La Conferenza Rio 2012


Cedano le armi alla toga, ceda l’alloro del condottiero alla gloria del cittadino.
Cicerone


Quando nel 1992 ho avuto l'onore di partecipare a "Rio 92" constatai dal vivo come l'Organizzazione brasiliana e i responsabili dei vari paesi fossero carichi di speranze e, come, assieme ai ricercatori e agli altri addetti facessero di quella Conferenza un vulcano di iniziative e proposte.
Ricordo ancora con emozione il "racconto" di Severn Suzuki; nel 1992 Severn Suzuki non era altro che una bambina che aveva vissuto in un ambiente familiare sensibile ai problemi ambientali e che aveva deciso di partecipare a "Rio 92". Aveva fatto una raccolta fondi e con una delegazione di suoi coetanei era arrivata a parlare davanti ai potenti del mondo. Severn Suzuki aveva 12 anni, ma quel giorno ebbe una capacità d’analisi degna di uno specialista. Zittì il mondo con un monologo che durò poco più di sei minuti. Non fu un j’accuse, ma semplicemente un punto di vista sfociato in una richiesta di un mondo migliore. Quella bambina canadese di dodici anni, impugnò il microfono e nella maniera più ingenua possibile sostenne "Sono qui a parlare a nome dei bambini che stanno morendo di fame in tutto il pianeta e le cui grida rimangono inascoltate. Sono qui a parlare per conto del numero infinito di animali che stanno morendo sulla Terra, perchè non hanno più alcun posto dove andare". Severn chiese ai rappresentanti delle Nazioni Unite: "come mai se voi grandi insegnate a noi bambini ad essere generosi fate le guerre e non utilizzate quelle forze e quei soldi per sfamare chi non mangia?". L’innocenza di un bambino è in grado di essere molto più persuadente di una qualsiasi strategia e pianificazione di un adulto. Severn richiedeva, ancora in quella sua maniera ingenua "non sapete come si fa a riparare i buchi nello strato di ozono, non sapete come riportare indietro i salmoni in un fiume inquinato, non sapete come si fa a far ritornare in vita una specie animale estinta, non potete far tornare le foreste che un tempo crescevano dove ora c’è un deserto. Se non sapete come fare a riparare tutto questo, per favore smettete di distruggerlo". Quel discorso, passato alla storia con il nome di La ragazzina che zittì il mondo per 6 minuti, si concluse con un lungo applauso eseguito da tutti i presenti. E poi? E poi ognuno tornò a farsi gli affari propri.
A vent’anni dal summit mondiale sullo sviluppo sostenibile del 1992, la comunità internazionale ha deciso di tornare a Rio de Janeiro, dove tutto era cominciato. Ai più romantici potrebbe sembrare una scelta consapevole, dettata da una intima necessità di tracciare un bilancio: come quando dopo molto tempo si torna a un luogo caro, la propria città o il paese di origine, per rendersi meglio conto di quanto si sia cambiati nel frattempo. Così quest’estate la comunità internazionale riunita a Rio de Janeiro, mentre ribadiva il proprio impegno per lo sviluppo sostenibile, ha potuto constatare quanto siano stati miseri i progressi negli ultimi ventanni, specie se paragonati alla grandezza delle aspettative che avevano dato vita all’intero processo. Ma soprattutto è apparso evidente quello che solo dieci anni prima, a Johannesburg, aveva trovato scarso spazio in un dibattito dallo stile decisamente novecentesco: lo sviluppo sostenibile non era una questione che poteva essere lasciata nelle mani degli ambientalisti e degli stati nazionali, ma avrebbe richiesto il pieno coinvolgimento della società civile e una nuova alleanza con il mondo dell’economia. E così, spinte anche dalla più grave recessione economica mondiale del dopoguerra, governance e green economy sono diventati i pilastri attorno ai quali si è svolta la trattativa del 2012, oltre al segno più evidente del cambiamento intercorso negli ultimi vent’anni.
Ho seguito solo da lontano i lavori di “Rio+20” ma ho avuto la sensazione che da parte delle Istituzioni l'entusiasmo del 1992 si sia spento, anche sotto l'incalzare della crisi economica che ha depresso economie ed entusiasmi.
