sottoutilizzate, anche in applicazione della più recente giurisprudenza comunitaria e della legge delega sul federalismo fiscale.
La riforma degli ammortizzatori sociali
L’ISAE ha simulato gli effetti di una riforma degli ammortizzatori sociali, degli oneri sociali e dell’assegno al nucleo familiare che comprende: un nuovo contributo sociale unificato e generalizzato del 4% su tutti i settori, tranne quello pubblico (già esente); una nuova indennità di disoccupazione, indifferenziata, da applicare anche ai casi di formale “sospensione” dal lavoro, lentamente decrescente nell’arco di circa 3 anni a partire dall’80% dell’ultima retribuzione lorda, con un tetto di 1.800 euro mensili; un nuovo assegno familiare, di natura strettamente assistenziale, indirizzato a qualsiasi cittadino in condizione di bisogno all’interno del nucleo familiare, nella logica della proposta già presentata nel Rapporto ISAE dello scorso novembre. La maggiore spesa conseguente alla riforma ipotizzata sarebbe pari, con riferimento al 2008, a circa 13 miliardi (al netto delle maggiori entrate per oneri contributivi, di circa 2 miliardi). Di questi, 5 miliardi servirebbero a consentire una estensione della misura all’intera platea dei potenziali beneficiari degli ammortizzatori sociali. La revisione dei contributi sociali implicherebbe un alleggerimento dei due settori oggi più colpiti, industria e costruzioni. Gli operai non subirebbero mediamente aggravi e vedrebbero equiparato il carico a quello di impiegati e dirigenti. I benefici si concentrerebbero in particolare sulle famiglie a basso reddito e con figli, specie se monoreddito, con un apprezzabile effetto redistributivo, che porterebbe ad una riduzione dell’indice di concentrazione dei redditi netti disponibili da 0,315 a 0,298.

2 novembre 2009
 Riassunto del Rapporto ISAE

Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda a
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

LOGO


1

www.impresaoggi.com