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Onore e onorabilità nel mondo delle imprese


Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno.
Voltaire


Recentemente mi è capitato di leggere Parerga e paralipomena di Schopenhauer (un libro nel quale l'esperienza di una vita e di un sapere si distilla in ragionamernti e consigli sul più irrefutabile degli interessi unmani: la felicità) e sono stato particolarmente colpito dalle pagine sulla confutazione del concetto di onore, dove, Schopenhauer trascina nel ridicolo tutto il sistema di valori, di tradizioni, di riti su cui si basa la convivenza civile, ridotta questa a una gigantesca proiezione della nostra falsa coscienza, con la demolizione di un suo feticcio, l’onore appunto.
Particolarmente insidioso è il principio dell’onore perché si situa sul crinale tra egoismo e aspirazione ai valori oggettivi, dove prosperano gli inganni e le illusioni più crudeli. Secondo Schopenhauer nell’inventario dei beni che secondo l’opinione corrente assicurano la felicità, i più pericolosi, perché i più innaturali, sono quelli vagheggiati dall’amor proprio. Il desiderio di valere per gli altri, di essere stimato e ammirato si àncora al concetto di onore, che è cosa diversa dall’onorabilità: questa è un principio rispettato da ogni popolo in ogni epoca. Inoltre, mentre il concetto di onore fa riferimento alla singola persona l’onorabilità può afferire anche ad un consesso di persone: un’organizzazione, un’impresa, un settore professionale. In questi giorni è scoppiato l’ennesimo caso di un fenomeno chiamato “affittopoli”: enti pubblici che privilegiano politici, giornalisti, intellettuali nell’affitto o nella vendita di beni immobili della “collettività” a prezzi di favore. Questo fenomeno, a esempio, ci permette di individuare due insiemi di persone quelli che dànno e quelli che ricevono privi di onorabilità.
Ricordo che Dante al cospetto dei grandi del Limbo parla sempre di onorabilità, di onoranza, di nominanza come nella celebre terzina.
“Da lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’onorevol gente possedea quel loco”


Le grandi civiltà orientali e quelle dell’antichità classica, che, pure hanno dato incomparabili modelli di virtù e di eroismo, ignoravano quella sciagurata invenzione del medioevo cristiano che si fonda sul primato della forza fisica, del dispotismo, della superstizione, dell’apparire. I suoi codici micidiali sono stati trasmessi dai ceti aristocratici (il prestigio come estrema forma di potere) alle società borghesi che li hanno conservati come incongrui relitti in un mondo, peraltro, completamente diverso da quello feudale nel quale erano stati codificati. E per colmo di ridicolo, quei codici sono stati adottati da ceti sociali (militari, universitari, professionali, borghesi) che in origine erano stati esentati dal seguirli proprio per ragioni di ceto.
Giova sottolineare che nelle strutture deviate e mafiose di tutti i paesi si parla sempre di onore e mai di onorabilità e i malavitosi sono soliti giurare sul proprio onore, sul proprio apparire, su ciò che ha maggior valore per loro.
Il principio dell’onore, nelle sue manifestazioni rituali come la dimostrazione di essere più forte dell’altro (il cui archetipo è il duello), ma anche nelle sue manifestazioni più blande, ma molto diffuse nelle comunità civili, è la radice dell’alienazione mascherata di decoro e di virtù, alienazione che è rappresentata “dal vivere per gli altri” ossia dal rinunciare a vivere. Dove “vivere per gli altri” non significa per il benessere degli altri ma per il nostro benessere attraverso l’opinione degli altri. Nell’analisi transazionale si direbbe per ricevere solo carezze incondizionate positive.
Che cosa è il lusso, la brama di notorietà, il presenzialismo, l’apparire e non l’essere, e, poi, l’eccessiva suscettibilità alle critiche, la vulnerabilità all’indifferenza altrui, se non il desiderio di instillare e conservare una lusinghiera immagine di sé nelle teste degli altri. Lo stesso Dante si fa prendere la mano quando afferma:
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
Che visser senza’nfamia e senza lodo».
…………….
«Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».


Per questo fantomatico Io, affidato all’inaffidabile arbitrio di gente che magari disprezziamo, a volte si sperperano beni reali si subiscono danni, umiliazioni e dolori. Dare eccessiva importanza al giudizio che gli altri hanno di noi non è una necessità intrinseca alla natura umana, ma solo un’abitudine della vita associativa che a poco a poco ci rende schiavi di ciò che, nel profondo non stimiamo e non amiamo. Schopenhauer ci dice che la maggioranza degli uomini, più o meno conscia della propria mediocrità, si sente minacciata dal merito, dalla semplice presenza di qualità intellettuali e morali. E’ vero che l’opinione altrui è essenziale per fissare la cifra della nostra quotazione sociale, dunque è essenziale perché possiamo farci strada nel mondo, ma questo, a ben guardare, vale per chi è privo di qualità reali, perché la misura del nostro successo non si basa su come appariamo ma su ciò che facciamo. L’uomo di merito che si aspetti riconoscimenti e appoggi sperimenterà a suo danno che la paura e la viltà della maggioranza degli uomini gli riservano una lotta senza quartiere. Questo fatto aveva colpito anche Goethe del Vanitas! Vanitatum vanitas con il verso prediletto dai romantici:
Ora ho puntato tutto sul nulla.