L’approvazione del documento finale dal titolo “Il futuro che vogliamo” ha concluso il 22 giugno scorso "Rio+20". “Rio+20” è stata accompagnata da una serie di eventi collaterali svoltisi in parallelo e contemporaneamente ai lavori negoziali dei delegati. Si stima che abbiano partecipato complessivamente circa 50 mila persone, di cui 44 mila ufficialmente accreditate. I paesi partecipanti (191) sono stati rappresentati da 12 mila delegati circa e da 79 capi di stato e di governo. “La più grande e affollata Conferenza delle Nazioni Unite mai tenuta nella storia delle Nazioni Unite” ha detto soddisfatta la Presidente brasiliana Dilma Rousseff a conclusione dei lavori.
Tra fase negoziale preparatoria (dal 13 al 19 giugno) e fase politico-ministeriale (dal 20 al 22 giugno) la Conferenza è stata caratterizzata nei primi giorni dai lavori per cercare di risolvere una serie di controversie trascinatesi per due anni nei lavori di preparazione con la produzione di un testo di base molto corposo ma poco consensuale. Dopo quasi una settimana dall’inizio dei lavori, solo un terzo di questo testo di base aveva trovato un consenso quasi unanime e la Conferenza stava per fallire ancor prima di cominciare la sua sessione finale politico-ministeriale. Per recuperare in breve tempo il massimo consenso, la Presidente brasiliana della Conferenza ha prodotto il 18 giugno un nuovo documento in cui venivano eliminati tutti i punti di contrasto (circa tre quarti del testo base) rendendo il testo finale molto scarno. Il nuovo testo riafferma i principi e rinnova gli impegni presi in passato, su cui il consenso era scontato, ma non definisce per il futuro né obiettivi, né strategie, né alcun impegno, concreto da raggiungere. Per il futuro si limita a dare buoni consigli, rimandando la definizione di eventuali nuovi obiettivi, impegni e azioni alle decisioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a cominciare già dalla prossima sessione plenaria.
Questo testo che è poi diventato il documento finale della Conferenza: “Il futuro che vogliamo” è costituito da 283 paragrafi organizzati in sei sezioni. La maggior parte dei paragrafi (circa l’80% del documento) contenuti in 4 sezioni su 6, è di due tipi:
- paragrafi che riconoscono i problemi esistenti, soprattutto ambientali, oppure che esprimono preoccupazione per l’aggravarsi di tali problemi evidenziando la necessità di risolverli;
- paragrafi che riaffermano i principi dello sviluppo sostenibile decisi a Rio nel 1992 e nelle Convenzioni, accordi e protocolli successivi associati a Rio 92 oppure che rinnovano gli impegni assunti dal 1992 in poi in tutti gli atti che discendono da Rio 92.
Se questi paragrafi che ripercorrono il passato non aggiungono nulla di nuovo, modeste novità si trovano nelle due sezioni che riguardavano i temi centrali della conferenza: la green economy nel contesto dello sviluppo sostenibile e il quadro istituzionale per lo sviluppo sostenibile. Ma non si tratta di novità di rilievo, anche perché i paragrafi contenuti in queste due sezioni affrontano i problemi abbastanza marginalmente dedicando appena il 6% del documento alla green economy e circa il 10% del documento al quadro istituzionale, considerato incluso in questo anche gli elenchi e le funzioni delle Istituzioni delle Nazioni Unite.
Per quanto riguarda la green economy non vengono date definizioni. Si dice semplicemente che la green economy deve rientrare nei principi dello sviluppo sostenibile, che deve essere coerente con le strategie e gli impegni già assunti e, infine, che deve essere consistente con le leggi internazionali, rispettando, in particolare, il principio di sovranità nazionale. In questo contesto, ogni paese è libero di scegliere quale approccio adottare per la green economy e quale strategia attuare, nel rispetto dei principi di sostenibilità sociale.
