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La riforma dei mercati finanziari: un'occasione perduta.

L'allarme sulla possibile insolvenza di Dubai World, la holding dell'emirato che ha chiesto di congelare i propri debiti per sei mesi (debiti che ammontano in totale a 59 miliardi di dollari), resta altissimo sui mercati internazionali, che il 26 novembre hanno vissuto una giornata di passione.  I credit default swaps (Cds) a cinque anni di Dubai, cioè il costo per assicurare il debito sovrano dell'emirato del Golfo, sono schizzati a 670 punti base. Si tratta di un livello doppio rispetto a quello della settimana precedente. In pratica ci vorrebbero 670 mila dollari (contro i 318 mila di due giorni prima) per assicurarsi per cinque anni 10 milioni di dollari del debito sovrano. I Cds per assicurare la Dubai Ports World, maggior operatore portuale del medio Oriente, una controllata della holding statale Dubai World, sono saliti di oltre 200 punti base a 810.  La crisi in Dubai ha spinto al rialzo anche i Cds dei vicini emirati come quelli di Abu Dhabi saliti di 24 punti a 184,2 punti base, quelli del Qatar di 5 a 129 punti. Le preoccupazioni sulla tenuta finanziaria di Dubai hanno influenzato negativamente, pur in modo leggero, anche le corporate europee.  In salita anche il rischio paese di Grecia e Irlanda, gli anelli deboli della catena nell'area dell'Unione europea.  Ha toccato un minimo attorno ai 72 dollari il petrolio, mentre lo yen ha confermato la scalata sul dollaro (sceso a 84,8). Il biglietto verde, a sua volta, ha recuperato terreno sull'euro (chiusura in Europa a 1,49), a conferma del ruolo delle valute rifugio in una nuova fase di irrequietezza dei mercati. L'oro, altro bene rifugio è schizzato a 1.215 dollari l'oncia. Cosa succederà a questo punto? In attesa di una comunicazione ufficiale circolano varie ipotesi. Potrebbe intervenire in auto il vicino emirato di Abu Dhabi, che a differenza di Dubai fonda la propria ricchezza sul petrolio.  La richiesta-shock di moratoria del debito di Dubai World avanzata dall'Emirato, del resto, non può essere stata presa alla leggera, date le gravi implicazioni per la reputazione degli Emirati sui mercati finanziari.
Vulnerabilità e problemi del Dubai, in realtà, non sono una novità, sottolinea Ubs: niente petrolio, niente risparmi, un debito stimato a 80-90 miliardi di dollari pari al 100% del Pil e una grossa bolla immobiliare. Tuttavia negli ultimi due mesi la situazione sembrava migliorata e recentemente lo sceicco aveva rassicurato gli investitori sull'affidabilità dell'Emirato. Data la "mancanza di trasparenza", si possono avanzare solo scenari sui motivi dell'improvvisa necessità della ristrutturazione del debito. Il pił solido ipotizza che l'Abu Dhabi intenda soccorrere il Dubai solo dopo che l'Emirato avrà fatto ordine in casa propria, il che solleverebbe preoccupazioni sullo stato delle relazioni tra i due emirati. Il fondo sovrano dell'Abu Dhabi ha asset per 500 miliardi di dollari e fare fronte alla scadenza di 3,5 miliardi del 14 dicembre del debito di Dubai World non avrebbe dovuto essere un grosso sforzo, se ci fosse stata la volontà politica di farlo.

Questo episodio dimostra, purtroppo che la crisi finanziaria non è stata ancora domata e che il fuoco cova sotto la cenere. D’altra parte nessuno più parla della montagna di derivati che giacciono ancora nei depositi delle banche.
All’inizio della crisi,  economisti, finanzieri, banche tutti erano d’accordo sul principio che si dovesse intervenire con riforme importanti nel mondo della finanza, all’inizio sembrava che i governi volessero intervenire con decisione, ma, poi, la montagna ha partorito il classico topolino. L’unica preoccupazione dei governi è stata quella di salvare le proprie banche, giusto, ma insufficiente e una grande occasione è andata perduta.

Perché non si sono realizzate le parole di Obama: “La crisi può diventare un’opportunità?”, ma forse Obama non è Kennedy.

Tutti ricordiamo il decalogo del Financial Stability Board, pilotato da Mario Draghi, salutato come la panacea per combattere la crisi attuale e quelle future; tutto è rimasto sulla carta. Ai primi cenni di ripresa banche  centrali, ministri, capi di stato hanno ripreso a interessarsi della solita routine e i mercati finanziari hanno ripreso a funzionare esattamente come prima; d’altra parte le borse avevano recuperato gran parte delle perdite.  
Ma più il tempo passa, meglio le banche riescono a sanare i loro bilanci, più ritornano arroganti e più riescono a condizionare i governanti. E’ rimasto di attualità il problema dei compensi ai banchieri, i quali sono felici che si parli solo di questo; i compensi potranno calare da un versante, ma se gli utili saranno soddisfacenti si troverà il modo per recuperarli in qualche altro modo.
Una semplice e fondamentale riforma del sistema finanziario poteva essere l’abolizione degli scambi over the counter, cioè attraverso una banca, con il trasferimento di tutte le transazioni su piattaforme trasparenti (del tipo del Mercato Telematico dei Titoli di Stato) che consentirebbe la rintracciabilità delle transazioni. Neanche questa riforma è stata attuata perché non converrebbe alle banche che trasformano, illecitamente, le garanzie offerte per l’acquisto dei titoli in mezzi propri e quindi impiegabili in ogni sorta di speculazione.
Anche una migliore gestione del credito alle imprese è rimasta una chimera tant’è che, a esempio, le maggiori banche italiane hanno rifiutato i Tremonti Bond che avevano come obiettivo proprio quello di facilitare il credito alle imprese.

1 dicembre 2009
Eugenio Caruso

Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda a
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.

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Tratto da Relazione ISAE - Luglio 2008

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