Vorrei arrivare, ora, al nocciolo della motivazione che mi ha spinto a scrivere questo articolo; i concetti di onore e di onorabilità nel mondo delle imprese.
Nella mia lunga esperienza con il mondo delle imprese ho incontrato solo raramente imprenditori affezionati al principio dell’onore personale, ricavandone sempre sensazioni sgradevoli, e una massa enorme di persone consapevoli di dover privilegiare il concetto del’onorabilità: verso i propri clienti, verso i fornitori, verso i propri dipendenti, verso il territorio. Per un imprenditore onorabilità significa onorare impegni materiali e immateriali assunti nei confronti di persone e ambienti.
Uno dei compiti dell’imprenditore è far sì che il principio dell’onorabilità permei tutta la sua impresa. Per far ciò è necessario coltivare la cultura d'impresa cioè l'insieme dei valori e delle relative norme adottati e riconosciuti nell’azienda; in concreto essi si traducono nel comportamento dei dipendenti in ogni singola funzione, dal centralinista alla segretaria, dall'addetto al recupero crediti ai responsabili.
Esempi di valori che caratterizzano la cultura d'impresa sono.

• Comportamento imprenditoriale.
• Orientamento all'innovazione.
• Orientamento ai clienti.
• Orientamento ai collaboratori.
• Orientamento ai costi.
• Orientamento al servizio.
• Orientamento alla formazione.
• Orientamento alla qualità.
• Flessibilità.
• Tolleranza verso gli errori.
• Rispetto della persona.
• Rispetto dell’ambiente.
• Apertura verso il mondo esterno.
• Capacità di lavorare in team.

Quanto più la cultura d'impresa è vissuta dai "capi", e via, via, fino ai livelli inferiori, tanto più facilmente l’imprenditore riuscirà a coinvolgere i collaboratori nella realizzazione della sua vision dell'impresa.
Poiché non esiste una soluzione garantita per la crescita e la valorizzazione della cultura d'impresa è necessario che l’imprenditore favorisca la comunicazione con e tra i collaboratori, al fine di favorire misure pro-attive. Il leader, allo scopo di monitorare il livello della cultura d'impresa, dovrebbe informarsi presso i propri collaboratori (eventualmente anche con questionari) sui seguenti temi.

• Quali valori, motivazioni, comportamenti considerate determinanti per l'impresa.
• Quali valori ritenete che manchino nella nostra impresa.
• Per quali valori siete disposti ad impegnarvi senza riserve.
• Quali dovrebbero essere le norme per il conseguimento di quei valori.

L'impresa eccellente è quella nella quale la maggior parte delle azioni avviene spontaneamente; la trasparenza nella comunicazione sarà riuscita a diffondere la cultura d'impresa e con essa gli obiettivi chiave che quei valori determinano. E cioè.

• L'orientamento al servizio.
• Il principio della collaborazione tra gli stakeholders.
• L'attenzione alla remunerazione del capitale investito, inteso come bene comune per l'impresa e per gli uomini.
• L’attenzione all’ambiente.

L’imprenditore deve accertarsi della dedizione dei propri collaboratori ai valori aziendali; se qualche collaboratore, anche se raggiunge gli obiettivi affidatigli, non condivide tali valori è preferibile che venga allontanato. In tal modo si rinuncia forse a qualche guadagno sul breve, ma si opera per costruire un insieme di collaboratori coesi e compatti.
L’imprenditore deve, sempre, preoccuparsi di come la sua impresa è giudicata dal sistema degli stakeholders e deve avere sempre presente questi tre principi.

• L'immagine dell’impresa è un fattore decisivo sul mercato.
• L'immagine cresce più per la qualità delle componenti intangibili che per il valore intrinseco dei prodotti.
• L'immagine di un'azienda fa parte del prodotto, migliore è l'immagine, migliore è il prodotto.

In sintesi l'immagine deve essere chiarissima, deve cioè mettere in rilievo che l'eccellenza dell'impresa si fonda su competenze distintive essenziali per il segmento di clientela scelto e sulla sicurezza che l'impresa rispetterà sempre gli impegi presi, sia quelli palesi, sia quelli sottesi. La creazione dell'immagine si basa su prove che hanno suscitato testimonianze da parte dei clienti; si tratta quindi di gestire queste prove. Un'accorta gestione dell'immagine viene confermata, sia dalla fierezza dell'appartenenza che mostrerà il personale, sia dal compiacimento dei clienti di essere serviti da quell'impresa. L'immagine deve, infine, poter sfumare nell'identità aziendale e cioè nella sua anima e nel suo cuore, nell'allineamento di tutti agli obiettivi dell'impresa e nel conseguente impegno comune verso il perseguimento della vision, della mission, dei valori aziendali e, quindi,dell'onorabilità dell'impresa.

Eugenio Caruso
24 febbraio 2011.


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