Per quanto riguarda il quadro istituzionale si danno, in pratica, dei buoni consigli. Si dice, infatti, che il riferimento istituzionale per lo sviluppo sostenibile deve integrare i tre aspetti della sostenibilità: quello economico, quello sociale e quello ambientale, deve integrare la cooperazione internazionale tra paesi sugli stessi obiettivi di sostenibilità e deve tener conto del quadro istituzionale esistente. Il quadro istituzionale esistente non è altro che la struttura delle Nazioni Unite: l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come organo supremo di discussione e decisione, il Consiglio Economico e Sociale per le politiche di sviluppo sostenibile, le analisi e valutazioni e il dialogo fra i popoli, i Forum politici di alto livello per le questioni di analisi tematiche e di proposte di azioni, l’UNEP come pilastro ambientale per lo sviluppo sostenibile, e, infine, le Istituzioni finanziarie internazionali, le Istituzioni governative e intergovernative regionali e locali.
Il testo, infine, chiarisce esplicitamente che non si intendono definire obiettivi o azioni di sviluppo sostenibile, ma si rimandano le scelte a un processo negoziale successivo che vedrà come protagonista decisionale l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Tuttavia, gli impegni volontari dei singoli Paesi sono benvenuti e incoraggiati. Anzi, i paesi, ma anche le istituzioni non governative, che intendono impegnarsi volontariamente possono trascrivere i loro impegni su un apposito registro istituito allo scopo.
Diversi sono stati, invece, i risultati dei circa 500 eventi e manifestazioni collaterali, dove sono state concordate o avviate circa 700 proposte di progetti, suddivisi in collaborazioni bilaterali fra paesi o gruppi di paesi, progetti comuni nel settore industriale e produttivo privato, nuove attività imprenditoriali per lo sviluppo della green economy, nuove attività di ricerca e di innovazione tecnologica per l’uso efficiente delle risorse e la lotta alla povertà. Tutte queste azioni, qualora avessero un reale seguito operativo, comporterebbero nei prossimi anni la mobilitazione di risorse finanziarie per un totale complessivo di 513 miliardi di euro, la maggior parte delle quali (il 62%) sarebbero impegnate nel settore dell’energia sostenibile. Le rimanenti proposte progettuali sono state focalizzate su vari argomenti ma riguardano soprattutto: la riforestazione e la gestione sostenibile delle foreste, l’agricoltura sostenibile, lo sviluppo dell’imprenditoria femminile in Africa, il riciclaggio dei rifiuti, la formazione e lo sviluppo di “green jobs”. Stati Uniti, Unione Europea, Cina, Giappone, Brasile e alcune banche internazionali si sono dichiarate disponibili a cofinanziare parte di queste iniziative.
Tra gli eventi collaterali, di rilevante importanza è stato il Congresso, tenuto il 20 giugno, sulla Giustizia, la Governance e le Leggi per la sostenibilità dell’ambiente, dove sono stati affrontati non solo i problemi di diritto ambientale internazionale e di tutela delle risorse naturali, ma anche quelli dei diritti umani che in molti paesi del mondo non sono ancora attuati e non ultimi i problemi di corruzione che ostacolano l’avvio della green economy. Di non minore importanza anche il Convegno del 19 giugno sulle azioni per lo sviluppo sostenibile che gli imprenditori privati si sono impegnati ad attuare attraverso la produzione industriale a basso impatto ambientale, la commercializzazione di prodotti certificati e le diverse iniziative di produzione e consumo sostenibili.
Se politici e negoziatori non sono riusciti ad immaginare il futuro che vogliamo, la società civile si è, invece, mossa cercando di definire le iniziative più adatte per un futuro che possiamo più realisticamente immaginare. Giova, peraltro, sottolineare che il notevole impegno manifestato dalla società civile è legato alla disponibilità di finanziamenti ad hoc da parte delle Istituzioni internazionali e dei Paesi, che riguarda tutto un altro quadro.

Eugenio Caruso

28 giugno 2012


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